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Autore: ArtistaMaeda    26/05/2017    1 recensioni
"Guardava il mare e per quei momenti era libero dai ricordi. Osservava le onde scaraventarsi sugli scogli sotto di lui con la stessa ferocia che riecheggiava nella sua mente. Violenza lasciatasi alle spalle. Ciò che lo affascinava più di tutti era la calma tra un’onda e l’altra. L’acqua tornava limpida e si poteva vedere il fondale. E poi arrivava un’altra onda e quel piccolo pezzo di mondo esplodeva in un turbine di schiuma. Si ripeteva e si ripeteva all’infinito.
Solo così poteva trovare pace."
Storia partecipante al contest "Echi dell’occulto” Indetto da Dollarbaby sul forum di EFP.
Genere: Drammatico, Fantasy, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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PROFONDITÀ

Rory Maeda

 

 


 


 

“L’acqua non ha memoria: per questo è così limpida.”

― Ramon Gomez de la Serna

 

 


 


 

Osservava le onde scaraventarsi sugli scogli sotto di lui con la stessa ferocia che riecheggiava nella sua mente. Violenza lasciatasi alle spalle. Ciò che lo affascinava più di tutti era la calma tra un’onda e l’altra. L’acqua tornava limpida e si poteva vedere il fondale, con i suoi abitanti, tra alghe e anemoni, pesci, granchi, ricci… E poi arrivava un’altra onda e quel piccolo pezzo di mondo esplodeva in un turbine di schiuma. Si ripeteva e si ripeteva all’infinito.

Si sporse, il piccolo Mulatto.

Da sotto la suola della scarpa scivolarono dei sassolini. Volarono a lungo prima di tuffarsi in acqua e sparire. Dopo una lunga riflessione, il mulattino arretrò dal precipizio e volse un ultimo sguardo al tramonto cupo e nuvoloso. Poi si mise in cammino giù per la scogliera, verso la spiaggia.

S’inoltrò nella foresta. Cominciava a sentir freddo. Certo, con quei vecchi stracci addosso non poteva affrontare la notte all’aperto, e non ci sarebbe riuscito neanche a volerlo. Sapeva che lo stavano braccando. Non fu sorpreso di scorgere un furgone per la stradina che serpeggiava nel bosco.

Procedette furtivamente. I tizi del furgone – erano due – accesero le torce e scandagliarono la vegetazione. Mulatto si nascose dietro a un tronco, ma sentiva i loro passi che si avvicinavano. Il cuore trivellava a martello pneumatico nel petto, aveva paura che sarebbe saltato fuori da un momento all’altro e ci mise la mano davanti. Si guardò intorno: non aveva scampo.

E così si lanciò in corsa. Immediatamente gli puntarono contro le torce e lo inseguirono. S’inerpicò giù per la sponda del torrente, passando sotto al ponte di pietra. Doveva stare attento a non inciampare sul fondale sassoso. Quando fu nel punto più profondo si sentì in trappola. I due ceffi gli erano addosso e lo avrebbero preso, così si tuffò sotto la superficie e si fece trasportare dalla corrente. Riemerse dall’altro lato del ponte e si arrampicò in preda al panico fuori dall’acqua. I ceffi gli stavano ancora alle calcagna però. Si fece coraggio e corse nel bosco fino a sfasciarsi i polmoni.

La strada lo portò a una fattoria.

Si accasciò contro la staccionata a riprendere fiato, con il volto illuminato da un ultimo spiraglio di luce da dietro quella coltre di mousse alla vaniglia, alla crema, e al mirtillo che sembravano le nuvole. Ma non era il cielo che attirava l’attenzione di Mulatto.

C’erano carcasse sparse nel campo.

Gli fu subito chiaro che non erano palle di fieno. Però i ceffi erano ancora al suo inseguimento, perciò scavalcò la staccionata e corse tra le carcasse, sforzandosi di non guardare, ma non ci riuscì. Erano gli animali della fattoria, trucidati a colpi di fucile senza un ordine preciso. Si dovette tappare naso e bocca per filtrare quell’aria marcia e putrefatta. Non vide l’ora di raggiungere il fienile, ma quando fu dentro lo rimpianse, trovandosi inorridito davanti ad un contadino impiccato in mezzo alla stanza. Mulatto era impallidito per quanto un mulatto potesse impallidire, e si era pietrificato dal ribrezzo.

Poi ai rumori degli stivali nel fango si guardò le spalle: i fari delle torce illuminavano freneticamente il campo che aveva appena attraversato. Mulatto doveva continuare a muoversi. Uscì dal fienile e procedette verso la casa, quando sentì delle urla provenire dalla strada.

Si nascose dietro l’angolo della casa e sbirciò la strada: c’era un altro furgone sul ciglio. Dei fari illuminavano in controluce delle persone che scappavano nel campo adiacente.

Poi gli spari.

Mulatto si nascose e chiuse gli occhi. Si irrigidiva di riflesso ad ogni colpo e si tappava con sempre più forza le orecchie, consapevole che non poteva silenziare gli spari ma tentava almeno di ignorare le urla strazianti della gente.

Fino a che non sentì più gli spari.

Poi riaprì gli occhi e sbirciò di nuovo e con il cuore in gola si ritrovò davanti un ragazzino non tanto più grande di lui, pallido e con un cappellino. Aveva il fiatone ed era spaventato. Si scaraventò contro Mulatto buttandolo a terra. Mulatto si alzò sulle ginocchia e incrociò lo sguardo del coetaneo. Quest’ultimo stava per andarsene ma ci ripensò. Pose l’indice sulle labbra e s’infilò sotto le scale del porticato della casa. Mulatto lo seguì là sotto in quello spazio angusto pieno di ragnatele. Sentiva il formicolio oltre al trivellare del cuore quando i ceffi con le torce arrivarono a corsa alla casa aggirandola. I loro stivali zappavano la terra e mangiavano l’erba del cortile come mastini, affamati dei piedi nudi e delle scarpe malandate dei fuggitivi, pagani senza speranza che non sapevano più dove correre. Uno dopo l’altro li braccarono e li fucilarono là fuori, senza esitazione. Una dopo l’altra le carcasse si accasciarono pesantemente a terra. Uno di loro era ancora vivo e si lamentava come un bimbo con il mal di pancia. Uno dei ceffi gli si fermò sopra, gli puntò il fucile, e sparò un colpo che mise fine ai suoi lamenti e lo pietrificò sul colpo. Poi d’un tratto il corpo fece uno spasmo e a quel punto i muscoli si rilassarono gradualmente.

Mulatto e l’altro ragazzino osservarono la scena con occhi come palle da biliardo di vetro. I loro guardi si incrociarono e il ragazzino pallido pose di nuovo l’indice sulle labbra, senza muovere altro. Sarebbero rimasti nascosti là sotto.

Almeno fino a quando i ceffi c’infilarono le torce.

I due ragazzini rotolarono via e corsero fuori, verso la boscaglia, ma il campo era ancora vasto. Mulatto si distaccò da Pallido e si gettò tra le canne del fosso d’irrigazione, tuffandosi ciecamente nell’acqua torbida e melmosa. Poco dopo anche Pallido si tuffò lì dentro e continuarono la fuga con l’acqua al petto, nel fango, assaliti da mosche e zanzare, ma almeno le torce non potevano illuminarli.

Uscirono fuori alla fine del fosso. I ceffi erano lontani e potevano tirare un sospiro di sollievo. Erano fradici e infangati dal collo in giù e piegati in due a riprendere fiato. Poi Pallido si raddrizzò e gli tese la mano. Mulatto fece in tempo a stringergliela e rispondere al sorriso timido di Pallido – faceva fatica persino a vederlo al buio – che furono illuminati da un riflettore abbastanza potente da accecarli. Si girarono istintivamente a guardare, coprendosi la testa, come se servisse a qualcosa contro le pallottole.

Ma nessuno sparò loro. Qualcuno gli abbaiò qualcosa in una lingua incomprensibile, con un megafono. I due ragazzini non s’azzardarono a scappare questa volta. Rimasero immobili e inermi. Un paio di stivali zappò il fango verso di loro e qualcosa fece scudo contro il riflettore, creandosi un’aura di luce attorno. Il lungo cappotto della divisa da soldato ed il berretto da gestapo contribuivano a donare all’omone sembianze di demone. Talmente intimoriti, i due ragazzini non fecero caso ai due ceffi che li afferrarrono alle spalle. In men che non si dica si ritrovarono imbarcati sul retro di un furgone coperto, assieme a una decina di pagani rassegnati e traumatizzati.

Nessuno parlò durante il tragitto per le campagne. Qualche lamento ma non una parola. La morte aleggiava tra i vivi, già scegliendo le anime più appetibili come ortaggi ad una bancarella di mercato. E gli occhi dei prigionieri del furgone si incrociavano scambiandosi il terrore e la disperazione. Mulatto tirò un sospiro liberatorio, e con esso il coraggio e la tenacia defluirono dal suo organismo lasciando spazio ad un misterioso senso di pace che lo rilassò durante il resto del tragitto.

Arrivarono nella piazza del porto del paese.

C’era un gran movimento. Ceffi da ogni parte, ceffi seduti a scrivanie in mezzo alla piazza, ceffi con cani al guinzaglio, ceffi addirittura con i propri bambini al seguito, come fosse una gita educativa. I lampioni sperdevano luce nella sottile nebbia serale e Mulatto si strinse le braccia al freddo pungente, accentuato dalla moltitudine di pagani ordinati in file in giro per la piazza. Mulatto poteva notare un ordine ben preciso nelle file. Tre file, donne, uomini, e bambini, per il treno sull’unico binario, e tre file allo stesso modo per la passerella d’imbarco di un grosso bastimento, l’unico ormeggiato al molo principale del porto, prendendosi tutto lo spazio.

I bambini più piccoli venivano portati in una fila unica via dalla piazza.

Fermarono il furgone e i ceffi li scesero con supervisione di due soldati armati. A nessuno importava niente se Mulatto e Pallido tremavano dal freddo perché ancora bagnati. I soldati erano impegnati a pestare chi si lamentava o rifiutava di obbedire, e i ceffi invece erano preoccupati di eseguire la dovuta burocrazia senza errori e far scorrere tutto liscio. I ceffi condussero Mulatto nella fila dei bambini per la nave ma Pallido in quella per il treno. S’incrociarono gli sguardi con preoccupazione mentre la distanza tra loro aumentava. Pallido era l’unica faccia familiare adesso, non poteva lasciarlo andare. Mulatto allungò la mano verso di lui e si fece spazio con un grugnito tra i bambini avanti e dietro di lui, così da poter tenere Pallido in vista. Il bambino dietro di lui lo spinse mentre quello avanti lo accolse e gli attutì la spinta. Mulatto incrociò il suo sguardo silenziosamente. Gli occhi del bimbo da sotto una frangia bionda scompigliata e bagnata trapelavano tristezza. Mulatto si abbandonò ad un pianto sottovoce, coprendosi la bocca, a schiena ricurva, cercando di non attirare l’attenzione, mentre rispettava la fila.

D’un tratto sentì commozione. Girò lo sguardo e vide che nella fila per il treno, adiacente alla loro, alcuni individui si stavano agitando e non rispettavano più la fila che si era fermata. Quella di Mulatto continuava e quindi lui perse di vista Pallido. Arrivarono a corsa i ceffi, per primi, che cominciarono ad abbaiare agli uomini comandi autoritari. Alcuni si calmarono, ma altri continuarono a dimenarsi. Sopraggiunsero i soldati, e così, sfruttando le distrazioni, Mulatto notò che Pallido prese il largo e si dileguò dalla fila, nascondendosi dietro ad ogni barile, scrivania, o cassa che fosse. Però gli puntarono contro un faro e dapprima s’immobilizzò. Così fece Mulatto, ottenendo un’altra spinta dal bimbo dopo di lui, un antipatico moretto dalla grossa corporatura e lo sguardo arrabbiato. Mulatto ricambiò la spinta e si guadagnò qualche momento per mettere gli occhi su Pallido. Rimase col cuore in gola e gli occhi speranzosi. Sollevò le mani e si coprì la bocca.

E poi Pallido prese a correre ed il respiro di Mulatto si fermò. Pallido corse a più non posso nella piazza, lasciandosi dietro le file, correndo via dal grosso dei soldati e dei ceffi, verso i vagoni del treno, la parte meno sorvegliata perché ancora vuoti. Sarebbe potuto passare sotto ad un vagone e continuare a correre per poi dileguarsi tra i vicoli o buttarsi a mare. Qualsiasi cosa sarebbe stata possibile una volta superato quel grosso ostacolo.

Ma gli spari…

Pallido inciampò e non si rialzò più.

Mulatto restò lì ad attenderlo. Non respirava. Sentiva il bisogno d’aria ma non riusciva a permetterselo, fino a che fu spinto una terza volta e finì ancora addosso al Biondino, abbracciandolo di riflesso. Gli si accasciò addosso cominciando a piagnucolare e questo lo accolse e lo risollevò.

Shhhhhh!”

Bisbigliarono tutti, anche Biondino.

Mulatto singhiozzava, ma smise di piagnucolare, e si tirò su, in tempo prima che arrivasse uno dei ceffi a controllare, portandosi un bambino alla mano. Erano vestiti bene, con un lungo cappotto scuro munito di cappuccio e scarpe lucide e impeccabili, non certo comparabili a quelle mezze rotte dei pagani.

Mulatto si ricompose e fece finta di niente ma papà ceffo e piccolo ceffo lo esaminarono a lungo, seguendolo a fianco della fila come fosse una pecora nera, fino alla passerella, a quel punto rimasero sulla banchina ad osservarlo percorrere la passerella, abbandonandolo alla supervisione dei ceffi sul ponte della nave.

Mulatto si chiuse in sé stesso e seguì passivamente la fila fino alla registrazione ad una scrivania sul ponte. Quando toccò a lui il ceffo seduto lo squadrò brevemente e con scarso interesse, scribacchiò qualcosa sul quaderno, e poi su una targhetta che passò al suo assistente. Quest’ultimo appese la targhetta al collo di Mulatto e lo spedì a recuperare la fila nel corridoio.

Tornò in fila dietro al biondino che si girò rivedendolo e incrociò il suo sguardo. C’erano soldati armati di fucile anche a bordo. La fila arrivò proprio davanti a tre porte. Dalle porte uscivano bambini vestiti diversamente, con una camicia a righe verticali bianca e nera, e i numeri sul petto, la camicia del prigioniero.

Toccò al biondino.

Mulatto lo salutò con uno sguardo dispiaciuto. Lo vide sparire dietro la porta. Poi fu il turno suo, e il ceffo lo chiamò ad un’altra porta.

Dentro c’era solo una stanza con un ceffo ad una scrivania, uno scaffale dietro di lui, e due altri ceffi ai lati. Chiusero la porta e lo immobilizzarono immediatamente. Lo portarono davanti alla scrivania ed il ceffo lì seduto sfilò la targhetta dal collo di Mulatto e la mise nel cassetto e dallo scaffale recuperò una camicia piegata che posò sulla scrivania. Lo costrinsero a togliersi la giacchetta sporca e umida e a infilarsi la camicia, che se pur era pulita e asciutta, era pur sempre uno straccio vecchio.

Una volta fuori si sentì avvolto dalla vergogna guardando gli altri bambini in fila per fare lo stesso procedimento. Finì in uno scomparto nelle viscere della nave assieme a una decina di coetanei, tutti maschi, e quando chiusero le porte l’unico contatto con l’esterno era un condotto di ventilazione dal soffitto. Nello scomparto non c’era niente, neanche una panca dove sedersi o maniglie alle quali appigliarsi. Non c’era riscaldamento o un rivestimento morbido del pavimento, solo freddo metallo sia a terra che sulle pareti e aria viziata e umida. Eppure fu tra i pochi che riuscì a prendere sonno.

Si svegliò quando la porta si aprì.

Un ceffo entrò ed esaminò i ragazzini sventolando un manganello. Sull’uscio vigilava un secondo ceffo con un altro manganello e nel corridoio stazionava un soldato armato di fucile. Si poteva vedere che fuori era buio pesto e l’unica luce era quella aranciastra e ronzante delle luci del corridoio. Le pareti ed il pavimento vibravano della potenza dei motori della nave e si percepiva vagamente il suo ondeggiare.

I ceffi selezionarono un ragazzino e lo portarono via a forza, e richiusero poi la stanza lasciandoli tutti al buio.

Dalla grata di ventilazione si sentiva il sibilo del vento, si percepiva il caldo umido di un drago che respirava nelle viscere della nave, e si sentivano i lamenti lontani di anime in pena.

Pian piano i compagni di stanza di Mulatto cominciarono a bisbigliare tra loro. Lui non capiva nulla di quello che si dicevano perciò restò rannicchiato dov’era a piangersi addosso. Ad un certo punto una mano sudaticcia gli si posò sulla spalla e Mulatto s’irrigidì. Quel compagno gli si sedette vicino e bisbigliò qualcosa, ma Mulatto non fu in grado di capirlo. Restò muto. La notte scorreva lunga. Non c’era nient’altro da fare che deprimersi.

Poi la porta si aprì di nuovo.

Tutti si spaventarono immediatamente, consapevoli del loro destino, ma fu anche un’opportunità per abbinare le voci alle facce e memorizzare volti e tratti e caratteristiche, conoscersi meglio. Però lo stesso procedimento di prima fu ripetuto: i ceffi si presero un altro ragazzino.

Quando richiusero la porta il brusio si fece più sostenuto. Ad un tratto uno dei giovanotti accese un fiammifero. Finalmente potevano vedersi in faccia a porta chiusa e cominciare a complottare. Mulatto si sentì escluso ma Biondino gli restò accanto. Era il più piccolo di tutti, seguito da Mulatto. Erano gli scriccioli del gruppo, anche se di poco.

Sembravano tutti interessati particolarmente alla grata di ventilazione. Come biasimarli, era l’unica possibilità di fuga oltre alla porta, e tutti sapevano cosa ci fosse dietro. Ma come raggiungere la grata? Era alta almeno due metri ed era chiusa con delle viti. Tuttavia i piccoli geni formularono un piano.

Cominciarono a disporsi. A Mulatto toccò il compito di accendere i fiammiferi. Non ce n’erano molti nella scatola.

Mulatto accese il primo.

I primi tre ragazzini si disposero uno accanto all’altro contro la parete e gli altri due salirono in piedi sulle spalle dei primi tre.

Mulatto accese il secondo fiammifero.

A quel punto Biondino afferrò le mani dei due ragazzini già arrampicati, così da scalare la piramide umana, quando sentirono la serratura della porta sbloccarsi.

La piramide crollò letteralmente nel panico e scese il buio. La porta si aprì e tornarono la luce aranciastra e le ombre dei brutti ceffi.

I ragazzini conoscevano bene la prassi. Si accovacciarono contro la parete e attesero il destino inermi. Biondino si appiccicò a Mulatto, sentendosi vulernabile e Mulatto gli prese e strinse la mano. Forse Biondino aveva intuito che sarebbe toccato a lui.

Il ceffo si fermò davanti a loro e puntò il manganello proprio contro Biondino, che già piagnucolava. Mulatto provò a ribellarsi ma il manganello gli si conficcò nel petto spingendolo contro la parete e gli occhi del ceffo così pieni di disgusto e superiorità verso di lui lo fecero precipitare in un pozzo di vergogna dal quale non riuscì ad alzarsi, e così si distaccò dalla realtà del suo unico amico rimasto al mondo che veniva portato via dai ceffi.

La porta si richiuse e tornò il buio.

Rimase solo il pianto di Mulatto in un abisso di gole secche e labbra amare.

Dopo un pò riprovarono con la piramide.

Riuscirono a convincere Mulatto a prendere il posto di Biondino e così la piramide riprese forma, con i soliti tre alla base, due sopra, e uno che accendeva i fiammiferi. Non potevano permettersi di perdere altri membri.

Issarono Mulatto sulle spalle di uno dei due ragazzini al secondo livello e d’un tratto la piramide si sporse verso il centro della stanza. I fiati si sospesero in un gemito di gruppo. Mulatto sbraitò le braccia alla ricerca di equilibrio e la luce del fiammifero creava zampe di ragno giganti sulle pareti. Mulatto voleva scendere. La grata era proprio sopra la sua testa ma improvvisamente gli sembrava così lontana e impossibile da raggiungere. I compagni gli bisbigliavano insistentemente la stessa cosa, probabilmente di provare a fare l’ovvio, di afferrarla.

Lo fece, e ci riuscì. Non lasciò la presa e rimase appeso lì. Ancora una volta il gruppo restò col cuore in gola. Poi la grata gracchiò, sforzata dal peso del ragazzino. Forse stava per cedere quando…

La porta si aprì.

Mulatto si lasciò andare nel panico e cadde di peso a terra, attirando l’ira del ceffo, che di corsa entrò nella stanza e non esitò a prenderlo a manganellate.

Mulatto urlò di dolore e si rannicchiò per proteggere le parti più delicate. Non era tanto il dolore a farlo piangere, quanto la delusione di non essere stato capace di fuggire in tempo.

Come se il pestaggio non bastasse, Mulatto fu anche selezionato come il prossimo candidato a essere portato via. I ceffi lo trascinarono fuori, nel corridoio, con il soldato che li scortava tutti e tre. Uscirono sul ponte, al freddo pungente di una notte spettrale. Le luci della nave si riflettevano su uno specchio enorme sotto di loro, oltre il parapetto, e si perdeva nel vuoto delle tenebre, per poi dar vita ad una fontana di lucciole sopra le loro teste. Non ci fossero state quelle e i riflessi sull’acqua, probabilmente Mulatto avrebbe osato pensare che la nave fluttuasse nel vuoto di un limbo.

Una voce gentile e materna lo coccolò dalle proprie viscere, come un sentimento. Mulatto si sentiva stanco e dolorante e scoraggiato, ma il calore gli fece dimenticare il perché si sentisse così. Camminavano già da un po', e si fece un’idea di quanto effettivamente grande fosse la nave. Poi imboccarono una scalinata e scesero sottocoperta.

La voce si fece più intensa e questa volta la udì nella testa, come un ricordo di una madre lontana, un tempo infantile di gioco e dipendenza. Lo chiamava, ma non diceva niente. Era una sensazione viscerale. Forse stava impazzendo. Però almeno lo aiutava a distrarsi da quella scomfortante paura che stava risalendo la spina dorsale vertebra dopo vertebra man mano che si avvicinavano alla destinazione, anche se lui non sapeva dove fosse e quando ci sarebbero arrivati.

Ancora quella voce. Non diceva niente di comprensibile. Sembrava un canto, un vocalizzo indistinto e aureo che lo incantava. In qualche maniera sentiva di comprendere il suo significato. Si sentiva attratto da quella voce e a quel punto neanche si rendeva conto di essere ancora trascinato a forza dai ceffi, camminava passivamente, con lo sguardo altrove.

Fino a quando la nave sussultò.

Veniva dalla stiva. Dapprima era un sussulto. Poi divenne una vibrazione.

Scese il buio e aprì il cancello del caos, e a quel punto anche l’allarme cominciò a suonare, un uccello tropicale che gridava a ripetizione, sovrapposto ad un ruggente fischio intermittente richiamando tutti all’attenzione.

Poco dopo le luci tornarono. Il soldato risalì la scalinata per andare a curiosare mentre i ceffi parlottarono tra loro, abbastanza agitati da ignorare Mulatto, che lasciarono stare in un angolino, non che Mulatto avesse voglia di andarsene in giro ancora, dolorante e impaurito. Però il seme della fuga era stato piantato, e adesso attendeva un’occasione concreta per sbocciare.

Le luci tremolavano come se la pancia della nave fosse solleticata da una mano divina. I ceffi si guardavano intorno con la paura negli occhi. La ruota era stata girata e i carnefici si sentivano prede in trappola. Mulatto trovò coraggio osservando i soldati correre sul ponte agitati. Stavano sicuramente abbandonando la nave per primi. Attese. Sapeva che il momento giusto sarebbe arrivato.

Eccolo.

La nave sussultò di nuovo. La pareti e il pavimento vibrarono di nuovo. Il boato che veniva dal fondo si fece più forte fino a diventare stridulo. La nave sembrava urlare di dolore mentre veniva squarciata.

Mulatto non esitò stavolta, appena fu buio ne approfittò e fuggì giù per la rampa di scale, inoltrandosi nei ponti sottostanti. Le luci tornarono e i ceffi lo inseguirono. Non faceva più caso all’allarme. Continuò a scendere fino all’ultimo pianerottolo. C’erano un boccaporto e una paratia, nient’altro. Si sentì in trappola per un momento, ma poi provò a girare la manovella del boccaporto e con sua sorpresa riuscì a girarla. Il boccaporto era pesante da sollevare ma riuscì a crearsi abbastanza spazio per entrare e lo richiuse dietro di sé. Sentì gli stivali dei ceffi arrivare in fondo alle scale e fermarsi dall’altro lato del boccaporto mentre lui già correva via.

Il corridoio era lungo e buio, solamente il faro arancione della lampada di allarme sul soffitto, che gli metteva ansia. Arrivò in fondo al corridoio e mentre apriva il boccaporto successivo, abbassandosi, notò che dall’altra parte c’era un corridoio identico, ma l’acqua si era infiltrata e il pavimento era un’enorme pozzanghera. Avanzò comunque, preoccupato che i ceffi potessero raggiungerlo, e sentì nuovamente quella voce. Gli strinse la pancia e gli bloccò il respiro. Per liberarsi doveva andare in una direzione precisa, era come un presagio.

Si trovò ad un bivio. Proseguire lungo il corridoio fino al prossimo boccaporto o provare ad aprire quello a metà strada, sulla destra, caratterizzato da una lampada lampeggiante rossa sopra di esso. Non prometteva bene quest’ultimo ma una volta davanti ad esso non riuscì a proseguire. Era incantato dalla lampada intermittente. Gli stivali dei ceffi stavano tornando.

Doveva aprirlo.

Girò la manovella e il portello si sbloccò. Mulatto si spaventò per l’improvviso schianto d’aria che lo invase. La stanza nascosta dal portello era rimasta sotto pressione. Scoprì che era allagata più del corridoio e l’acqua cominciò a defluire da essa. Inoltre nella stanza c’era una rampa di scale che scendeva ancora più a fondo nella nave, ed era completamente sott’acqua e ribolliva dalla frenesia di allagare tutta la stanza e adesso anche il corridoio. Mulatto si sentì in colpa di aver peggiorato la situazione affondamento, e decise di cambiare idea e proseguire lungo il corridoio e provare l’altro boccaporto, ma fu pietrificato. Non riuscì neppure a girarsi. A quel punto non aveva scelta, i ceffi entrarono nel corridoio e l’unico modo per fuggire fu di chiudersi dentro la stanza.

Si sentì di averla fatta grossa.

Nell’ansia cercò intorno un’altra via di fuga ma non c’era altro passaggio che la rampa di scale, che almeno aveva smesso di ribollire. Si avvicinò. Il livello dell’acqua gli arrivava già alla vita ancor prima di scendere. Era fredda, ma sentì veramente quanto lo fosse quando scese giù.

Immerse la testa sott’acqua e sbirciò il passaggio per rendersi conto quanto fosse lungo. Il corridoio di per sé era buio ma riusciva a vedere la luce filtrare alla fine di esso, una decina di metri. Ce l’avrebbe fatta. Prese fiato e lo attraversò.

Quando riemerse si ritrovò a risalire un’altra rampa di scale. C’era solo la luce roteante delle lampade di allarme, per il resto era buio, e cominciava a sentirsi nauseato e claustrofobico, perciò si prese un minuto e si poggiò al muro a prendere aria, ignorando il freddo. Quando si fu ripreso, continuò lungo il corridoio. Era allagato anche quello, una lunga pozzanghera che rifletteva il fascio rotante di luce dal soffitto, dando l’impressione che il pavimento fosse fatto di vetro e che ci fosse un altro corridoio identico lì sotto. Mulatto si strinse le braccia sentendo le pareti urlare. Chiunque fosse là sotto nei meandri della stiva non se la stava passando bene. Non che Mulatto fosse al sicuro. In qualsiasi momento poteva spuntare un ceffo o un soldato.

La voce misteriosa gli scaldò di nuovo il torace. Si posò la mano sul cuore. Batteva forte, ma ebbe la sensazione che quella voce non fosse solamente la concretizzazione delle proprie paure e preoccupazioni.

Qualcosa lo stava chiamando.

Avanzò allora.

Arrivato al boccaporto girò la manovella sollevandolo e immediatamente l’acqua invase il corridoio, facendolo scivolare. Lottò controcorrente per rialzarsi e tornò a girare la manovella per aprire sempre più spazio. L’acqua gli arrivava ai fianchi e aveva allagato il corridoio in un battibaleno, ma la corrente si era affievolita e il livello ad un certo punto si stabilizzò. La stanza oltre il boccaporto era immensa. Un enorme stiva buia, illuminata anch’essa solamente dal roteare dei fasci di luce delle lampade di allarme. Al centro c’erano delle passerelle e Mulatto si rese conto che la stiva scendeva ancora più in basso, rendendola adesso con l’acqua come una vasca. Dall’altro lato c’era un boccaporto, ma non poteva raggiungerlo senza immergersi e nuotare.

Si guardò le spalle. Il corridoio da dove era venuto.

Attese.

D’un tratto sentì voci e passi e poi qualcuno si tuffò nell’acqua del corridoio, turbandola. Mulatto ebbe paura di chi stesse arrivando, così si fece da parte e girò la manovella per abbassare il boccaporto e chiudersi nella stiva. Aveva solo guadagnato tempo, ma ora doveva sbrigarsi.

Scavalcò il parapetto e si tuffò nell’acqua, cominciando a nuotare goffamente verso la passerella. Tremava dal freddo ma doveva resistere.

D’un tratto si sentì sfiorare la caviglia. Si bloccò e volse lo sguardo in basso, ma non riusciva a vedere nulla nell’acqua buia, un abisso che poteva benissimo essere infinito per quanto lo riguardava, solo la sua immaginazione e il buon senso gli diceva che diversi metri là sotto c’era un pavimento di metallo. Qualunque cosa avesse sfiorato sembrava non esserci p…

Lo tirò giù con sé.

Un turbine di bolle.

Aria che se ne andava.

Le braccia cercavano appiglio nel vuoto. L’acqua entrò in gola e voleva tossirla ma non poteva. E sentì quella stretta avida attorno alla sua caviglia. E poi l’altra caviglia. Non poteva nuotare. Andò giù. Il faro rotante era sfuocato. Per un momento si rassegnò, ma poi sentì il dolore lancinante nei polmoni e trovò la forza di dimenarsi. Consumò le ultime energie per liberarsi dalla presa e a quel punto rimase a fluttuare nel vuoto per alcuni momenti. Notò con la coda dell’occhio la luce dell’allarme riflettersi sui contorni di una sagoma che nuotava abilmente attorno a lui, studiandolo forse. Il terrore lo spinse a tirar fuori energie che non sapeva di avere e si slanciò verso la superficie, finalmente riemergendo.

Aria!

Senza perdere tempo annaspò fino alla passerella e si tirò su, rimamendo poi sdraiato a riprendersi. Solo dopo che il dolore si affievolì e che ebbe ripreso fiato si lasciò andare ad un pianto di sfogo.

Come avrebbe fatto a raggiungere il boccaporto?

Era a metà strada. Quella cosa l’avrebbe sicuramente preso. Osservò la stanza a lungo cercando una risposta. Poi si rese conto di catenacci penzolanti dal soffitto. Non poteva però raggiungere il boccaporto stile Tarzan dai catenacci, non si spingevano così in là.

Però gli venne un’idea.

Osservò l’acqua alla ricerca di quella cosa. Forse poteva illuderla. Si arrampicò sul corrimano trovando cautamente l’equilibrio e riuscì ad afferrare il catenaccio, quindi ci si arrampicò anche con le gambe e si sporse oltre la passerella, per poi calarsi poco sopra la superficie. Si allungò e lasciò a mollo il piede destro come esca, puntandoci gli occhi con totale attenzione.

D’un tratto avvistò la cosa risalire dall’abisso, la luce arancione riflessa contro quel che sembravano braccia e capelli scuri, e… una faccia? Poco importava. Tirò via immediatamente il piede e si avvinghiò al catenaccio per poi lanciare un’occhiata all’acqua. La cosa aveva provato ad afferrarlo ma ora si stava lasciando affondare nell’abisso senza più interesse.

Era tutto ciò che voleva sapere.

Rapidamente tornò sulla passerella e si arrampicò sull’altro catenaccio, facendo attenzione a non scivolare. Quando fu il più distante possibile si fermò e guardò sotto. Non vedeva quella cosa, ma era anche vero che non poteva vedere nulla al di sotto di uno o due metri di profondità. Con un atto di fede si tuffò in acqua e nuotò con tutte le energie che aveva. Il corrimano davanti al boccaporto sempre più vicino. Lo raggiunse e si tirò su, ma si sentì afferrare la caviglia ancora una volta.

Si appiccicò alla ringhiera e si dimenò con forza, impaurito ma anche arrabbiato. La cosa lo trascinò in acqua ma lui non perse del tutto la presa e rimase immerso fino al collo, continuando a dimenarsi. Riuscì a tirare un calcio a quella cosa e si liberò finalmente. Subito si arrampicò sul corrimano e lo scavalcò, appena in tempo per notare i ceffi dall’altra parte entrare nella stanza e posare gli occhi su di lui. Mulatto sorrise, confidente che i ceffi avrebbero trovato le stesse difficoltà nell’arrivare fin lì, e con ancora il fiatone girò la manovella e aprì il boccaporto, accedendo ad un’altra stiva identica. Mulato ne fu deluso e scoraggiato, chiedendosi quanto fosse grande e monotona la nave, se avesse mai trovato un posto sicuro dove nascondersi.

Richiuse il boccaporto e si pose lo stesso dilemma osservando l’acqua che lo separava dalla passerella in mezzo alla stiva. Notò la presenza anche qui di catenacci penzolanti dal soffitto. Si leccò il sale dalle labbra mentre rifletteva rapidamente se ripetere l’idea di prima. Però non poteva raggiungere il primo catenaccio da lì, avrebbe dovuto nuotare almeno fino alla passerella.

E va bene.

Con un sospiro si fece coraggio e poi si allenò a prendere ampi respiri. Quando fu pronto si arrampicò sul corrimano ed eseguì il tuffo più slanciato di cui fosse capace. Non appena fu sott’acqua si concentrò solo a nuotare. Però sott’acqua era diverso. Sentiva uno strano rumore, come una voce stridula, attutita dall’acqua ma pur sempre perforante alle orecchie, e lo sbattere di arti freneticamente, alle sue spalle. Quei suoni lo disconcentrarono e lo portarono a girarsi per la curiosità di vedere. La luce rotante dell’allarme illuminò a intermittenza una figura umana non più grande di lui che gli si fermò davanti, avvolta in un’abbondante chioma di capelli neri. Mulatto rimase ad occhi spalancati a fluttuare nell’acqua e fissare l’essere. Riusciva a vedere bene le sue braccia protese verso di lui ed il corpo fanciullesco privo di vestiti. Aspetta… Braccia protese?

Mulatto tossì involontariamente fuori l’aria che aveva in bocca e si girò nel panico, prendendo a nuotare a più non posso. La cosa gli si sferrò contro e lo avvinghiò. Lui si dimenò e combatterono freneticamente. Mulatto ebbe la meglio e riuscì a liberarsi potendo così raggiungere la passerella, ma quando fu lipperlì per arrampicarsi, la creatura gli prese le caviglie, impedendogli di salire. Stavolta era troppo esausto per ribellarsi e finì subito immerso fino al collo.

La creatura invece aveva energie da vendere e lo tirava sempre di più, fino a portarlo sott’acqua con sé. Mulatto rimase con solamente una mano stretta intorno alla base della passerella, con gli occhi annacquati rivolti verso la luce rotante, l’unico appiglio di speranza. Sentì le braccia della creatura lasciargli le caviglie e stringergli con tenacia la vita, strizzandogli l’addome, comprimendoglielo con tale voracità da fargli sputare fuori l’ultima boccata d’aria.

Via le bolle scoppiarono sulla superficie e nel dolore perse la presa e immediatamente cominciò a sprofondare assieme alla creatura. Se pur stanco e morente, trovò la determinazione di lottare contro la creatura – non le avrebbe permesso di ucciderlo così facilmente. Riuscì a staccarsi le sue braccia dall’addome e le sferrò una gomitata, girandosi poi per fronteggiarla, ma non riusciva a vederci chiaro, così sferrò pugni e sberle alla cieca, sperando di colpirla, invece si sentì abbracciare sia con le braccia che con le gambe dalla creatura. Si ritrovò avvinghiato totalmente come se la creatura fosse un polpo, e quel volto infantile davanti al suo, due occhi più simili a perle nere che lo fissavano affamati della sua anima.

E poi lo baciò.

Mulatto si congelò. Forse morì in quel momento. Forse l’emozione del contatto tra le labbra sue e della creatura, che poteva benissimo essere una coetanea. Tenne gli occhi aperti il più a lungo possibile, per memorizzare i lineamenti angelici della creatura, mentre i suoi capelli lo avvolgevano come una tenda mossa dalla brezza marina. Poi si rese conto che non aveva più senso tenerli aperti per ricordarsi di lei, sarebbe morto di lì a poco, quindi li chiuse e si abbandonò al dolore dell’affogamento, reprimendolo con la speranza di trovare pace nella mancanza di sensi.

La pace arrivò.

Poi riaprì gli occhi.

Era seduto sul fondo, con le braccia fluttuanti.

Era nudo.

La creatura non c’era. Tutto ciò che ricordava lipperlì erano i suoi occhi abbissali, poi fece mente locale e si rese conto di essere sott’acqua e ancora vivo.

E poteva respirare.

Era confuso e scettico. Si guardò intorno alla ricerca di lei, ma non c’era altro che buio, e una fievole luce rotante, quella dell’allarme. Si slanciò e nuotò verso la superficie. Man mano che risaliva il suono dell’allarme si faceva sempre meno sordo, fino a quando emerse e allora lo poté di nuovo sentire in tutta la sua gloria, e poté di nuovo vedere il mondo nitido e secco.

Tossì i suoi polmoni di cattiveria, aspettandosi di vomitare sangue o acqua, ma non ebbe ulteriori difficoltà se non il fiatone e un sopportabile dolore al torace. Ignorò le possibili spiegazioni e si arrampicò sulla passerella. Restò alcuni minuti a riprendersi e a riflettere. Poi si sporse sul parapetto e osservò l’acqua a lungo, fino a che finalmente non avvistò la creatura che nuotava sotto il pelo dell’acqua. D’un tratto la creatura si fermò e si girò verso di lui.

Sembrava che l’avesse notato e che quindi stesse ricambiando lo sguardo. Poi si immerse di nuovo e sparì. Mulatto sentì di nuovo la strana attrazione di quella voce di prima e senza pensarci scavalcò il parapetto e si tuffò in acqua. Spaesato si guardò intorno ma poi la creatura apparve davanti a lui in tutta la sua gloria. Sembrava proprio una bambina con i capelli lunghi, nuda ed esile, agile come non aveva mai visto nessuno, e gli occhi neri che lo fissavano con un’intensità incantevole. La creatura improvvisamente si girò e si inabissò. Mulatto la seguì faticosamente senza rendersi conto che le luci del soffitto della stiva si accesero, rivelando il fondale pieno di casse e cianfrusaglie fluttuanti, e si fece condurre davanti ad un enorme portello.

A quel punto si accorse dell’illuminazione e si guardò intorno per poi notare un pannello rosso al lato del portale. Il pannello offriva una leva invitante e Mulatto non esitò ad abbassarla. Si portò davanti al portellone e senza deluderlo questo si sollevò gradualmente. Dapprima non successe niente, ma poi, all’improvviso, Mulatto fu risucchiato sotto al portellone e scaraventato nella nuova stanza.

Il portellone si richiuse con la stanza relativamente allagata. Mulatto si ricompose e si rialzò. Si rese conto che l’allarme era stato disattivato e le luci erano tornate normali. La stanza era enorme ma vuota.

Ma infatti non era per niente una stanza.

Si trattava di una vasca nel vero senso della parola. Tre delle quattro pareti erano di vetro rinforzato. Sia sulla sinistra che sulla destra c’erano ceffi in cappotto nero con figli al seguito e ceffi in camice bianco che lo ammiravano come fosse un monumento, appiccicati alle vetrate, incapaci di stare seduti alle sedie che erano state predisposte per loro in prima fila.

Si girò a guardare davanti a sé e rimase senza fiato. Sconcertato.

Dietro la vetrata davanti a lui invece c’era un’altra creatura femminile, crocifissa contro la parete, assicurata da dei fermi ed un marchingegno complesso che contribuiva a tenerla ferma e a sorreggere la moltutidine di tubi e sensori che raggiungevano il suo corpo chimerico. Infatti la creatura era per metà superiore donna e per metà inferiore pesce, con una lunga coda squamosa penzolante. Anche la testa capelluta della creatura penzolava apparentemente senza vita, ma Mulatto era sicuro che la creatura fosse più che viva, sentiva emanare una forte energia che gli scaldava il cuore.

Si avvicinò lentamente, già essendosi dimenticato delle persone che lo studiavano dalle vetrate adiacenti. E quando fu ad un passo dal vetro davanti a sé, si fermò e portò la mano a posarsi sul vetro. L’attrazione verso la creatura era tale da fargli desiderare di attraversare il vetro.

In quel momento la creatura alzò la testa, aprì gli occhi, e fissò Mulatto, mettendolo in difficoltà.

Mulatto notò commozione tra gli studiosi a destra e sinistra. Se prima erano affascinati adesso ne arrivavano altri da scale e boccaporti, passando tra le scrivanie e le sedie con frenesia e goffaggine, per assistere alla scena come fosse l’evento dell’anno.

Mulatto si sentiva strano. Nauseato.

Quella voce di prima gli era entrata definitivamente in testa e cantava, stregandolo. Non riusciva più a concentrarsi né sulla creatura né sugli studiosi, su niente di reale, così si sedette e si afferrò la testa nella paura che rotolasse via dal collo.

I ceffi accesero le luci a piena potenza nella vasca e aprirono gradualmente il portale, inondando la vasca. Mulatto fu investito dall’acqua e la corrente lo schiacciò contro la vetrata che lo separava dalla creatura. Si ritrovò di nuovo a fissarla negli occhi, e il canto nella sua testa proseguì indisturbato, mandandolo ancora di più nel pallone.

Quando la vasca fu completamente allagata, Mulatto rimase a fluttuare goffamente a pochi metri dal soffitto. Notò un condotto di ventilazione che fece uscire gli ultimi spiragli d’aria, e poi si chiuse, così come il portellone. Mulatto si lasciò avvolgere dalla rabbia e dalla vergogna, adesso che si era abituato a forza alla situazione. Li osservava con occhi furiosi mentre ammiravano, studiavano, prendevano appunti su quaderni. Una squadra di ceffi gestiva una grossa cinepresa puntata su di lui. Mulatto si rese conto che c’erano altre cineprese puntate invece sulla vasca della creatura.

Ad un certo punto udì un grosso boato.

Si girò a guardare e vide la creatura sfasciare l’argano in un’esplosione di energia. I capelli la avvolsero come un bozzolo, e poi la coda sbatté l’acqua e la creatura guizzò verso la vetrata, verso Mulatto, che rimase inerme e terrorizzato.

La creatura si appiccicò alla vetrata e sprofondò lentamente fino al fondale, e poi si avvinghiò ad un marchingegno dal quale uscivano bollicine. Usò tutta la sua forza e poco a poco riuscì a scardinare il marchingegno sfondando così la vetrata. Mulatto si spaventò e cominciò a nuotare nella direzione opposta, ma sapeva di essere in trappola, così si fermò in un angolo contro la parete e osservò con occhi disperati mentre la creatura gli si palesò davanti e lo accolse a braccia aperte.

Mulatto chiuse gli occhi.

La sensazione di calore materno. Il canto di una voce angelica che lo cullava.

Diventò tutto buio.

La creatura tornò nella sua vasca, sollevò il marchingegno di prima e lo scaraventò contro la vetrata di sinistra, sfasciandola. Un getto d’acqua invase il mondo dei ceffi, mandandoli nel panico e allagando i loro uffici e le loro postazioni di osservazione. La creatura attese con pazienza e determinazione, appigliata con fermezza al fondo della vasca, che il livello dell’acqua fosse abbastanza alto per poter poi addentrarsi là tra scrivanie galleggianti e ceffi che nuotavano nel panico. Li afferrò uno ad uno per le caviglie, affogandoli, almeno quelli che non furono abbastanza rapidi da fuggire. Dopodiché raggiunse un pannello rosso e azionò la leva lì presente, e il portellone si aprì gradualmente, alimentando così il flusso d’acqua. In un urlo di vendetta la creatura si addentrò nelle viscere della nave allora, nuotando con maestosità. Era libera di muoversi in giro. Nuotò freneticamente tra le scrivanie fluttuanti e i corpi dei ceffi, cercando vie d’uscita, o altri ceffi da affogare.

Improvvisamente qualcosa scosse la nave con violenza.

La creatura non si curò dell’avvenire, risalendo corridoi e portelloni lasciati irresponsabilmente aperti, mentre la nave veniva squarciata e inclinata su di un lato. Fu attivato di nuovo l’allarme. Questa volta sembrava si facesse sul serio. I ceffi fuggivano nel panico e ignorarono i prigionieri. Quelli fortunati abbastanza da non trovarsi chiusi nelle celle al momento dell’attivazione dell’allarme fuggirono all’istante e si gettarono in acqua alla prima occasione.

La creatura intanto risaliva le scalinate che si allagavano, insinuandosi come uno squalo che aveva trovato un passaggio furtivo verso la sua preda. E di prede la creatura ne trovò molte – ceffi occupati ad azionare leve e trasportare valigie e bauli per loro importanti al punto di rischiare di affogare nella corrente irruenta. La creatura li affogò uno ad uno.

In una delle celle, alcuni bambini si terrorizzarono quando l’acqua cominciò a filtrare da quel condotto di ventilazione che ore prima avevano provato a raggiungere per usare come via di fuga. Ora era parte della parete, dato che la nave si era inclinata. L’acqua rapidamente avvolse i piedi dei ragazzini, risalendo le loro gambe, fino a immergerli quasi del tutto. Biondino era lì tra loro, dopo essere stato riportato lì nella stanza, e si girò verso la porta avendo uno strano presentimento di speranza. Si avvicinò, mentre gli altri già piangevano abbracciati uno all’altro aspettando la morte. Biondino rimase speranzoso fino alla fine, e quando l’acqua lo avvolse del tutto, lasciandogli giusto il tempo di prendere l’ultimo respiro, la porta si aprì.

Era la piccola capelluta.

Biondino se la ritrovò davanti e rimase impietrito. La capelluta gli posò gli occhi abissali addosso e poi si dileguò con la sua agilità da ribrezzo lungo il corriodoio. Biondino provò a seguirla ma poi decise di girarsi e incoraggiare i compagni a seguirlo.

Intanto la nave giaceva su di un fianco e si apprestava a capovolgersi del tutto.

Biondino seguì il percorso della capelluta. Si muoveva troppo rapidamente per lui. Però la trovò ad aspettarlo ad una rampa di scale. Notò l’incresparsi delle onde e le bollicine scoppiare sulla superficie contro la ringhiera e trovò le forze di darsi una mossa e nuotare più velocemente, così riuscì a riemergere. Fu un gran sollievo ad un primo momento, ma subito dopo si preoccupò di guardarsi alle spalle e vedere se i suoi compagni ce l’avevano fatta.

Uno. Due. Tre. Quattro ragazzini. Ne mancava uno all’appello. Si guardarono tra di loro. Poi Biondino, che a differenza degli altri aveva smaltito il fiatone, recuperò l’aria e s’immerse con coraggio. Nuotò lungo il corridoio e trovò il compagno a metà strada a lottare tra la vita e la morte, incapace di proseguire. Biondino gli tese la mano e lo accompagnò lungo il corridoio fino a riemergere.

La nave alla fine si capovolse del tutto. Solo la chiglia rimase sopra la superficie.

Dopo una violenta esplosione subacquea, l’allarme cessò e le luci morirono, lasciando l’enorme bastimento al buio per svariati secondi. Le luci di emergenza si attivarono, ma solo quelle fuori dall’acqua. Sott’acqua diventò un mondo misterioso avvolto nelle tenebre.

I ragazzini erano in trappola. La piccola capelluta se n’era andata e loro dovevano per forza “scendere” nella stiva della nave, e quindi salire, per evitare l’acqua. Proseguirono già sfiniti e anche scoraggiati e intimoriti, ma non potevano arrendersi ora. Incrociarono un gruppo di ceffi con due bambini al seguito in un corridoio allagato. Tutti si fermarono a guardarsi a vicenda. Non c’era tempo da perdere con l’acqua che scorreva e aumentava di livello. Il gruppo di ceffi si mosse per salire la prossima scalinata ma il loro leader fu improvvisamente trascinato sott’acqua. Gli altri restarono sbigottiti. Poi caddero tutti nel panico mentre venivano affogati uno dopo l’altro. I ragazzini fuggitivi osservarono la scena terrorizzati, sentendosi nuovamente in trappola. La creatura si muoveva come uno squalo nel corridoio semi-immerso, la sua coda di pesce schiaffeggiava il pelo dell’acqua e d’un tratto si vedevano delle braccia avvinghiarsi alla preda ed ecco che scivolava e andava sotto, veniva trascinato giù per la rampa di scale. Dei ceffi furono risparmiati solo i due bambini. Della creatura videro solo la coda di pesce dileguarsi nella corrente.

Pur con rancore, I ragazzini fuggitivi accolsero i due bimbi ceffi tra loro per fuggire. Ovunque andavano c’erano corpi galleggianti dei ceffi.

Alla fine, passando da un corridoio, giunsero davanti ad uno squarcio nello scafo. Gocciolava su un pavimento pieno di pozzanghere, che era stato sicuramente allagato, e l’acqua era defluita altrove temporaneamente, ma sarebbe tornata. I ragazzini arrirarono lo squarcio, qualunque cosa lo avesse causato. Biondino aveva gli occhi lucidi. Il sorriso dominava la sua faccia, ma poi d’un tratto s’affievolì e fu surclassato dal rimorso e strinse il volto in una smorfia di tristezza.

Sulla scialuppa di salvataggio i tre ceffi in camice sopravvissuti ed un ceffo in cappotto con un bambino non protestarono alla presenza dei ragazzini fuggitivi, tutti semplicemente sollevati di aver scampato l’affondamento e la furia omicida della creatura misteriosa. Erano provati e stanchi con l’unico pensiero rimasto di veder sbucare la salvezza all’orizzonte, che fosse una nave o l’assoluzione.

Biondino invece era preso dal mare. L’aurora colorava gradualmente il cielo, prendendosi spazio tra le stelle rimaste, e rivelò la distesa oceanica nella sua gloria e malinconia.

Non c’era rimasto niente.

Anche i detriti della nave erano affondati. C’era solo uno specchio pacifico e limpido. Biondino si perse una lacrima. Uno dei suoi compagni gli avvolse il braccio intorno alle spalle, avvicinandoselo e così Biondino poté piangere in tutta tranquillità, osservando il mare fino a che salì giorno.

Furono salvati da un caccia-torpediniere marcato 453.

Sul ponte della nave da guerra, Biondino e i suoi compagni furono muniti di coperte pesanti e accuditi con zuppa calda. I ceffi sopravvissuti furono immediatamente arrestati e portati all’interno.

Durante il rientro, Biondino non smise di fissare l’oceano, e divenne un rito personale tornare in riva al mare per spendere alcuni minuti di riflessione e cordoglio. Guardava il mare e per quei momenti era libero dai ricordi. Osservava le onde scaraventarsi sugli scogli sotto di lui con la stessa ferocia che riecheggiava nella sua mente. Violenza lasciatasi alle spalle. Ciò che lo affascinava più di tutti era la calma tra un’onda e l’altra. L’acqua tornava limpida e si poteva vedere il fondale. E poi arrivava un’altra onda e quel piccolo pezzo di mondo esplodeva in un turbine di schiuma. Si ripeteva e si ripeteva all’infinito.

Solo così poteva trovare pace. 

   
 
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