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Autore: Supernavy97    27/05/2017    1 recensioni
Casa.
Se possa esistere davvero un posto del genere su quella Terra devastata dall’apocalisse, Clarke Griffin se lo domanda spesso tra le lunghe e interminabili ore trascorse a contare i muniti sulle dita delle mani. Ricorda ancora il giorno in cui sono arrivati, dopo anni immersi nello spazio, e la terra per la prima volta era davvero terra, il vento era davvero vento e il sole che li scaldava era davvero caldo. Ricorda la navicella e le recinzioni, le tende scure e il falò che bruciava nella notte; ricorda le farfalle fosforescenti, le noccioline allucinogene e l’innocenza che ancora non avevano perso, tra quelle mura in cui in qualche modo riuscirono per la prima volta a sentirsi a casa.
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Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Bellamy Blake, Clarke Griffin
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Fare di un luogo una casa;
fare di un cuore un rifugio.

 

Fa caldo, quella mattina.
È una mattina qualunque, di un giorno qualunque,
I colori del cielo sfumano ancora tra le tonalità rossastre così come una torbida nube di radiazioni ricopre ancora quel pianeta un tempo azzurro e pieno di vita, oggi così triste, così macabro, così solitario. Una coltre di fumo rende l’aria irrespirabile e se non fosse per le solide pareti del bunker, non ci sarebbe alcun riparo, alcuna salvezza, alcun posto da poter chiamare di nuovo casa.
Casa.
Se possa esistere davvero un posto del genere su quella Terra devastata dall’apocalisse, Clarke Griffin se lo domanda spesso tra le lunghe e interminabili ore trascorse a contare i muniti sulle dita delle mani. Ricorda ancora il giorno in cui arrivarono, dopo anni immersi nello spazio, e la terra per la prima volta era davvero terra, il vento era davvero vento e il sole che li scaldava era davvero caldo. Ricorda la navicella e le recinzioni, le tende scure e il falò che bruciava nella notte; ricorda le farfalle fosforescenti, le noccioline allucinogene e l’innocenza che ancora non avevano perso, tra quelle mura in cui in qualche modo riuscirono per la prima volta a sentirsi a casa.
Poi arrivarono gli altri e la navicella non era diventata che un rifugio segreto, un’ancora del passato a cui aggrapparsi quando la realtà si faceva troppo vera, troppo crudele. Casa aveva preso un nome, Camp Jaha, che poco dopo era cambiato ancora, ma che fosse Arkadia o qualunque altro, rimaneva un posto a cui sapere di poter sempre tornare, un posto a cui voler bene.
A volte faceva male, sapere di poter tornare, di dover tornare, le ricordava il prezzo che avevano pagato per poter continuare ad averla, una casa, e il dolore, le incertezze, le fitte al petto mentre tirava la leva di Mount Weather si facevano più forti nei suoi ricordi e nei suoi rimpianti. E fa male, ora, pensare ad una casa così vuota, così abbandonata, così fastidiosamente silenziosa.

Le radiazione erano arrivate per prime, insieme alla nube tossica, e c’erano giorni in cui Clarke Griffin sentiva ancora la pelle bruciare, le ferite lacerarsi, l’aria farsi sempre più calda, sempre più pesante, sempre meno respirabile. C’erano giorni in cui i fantasmi la infestavano anche alla luce del giorno _se così si poteva definire la flebile luce del bunker_ e le rinfacciano un passato che ancora la tormentava, le urlavano, la umiliavano nella sua fragilità, ricordandole gli sbagli per cui tutti erano morti, l’ipocrisia con cui Wanheda comandava e giocava a fare Dio, decidendo chi aveva il diritto di vivere e chi l’obbligo a morire.

Poi era arrivato il silenzio.
Giorni e giorni di interminabile silenzio.
E pensava sarebbe impazzita in quella prigione dai contorni azzurrognoli, così falsi, cosi irreali di fronte al colore del cielo quel primo giorno sulla Terra, al riflesso del fiume sulla strada per Mount Weather.
E impazzì, in qualche modo, tra le lacrime che non smettevano di rigarle il volto e lo sguardo perso nel vuoto, rivolto forse ai demoni della sua memoria a cui non aveva il coraggio di rispondere, che non aveva le forze per combattere.

Alla fine, dopo mesi di solitudine, rancore, paure, sogni inespressi e speranze vane, una luce aveva fatto capolino alla sua porta e in qualche modo si era rialzata; improvvisamente il passato sorrideva e tutti i pesi che l’avevano sempre accompagnata si erano levati in aria come piume al vento.
Aveva un piano, aveva un laboratorio, aveva cinque lunghissimi anni in cui preparare il pianeta per una nuova invasione. Programmata, questa volta.

Fu difficile, indubbiamente. La Terra non poteva rinascere da un giorno all’altro e fu difficile sopravvivere, fu difficile vivere, fu difficile tutto, ma qualcosa le suggeriva di resistere, di aspettare, di sperare come quando, tempo prima, aveva chiesto a Bellamy cosa ne avrebbero fatto della lista dei cento e lui le aveva risposto che l’avrebbero nascosta e avrebbero trovato un’altra soluzione e lei aveva capito che c’era ancora speranza, che non era il momento di arrendersi.

Quando finalmente uscì dalle pareti che l’avevano tenuta rinchiusa per quelli che a lei parvero anni, gli occhi faticavano a rimanere aperti e la gola pizzicava a respirare, eppure anche in mezzo a tale devastazione si senti incredibilmente felice, improvvisamente davvero viva. Ci vollero mesi prima che fu possibile tornare a camminare normalmente tra le macerie del passato in quello che ormai era il nuovo mondo, prima che l’aria non divenne semplicemente troppo calda, ma respirabile, portavoce di un’estate senza fine.

È un giorno di settembre, forse ottobre, non ricorda precisamente, quando due occhi scuri si ritrovano a fissarla spaventati, inquadrati in un viso pallido, sfregiato dalla fatica, dalla paura, dalla solitudine. Clarke si avvicina con cautela e parla a gesti, a sguardi, prima di trascinare la piccola natblida contro il suo petto, respirando per la prima volta, di nuovo, un respiro umano, toccando per la prima volta, di nuovo, un corpo umano e ascoltando, per la prima volta, di nuovo, un battito umano scandire il silenzio che per così tanto l’aveva circondata.

Fa caldo, quella mattina.
È una mattina qualunque, di  un giorno qualunque.
Clarke Griffin prende tra le mani la radio che non è riuscita ad aggiustare e la punta in alto, come a toccare il cielo, come a sparire nello spazio. Appoggia il fucile su una roccia poco distante, leggendone sulla cinta i nomi di tutti coloro che ha perso, come a ricordarsi chi era un tempo e chi era diventata, come a ricordarsi cosa doveva proteggere.
Si schiarisce la voce prima di premere un bottone scuro, poi si siede su un tronco caduto, tolto alla vita come tutto, e inizia a parlare.

Sono passati due anni da quando l’apocalisse nucleare, meglio nota come Praimfaya, ha distrutto il pianeta, risparmiandola solo per il colore del sangue che le scorre nelle vene, eppure tutto sembra ancora come quel giorno quando i suoi occhi hanno incontrato la tempesta in arrivo e l’unico pensiero che era riuscita a calmarla era stato quello di sapere gli altri salvi, di saperli vivi in una stazione persa nell’universo.

“Bellamy, se riesci a sentirmi, allora sei vivo” fa una breve pausa, come a farsi forza.

“Anch’io sono viva, ma forse, questo, non lo saprete mai. Mancano ancora tre anni prima che la Terra sia di nuovo abitabile, ma io non credo di resistere tanto a lungo. Fa caldo, sai. E fa paura, a volte, fa davvero paura e non sono sicura di riuscire a vincerla. Sai Bellamy, ricordo ancora il giorno in cui hai urlato nella notte “Facciamo quel cavolo che vogliamo”, ricordo così bene il tuo sguardo allora e quello con cui ti ho visto l’ultima volta, ed erano così diversi, Bellamy, eri così diverso che sono sicura che lassù, dovunque vi troviate, starete bene. Starai bene. Staranno tutti bene.”

Respira più profondamente del solito prima di riprendere.

“A volte vorrei riuscire a vedere le stelle, vorrei vedervi brillare nella notte ed esprimere un desiderio mentre scomparite come una stella cadente dietro l’orizzonte. Adesso ho qualcosa da desiderare, qualcosa per cui pregare, ma questa nube non dà ancora segno di volersi dileguare”
“Io resto qui, comunque”
“Non che possa scappare da qualche parte” ride piano, mentre gli occhi si fanno più lucidi.
“Mi mancate, Bellamy. Mi mancate così tanto”.

  
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