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Autore: Kristy 10    28/05/2017    0 recensioni
La storia che sto per raccontarvi parla di Ariel, una simpatica ragazza che vive a Menphis in un appartamento assieme alle sue più care amiche Angelica e Maia all'altro capo della città, lontana dalla famiglia ma soprattutto dalla madre troppo apprensiva.
Ed è in questo "viaggio" alla ricerca della sua indipendenza che una sera, in cima al terrazzo del palazzo in cui abita, non sa che ad attenderla c'è il destino pronto a metterla a dura prova e a sconvolgerle la vita...
Genere: Commedia, Fluff, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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L'inizio


L'orologio in cucina segnava le dieci esatte. Ciò significava che avevo un'ora per prepararmi con tutta calma: fare la doccia, asciugarmi i capelli, scegliere con cura il vestito che avrei indossato per il colloquio e perché no mettere sotto i denti uno spuntino e mandare qualche messaggino ad Angelica e Maia. Era tutto sotto controllo mi dissi con un sorriso ebete che non riuscivo a far sparire. Mi diressi in bagno consapevole che quella leggerezza alla testa e il senso di pace che provavo, che sostituivano il nodo allo stomaco pre-colloquio, dovevano essere l'effetto della tisana che Maia mi aveva preparato quella mattina.
<< E' un infuso alle erbe – mi aveva detto porgendomi la tazza fumante, al che la guardai poco convinta, aveva un odore sgradevole - vedrai ti sentirai... molto più positiva >> mi scompigliò i capelli e se ne andò tutta pimpante. Sapevo che Maia era una tipa strana (e chi non lo era?) con tutti quegli infusi, gli incensi e le erbe ma mi sorse il dubbio che il suo erbologo di fiducia questa volta avesse proprio toppato dandole qualche strano composto allucinogeno al posto del solito. Questo avrebbe spiegato il perchè la mia amica fosse sempre su di giri con un sorriso da mille watt a illuminargli il viso e non provasse neanche un crampo quando le veniva il ciclo mentre a me e Angelica con tutti i dolori che avevamo al seno, alla schiena, gli stiramenti alla gamba (in particolar modo a quella destra) sembravamo le superstiti di un incontro con Mike Tyson.
Presi la biancheria e mi diressi in bagno, una bella doccia fredda mi avrebbe aiutata a schiarirmi le idee e a liberarmi dalla tortura del caldo. Mi ficcai sotto il getto d'acqua e la mia pelle sfrigolò al contatto, Dio che sensazione bellissima! Sarei rimasta là sotto volentieri fino a sera pur di non sentire quell'afa; in estate Menphis era una città davvero calda, il sole faceva capolino e cominciava a bruciare la città già dal mattino presto, se non avevi l'aria condizionata in casa o non ti rifugiavi in qualche negozio in centro eri finita. Mi insaponai i capelli e il cellulare in soggiorno cominciò a suonare, maledizione perchè dimenticavo sempre di portarmelo dietro? Di andare a prenderlo non se ne parlava e una vocina dentro la testa mi diceva che la persona all'altro capo era di sicuro mia madre, perciò lasciai squillare. Già la vedevo andare avanti e indietro per la cucina, aggiustandosi lo chignon perfetto con piccoli tamponamenti, mentre il volto cambiava da un'espressione all'altra: speranzosa, irritata, indecisa e poi spaventata. Ah, mia madre! Non esisteva un vocabolo adatto per descriverla, avrebbero dovuto crearne uno apposta e metterci la foto accanto. Forse “esasperante” le si addiceva molto. Non ho mai conosciuto una donna bella, affascinante, spiritosa, arguta e allo stesso tempo fragile, ansiosa e iperprotettiva come lei. Era una donna in carriera, un avvocato di successo anche se alla mia nascita decise di abbandonare il lavoro per dedicarsi completamente a me. Non so se fosse un bene o un male ma da allora aveva cominciato a controllare la mia vita, ergendomi attorno dei muri fra me e la realtà senza lasciarmi la possibilità di vivere sul serio. So che lo faceva a fin di bene e senza rendersene conto ma non ne potevo più di vivere in una campana di vetro, desideravo la libertà. Per questo motivo avevo deciso di trasferirmi con le mie amiche in una casa tutta nostra. Certo non era a Los Angeles ma all'altro capo della città, ed era pur sempre una distanza tale da non sentire il suo fiato sul collo. Come volevasi dimostrare non aveva reagito bene alla notizia del mio trasferimento, il chè non era una novità per me. Non capiva come avessi potuto prendere una decisione del genere mentre io non riuscivo a capacitarmi di aver aspettato così tanto tempo prima di farlo.


Flashback


<< Tutta questa storia è assurda Ariel, non capisco perchè lo fai >> a braccia incrociate percorreva la mia stanza da un capo all'altro mentre io preparavo le valige in preda al mal di mare
<< Mamma lo sai bene >> santo cielo era la millionesima volta che affrontavamo quella conversazione e non voleva farsene una ragione.
<< E invece ti sbagli, so solo che da un giorno all'altro mia figlia ha deciso di abbandonare la sua casa per andarsene con le sue amiche a vivere da sola chissà dove >> si era fermata al centro della stanza con le braccia stese davanti a sé e gli occhi fuori dalle orbite. Cercai di nascondere un sorriso, era davvero buffa.
<< Mamma non ti sembra di esagerare un po'? >> ora capivo cosa intendeva la gente per “tipica madre del sud”.
<< Affatto – scosse il capo risoluta – tu forse non te ne rendi conto ma sei ancora una ragazzina e la mia coscienza di madre non può accettare di abbandonarti sola a te stessa >> si portò le mani al petto guardandomi fissa negli occhi.
<< Ti ricordo che ho ventidue anni, direi che non sono più una ragazzina >> ironizzai, bhè sembrava non avermi sentito perchè riprese a passeggiare su e giù per la stanza ancora più determinata a farmi rinsavire.
<< Tu non immagini cosa ci sia lì fuori, il mondo è crudele Ariel, è un continuo cercare di scavalcare gli altri ad ogni costo, di soddisfare i propri egoistici bisogni. Là fuori nessuno ti aspetta e se non sei il primo a lottare per crearti un posto nella società va a finire che ti schiacciano >> ecco come mi mostrava la vita mia madre, una giungla abitata da bestie feroci, dove “cucciolotti” come me non ne sarebbero mai usciti vivi, ero più che sicura che lei e Darwin sarebbero andati molto d'accordo, la legge della sopravvivenza, fantastico.
<< Mamma, io... >>
<< In vent'anni di lavoro – proseguì nel suo monologo con ancora più fervore – ne ho viste di storie, di ragazzine della tua età che avendo bisogno di lavoro finivano nelle mani di loschi personaggi e... - le si strozzò la voce ed io la guardai angosciata prese un respiro e parlò di nuovo – poi quando venivano nel mio studio e mi guardavano negli occhi con quell'espressione addolorata, istantaneamente pensavo a te Ariel e mi ripetevo “Non posso permettere che una cosa del genere accada a mia figlia” “Non posso permettere che individui come questi si approfittino di altre ragazze” >> si fermò e si sedette sul letto davanti a me con quegli occhioni dolci che mi chiedevano di abbracciarla e di non lasciarla mai più.
<< Ariel sai che se dico questo è perché ti voglio bene e lo faccio solo per proteggerti – mi prese le mani tra le sue e le strinse forte – la vita è difficile e se ne infischia di tutto e di tutti – si soffermò a guardare le nostre mani e sussurrò – ho paura per te, per le ragazze... come farete ad andare avanti tra studio, lavoro, l'appartamento.... E' una pazzia >> sentenziò. Sospirai la sua preoccupazione era più che normale e mi fece tenerezza la sua confessione, ma sapevo che se ora avessi ceduto non sarei più tornata indietro e avrei continuato a fare quello che secondo lei era più giusto. Mi feci coraggio e cercai le parole adatte per rassicurarla, era il minimo che le dovevo.
<< Mamma non posso dire di aver cambiato idea o che andrà tutto alla grande - iniziai con voce ferma – ma ti chiedo soltanto una cosa. Devi avere fiducia in me – perchè era questo il suo problema, non credeva che ce l'avrei fatta – Io, Angelica e Maia non saremo nè le prime e né le ultime ad affrontare una situazione del genere, siamo adulte e... >> vidi che stava per aprir bocca ma la fermai.
<< Devi darci... mi correggo, devi darmi la possibilità di dimostrarti che posso farcela che non sono più una bambina. Voglio che tu sia orgogliosa di me >> le sorrisi, era la prima volta che glielo confessavo.
<< Ma io sono orgogliosa di te tesoro, non c'è bisogno di... >> scossi la testa.
<< Ti prego mamma lascia che ti dimostri cosa sono in grado di fare, abbi fiducia in me >> la supplicai. Mi guardò e dopo quella che mi parve un'eternità annuì lentamente. L'abbracciai di slancio tirando un bel respiro di sollievo, pensavo che dopo tutto quel discorso sarebbe stata una vera impresa convincerla e invece avevo ottenuto ciò che volevo Certo, non mi illudevo di aver messo fine alla “guerra” ma avevo pur vinto una battaglia, no? E come volevasi dimostrare...
<< Non ti libererai tanto facilmente di me, lo sai vero? >> mi domandò ancora abbracciate.
<< Lo so >> risposi ad occhi chiusi.
<< E che verrò a trovarti ogni giorno? >>
<< D'accordo >>
<< E che... >>
<< Che ne dici mamma di aiutarmi con le valige? >> le proposi non aspettando nessuna risposta, dovevo evitare che finisse col trasferirsi da noi.
<< Certo >> prese alcuni vestiti e cominciò a piegarli, quella sera ci attendeva un lungo lavoro.




Ritiro quanto detto un'ora e mezza fa. Niente era sotto controllo. Mi ritrovai a scendere i gradini senza nemmeno toccarli tanto ero in ritardo. Ma come fanno le persone ad organizzare giornate intere, addirittura mesi e a rispettare gli impegni quando io non ero riuscita a rispettarne neanche uno in una sola mattina? Ha ragione mia nonna Luisa quando afferma che non bisogna mai programmare le cose con anticipo, mai (tranne le visite mediche alla mutua, ovviamente), perché l'imprevisto è sempre in agguato, bastava guardarmi in quel momento per intuire che qualcosa era andato storto. Avevo ancora i capelli bagnati per la doccia perché proprio oggi il phon si rifiutava di collaborare tanto da emanare scintille ogni volta che lo accendevo. Mi si era impigliata la tracolla tra i battenti della porta mentre mia madre continuava a tartassarmi di telefonate e dulcis in fundo non avevo fatto neanche mezzo metro che avevo già la camicetta madida di sudore attaccata alla schiena e due aloni sotto le ascelle che sembravano due piccoli laghi di garda, ringraziai il cielo di averne scelta una di colore nero che nascondeva un po' tutto.
Entrai tutta trafelata nel supermercato benedicendo l'uomo che aveva inventato l'aria condizionata e prima di chiedere in giro mi detersi la fronte con un fazzolettino. Espirai, ero pronta.
<< Buon giorno – dissi avvicinandomi ad una signora bionda sulla cinquantina con una uniforme rossa a strisce verticali – sono qui per il colloquio di lavoro, per caso sa dirmi a... >> non feci in tempo a concludere che la vidi aprirsi in un sorriso caloroso.
<< Tu devi essere Ariel, non è vero? >> stavo per parlare ma si rispose da sola.
<< Sì sì, sei proprio tu. Occhi verdi, capelli rossi, viso sbarazzino, una montagna di goffaggine e di ingenuità. A proposito – mi indicò la testa – sono fantastici >> dire che ero scioccata era un eufemismo, non sapevo se ridere o piangere di fronte ad una descrizione del genere, mi feci forza e optai per la prima.
<< Non c'è dubbio sono io – risi, quella signora cominciava ad essermi simpatica – mi scusi ma ci conosciamo? >> cercai di ricordare se l'avessi già vista da qualche parte, ma i suoi impertinenti occhi marroni e la targhetta col nome Sonia, non mi dicevano nulla.
<< No, cara ma qualcuno mi ha parlato di te, vieni >> mentre elaboravo quelle parole mi spinse verso quello che doveva essere l'ufficio del direttore, vale a dire uno sgabuzzino sul retro vicino alle celle frigorifere. Sonia bussò, un tocco forte e veloce. Il panico assopito dalla tisana mi investì come un treno in corsa, il cuore mi rimbombava nel cervello.
<< Sta tranquilla tesoro, andrà tutto bene vedrai >> mi incoraggiò. Le sorrisi riconoscente. Avanti! Gridò una voce burbera da dietro la porta. Mi si accapponò la pelle. Un uomo calvo e con una cravatta gialla un po' allentata se ne stava seduto dietro a una piccola scrivania, (anche se aveva tutto l'aspetto di uno di quei banchi di quando andavo a scuola), intento a pigiare con forza i tasti di un'enorme calcolatrice. Non aveva alzato lo sguardo né quando eravamo entrate né quando mi sedetti su invito di Sonia.
<< Cosa c'è? >> chiese con tono alto e asciutto. Sonia alzò gli occhi al cielo.
<< Ti ho portato una ragazza, è venuta per quel posto di lavoro, oggi aveva un colloquio ricordi? >> per la prima volta mi guardò. Nessuna stretta di mano, nessun convenevole, nessun sorriso, nessuna espressione, sembrava una statua con gli occhi fissi su di me e il viso paffutello imperturbabile, pronto a spezzarsi al minimo accenno di movimento. Mi fissò da capo a piedi mettendomi a disagio. Prima di dargli altro tempo per analizzarmi anche la mente decisi di dover porre fine a quell'incontro il più presto possibile. Mi sistemai meglio sulla sedia e cominciai a presentarmi.
<< Salve, mi chiamo Ariel Dasy Emanuela Luce Morelli – sapevo di essere diventata rossa, detestavo dire ad alta voce il mio nome completo – ho ventidue anni, mi sono diplomata in lettere con ottanta – qui divenni bordeaux, se solo avesse saputo come avevo ottenuto quel voto – ho lavorato... >> mi bloccò come un vigile che dirige il traffico.
<< Ha portato il suo curriculum? >> mi chiese con voce severa infischiandosene di quello che stavo dicendo.
<< Certo >> dissi troppo in fretta. Datti una calmata Ariel, quest'uomo fiuta il panico come un cane da tartufi fiuta un tartufo, sii più sicura di te; mi ammonì una vocina nella testa.
<< Certo >> risposi con tono il più professionale possibile. Presi il curriculum dalla borsa. Accidenti, era tutto spiegazzato ai lati. Con nonchalance stirai il foglio sulle gambe e glielo porsi sostenendo il suo sguardo impassibile. Lo prese e lo continuò a stirare sul tavolo aspettando una mia reazione. Era evidente che voleva mettermi in soggezione, ma non gliela avrei data vinta. Sostenni il suo sguardo fino a che non iniziò a leggere in silenzio. Dio mio, questo è il peggior colloquio di lavoro che abbia mai avuto. Dov'è finita l'umanità? Il calore umano, le relazioni interpersonali? Certo, non mi aspettavo che questo tizio mi accogliesse con pasticcini e caffè, che fra l'altro non mi piacevano, o con una danza di benvenuto, ma almeno un sorriso, un saluto, un gesto? Era chiedere troppo per caso? Per tutto il tempo che sono rimasta qui, non ha fatto nulla per mettermi a mio agio, anzi semmai tutto il contrario. Era a questo che si riducevano le relazioni personali? A quei dieci minuti in cui una persona seduta di fronte, ti giudica dal tuo aspetto, dal modo in cui rimani seduta e da ciò che è scritto su un foglio, senza poter scambiare una parola? Il direttore alzò gli occhi dal foglio e mi osservò aggiustandosi gli occhiali che gli erano scivolati di nuovo sul naso.
<< Ho letto il suo curriculum, signorina Ariel >> annunciò, sembrava di essere al Millionario in attesa di conoscere l'esito della risposta: assunta o non assunta?
<< Lei sa che offriamo un posto di commessa? >> domandò mentre i suoi occhietti grigi mi scrutavano da quelle lenti doppie quanto il fondo di una bottiglia. Annuii non capendo il senso di quella domanda.
<< Sa anche che si tratta di un impiego full time, giusto? >> Annuii ancora una volta senza capire dove volesse andare a parare.
<< E che è richiesta la massima serietà – a quel punto lo vidi sporsi verso di me e asciugare delle gocce d'acqua cadute sulla scrivania, ero stata io con i miei capelli. La mia miglior faccia da poker era andata a farsi benedire - puntualità – gli occhi a due fessure si posarono su di me ed io mi feci piccola, piccola; ed io che pensavo che fosse troppo preso da calcoli e scartoffie per accorgersene – ma soprattutto professionalità sul lavoro? >>
<< Bene – ripeté per la seconda volta - credo che sia tutto – concluse con quel volto senz'anima – le faremo sapere >> e detto questo mi congedò ritornando al suo “passatempo”. Wow è stato il colloquio più breve e impersonale nella storia dell'intero universo, ed io ne ero la protagonista, non sapevo se esserne felice o impiccarmi. Prima di alzarmi da quella sedia mi presi qualche altro minuto mentre il mio cervello vagliava delle strategie per convincere quell'uomo a tenermi con sé.
<< Credo che dovresti assumerla >> una voce ormai familiare comparve alle mie spalle, solo allora mi ricordai che Sonia aveva assistito a tutto. L'uomo la guardò.
<< Quante volte devo ripeterti di non restare in ufficio quando sono impegnato con qualcuno? >> la rimproverò.
Sonia sbuffò spazientita << Signor antipatico scusami se sono tua moglie e mi interesso agli affari di famiglia >> carramba che sorpresa! Sonia era sposata con il tizio qui davanti? Spostai lo sguardo dall'uno all'altra cercando di capire quale oscuro legame potesse unire due anime tanto diverse: uno privo di emozioni e l'altra un'esplosione di vita.
<< Non è questo il punto, devi smetterla di immischiarti in affari che non ti riguardano, questo è il mio lavoro >> obiettò con il l'espressione e la voce del medesimo tono ovvero: insofferente.
<< Ah si? E quale sarebbe il mio lavoro? Farmi in quattro tutto il giorno per mandare avanti questo negozio mentre tu te ne stai lì a decidere chi deve o non deve lavorare come un Dio? >> Oh, Oh credo che qui le cose si mettano proprio male, chi l'avrebbe mai detto che un semplice colloquio di lavoro potesse degenerare in una furiosa lita tra coniugi? E che la mia assunzione era l'oggetto della loro disputa? A proposito ho già detto che questa giornata sta assumendo una piega a dir poco bizzarra?
<< Non sto dicendo questo, non posso assumerla così di punto in bianco senza ponderare la decisione per bene, non sarebbe corretto nei confronti delle altre candidate >> spiegò senza entusiasmo. Sonia alle mie spalle irruppe in una risata sarcastica.
<< Non sarebbe corretto? >> lo schernì << Ma se non c'è nessun'altra candidata >> gridò sporgendosi oltre la mia sedia e rompendomi un timpano. Davvero ero stata l'unica a presentarmi? Che la notizia non fosse circolata in giro? Solo io necessitavo di guadagnare qualche gruzzoletto?
<< Da quando abbiamo messo l'annuncio, nessuno si è fatto vivo a causa tua >> proseguì infervorata mentre il suo profumo al gelsomino mi dava alla testa.
<< Non capisco cosa intendi dire? >> chiese senza interesse. In quel momento mi venne il dubbio se quell'uomo ci faceva o ci era.
<< Davvero non capisci? Bhè te lo spiego io Saverio, tu non vuoi assumere nessuno, hai pubblicato quell'annuncio solo per tenermi tranquilla, perchè a te non ha mai importato nulla di me – la sua voce pian piano iniziò a incrinarsi - non ti importa se ho bisogno di una mano con il negozio, – era così amareggiata che mi dispiacque moltissimo – e proprio quando ti chiedo di prendere questa ragazza tu trovi mille scuse per non farlo - si fermò a corto d'aria per poi proseguire – ammettilo... la verità è che tu non mi ami più >> sussurrò con un dolore immenso, Santo Cielo riuscivo a sentire l'odore di divorzio lontano un miglio, che Saverio non se ne fosse ancora accorto? Forse era il caso di mettere qualche buona parola per lui? In quell'istante la voce di nonna Maria mi balenò in mente come monito: “[I]tra moglie e marito non mettere il dito” .[/I] Oh al diavolo, non potevo starmene lì con le mani in mano mentre quei due si separavano davanti ai miei occhi.
<< Io... >> Sonia mi strinse una spalla ed io dovetti soffocare un gemito di dolore mentre mi faceva l'occhiolino. COSA? La osservai stralunata cercando di capire il senso di quel gesto e notai che non era in lacrime come immaginavo anzi i suoi occhi da cerbiatto avevano un non so che di furbesco, stava tramando qualcosa.
<< Allora è così? - domandò fingendo di accigliarsi davanti alla muta ostinazione del marito – d'accordo se è questo che vuoi, io e te non abbiamo più niente da dirci allora >> mentre si allontanava mi strizzò una spalla. La guardai interrogativa mentre Saverio si agitava sulla sedia allentando la cravatta, già allentata, che era diventata improvvisamente troppo stretta. Sonia si diresse verso la porta contando a bassa voce fino a tre. E poi accadde tutto troppo in fretta: Saverio che mi comunicava che avevo ottenuto il posto, Sonia che aggirò la scrivania per saltargli al collo, io che firmavo il contratto senza neppure leggerlo, incredula di quanto appena accaduto, Sonia che si congratulava con me e che mi trascinava fuori dall'ufficio in preda ad una crisi d'isteria.
<< Ancora congratulazioni Ariel >> mi abbracciò stretta a sé come se fossi un'amica di vecchia data.
<< Grazie, Sonia >> il suo entusiasmo mi commuoveva.
<< Sono io che devo ringraziarti. Con tutti questi vecchi attorno – e indicò gli altri dipendenti – temevo di diventare una vecchia mummia ingobbita e di cominciare a sentire i primi acciacchi dell'età – risi per l'espressione terrorizzata e allo stesso tempo disgustata che le si dipinse in volto – ma con te, ragazza mia so già che ci divertiremo >> si sfregò le mani eccitata come una bambina davanti ad una bambola nuova, sorrisi nascondendo il terrore di fare qualche guaio.
<< Mi dispiace per il signor Saverio, sei stata crudele con lui >> Sonia conoscendo il carattere restio del marito aveva messo in piedi tutta quella farsa in ufficio facendo leva sui suoi sentimenti, per costringerlo ad assumermi. Senza un vero motivo mi sentii in colpa nei confronti di Saverio. Sonia se ne accorse.
<< Niente dispiaceri bambina – mi alzò il mento per guardarmi negli occhi, i suoi sembravano sorridere sempre – se l'ho fatto è perché conosco il mio pollo! >>


[I][/I][I]Ho fatto il colloquio...[/I]


[I]… e ti hanno presa.[/I]


[I]Come fai a saperlo?[/I]


[I]Una madre sa sempre tutto...[/I]


[I]Mamma...[/I]


[I]Devo lasciarti tesoro, ho un appuntamento con un cliente. Ti chiamo appena finisco, ok[/I]?


[I]Ok.[/I]


Rilessi più volte gli sms, cercando una qualche verità nascosta. Era stata lei a parlare di me a Sonia? Impossibile. Me lo aveva promesso. Non avevo detto a nessuno quale era il supermercato per cui avevo presentato domanda, neppure alle nonne temendo che si facessero sfuggire qualcosa con mia madre, Angelica e Maia erano le uniche a saperlo e non erano ancora tornate per poterlo scoprire. Rimandai la mia curiosità per dopo quando le avrei viste faccia a faccia. Per ora mi toccava stendere il bucato e aspettare. Attesi che la spia della lavatrice lampeggiasse sulla parola fine. Aprii lo sportello e cacciai il bucato dentro al cesto, presi le chiavi di casa e mi avviai fuori. Salii gli scalini che mi conducevano in terrazzo e avvertii subito una deliziosa corrente d'aria fresca. La porta di metallo incrostata di ruggine era spalancata. Che strano. Avanzai di qualche passo ma mi bloccai nell'istante in cui lo notai. Era lì. Voltato di spalle e con le mani in tasca contemplava un punto lontano all'orizzonte, completamente ignaro che io fossi a un paio di metri da lui. Mentre me ne rimanevo impalata al pavimento come se mi avessero versato addosso una valanga di cemento a presa rapida, una marea di domande mi colpì come uno tsunami: chi era quell'uomo? cosa ci faceva sul tetto, con l'aria di uno che nell'orizzonte riesce a leggervi i misteri più profondi della vita? E soprattutto se abitava nel palazzo perché non lo avevo mai visto prima?... e contemporaneamente: annuncio la mia presenza? Non so con un colpo di tosse o con il ciabattare delle mie infradito? O attendo pazientemente che risolva uno degli enigmi che attanaglia metà della popolazione mondiale, ovvero: Dio esiste? E se sì, ci vorrà molto? Insomma sono pur sempre una persona educata e non vorrei interromperlo proprio mentre ha una tale illuminazione che potrà dare un senso alla vita di milioni di persone. Ahimè la risposta era ovvia, avrei aspettato che se ne andasse con la sua scoperta, poi avrei steso il bucato, dopo una mezz'oretta lo avrei ritirato e me ne sarei tornata a casetta. Niente di più semplice. Perciò inspirai silenziosamente e non sapendo cos'altro fare, lo osservai. Visto di schiena faceva la sua figura. Era alto, snello, i capelli mossi dal vento sembravano argento vivo sotto il cielo stellato, del viso in ombra riuscivo a scorgerne solo il profilo, liscio e perfetto ed un ciuffo di capelli che gli ricadeva sulla fronte. Voltato di spalle com'era non avevo la possibilità di squadrarlo per bene, ma era evidente che qualcosa non andava. Strizzai gli occhi per guardarlo meglio. Da quando ero arrivata era rimasto immobile in quella posizione come se stesse trattenendo il respiro da ore, se non avessi saputo che era fatto di carne ed ossa avrei potuto perfettamente scambiarlo per una di quelle statue che ornano le terrazze. Spostai lo sguardo sul viso. Aveva la mascella serrata e gli occhi leggermente socchiusi che fissavano lontano. Non era felice. Quel pensiero mi colpì come una secchiata d'acqua gelata, togliendomi il respiro. Non avevo mai creduto che gli occhi fossero lo specchio dell'anima ma mai come in quel momento il dolore di quello sconosciuto mi scorreva davanti come un film alla tv. Mi pentii per ciò che avevo pensato di lui ma soprattutto mi sentivo tremendamente in colpa per come mi stavo comportando, ero la spettatrice di un evento privato a cui non erano previsti invitati. Tenni gli occhi chiusi un po' più a lungo intimando alle gambe di muoversi, ma un odore particolare mi colse alla sprovvista. Era una fragranza familiare che mi riportava in tempi passati, a quando ero una bambina e mi piaceva andare all'asilo per giocare con i miei amichetti con le costruzioni, con le bambole e a fare disegni con i colori a matita, con i pennarelli e... con gli acquerelli. Riconobbi quel profumo e sorrisi al ricordo di quando ero piccola e mi impiastricciavo le mani nell'ora di disegno e la maestra mi sgridava perché sporcavo i fogli degli altri bambini e non volevo pulirle. Dio che nostalgia! Aprii gli occhi e mi si congelò il sorriso sulle labbra. Lui era lì nello stesso atteggiamento di poco prima con la sola differenza che aveva il viso leggermente voltato dalla mia parte e mi stava guardando di traverso. Non riuscii a vedere i lineamenti del suo volto ma bastò incrociare il suo sguardo per capire che ero finita sulla sua lista nera, proprio accanto a Hitler e Bush che occupavano i primi posti. Mi domandai da quanto tempo era lì a fissarmi ma non ebbi il tempo di rimuginarci sopra perché accadde tutto troppo in fretta. Sotto quella coltre di morbide e lunghe ciglia, due occhi chiari, quegli stessi occhi in cui avevo visto tanta sofferenza, mi guardavano con freddezza e disprezzo. Se il momento non fosse stato tanto carico di pathos avrei detto che sarebbe potuto rientrare nel guinness dei primati per la velocità con cui aveva solidificato il proprio dolore in un muro inaccessibile fatto di astio. Sì ci avrei scherzato su se non fosse che sapevo con esattezza che tutte quelle cose erano rivolte a me. E non potevo certo biasimarlo. Perciò feci ciò che avrei dovuto fare molto prima, andarmene. Con fatica distolsi lo sguardo da quegli occhi di ghiaccio, presi il cesto dei panni e scesi le scale con il cuore che minacciava di uscirmi dalle orecchie. Peccato che nella mia fuga avevo tralasciato un piccolo dettaglio, le infradito. Poggiando male il piede una mi si era sfilata e in un secondo mi ritrovai a ruzzolare per la tromba delle scale assieme alla roba lavata. Dio che dolore tremendo!
<< Ahio! >> mugugnai mettendomi a sedere in quel groviglio di lenzuola e biancheria intima. Mi diedi una rapida ispezione. Niente testa rotta, niente gambe rotte, niente braccia rotte a parte qualche dolore al gomito destro che aveva sbattuto contro la ringhiera durante la caduta. La parte più lesa era il fondo schiena. Nulla di nuovo. Le cadute che finivano col sedere a terra erano sempre state il mio pezzo forte. Facendo attenzione a non compiere movimenti bruschi, cercai le chiavi di casa e mi accorsi che erano finite dentro la maglietta. Le presi sentendo un formicolio... no, mi spiego meglio, un milione di aghi pungermi dalla nuca fino alla all'ultima vertebra della spina dorsale. Ero conscia della sua presenza dietro di me più di me stessa. Gettai alla rinfusa tutta la roba che era sparsa sul pavimento senza mai guardarmi indietro e con uno scatto da fare invidia ad un campione come Bolt (ma da far protestare le ossa del mio corpo) infilai la chiave nella toppa, aprii e mi infilai dentro. Mi lasciai scivolare contro la porta e respirai profondamente, con il cuore che si rifiutava di battere ad un ritmo ragionevole. Dio mio, mi sembrava di aver partecipato alla maratona di New York! Certo avrei potuto fare le cose con più calma invece di capitombolare a quel modo e provocare le proteste della mia povera spina dorsale che ora emetteva suoni sinistri, ma non avrei retto un momento di più il suo sguardo congelatore, anche se per la verità, sarebbe stato un vero toccasana per la mia povera parte lesa!
<< Ariel? >> una voce perfetta risuonò nell'appartamento annunciandomi che non ero sola. Cercai di raddrizzarmi, ma una fitta lancinante al sedere mi intimò di andarci piano. Ero in posizione quasi eretta quando un paio di gambe lunghe e abbronzate mi si pararono davanti.
<< Tutto bene? >> chiese; anche se non potevo vederla sapevo perfettamente che stava sorridendo. Mi schiarii la gola.
<< Certo >> mi uscii con voce strozzata.
<< Ah si? >> riusciva a stento a trattenere una risata.
<< Si >> cercai di darmi un contegno. Finsi di fare un po' di stretching imponendomi di non massaggiarmi il fondo schiena.
<< E si può sapere che stai facendo? >> ma insomma non era evidente?
<< Allungamenti, negli ultimi tempi ho i muscoli un po' indolenziti >> dissi con indifferenza mentre mi allungavo fino a raggiungere la punta dei piedi e poi sollevavo il busto; il tutto gradualmente finchè non riuscii a starmene dritta e a guardarla negli occhi. Una cascata di morbidi ricci scuri incorniciavano un grazioso viso a forma di cuore capeggiato da due grandi occhi verdi che in quel momento mi squadravano con ilarità, il naso sottile, gli zigomi pronunciati e due labbra sottili. Indossava una canotta verde militare che metteva in risalto la pelle olivastra abbronzata dal sole e gli shorts. Pareva la modella di una di quelle riviste patinate, bella, sicura di sé, sensuale; peccato che non avesse nessun interesse in quel campo. Da giovane femminista incallita che era, Angelica condannava qualsiasi atto che sminuisse la donna a misero oggetto di desiderio. A suo parere le figure femminili che sfilavano sulle passerelle di alta moda non erano altro che fantasmi delle donne che avrebbero potuto essere, dei corpi minuti con un doppio nodo allo stomaco e uno sguardo affamato nel vero senso della parola. Angelica era fiera di essere donna e lo dimostrava in ogni suo gesto, dalla sua mentalità aperta in una fascia di terra dove la visione della vita era alquanto ristretta, da come esortava me e Maia a essere noi stesse e a non sentirci mai inferiori a nessuno e dal modo in cui si batteva per gli altri, per difendere i loro diritti; ed io le ero amica per questo, perché era speciale.
<< D'accordo >> cantilenò con un sopracciglio inarcato dal canto mio sostenni il suo sguardo impassibile.
<< E' arrivata? >> gridò qualcuno dalla cucina: Maia.
<< Sì >> gridò di rimando Angelica con le braccia conserte, mi fissò mordendosi il labbro << E' caduta di nuovo >> aggiunse dopo un minuto di silenzio e scoppiò a ridere seguita dallo sghignazzare dell'altra che se ne stava in cucina. Sbuffai spazientita, ma come facevano a scoprirmi sempre?
<< Facevo solo un po' di ginnastica >> borbottai, incrociando a mia volta le braccia al petto.
<< Come no >> ironizzò dandomi una pacca sul sedere.
<< Ahia! >> gemetti massaggiandomi, mentre se la rideva di puro gusto.
<< Dove sei cascata stavolta? >> domandò con sincera curiosità, la guardai di traverso e quel gesto mi ricordò il tizio di poco prima, scossi la testa per scacciarlo via.
<< Sulle scale, stavo venendo dalla terrazza >> la vidi subito diventare seria e avvicinarsi per scrutarmi bene in viso forse in cerca di qualche commozione cerebrale.
<< Mi dispiace, sei sicura di star bene? >>
<< Sicura, tranquilla >> sorrisi. Mi diede un ultima occhiata a labbra strette e annuì, certe volte si comportava come mia madre.
<< Che ci facevi in terrazza? >> mi chiese allora con l'aria più angelica di tutti gli amorini esistenti sulla faccia della terra.
<< Ero andata per il bucato >> buttai lì sorpassandola per evitare che investigasse troppo, non avevo alcuna intenzione di raccontarle quanto accaduto, non in quel momento almeno, non avrei saputo cosa spiegarle... poiché neanche io sapevo cosa fosse successo esattamente; e poi avevo altre cose a cui pensare, tipo quella che mi stava passando per la testa adesso...
<< Sei stata tu a parlare di me a Sonia? >> fu buffo vedere l'espressione di Angelica passare da sospettosa a confusa.
<< Ma di che stai parlando? >>
<< Lo sai benissimo >> la incalzai con tono fermo, senza volere mi ero messa sulla difensiva.
<< Ti sbagli, non conosco nessuna Sonia >> scosse il capo con la fronte aggrottata, sembrava sincera.
<< Sei stata tu a – non riuscivo a trovare la parola giusta, anche se raccomandata era quella esatta, ma mi rifiutavo di utilizzare un vocabolo del genere - … parlargli di me? >> scosse di nuovo la testa guardandomi con tenerezza << Non lo farei mai, non senza il tuo permesso >> era vero, le mie amiche conoscevano ciò che avevo passato a causa di mia madre e dei suoi continui interventi nel mettermi a posto la vita, dal corrompere il presidente della commissione agli esami di maturità; al farmi assumere da tre aziende per cui avevo presentato domanda senza sostenere alcun incontro conoscitivo per poi essere licenziata ogni volta il mese successivo alla mia assunzione. Era stato davvero umiliante scoprire che dietro ad ogni datore di lavoro che avevo incontrato si nascondeva mia madre con i suoi fili da burattinaia e tutti erano stati più che disposti a sottomettersi alle sue macchinazioni. Da quel momento mi ero fatta giurare che non si sarebbe mai più immischiata nella mia vita, altrimenti sì che mi sarei trasferita all'altro capo del mondo e l'avrei telefonata una volta l'anno. Sospirai.
<< Scusami >> sussurrai.
<< Tranquilla >> mi accarezzò un braccio << ... quindi ti hanno presa? >> mi chiese come se stessimo avendo una conversazione sul tempo, anche se il sorriso che le aleggiò sulle labbra tradiva una certa speranza. Annuii sghignazzando, era troppo forte.
<< Sono contenta per te >> mi abbracciò di slancio, ricambiai inspirando a fondo l'odore di lavanda che la circondava. Mi allontanò per osservarmi.
<< Pensi che tua madre... >>
<< Non credo sia stata a lei – stavolta ero sicura che non c'entrasse nulla - a meno che voi... >>
<< Credimi Ariel non ne abbiamo fatto parola con nessuno, né io e né... >> impiegò qualche secondo a pronunciare il suo nome, la guardai intuendo il suo stesso pensiero.
<< Maia >> dicemmo all'unisono. Che stupida a non averlo pensato prima, era stata proprio lei a suggerirmi di presentare il curriculum in quel negozio e ad assicurarmi che mi avrebbero presa. Dio mio, questa volta ero stata... non osavo pensare a quel termine, dalla mia migliore amica, non sapevo cosa provare al riguardo. Non ero arrabbiata con lei questo era sicuro, anche se... No, Maia non aveva fatto altro che parlare di me alla moglie del mio futuro capo solo per preparare il terreno e farmi sentire a mio agio, e per questo dovevo solo ringraziarla. Mi schiarii la gola.
<< Questo non fa di me una... raccomandata, vero? >> avevo bisogno di sentirmelo dire.
<< Certo che no, altrimenti come l'avrebbe convinta ad assumerti? >>
<< Promettendole mazzette di erbe al timino e infusi della giovinezza? >> chiesi io. Ci guardammo senza fiatare e poi scoppiamo a ridere a crepapelle, tenendoci la pancia con le mani. Maia ci sorprese in quel momento.
<< Bé mi sono persa qualcosa? >> sorrise unendosi a noi.
<< Si chiacchierava di mazzette alle erbe, infusi, robe così >> Maia smise di ridere all'istante.
<< Non capisco cosa ci troviate di tanto divertente >> sbottò con espressione imbronciata.
<< Niente, niente >> sdrammatizzai io, guai a chi menzionava le sue strampalate brodaglie dall'odore nauseabondo << Cosa c'è per cena? >> chiesi per cambiare discorso ed avventurarmi in un territorio neutro.
<< Speravo che me lo chiedessi! >> disse con la voce che saliva di tre ottave dall'eccitazione, i suoi repentini cambi d'umore mi facevano paura, temevo soffrisse di bipolarismo. La guardai senza capire.
<< La scelta del menù dipende da te >>
<< Da me? >> la vidi annuire e battere le mani come una bambina il giorno di Natale.
<< Allora abbiamo due menù >> disse elencandoli sulla punta delle dita << Il primo si chiama “Uno su mille ce la fa” e comprende pizza e patatine con Mamma mia il musical come contorno >> dovetti mordermi più volte il labbro per non scoppiare a riderle in faccia.
<< Il secondo invece si chiama “Dopotutto domani è un altro giorno” e comprende una vaschetta di gelato di tutte le varietà di cioccolato con una cascata di panna montata e con Titanic come contorno >> guardai di sottecchi Angelica che come me faticava a trattenersi. Era evidente che i menù dipendevano dall'esito del colloquio di oggi, uno era per festeggiare, l'altro per consolarmi. Mi sentii commuovere da quel gesto, come avrei potuto essere adirata con lei, dopo tutto quello che aveva fatto per me?
<< Allora – tornò a chiedermi – quale scegli? >> la finta nonchalance con cui lo chiese mi fece capire ancora di più quanto fosse sulle spine.
<< E se scegliessi tutti e due? >> non volevo rendergliela facile.
<< Non è possibile >> disse spazientendosi. Finsi di pensarci su per un lungo minuto mentre lei tratteneva il fiato.
<< Ok credo che sceglierò il primo >>
<< Ottima scelta >> mi fece l'occhiolino e si avviò in cucina sorridente ma io la trattenni per un braccio e l'abbracciai.
<< Grazie di tutto, Maia >> dissi baciandole la guancia, lei mi guardò sconcertata. Sapeva che io sapevo, ma dal mio sguardo capì che non ce l'avevo con lei.
Quella sera mangiammo come se non ci fosse un domani, peccato che non fosse vero dato che il giorno seguente avrei cominciato a lavorare. Con uno strappo alla regola ci ingozzammo anche di gelato e panna senza vedere però Titanic, non potevo permettermi di arrivare in ritardo il primo giorno di lavoro, non dopo oggi.
Era bizzarro il modo in cui era iniziata quella giornata e altrettanto strano il modo in cui si era conclusa, nonostante quelle ore felici, di tanto in tanto sentivo la tristezza avvolgermi come un manto invisibile, inevitabilmente finivo col pensare all'uomo che avevo incontrato quella sera e alla sua solitudine. Insomma era abbastanza facile per la gente fingere di non notare il dolore altrui, allora perché mi era impossibile fare altrettanto? Perché non riuscivo a dimenticare la sofferenza che ho letto negli occhi di quello sconosciuto? Ma soprattutto perché non sopportavo l'idea che lui soffrisse? Quella notte mi girai e rigirai nel letto, in preda a sogni, popolati da occhi azzurri che mi fissavano in silenzio.


Salve a tutti, ecco a voi il primo capitolo. Spero che vi piaccia! Ringrazio chiunque si sia imbattuto nella mia storia e abbia iniziato a leggerla.
Mi farebbe piacere conoscere i vostri pareri quindi grazie a chi commenterà!
Al prossimo capitolo!




  
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