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Autore: ChiiCat92    29/05/2017    1 recensioni
"« Allora? Qual è la cosa di cui hai più paura al mondo? » ripeté. Il suo volto di bambino diventava più serio quando parlava di certe cose, dava quasi l'impressione di poter vedere l'adulto che sarebbe diventato.
Isa sentì il cuore battere più forte per un attimo.
Le loro manine erano rimaste intrecciate fino a quel momento e lui sentì chiaramente quale fosse la cosa di cui aveva più paura al mondo.
Solo che non trovò il coraggio di dirla.
« Io non ho paura di niente. » rispose invece."
[Akusai]
Genere: Angst, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Axel, Saix
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun gioco
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26/05/2017

 

Fearless

 

« Isa, qual è la cosa di cui hai più paura al mondo? »

Era sempre così, faceva sempre domande strane, aveva sempre pensieri strani. Il visetto tondo rivolto all'insù, verso il cielo, verse le stelle, come se non facesse mai pienamente parte di quella Terra, come se non fosse come tutti gli altri.

Le tegole del tetto sotto la schiena facevano male, il vento che soffiava leggero lo faceva rabbrividire. Eppure non mosse un muscolo, rimase dov'era, al fianco di Lea.

Lui volse piano la testa, gli occhi verde intenso brillanti nonostante l'oscurità di quella notte senza luna.

« Allora? Qual è la cosa di cui hai più paura al mondo? » ripeté. Il suo volto di bambino diventava più serio quando parlava di certe cose, dava quasi l'impressione di poter vedere l'adulto che sarebbe diventato.

Isa sentì il cuore battere più forte per un attimo.

Le loro manine erano rimaste intrecciate fino a quel momento e lui sentì chiaramente quale fosse la cosa di cui aveva più paura al mondo.

Solo che non trovò il coraggio di dirla.

« Io non ho paura di niente. » rispose invece.

Lea mise su un broncetto adorabile. Era una di quelle espressioni che non ci si stanca mai di osservare. Con quegli occhi, Isa ne era sicuro, avrebbe potuto incantare chiunque.

« Non è possibile. Tutti hanno paura di qualcosa. Non so, i ragni ti fanno paura? » lui per tutta risposta scosse solo la testa. Il broncio di Lea si accentuò. I capelli rossi sembravano di una tonalità più scura al buio di quella notte stellata. « E dell'altezza? »

« Lea. » sospirò Isa. Gli occhi verde scuro scivolarono verso il basso per poi tornare verso l'amico. Erano sdraiati su un tetto a due piani d'altezza, se non bastava questo a rispondere alla sua domanda proprio non sapeva cos'altro avrebbe potuto.

« Okay okay. » non appena il rosso voltò il visetto tondo, Isa si esibì in un sorrisetto.

Non sorrideva molto, era sempre serio e composto nella sua scorza impenetrabile, ma Lea riusciva sempre a strappargli un sorriso, in un modo o nell'altro.

« Che ne pensi degli alieni? » chiese ancora, imperterrito, Lea, la manina libera con un indice puntato verso il cielo.

Isa osservò per un po' il punto in cui stava indicando, poi si strinse nelle spalle.

« Se esistono e sono pacifici, non c'è niente di cui spaventarsi. Se esistono e hanno cattive intenzioni, dubito che possiamo farci niente, quindi perché spaventarsi? E se non esistono... »

« Perché spaventarsi? » terminò scocciato Lea.

A quel punto incrociò le braccine al petto, separando così le loro dita intrecciate. Per un istante, Isa sentì un vuoto allo stomaco, ma la sua espressione rimase impassibile come sempre.

A chi lo guardava da fuori sarebbe apparso come uno strambo bambino di nove anni, troppo serio e troppo composto, con la chioma di zaffiro tirata indietro in modo ordinato, non un capello fuori posto. Tutto il contrario di Lea, rosso e spettinato come se gli fosse esploso un petardo in testa.

Forse era per questo che andavano così d'accordo, l'uno riempiva il vuoto dell'altro.

« Non posso credere che non hai paura di niente. »

« La paura è il sentimento che nasce da qualcosa che ci crea disagio o che non capiamo. »

« Non volevo una spiegazione scientifica. »

Isa fece una smorfia infelice. L'amico sembrava deluso, irritato, ed era lontano, il suo calore quasi svanito. La notte era più fredda se non poteva stringere la sua mano.

« Mi spieghi perché ti fa arrabbiare tanto? »

« Per nessun motivo in particolare. » il rosso si alzò, spolverando il pantaloncino del pigiama con una mano. « Rientriamo? »

Lui annuì velocemente e si tirò su.

Camminando con attenzione sulle tegole umide di rugiada, senza guardare giù, facendo equilibrio con le braccia, rientrarono dalla finestra della stanza di Lea. Se sua madre avesse saputo che erano di nuovo usciti sul tetto avrebbe come minimo messo le sbarre alla finestra. Ma in notti come quelle, senza luna, il cielo era una tentazione irresistibile, con le sue stelle e i suoi segreti.

Una volta rimessi i piedi nella stanza, Lea chiuse la finestra, mentre Isa andò a sedersi sul letto.

La madre di Lea si era prodigata tanto per preparare un letto dove farlo dormire, ma loro ne avevano comunque usato solo uno.

« Voglio fare una scommessa. » esordì quindi il rosso, raggiungendo l'amico.

« Che scommessa? »

Prima di rispondere, si sistemò per benino sul letto, di fronte ad Isa, gli occhi verde accesi di una smania infantile. « Scommetto. » cominciò, sottovoce, ad un palmo dal viso di Isa come se avesse paura di essere sentito da qualcuno. « Che prima o poi troverò una cosa di cui hai paura. »

Isa sbuffò dal naso, ma c'era un sorrisetto sulle sue labbra. « Bene, ma se perdi dirò a tutti di cosa hai paura tu. »

Già solo il pensiero fece impallidire il bambino, che però rimase occhi negli occhi con l'amico.

« Andata. »

« Andata. »

Intrecciarono i mignoli per suggellare la scommessa e si sdraiarono, ognuno convinto di avere la vittoria in pugno.

 

*

 

Il cravattino della divisa gli andava stretto, l'aria era troppo calda, satura dei respiri dei compagni di classe, la voce del professore era diventata monotona, una litania senza senso.

Non riusciva a concentrarsi, non riusciva a pensare ad altro che al banco vuoto alla sua destra.

Il respiro si fece più grosso, la penna tra le dita tremò.

La lancetta dei secondi toccò il 12 e la campanella, finalmente, suonò.

Fu il primo a scattare in piedi, lo zaino che quasi tracimava per la fretta con cui l'aveva riempito.

Non era da lui comportarsi così, non era da lui correre nei corridoio, spintonare le matricole, superare senza fermarsi un insegnante che gli aveva rivolto un saluto.

Se qualcuno l'avesse chiamato avrebbe riconosciuto a stento il proprio nome.

Niente aveva avuto più senso, quella giornata, dopo il lapidario SMS ricevuto durante la ricreazione.

Me ne vado. Intendo, davvero. Addio.”

Niente.

Se avesse potuto sarebbe corso via subito. Come abbia fatto a trattenersi fino all'orario di uscita lo sapeva solo il suo senso del dovere.

Guadagnò l'uscita in poche, veloci falcate, ignorando chiunque tentasse di avvicinarlo, ignorando gli impegni che aveva preso per il doposcuola. A meno che non fosse obbligato, non voleva rimanere lì per nulla al mondo.

 

Il tragitto verso casa di Lea non gli era mai sembrato tanto lungo, ad ogni svolta pregava perché non fosse troppo tardi, perché riuscisse a trovarlo, perché non fosse tutto finito.

Arrivato nel vialetto tirò il freno a mano e lasciò la macchina accesa.

Il camion dei traslochi era ancora lì, alcuni uomini in divisa rossa stavano caricando un divano, altri portavano da dentro pile di scatoloni.

La madre di Lea strillava ordini a destra e a manca, i capelli rossi – una tonalità più scura di quelli del figlio – spettinati per lo stress.

Quando lo vide arrivare sgranò gli occhi. Non lo aspettava, certo. Non si aspettava che sapesse tutto.

« Dov'è? » fu quasi un ringhio. Più tardi avrebbe avuto modo di vergognarsi del tono con cui si era rivolto alla donna, ma non adesso.

« Credo che stia finendo di preparare i bagagli... » mormorò lei, sconvolta. A passo marziale Isa salì i primi gradini e si fiondò verso la porta. « Non prendertela con lui! » gli gridò dietro la donna.

Certo che no. Sapeva perfettamente che non era colpa sua, ma di suo padre. L'uomo che l'aveva percosso e minacciato quando aveva scoperto la loro relazione.

Ma era così arrabbiato, così cieco. Di fronte a lui solo rosso, rosso sangue, tradimento.

Salì al secondo piano e imboccò il corridoio.

Lea era seduto sul pavimento della sua stanza, l'aria mesta mentre inscatolava ed etichettava la sua vita.

“Libri”, “DVD”, “Vestiti”, scatoloni impilati uno sull'altro.

Le mensole erano vuote, l'armadio ripulito, la scrivania era già stata portata via.

Dovette sentire i suoi passi, marziali e arrabbiati, perché alzò la testa quasi subito.

« Isa... » ma non terminò mai la frase, perché lui gli si lanciò contro, le mani a prendergli il viso, le labbra a cercare le sue.

Era un bacio disperato, salato di lacrime che non avrebbe mai versato.

Lea non si ritrasse, non reagì, ma ricambiò piano il bacio, incerto, come se non sapesse bene come fare. Eppure lo sapeva perfettamente. Quante notti passate accucciati insieme in quel letto ora vuoto a sperimentare, a studiarsi, a cercare il modo migliore di saziare la fame dell'altro.

E adesso tutto svaniva.

« Non dovevi venire. » soffiò Lea contro le sue labbra, senza osare staccarsi troppo per paura di distruggere il momento. « Se mio padre ti trova qui passerai dei guai. »

« Perché non mi hai detto prima che stavi per andartene? »

Gli occhi verde scuro di Isa, screziati di giallo ambra, cercarono quelli di Lea, disperatamente, aggrappandosi al calore smeraldino dei suoi.

Un groppo gli stringeva la gola, un peso gli opprimeva il cuore, a malapena riusciva a respirare, nella sua mente confusa continuava a ripetersi il suo nome.

Lea. Lea. Lea.

« Non potevo. » lo spinse via, gentilmente. Se avesse continuato a stargli così vicino non avrebbe risposto di se stesso. Tutto nel suo corpo gridava di abbracciarlo, di stringersi a lui per non perdersi nel dolore. E nella paura. Perché a differenza di Isa, lui aveva paura, una paura cieca. « Mio padre...ha organizzato il trasferimento in fretta e furia...ha minacciato me e mia madre. » un sorriso amaro si aprì sulle sue labbra. « Ormai tutti in città sanno del suo figlio frocio. Non lo sopporta. »

« Non puoi permetterglielo. » sussurrò Isa. Gli prese la mano, la strinse piano, ma non trovò il solito calore confortante, al contrario, Lea era come una stella spenta. « Non puoi permettergli di separarci. Solo perché non condivide le tue scelte non... »

« È mio padre. Cosa vuoi che faccia? » tirò via la mano, e Isa si sentì come se gli avessero tolto il terreno da sotto i piedi. All'improvviso era così diverso, così distante, così gelido. C'era una maschera ostile sul suo volto. « Vuoi che strilli, che faccia i capricci, che scappi di casa? Abbiamo diciassette anni Isa, ci passerà. »

« Cosa...cosa stai dicendo? »

Qualcosa di doloroso gli afferrò le viscere, e sul suo volto calò una non-espressione, simile a quelle delle statue nelle chiese, morta e vuota, mentre Lea abbassava la testa sullo scatolone che stava finendo di riempire.

Lo chiuse con il nastro da pacchi, tolse il tappo dal pennarello nero, scrisse “Scuola”.

« Sto dicendo. » mise da parte lo scatolone, ne prese un altro, cominciò a riempirlo. Non alzò mai lo sguardo su di lui. « Che è stato uno sbaglio. Siamo giovani, confusi, cambiare aria farà bene ad entrambi. »

« No. » la voce non gli tremava, eppure Isa si sentiva scuotere dall'interno. « Questo non sei tu, queste non sono parole tue. È tuo padre. Ti ha riempito la testa di... »

« Stronzate? » Lea sollevò lo sguardo, i suoi occhi erano più freddi che mai. « La vera stronzata sei tu, qui, adesso. Quando sai benissimo che è tardi, per qualsiasi cosa. Me ne sto andando Isa, fattene una ragione. »

« No, no...ascolta. » provò a riavvicinarsi a lui, senza toccarlo, perché l'istinto gli disse che sarebbe stata la cosa peggiore da fare. « Non me l'hai detto prima quando magari avrei potuto fare qualcosa, ma non importa...possiamo trovare una soluzione, adesso, tu ed io. Anche se sei lontano possiamo trovare un modo. L'anno prossimo finiremo la scuola, andremo al college, potremmo trovare un posto che vada bene per entrambi e andarci insieme e... »

« E cosa, Isa? » l'insensibilità nella sua voce lo fece tremare. « Sopportiamo qualche anno di relazione nascosta a distanza e poi andrà meglio? Faremo coming out e tutti saranno felici per noi? Compreremo una casa e andremo a vivere insieme? Non ho bisogno di questo. »

« Lea. » all'improvviso seppe esattamente che cosa voleva aggiungere. Il cuore batté più forte, il respiro si mozzò in gola, impossibilitato dall'attraversare la gola contratta. « Non dirlo ti prego. »

« Non ho bisogno di te. » dalle labbra di Isa non sfuggì un mugugno mentre qualcosa dentro di sé si spezzava, dolorosamente. « Adesso vattene. »

Sentì le gambe muoversi in automatico, ubbidendo all'ordine come se non avessero aspettato altro.

Non si volse indietro neanche una volta. Non quando fu fuori dalla stanza, non quando scese le scale, non quando uscì dalla porta principale.

Se l'avesse fatto non sarebbe più riuscito ad andarsene, perché avrebbe visto le lacrime di Lea, le ferite che si era procurato per dire quelle menzogne, e la verità sul suo volto.

Riuscì a guardare la casa solo un'ultima volta prima di salire in macchina. Se ne andò per non tornare mai più, in quel posto, come nel ricordo di Lea.

 

*

 

Quella mattina il pronto soccorso era saturo di pazienti. Non si era fermato un attimo, neanche per prendere un caffè – il che da un certo punto di vista era un bene, sarebbe stato il quinto oggi – o solo per respirare.

I capelli di zaffiro legati in una crocchia stretta gli avevano causato l'emicrania, ma riusciva a sopportarla con un paio di aspirine in corpo. Probabilmente anche il tenersi impegnato in corsia lo aiutava ad allontanare il dolore.

« Dottore, dottore! » un'infermiera lo affiancò, affannata e sfatta. Neanche lei si era riposata molto. D'altronde, dopo l'incidente a catena sull'autostrada, nessuno aveva avuto molto tempo.

« Dimmi mentre andiamo, ho un codice rosso in arrivo. » rispose lui, mentre lei gli porgeva una cartella medica.

« Il ragazzo è sulla ventina, ha una leggera commozione cerebrale, ma continua ad accusare dolore all'addome. Abbiamo fatto una TAC ma non abbiamo trovato niente di preoccupante, se potesse anche solo passare per fargli una visita... »

Isa sfogliò velocemente la cartella, i suoi occhi freddi come ghiaccio analizzarono ogni riga, ogni parola, senza tralasciare nulla.

Barellisti impazziti correvano avanti e indietro trascinando i pazienti da una parte all'altra dell'ospedale. In qualche modo, tutti sapevano dove andare, nessuno causava intralcio, e lo scalpiccio affannato di medici e infermieri era scomposto ma aveva un suo senso. L'ordine dentro il caos.

« È un codice blu. »

« Lo so... » la povera infermiera, le gambe corte e il fiatone, non riusciva a stare dietro al suo passo veloce. L'età adulta gli aveva regalato una meravigliosa altezza statuaria, e gambe dalla lunga falcata. « ...però non riusciamo a capire cosa abbia, e il dottor Smith ha chiesto un suo consulto per... »

« Dottor Karalis! » un paramedico corse verso i due, ansimando, la divisa sozza di sangue. « Il codice rosso, sta avendo un collasso sull'ambulanza! »

« Ne parliamo dopo Rosmary. » urlò all'infermiera, sbattendole quasi in faccia la cartella medica.

Corse dietro al paramedico, afferrando al volo un paio di guanti di lattice da infilare prima di arrivare all'ambulanza.

Altri due paramedici stavano quasi a cavalcioni dell'uomo sulla barella, tentanto una rianimazione in extremis.

Abbaiò ordini e gli venne porto il defibrillatore.

Il resto si perse in una nuvola di sangue e bip elettronici.

 

A fine turno, vicino alla mezzanotte, Isa non sapeva bene cosa gli facesse male di più. Se la testa, adesso che aveva sciolto i capelli, pulsante di emicrania appena resuscitata, se le gambe, pesanti dopo una giornata passata correndo qua e là senza mai fermarsi, se i muscoli delle braccia, in tensione per aver dovuto sostenere quattro ore in sala operatoria.

Era stata una delle peggiori giornate della sua esistenza, da un punto di vista puramente fisico, ma una delle migliori, dal punto di vista etico professionale: nessuno era morto durante il suo turno.

Una ragazza in condizioni critiche era ancora in terapia intensiva, ma all'ultima visita si era stabilizzata, niente di preoccupante.

Non tutte le giornate finivano bene come quella. Ricordava i nomi dei pazienti che aveva perso come se fosse successo un istante prima, indelebili nella sua memoria, marchiati a fuoco dal senso di impotenza.

Non succedeva con quelli che salvava, no, solo con quelli che morivano sotto le sue mani.

Chiuse l'armadietto e infilò la giacca.

Sapeva di dover mangiare qualcosa se voleva prendere l'ennesima aspirina, ma maneggiare tutto quel sangue e quelle interiora gli aveva definitivamente tolto l'appetito.

L'ospedale adesso silenzioso sembrava tutto un altro mondo rispetto a poche ore prima, come se tutto il via vai concitato di medici e infermiere fosse avvenuto da qualche altra parte e non lì.

Un paio di infermieri gli fece un cenno di saluto mentre usciva, e lui ricambiò con la testa. Non ricordava neanche i loro di nomi.

Non si poteva certo dire che fosse una persona socievole. Era il miglior chirurgo del paese, ma non era la migliore persona.

Circondato solo dei suoi libri e dei suoi documenti, non lasciava avvicinare nessuno, ma nessuno voleva avvicinarsi, comunque.

Quegli occhi gelidi, verdi con accentuate vene d'ambra, incutevano il giusto timore a chiunque lo guardava, e se non fossero bastati, c'era la sua espressione severa, il taglio dritto delle labbra, le sopracciglia perennemente corrugate.

Chi lo conosceva si divideva tra paura e rispetto, e a lui andava bene così.

Aveva conquistato la sua posizione dopo anni di studi e di gavetta, aveva dimostrato il suo valore, era circondato dai trofei del suo impegno.

Eppure non era felice.

Ad aspettarlo c'era una casa buia, c'era solitudine e un gelo più freddo e profondo del suo cuore. Era una casa grande, con mobili costosi scelti da un arredatore d'interni, zeppi di librerie con volumi medici – un paio de i quali pubblicati da lui stesso – con bei tappeti, bei divani, con ogni comfort che una persona potrebbe desiderare. Ma era vuota.

Lo stomaco gorgogliò, così ricordò di non aver mangiato nient'altro che un caffè nero e pane di segale e marmellata quella mattina a colazione. Nonostante il disgusto che provava al solo pensiero di mangiare qualcosa, il suo corpo richiedeva le dovute attenzioni.

Forse tutto sommato non bastava qualche litro di sangue e qualche metro di budella per fargli passare del tutto la voglia di mangiare.

Nell'aria colse un odore fritto, unto, meraviglioso. Beh, per una volta poteva anche fare uno strappo alla sua perenne dieta per mantenere la linea.

Seguì quel buon profumo camminando per strade deserte, negozi dalle vetrine sbarrate, macchine veloci in ritorno verso casa.

A quell'ora la città era nelle mani di chi amava la notte.

Da qualche parte una discoteca pulsava di musica e luci, i locali notturni straripavano di giovani.

Il buon profumo proveniva da un furgoncino di street food, davanti cui erano stati improvvisati tavolini e panchine. L'enorme quantità di clienti lo stupì tanto da fargli inarcare le sopracciglia.

Il chiacchiericcio delle persone sedute e quelle in attesa era allegro, per lo più erano gruppetti di amici usciti per uno spuntino al volo, o clienti abitudinari venuti lì appositamente.

Adolescenti e adulti aspettavano entusiasti in ugual modo in coda di fronte al furgoncino.

Evidentemente, rifletté, doveva valerne la pena.

Gli avventori seduti ai tavolini avevano davanti una varietà di cibi invidiabile persino per un ristorante, da enormi hamburger a piccoli bocconcini di pollo fritto, niente di sano, tutto unto nell'olio, quel genere di alimenti letteralmente buoni da morire.

Lo stomaco di Isa ringraziò di aver scelto quel posto, anche se il suo senso del fitness si adirò non poco. Con quante ore di palestra avrebbe smaltito uno solo di quegli enormi hamburger?

Si mise in fila, pacatamente. Era l'unico da solo, le coppiette di innamorati appestavano l'aria più dell'odore di fritto.

Il campanello della cucina continuava a suonare ad ogni ordine servito, chiunque ci fosse al bancone era veloce a smaltire le comande.

Nel giro di una manciata di minuti arrivò ad adocchiare il menù, e si accorse di avere più fame di quanta potesse accettarne.

Scelse un hamburger di tacchino – per mantenere una parvenza di leggerezza – con patate dolci fritte e panna acida come contorno.

Aveva già l'acquolina in bocca, ma quando arrivò allo sportello gli mancò il fiato.

Il ragazzo che si volse verso di lui, con le – mai dette – parole “ciao, cosa posso prepararti?” visibili sulle labbra, aveva capelli rossi legati stretti in una coda alta, un viso arrossato dal calore dei fornelli, occhi verdi come pietre, il grembiule sporco di salse e sugo di carne, mani guantate pronte a scattare dalla cassa alla piastra.

« Isa. » balbettò il ragazzo, ritrovando la parola dopo lunghi, inutili tentativi.

Fu quello a smuovere Isa. Di nuovo di ghiaccio – perché per un attimo la sua espressione era stata incrinata dalla sorpresa – voltò le spalle e si allontanò, il più velocemente possibile.

« No! Aspetta! Isa! » Lea si sfilò il grembiule e i guanti, gettando tutto al suo collega e urlandogli qualcosa come “torno subito, fai tu!”.

Si lanciò all'inseguimento, cosa che quasi gli costò l'osso del collo per scendere i gradini del furgoncino.

Isa non si volse mai, neanche per un attimo, nonostante i richiami del rosso.

No, aveva impiegato anni per dimenticarlo, non sarebbe tornato nella sua vita adesso che era perfetta.

Ricordi che aveva nascosto nei meandri della sua mentre tornarono a perforargli il cuore come pezzi di vetro ogni qualvolta Lea pronunciava il suo nome.

Era come aprire il vaso di Pandora, e ne stava pagando le conseguenze.

Dovette reggersi il petto, tanto forte era il dolore.

I ricordi che riaffiorarono erano tutto tranne che spiacevoli, forse era questa la cosa peggiore. Non gli suscitavano rabbia, non risvegliavano l'odio. Gli facevano sentire solo l'immensità dell'amore che aveva perso.

Ricordò il loro primo bacio, a quattordici anni, timidamente sotto le coperte nella camera di Lea, una notte che lui era rimasto a dormire dopo una giornata di studio. Ricordò la loro prima volta, due anni più tardi, con l'imbarazzo del momento, e il piacere subito dopo. Ricordò la promessa di rimanere per sempre insieme, nonostante le avversità.

Ricordò tutto quello, e dovette fermarsi. All'improvviso vedeva tutto bianco, non c'era abbastanza ossigeno nell'aria, il suo corpo non rispondeva come doveva.

Stava avendo un attacco di panico, ne riconosceva i sintomi.

La voce di Lea gli giunse come da molto lontano, ma quando sentì la sua presenza al suo fianco, riuscì a rizzare la schiena e rivolgergli un'occhiata arrabbiata.

Lea mise le mani avanti, come per fargli capire di non avere cattive intenzioni, e indietreggiò di un passo per lasciargli il suo spazio.

« Che cosa vuoi. » gli ringhiò contro, subito dopo che il suo cervello ebbe fatto il reboot del sistema per fargli capire dove si trovava e come doveva reagire.

Rabbia, astio, odio: ecco cosa doveva provare.

« È un secolo che non ci vediamo. Davvero, quanto sarà? Quindici anni? » Sorrise. Lea sorrise, come se fosse felice di vederlo, come se quell'incontro fosse piacevole per entrambi.

« Che cosa vuoi. » ribadì, più acido di quanto avrebbe voluto, ma non se ne pentì.

« Uh...che gelo. » ridacchiò il rosso, nervosamente.

Solo in quel momento Lea si rese conto di quanto fosse assurda quella situazione. Il ragazzo che aveva amato tanti anni fa si era trasformato in un meraviglioso uomo, ed era venuto a mangiare al suo furgoncino, ma era scappato solo a vedere la sua faccia. Un inizio promettente per una rimpatriata.

« Senti... » Lea si passò una mano sul collo e poi indicò indietro. « Torniamo al furgone, ti preparo qualcosa. Offro io. Così magari possiamo parlare un po'. »

« Non ho niente di cui parlare con te. » soffiò Isa, come un animale messo all'angolo.

« Va...bene immagino, però posso sempre offrirti la cena. Sembri uno che ha avuto una brutta giornata, e non ci sono posti aperti a quest'ora che fanno hamburger buoni come i nostri. Dai, su. »

« No. » disse solo, leggero.

Gli volse le spalle e riprese a camminare, consapevole del fatto di aver appena ferito Lea. Erano quasi quindici anni che temeva – e sognava – un momento come quello.

 

Quella notte Isa non chiuse occhio, e non solo perché aveva lo stomaco vuoto, e dolorante per il troppo contrarsi.

Non era riuscito a mangiare nulla una volta arrivato a casa, si era solo liberato di scarpe e vestiti e si era infilato nel letto che condivideva con se stesso.

Avvolto nelle coperte aveva fatto finta che niente di quello che era successo nell'ultima ora fosse realmente successo.

Come poteva quell'incontro distruggere la barriera emotiva e mentale che aveva costruito in tutti quegli anni?

Aveva tenuto fuori tutto e tutti, aveva allontanato le emozioni, i ricordi, le persone, perché adesso si sentiva come quando, diciassettenne, era stato brutalmente rifiutato e cacciato?

Aveva quasi il doppio dell'età, eppure faceva ancora male.

Forse dipendeva dal fatto che Lea era stato il suo primo, grande amore. Forse non l'aveva mai superata davvero, forse forse forse...non voleva neanche pensarci.

Si sentiva ridicolo, così appallottolato nelle coperte come un bambino, ma il dolore al cuore non voleva saperne di scemare.

Lea era stato il suo mondo, il suo sole, aveva illuminato la sua vita sin dal primo istante, quel giorno della sua infanzia che ricordava a stento, tanto era lontano. Erano cresciuti insieme, si erano scoperti insieme, il pensiero di poter vivere senza di lui non l'aveva mai neanche sfiorato, almeno fin quando lui non gli aveva sbattuto in faccia il crudo fatto.

E adesso che si sentiva padrone di se stesso e della sua vita tornava per sconvolgerla.

Quale destino crudele poteva averlo portato nella sua stessa città? E soprattutto quante possibilità c'erano, in quel mondo tanto grande, che si trovassero nello stesso posto nello stesso momento?

Inaudito, inconcepibile. Non si sarebbe fatto trascinare a fondo da un fantasma del passato.

Non da uno così contento e felice almeno, senza segni di sofferenza, senza risentimenti, senza dolore.

No, non si sarebbe fatto abbattere. Era stato un incontro sfortunato, ma sarebbe rimasto questo.

Serrò gli occhi al buio scacciando le immagini di Lea, del suo corpo adulto, del suo viso adulto, di tutto quello che avrebbe potuto essere suo e invece aveva perso.

Non l'avrebbe rivisto mai più, né lui né il suo dannato furgoncino di schifezze. Avrebbe evitato di passare per quella strada per un po', finché non fosse stato sicuro che se ne fosse andato, poi tutto sarebbe tornato come prima.

La sua lenta, inamovibile routine: era quella che agognava.

Il cuore rallentò i battiti, il respiro si fece più regolare. Anche se la mente continuava a pulsare con flash di dolorosi ricordi, riuscì a rilassare gli arti, le spalle, la schiena, la testa sul cuscino.

Pian piano riuscì a tranquillizzarsi abbastanza da prendere sonno.

L'indomani sarebbe stato il suo giorno libero, avrebbe potuto dormire fino a tardi e poi uscire per pranzo, mangiare qualcosa al suo ristorante preferito, andare in palestra.

Era ovviamente la decisione migliore.

Si addormentò quasi con un sorriso sulle labbra, un sorriso tirato e falso.

 

Riuscì a dormire fino ad un orario normalmente improponibile per lui, segno che doveva essere non solo stremato fisicamente ma anche mentalmente.

La sveglia sul comodino segnava mezzogiorno quando riuscì ad alzarsi, intorpidito e con gli occhi incollati.

Gli sembrava di aver vissuto in un incubo fino a quel momento, e di essersi finalmente svegliato.

Con un sospiro soddisfatto tirò le tende. Il sole era alto, la temperatura piacevole: una bella giornata di primavera.

Si prese tutto il tempo a disposizione per farsi una doccia e lavarsi via l'odore di ospedale che, se ne accorse solo in quel momento, aveva ancora addosso. Farmaci, sangue, disinfettante: un mix non proprio piacevole.

L'acqua calda sulla pelle lattea cancellò ogni traccia del giorno prima.

L'incontro con Lea divenne quindi come uno sbiadito brutto ricordo di una vita fa.

Ormai aveva imparato come stratificare il dolore sotto interi piani di indifferenza e freddezza.

Anche nel vestirsi perse più tempo di quanto avrebbe dovuto, solo perché poteva. Dato che era il suo giorno libero optò per un abbigliamento casual, lontano dal suo solito giacca e cravatta, con scarpe di tela leggere e una felpa sportiva.

Sperava di andare in palestra subito dopo il pranzo, per questo dopo aver preparato il borsone se lo caricò in spalla.

Uscì quasi fischiettando dal suo appartamento, gli occhi nascosti dietro occhiali da sole con lenti a specchio, i capelli legati in una coda bassa.

Si sentiva magnificamente, così decise di camminare piuttosto che prendere la macchina. In ogni caso il posto dove sarebbe andato a pranzare non era lontano, e voleva mantenersi nella sua safe zone.

Ma non era nervoso, o preoccupato, assolutamente no, la giornata era meravigliosa e il mondo gli sorrideva, perché avrebbe dovuto essere nervoso?

Camminò a passo sostenuto senza stancarsi troppo, tanto in ogni caso avrebbe sudato più tardi in palestra, e raggiunse il locale in quarto d'ora scarso.

Era un posticino rustico, frequentato da pendolari che avevano bisogno di un pasto rapido ma genuino.

I camerieri erano gentili, il cibo squisito, e l'etichetta di eleganza accantonata per preferire cordialità e buon servizio.

Non che fosse il genere preferito di Isa, il rustico, ma in giornate come quella, in cui non doveva andare a lavoro, gli piaceva pensare di vivere un'altra vita, una vita più semplice, meno inamidata, più libera.

Era quasi ironico come staccare dalla sua routine facesse parte della routine stessa.

Aveva il controllo, sapeva cosa fare: erano le uniche due cose di cui gli interessasse.

Sedette al solito tavolo (fuori, nelle belle giornate, dentro, di fronte alla finestra, in quelle brutte), salutò il solito cameriere, ordinò il solito pranzo.

La clientela era silenziosa e pacifica, niente in confronto con quella...

Scosse la testa. Doveva cancellare il ricordo, no?

Ringraziò quando gli fu portato l'antipasto di verdure grigliate e cominciò a mangiare con un sospiro sereno.

Gli sembrò che niente potesse andare storto, che la sua fosse una vita meravigliosa, sopra la media. Insomma, non molte persone potevano vantare uno stipendio come il suo. Era autonomo, poteva disporre di ciò che aveva come voleva, e per di più salvava vite.

Perché rimuginare su pensieri e ricordi di qualcuno o qualcosa che gli era capitato tra capo e collo quand'era troppo giovane per poterlo affrontare?

Non c'era alcun motivo, e in ogni caso adesso era tutto finito. Tutto finito.

Tutto...

« È venuto qui da solo? Le cerco un tavolo? »

« No, ho visto qualcuno che conosco, lo raggiungo. »

« Allora prego, si accomodi. »

Isa trattenne il fiato.

Aveva riconosciuto quella voce. Ma non era possibile, non era assolutamente possibile!

Non si voltò, per paura di veder manifestato il suo timore. Ma in ogni caso la sua maledizione su due gambe trovò la strada verso il suo tavolo e si accomodò alla sedia di fronte a lui senza chiedere il permesso.

È così che funzionano le maledizioni, perché se ne stupiva?

Il dolore non chiede il permesso, la sofferenza non si annuncia, gli incubi non si prevedono.

« Ciao. » Lea gli sorrise, condiscendente, come se sapesse alla perfezione di essere un pugnale conficcato nella sua vena cava che lo stava facendo morire lentamente dissanguato, e se ne scusasse. « Ieri sei scappato via alla velocità della luce e non abbiamo avuto modo di parlare. »

« Ti avevo detto che non avevo niente da dirti. » dentro di lui, Autocontrollo e Buon Senso si strinsero la mano. Era quasi incredibile il modo in cui era riuscito a rispondergli senza urlargli addosso, o senza avere una crisi di nervi.

« Sì, l'hai detto, ma...credo che ci siano cose di cui dobbiamo parlare e... »

« Cosa in “non ho niente da dirti” non riesci a capire? »

« Isa. » il solo pronunciare il suo nome con quel tono di voce, con quegli occhi fissi nei suoi, con quell'espressione da cucciolo adorante, lo riportò indietro a diciassette anni, quand'era ancora innamorato e...felice. « Ti prego, non ho mai avuto la possibilità di spiegarti le mie ragioni. »

Isa sentì un groppo stringergli la gola, così violentemente che per un momento temette di dover vomitare. Era un miscuglio di rabbia e risentimento, qualcosa che aveva provato a lungo subito dopo essere stato scacciato.

« Non voglio sapere le tue ragioni. » riuscì a mormorare, sommessamente, mantenendo una calma gelida tipica di chi non prova alcuna emozione. Eppure dentro ribolliva come acqua sul fuoco. « Hai fatto la tua scelta, hai voluto che uscissi dalla tua vita e me l'hai fatto capire abbastanza chiaramente. Non ti permetto di tornare dopo quindici anni per spiegarmi le tue ragioni. Non se ne parla. Non mi farà sentire meglio. E se vuoi tacitarti la coscienza, vai in chiesa a parlarne con il Dio di tuo padre, non con me. »

E fece per alzarsi, per l'ennesima volta digiuno o quasi. Stranamente era la cosa che più lo infastidiva di tutta quella storia. Doveva essere un buon segno, in qualche modo.

Lea, però, gli prese la mano. Il fiato gli si mozzò in gola, ogni pensiero fu annullato, e lui desiderò solo poterlo stringere di nuovo, poter intrecciare le dita alle sue, tornare su quel tetto lontano a guardare le stelle, azzerare il passato, il dolore, il rancore. Ricominciare ad amare.

Ma era pericoloso, doloroso. Spaventoso.

Nonostante tutto non riuscì a ritrarsi. Rimase invischiato nello sguardo di Lea, si perse ad osservare quelle labbra di velluto di cui conosceva ogni anfratto. Non erano cambiate, erano sempre le stesse, solo un taglio più adulto dava a quella bocca l'idea del tempo passato.

« Ti prego. Non voglio tacitarmi la coscienza. Dammi solo...la possibilità di spiegare. » Isa non rispose, né con un assenso né con un dissenso. Il cuore confuso scalpitava per andare via, per allontanarsi da tutto quello, ma allo stesso tempo spingeva verso Lea. « Il giorno del trasloco io...ero così spaventato. Mio padre ha sempre dimostrato di saper mettere in atto le sue minacce, e tu lo sai. » certo che lo sapeva, aveva ancora negli occhi il giorno in cui Lea si era presentato a scuola con un occhio nero e un dito rotto. Deglutì a vuoto, la stretta sulla sua mano si fece più forte. Ebbe la chiara consapevolezza di non volerlo lasciare andare di nuovo. Perché l'amore non muore mai? « Aveva giurato che ti avrebbe ucciso se ci avesse visti di nuovo insieme, e quando tu sei venuto a casa nostra...mi sembrava di impazzire, lui poteva tornare da un momento all'altro. Ero solo un ragazzino innamorato e stupido, Isa. Ho pensato che sarebbe stato meglio se mi avessi odiato piuttosto che vederti morto. »

« Perché non mi hai mai cercato in tutti questi anni? » la voce di Isa era funerea, cupa, piena di sentimenti oscuri che aveva paura di esprimere. « Perché non mi hai scritto almeno? Perché non hai provato a spiegare prima. »

« Non potevo. Non ho potuto. » stavolta fu Lea a stringere la presa sulla sua mano. « I due anni successivi al trasloco sono stati i peggiori della mia vita. Mi mancavi, da morire, e mio padre è diventato tirannico. Non voleva che si ripetesse lo stesso “errore” del passato. Ha fatto in modo che fossi isolato dal mondo. Chiudeva a chiave la mia stanza tutte le notti, c'erano le sbarre alle finestre, sono stato prigioniero in casa. Ho perso un anno di scuola e quando si è parlato di andare al college lui è...come impazzito. Sarei stato lontano dal suo controllo e non poteva permetterlo. Mi ha picchiato così tanto che pensavo mi avrebbe ucciso. Mi ha rotto le gambe per impedirmi di andarmene di casa! Era completamente fuori di testa. »

« E tua madre? Perché non ha chiamato aiuto? »

Lo sguardo di Lea si oscurò, come se su di essi si fosse addensata una nube temporalesca. Lo trovò bello, mortalmente bello, e desiderò poter cancellare quell'espressione dal suo volto.

« Mia madre...era...fragile. Si tolse la vita poco dopo essere arrivati nella nuova casa. Con me era un tiranno, ma era con lei che sfogava tutte le sue frustrazioni. Semplicemente smise di lottare, e non riesco a fargliene una colpa...anche se mi lasciò in mano a quel mostro. »

« Non...non ne avevo idea. »

Lea però sorrise, un sorriso triste ma pur sempre un sorriso.

« Lo so. Non è mai stata colpa tua. Volevo proteggerti, ma l'ho fatto nel modo sbagliato. » poi sospirò. « Quando ho compiuto vent'anni sono riuscito ad andarmene da casa, ma le cose non sono...andate come previsto. Senza titolo di studi, senza soldi, senza lavoro, ho finito col prendere una brutta strada. »

« Avresti potuto cercarmi, ti avrei aiutato. »

« Ci avevo pensato, certo. » annuì lui, mesto. « E l'ho anche fatto. Ma come potevo tornare da te in quelle condizioni? E con quali pretese? Mi avresti scacciato più di come hai fatto adesso. Eri uno studente promettente, con un futuro brillante, non potevo rovinare la tua ascesa, non me lo sarei mai perdonato. Però ho cercato di rimettermi in carreggiata, mi sono iscritto al community college, ho trovato un lavoretto part time, un monolocale che rispondeva alle mie esigenze. Ma non ero ancora...pulito. Ogni volta che mi guardavo allo specchio dicevo a me stesso “domani è il giorno giusto”, ma domani non arrivava mai. Mi sentivo...uno scarto, non potevo presentarmi a te. Prima che me ne rendessi conto sono passati cinque anni, poi dieci...mi sembrava troppo tardi per cercarti. Tu dovevi avere la tua vita, avevi il tuo presente, io non potevo più farne parte, era passato troppo tempo. Ho sfruttato quel poco che sapevo fare e dato fondo a tutto il mio denaro per comprare quel furgoncino, e ho avviato un'attività. Guadagno quanto basta, mi diverto, sfrutto le mie doti naturali ma...non ho mai smesso di pensarti. E quando ti ho visto ieri sera...credevo fossi un miraggio, sai respiro olio per friggere tutti i giorni, magari mi aveva dato alla testa. » diede in una risatina senza allegria, solo per spezzare la tensione. Isa pendeva letteralmente dalle sue labbra. « Mi è stata data una seconda possibilità, non potevo sprecarla. »

« Lea...io non... »

« Lo so. » con il pollice gli accarezzò la mano, lentamente, come se stesse godendo della sensazione. « Sono tante informazioni tutte in una volta, di certo ti sentirai confuso. E certo, non pretendo che tu mi perdoni. Cioè, io non mi perdonerei credo. Però...ho potuto parlarti di nuovo, e adesso che sai tutto mi...sento meglio. Non prenderla a male, non intendevo raccontarti questa storia solo per dormire meglio stanotte, tu...sei ancora importante per me, volevo che lo sapessi. Tutto qui. »

« Sei ancora un gran chiacchierone. » sbuffò Isa, scuotendo la testa.

Non aveva lasciato la sua mano neanche per un attimo. Lentamente intrecciò le dita alle sue, come quando erano bambini, come quando erano innamorati, e ritrovò lo stesso calore, lo stesso conforto. Come se il tempo non fosse mai passato davvero.

Lo sentì trepidante sotto il suo tocco, in attesa di qualcosa che per anni avevano sperato entrambi senza saperlo.

Ma Isa non poteva dargli quello che voleva, come non poteva darlo a se stesso. Non ancora almeno.

« Ordina qualcosa. Qui si mangia bene. » gli disse, allontanando la mano dalla sua con gran disappunto di una piccola parte di sé.

Lea sembrò caduto dal pero. Batté le palpebre lentamente e annuì.

Il cameriere portò i piatti ad Isa e prese il suo ordine.

Nonostante il silenzio tra loro c'era qualcosa che non li faceva sentire a disagio. Forse era la consapevolezza di essersi ritrovati, la sicurezza di non avere più conti in sospeso, o la sensazione di respirare un amore che sapeva di nostalgia e naftalina, come un vecchio abito in uno scatolone lasciato in soffitta. Potevano ancora indossare quell'abito.

 

Rimasero a parlare del più e del meno per delle ore. La complicità tra di loro non era sparita era solo cambiata, maturata, diventata adulta insieme a loro.

Non toccarono mai argomenti che potevano farli scattare sulla difensiva, non parlarono mai di quello che era successo tra loro.

Dovevano comunque riempire un grande vuoto temporale tra loro, quindi non si sentì la necessità di addentrarsi in sentieri sconnessi.

Per tutto il tempo Isa pensò a Lea come a qualcosa di indefinito, un fuoco fatuo incontrato nel buio di un bosco.

Non sapeva di avere tanta necessità di lui finché non era tornato nella sua vita. Si era sentito così sperduto e solo, come un bambino che gioca a fare l'adulto, in quel mondo troppo grande da affrontare senza il suo calore.

Adesso era tornato, non come una maledizione, ma come una benedizione. Poteva un angelo mascherarsi da demone? E viceversa?

Nonostante fosse ancora restio ad aprirsi a lui, sapeva di averlo perdonato nell'istante in cui le loro mani si erano unite.

Tutto quell'astio che aveva provato nel tempo in cui erano stati lontani era come sparito.

Si sentiva vulnerabile, di nuovo, si sentiva esposto, di nuovo, si sentiva...vivo. Era sempre stato così con Lea.

Sin dal primo momento in cui l'aveva visto, quand'era troppo piccolo per capire quale fosse il sentimento lo spingeva verso di lui, gli aveva sempre causato un sommovimento interiore che non aveva mai capito fino in fondo.

Con una chiave speciale Lea apriva porte sigillate dentro di lui.

Ritrovò il sorriso mentre parlavano, prese del vino, lui una birra, lasciarono che le loro dita si incontrassero più volte sul tavolo, come fosse perfettamente naturale.

Il tempo passò più velocemente di quanto desiderasse, e quando rialzarono la testa, concentrandosi su qualcosa di diverso dei reciproci sguardi, si resero conto che erano già passate le quattro.

Lea si stiracchiò, gettando le braccia verso l'alto come un gatto.

« È stato bello. » sorrise. Quella fossetta sulle guance quando sorrideva, quando sorrideva davvero, c'era ancora. « Ti...piacerebbe vederci ancora qualche giorno? Sempre se il tuo compagno non si arrabbia che esci con il tuo ex. »

Gli occhi smeraldini sondarono a lungo la sua espressione prima che Isa sbuffasse dal naso e incrociasse le braccia al petto.

« Lo sai che frasi del genere le usano i ragazzini per capire se la loro “preda” è fidanzata o meno? »

« Non so a cosa tu ti stia riferendo. » commentò Lea, una mano sul cuore come fosse indignato da quell'insinuazione.

Isa alzò gli occhi al cielo e scosse la testa. Certe cose non cambiavano mai, a prescindere dal tempo. « Non ho nessun compagno che possa arrabbiarsi perché esco con il mio ex. »

« Oh...sul serio...? »

« Perché la cosa ti stupisce tanto? »

« Beh sei...obbiettivamente affascinante, hai un buon lavoro, una bella casa immagino, e anche una bella macchina. Pensavo che ci fosse la fila. »

Voleva essere un modo carino per scherzare, ma Isa storse il naso. Il motivo per cui non aveva avuto nessuno in tutti quegli anni ce l'aveva di fronte, ed era difficile adesso ammetterlo. Con se stesso almeno.

« Ho preferito concentrarmi sulla mia carriera. »

« E adesso vuoi ancora concentrarti sulla tua carriera? »

C'era qualcosa di caldo e attraente negli occhi di Lea che fece rabbrividire Isa come non succedeva da tempo. Era come quando lo sbirciava di nascosto a scuola, quando pensava di non essere visto, o quando seduto al tavolo in mensa cercava la sua figura in lontananza. Era una sensazione familiare e nuova al tempo stesso.

« Chissà, forse voglio concentrarmi su qualcos'altro. »

Lea diede in una risatina, mentre il cameriere portava il conto.

 

*

 

« Daaai altri cinque minuti. » un mugugno da sotto le coperte.

Fuori faceva abbastanza freddo da gelare le finestre, il vento soffiava con forza facendo tremare le imposte. Era difficile trovare la voglia di alzarsi dal letto, figurarsi se lui si aggrappava così alla maglia del suo pigiama.

« Lea, non fare il bambino, devo andare a lavoro. » ma c'era un sorriso nascosto in quelle parole.

Lea mugugnò ancora, e finalmente tirò fuori la testa dal piumone.

Quegli occhi erano sempre lucenti seppur assonnati.

« Ti preeeego, senti che brutto tempo fa fuori, rimaniamo a leeetto! »

Isa rise e tornò a sedersi sul bordo del letto. Con una mano affondò nella massa scomposta di capelli rossi. Sembravano insensibili allo scorrere del tempo, non si riusciva a trovarne uno bianco neanche cercandolo. Cosa che non poteva dire di se stesso, ma non se ne crucciava.

Invecchiare con Lea era tutto quello che aveva sempre desiderato.

Si abbassò per lasciargli un bacio sulle labbra. Non si sarebbe stancato mai di farlo.

« Ho un intervento importante oggi. Cercherò di fare in fretta. Tu non ha intenzione di andare al locale? »

« I ragazzi ce la fanno senza di me. » borbottò il rosso, strusciando la testa contro la sua mano, come un grosso gatto rosso.

« Dici così tutti i giorni. Lo farai fallire così. » di nuovo, nella sua voce c'era una risata. Era impossibile rimanere seri davanti a quell'uomo-bambino.

Quanti anni avrebbe dovuto avere prima di comportarsi come avrebbe dovuto?

Isa sperò che non ne bastassero cento, perché lo amava così com'era.

« Fin ora non è successo, e sai perché? Perché tu sei un genio in sala operatoria, ma io sono un genio in cucina. »

Si ritrovò ad alzare gli occhi al cielo ma non poté resistere dall'abbassarsi per dargli un altro bacio.

« Magari potresti portarmi in ospedale uno dei tuoi meravigliosi piatti, signor genio della cucina, perché sarò di certo affamato dopo l'operazione. »

« Non sarebbe una cattiva idea. » il rosso si stiracchiò nelle coperte mentre Isa si avviava verso il bagno.

« L'hamburger di tacchino... »

« Patate dolci, panna acida, dopo dieci anni direi che ti conosco. »

La risata baritonale di Isa rimbombò contro le piastrelle del bagno.

Si guardò allo specchio mentre pettinava i capelli. Da giovane aveva amato la sua chioma di zaffiro, e l'aveva fatta crescere fin sotto le spalle, ma adesso preferiva portare un taglio corto, più pratico e professionale. Stavano sbiadendo, tendendo al grigio, ma avevano un loro fascino. Gli occhi tendevano tanto verso l'ambra da aver quasi perso ogni sfumatura di verde, e avevano una luce vigorosa.

Con la barba tagliata di fresco, il suo viso spigoloso appariva più volitivo e giovanile, nessuno avrebbe detto che aveva superato i quaranta, e vestito di tutto punto emanava un'aura severa ma giusta. Adatta al suo mestiere e alla sua carica. Non era diventato direttore vestendo con jeans e felpa.

Recuperò la valigetta e il cappotto.

Lea era ancora sotto le coperte. Alzò per l'ennesima volta gli occhi al cielo e afferrò un lembo del piumone per poi tirarlo, scoprendo il compagno, che gemette come un bambino, rannicchiandosi su se stesso.

« A lavoro, forza. » lo sgridò Isa.

Pian piano Lea si alzò, strusciando un occhio. Con quei capelli scompigliati sembrava un ragazzino. Isa non poté fare a meno di chiedersi di nuovo se sarebbe rimasto un ragazzino per sempre.

« Guarda che ti chiamo prima di entrare in sala operatoria, e se non sei già sulla strada per il ristorante... »

« Sì, sì, ho capito. » borbottò Lea, trattenendo uno sbadiglio. « Bacio? »

Isa sospirò, fintamente scocciato, e si avvicinò a lui per dargli un altro bacio. Fu preso alla sprovvista quando Lea lo catturò con passione, stringendogli il viso come se non avesse intenzione di lasciarlo andare e stuzzicandogli le labbra con la punta della lingua.

« Buona giornata amore. » sornione, lo lasciò andare, schizzando in bagno con una risatina. « Ti amo! » gli urlò, come se se lo fosse ricordato all'ultimo istante.

Isa scosse la testa, sorridendo. « Ti amo anch'io. » e uscì di casa.

L'amore è un sentimento strano.

 

Il freddo era pungente, il peggior inverno degli ultimi anni. Entrava nelle ossa, faceva battere i denti, poco importava quanti strati di vestiti si avesse addosso.

Il cielo era nero, carico di neve, da un momento all'altro le temperature sarebbero precipitate e avrebbe cominciato a fioccare.

Era in giornate come quelle che Isa si sentiva fortunato ad avere Lea al suo fianco. Lui era sempre così caldo, con una temperatura più alta della media come se bruciasse di febbre. Era meraviglioso abbracciarlo, o anche solo stargli vicino.

Oh certo, non era l'unico motivo per cui si sentiva fortunato ad averlo al suo fianco, ma era divertente prenderlo in giro a riguardo.

Era stato difficile, i primi tempi, abituarsi ad averlo nuovamente nella sua vita, ad uscire con lui, a sapere che occupava un posto così importante nel tessuto dell'esistenza. Si era innamorato di nuovo di lui, ma più forte di prima. Forse era perché non aveva mai smesso davvero di amarlo.

Erano andati a vivere insieme poco tempo dopo, e quando avevano avuto il coraggio si erano fatti a vicenda la domanda.

Ricordava ancora com'era imbarazzato Lea con lo smoking di fronte al giudice di pace, quasi aveva sussurrato “lo voglio” come per non farsi sentire dai presenti.

A volte Isa si ritrovava ad osservare la fede al dito e si stupiva: quando ci era arrivata?

Ormai era lì da cinque anni, eppure gli sembrava sempre come il primo giorno.

Le strade non erano ancora gelate, ma già gli spazzaneve cominciavano a spargere sale, in misura preventiva. Quell'inverno non avrebbe lasciato requie per nessuno.

Arrivò all'ospedale puntualissimo, tanto che perse qualche istante per chiamare Lea. Per sua fortuna si era alzato e anche lui era sulla strada per il lavoro. Si era risparmiato una punizione.

Per fortuna l'interno della struttura era caldo e accogliente, nonostante il puzzo di disinfettante che copriva tutto il resto.

Già mentre si avviava alla sua stanza fu assalito da un gruppetto di infermiere con annesse cartelle cliniche di casi a cui doveva dare un'occhiata. I medici caporeparto dell'ospedale chiedevano spesso un consulto, e se poteva dava volentieri una mano, ma quel giorno dovette rifiutare e rimandare ad un momento migliore: il suo paziente lo aspettava.

Un tumore così grande nell'addome non gli era mai capitato di rimuoverlo, e sarebbe stato un lungo intervento, non voleva avere altri grattacapi.

Aveva già la mente concentrata sul caso, l'aveva studiato a fondo, giorno dopo giorno, notte dopo notte, aveva ben scolpito il percorso che avrebbero dovuto fare le sue mani, i suoi strumenti. Non sarebbe stato solo in sala, ma se il paziente fosse morto sul tavolo operatorio...beh, in buona parte sarebbe stata colpa sua.

Non poteva sbagliare.

Le probabilità di successo non erano dalla sua, ma confidava nelle proprie capacità e in quelle del suo team.

In pochi minuti fu pronto per la sala operatoria. Il cuore gli batteva all'impazzata ma era tranquillo, le mani non tremavano, sapeva perfettamente cosa fare. Un infermiere gli infilò i guanti sulle mani ben lavate, un altro annodò la mascherina.

Nulla era importante come quel momento.

Entrò nella sala operatoria. Qualcuno aveva acceso della musica classica che allentasse la tensione, Isa neanche la sentì, era un borbottio di sottofondo.

Lanciò un'occhiata ai suoi colleghi, il paziente era sul tavolo, il ventre esposto e pronto per la prima incisione.

C'era tensione nell'aria, quel genere di tensione che si taglia con il coltello...o con il bisturi, lo stesso che chiese all'infermiera che c'era al suo fianco e che brillò tra le sua dita sotto le luci in alto.

Respirò profondamente, socchiuse gli occhi per trovare la concentrazione, e poi appoggiò la punta tagliente sulla carne morbida.

 

Erano passate quasi cinque ore dall'inizio dell'intervento e tutto sembrava andare alla perfezione.

Non c'erano stati grossi problemi nel raggiungere la massa, ma separarla dai vasi sanguigni...quello era più difficile.

Ci stavano lavorando in tre ormai da un po' quando un infermiere entrò correndo in sala, la mascherina davanti al viso, visibilmente sconvolto.

« Dottor Karalis. » non strillava, ma la sua voce era tesa come la corda di un violino.

Isa lo zittì con un gesto della mano. Prima di rivolgergli la sua attenzione tranciò pian piano una vena cauterizzata. Attese un istante ancora, per vedere se sanguinava. Quando vide che il taglio era avvenuto con successo, sospirò e alzò gli occhi verso l'infermiere.

« Cosa c'è? Sono parecchio occupato al momento. » era infastidito. Il troppo stare in piedi e la tensione stavano mettendo a dura prova i suoi nervi.

« C'è un emergenza al pronto soccorso. »

« Ci sono tanti altri medici al pronto soccorso. » commento lui, sollevando le sopracciglia.

Davvero voleva interrompere un intervento così importante per una qualche emergenza in pronto soccorso?

E proprio adesso che stava per finire tra l'altro. Un'altra ora al massimo e sarebbe stato libero di andare.

« Dottore, non ha capito, è davvero un'emergenza. »

Perché il cuore cominciò a battergli in petto più velocemente?

Gli occhi dell'infermiere erano lucidi, le mani contratte come se stesse trattenendosi.

« Cosa succede? »

« Suo...suo marito dottore. È...grave. »

« Quanto tempo. »

« Dottore... »

« QUANTO TEMPO? »

« Non molto...se non si sbriga potrebbe... »

Non lo lasciò finire.

Lo sapeva, lo sapeva perfettamente, se se ne andava adesso non sarebbe mai più tornato ad operare, probabilmente l'avrebbero licenziato, o peggio, radiato.

Lasciare un paziente aperto sul tavolo da lavoro non solo non era professionale, ma andava contro il giuramento che aveva recitato quando si era laureato.

Ma non gli importava. E sembrava non importare a nessuna delle persone in quella sala.

Non alzarono neanche la testa quando lui gettò bisturi e guanti insanguinati da una parte per correre fuori, né dissero una parola, né sembrarono notare la sua assenza. Avrebbero negato fino alla morte anche in tribunale, perché sapevano che avrebbero fatto lo stesso se fosse successo a loro.

Isa corse fuori, le gambe spinte dalla disperazione.

Non era possibile, non poteva crederci. Quando era successo? Perché stava succedendo?

La voce dell'infermiere che era andato a chiamarlo gli stava dicendo qualcosa, lo sentiva confusamente oltre il sibilare del suo sangue nelle orecchie.

Un incidente, la strada ghiacciata, perdita di controllo, testacoda.

Il resto si perse in un nugolo di pensieri.

Nel riflesso dei vetri rivide un sé diciassettenne correre per i lunghi corridoi della scuola. All'epoca aveva provato lo stesso confuso sentimento.

Il respiro si fece grosso, il dolore insostenibile.

Paura.

Si accese in lui come una fiamma.

Dov'era nascosta? In quale anfratto?

Paura. Paura. Paura.

« TOGLIETEVI! »

Scansò malamente un paramedico e di nuovo, come la prima volta, sentì il mondo crollargli sotto i piedi.

Lea, steso su quel lettino, il collare da trauma stretto intorno al collo, la maglia inzuppata di sangue.

Cercò i suoi occhi e li trovò...assolutamente vigili. Fissavano il soffitto perché non sapevano su cos'altro posarsi.

« Amore. » entrò nel suo campo visivo e i suoi occhi smeraldini divennero lucidi. Provò a parlare ma non riuscì, un eccesso di tosse gli fece sputare sangue.

Un'emorragia interna, doveva essere portata in sala operatoria immediatamente.

« Trovatemi una sala libera, adesso! » strillò.

I medici e gli infermieri si affannavano intorno a loro, mentre Isa rimaneva al suo fianco, dove poteva accarezzargli i capelli, dove poteva vederlo ed essere visto. Non voleva perdere un attimo il contatto visivo.

« Va tutto bene, adesso sistemo tutto. »

Lea tentò un sorriso, ma poi divenne pallido.

Gli occhi rotearono verso l'alto e lui perse i sensi. Un istante dopo gli apparecchi elettrici urlarono con i loro bip bip bip bip che il cuore si era fermato.

Le mani di Isa si mossero senza il controllo del cervello, collegate all'abitudine e all'esperienza.

Cominciò immediatamente il massaggio cardiaco mentre urlava ad un'infermiera di preparare il defibrillatore.

« Non farmi questo, non farmi questo, non farmi questo. » mormorò, come una litania.

Perché aveva la vista appannata? Non riusciva a vedere nulla, come se avesse un velo sugli occhi.

La sua parte logica cercò subito una spiegazione scientifica, ma quando sentì l'umido lungo le guance capì che si trattava solo di lacrime. Stava piangendo.

Un flebile bip annunciò che il cuore era ripartito, un istante prima che venisse defibrillato. Questo era un bene, concluse la mente medica di Isa, era un bene se non aveva bisogno di uno stimolo esterno.

Lea riaprì piano gli occhi, ora più confusi, lontani. Era troppo pallido, troppo pallido.

« Portate una sacca di sangue AB positivo, ha bisogno di una trasfusione! »

Le ruote della barella scivolavano lungo il corridoio di linoleum, quasi sfondò la porta della sala operatoria.
Isa stava già indossando i guanti bianchi quando la presa, debole e tremante, di Lea lo bloccò.

« Ho...perso... » sussurrò, così flebile che Isa dovette abbassarsi sulle sue labbra per capirlo.

« Amore, non sforzarti, non parlare. Ci vorrà poco, okay. Adesso ti facciamo dormire. »

Lea tentò di scuotere la testa, le sopracciglia aggrottate.

« Ho...perso...non ho...mai scoperto qual...qual è... » chiuse gli occhi per un attimo, respirare gli faceva male, ma poi tornò a guardare il compagno. « ...la cosa di cui...hai più paura al mondo. Tu sei...senza paura. »

D'un tratto Isa tornò su quel tetto, quella notte, tornò all'età di nove anni, la manina intrecciata a quella di Lea.

Isa, qual è la cosa di cui hai più paura al mondo?”

« Non è vero, Lea, non è vero. » una mano andò ad accarezzargli i capelli. Com'era freddo adesso. Dov'era il suo calore?

Qualcuno chiamò il suo nome mentre un medico preparava Lea per la trasfusione.

« Non hai perso amore, non hai perso. Sei tu, sei tu. » il rosso chiuse gli occhi, le macchine ricominciarono a strillare.

Si gettò sul suo petto, premette con forza per far ripartire il cuore, defibrillò, una, due, tre volte.

L'elettrocardiogramma continuava ad essere piatto.

« Paura di perderti. » la scarica elettrica fece inarcare il corpo di Lea sul tavolo operatorio. Le lacrime ormai inondavano i suoi occhi tanto da non permettergli di vedere quel che stava facendo. « È questa. È questa la cosa di cui ho più paura al mondo. »

Piatto.

La macchina emanava un lungo, lento, sconfortante suono.

Le braccia gli ricaddero lungo il corpo, il defibrillatore si ruppe quando gli sfuggì di mano e cadde a terra.

I presenti in sala sembravano come immobilizzati, rimasti nell'osservazione di quel dolore di cui potevano vedere soltanto la superficie.

Non riusciva a non guardare il volto di Lea, bianco, pallido, immobile. Il profilo dritto del naso, la curva delle labbra, i tatuaggi sulle guance. I capelli erano più rossi del suo sangue. Impregnava qualsiasi cosa, le sue mani, i suoi abiti, le mani di lui, gli abiti di lui. Gli scivolava addosso, gli pungeva l'olfatto.

All'anulare sinistro di Lea brillava la fede, come una fiamma gialla in tutto quel rosso.

« Ora del decesso 14:05. »

Non aveva mai avuto paura perché la sua paura gli era sempre rimasta accanto, l'aveva messo a suo agio, l'aveva compresa, si era fatta amare di un amore disperato e profondo, doloroso, bruciante, era entrata dentro di lui a tal punto che non l'aveva riconosciuta fino alla fine. Fino alla fine.

E adesso?

Di cosa avrebbe avuto più paura al mondo? 

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The Corner 

Ciao a tutti, 
torno sulla scena della letteratura con il boom, dopo un periodo di silenzio radio.
Giuro non ero morta e non lo sono tutt'ora, sono stata solo priva di ispirazione.
Spero, e penso, che adesso sia tornata.
Questa storia è comparsa all'improvviso nella mia mente ed è proprio come la volevo,
nessuno si è comportato diversamente da come avevo programmato, sono quasi sconvolta!
E per finire, questa è per la mia Musa, la quale agognava tanto un po' di sofferenza.
Eccotela servita, baby. 

Chii
 

   
 
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