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Autore: simocarre83    29/05/2017    1 recensioni
Secondo racconto che parte dopo l'epilogo del primo. quindi se volete avere le idee chiare sarebbe, forse, il caso di leggere anche il primo. Ad ogni modo, una brutta notizia che presto diventano due, due vittime innocenti, loro malgrado, nuovi personaggi e purtroppo nemici che compaiono o RIcompaiono. Ma sempre l'amicizia che ha, come nella vita, un ruolo fondamentale.
Genere: Drammatico, Fantasy, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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LA PROVA PIU’ DIFFICILE

Simone si svegliò sdraiato per terra. Sulla nuda argilla. Riconobbe subito quell’ambiente, anche se evidentemente non riusciva a capire esattamente dove si trovava. Era nella zona dei calanchi, collinette argillose che si trovavano a pochi chilometri da Policoro, nell’entroterra. Praticamente a metà strada tra i due centri abitati di Policoro e Tursi. La strada era scarsamente frequentata di giorno. Figuriamoci a quell’ora della sera. D’altra parte erano in piena campagna, e quella strada univa semplicemente Policoro con Tursi, esattamente come la ben illuminata e più sicura strada statale, per questo motivo preferita da tutti. Le uniche persone che avevano finito per passare da quella strada erano gli abitanti delle case di campagna che c’erano da quelle parti. E, comunque, a quell’ora erano già tutti a letto. Saranno state le dieci e a quell’ora, quelle poche persone che ancora, per lavoro, l’agricoltura, si svegliavano alle cinque del mattino, per vincere il caldo, erano già nel mondo dei sogni.
Era legato nello stesso modo di ventiquattro anni prima.
“Ecco! Lo sapevo che sarebbe finita così!” disse, o almeno pensò, perché non riusciva a parlare. Il solito giro di scotch. Fu solo a quel punto che ebbe, istintivamente, un sussulto, quando si accorse del fatto che l’ultima persona che aveva visto, prima di cadere vittima del sonnifero, era suo figlio. Giuseppe. che adesso non trovava più. Cercò di alzare il busto per orientarsi un po’ meglio.
In lontananza scorse il bagliore delle luci di Policoro, il che gli permise di orientarsi un pochettino meglio. Ma di Giuseppe non c’era neanche l’ombra. Un fuoco, acceso a cinque, sei metri di distanza, forniva l’unica luce che illuminava quell’ambiente.
Fu allora che si accorse di avere ancora i vestiti addosso. Almeno quello che rimaneva della tuta.
In quel momento sbucò, nel suo campo visivo, Marco. Simone immediatamente si agitò. Avrebbe voluto chiedergli dov’era suo figlio. Ma non riusciva a parlare. Invece, Marco gli puntò una pistola in fronte.
“Funziona sempre nello stesso modo. Se parli a voce troppo alta ti uccido!”
Alla risposta accondiscendente di Simone, Marco gli strappò il nastro adesivo dalla bocca.
“Che cosa vuoi da mio figlio?” chiese Simone.
“Da tuo figlio? Niente, praticamente! Voglio che faccia quello che voleva fare quando è partito dalla spiaggia. Voglio che combatta con il suo amico. Voglio che si picchino a vicenda. Voglio che raggiungano quella condizione in cui sicuramente uno dei due deve perdere la vita e voglio che solo allora Antonio si svegli, e Giuseppe conosca la verità!” rispose Marco, pietrificandolo.
“Ma come puoi essere così malvagio? Perché vuoi fare così male a Giuseppe? e ad Antonio? Vederli combattere accecati dalla rabbia, senza possibilità di smettere! Perché?”
“Voglio vedere la tua espressione quando vedrai tuo figlio capire la verità. Voglio distruggerti emotivamente. Voglio fare del male a te!” rispose sorridendogli.
Simone non sapeva a quel punto cosa rispondergli. Ed evidentemente Marco non si aspettava una risposta.
“Antonio è andato a prendere Giuseppe, che si sta quasi svegliando. Visto che nessuno deve sapere una cosa del genere, adesso tu starai zitto!” e così dicendo gli rimise lo scotch sulla bocca. Simone mugolò animatamente per qualche secondo, ma quando vide l’ombra di Antonio, un paio di bastonate ben assestate ricevute da Marco lo fecero desistere.
A Giuseppe venne restituito il casco, che prontamente, e contemporaneamente a Antonio, indossò. Entrambi accesero le tute. Antonio attaccò immediatamente. Giuseppe, appena accesa la pila extra, si difese dall’attacco dell’altro. Seguirono una serie impressionante di attacchi da parte di Antonio, a ripetizione. Giuseppe non fece altro che difendersi. Per più di un’ora, quella scena si ripeté. Attacco di Antonio, difesa di Giuseppe.
-perché non attacca?- pensò Simone –non è che magari ha capito quello che stavo per dirgli? E perché Frem non lo avvisa? Forse che questo territorio è schermato? Come per altro i sotterranei della radura? In questo caso, allora, Giuseppe, Michele e Roberto non possono venire a salvarci. Benissimo!-
Intanto la lotta continuò. Fino a che la carica della tuta di Antonio non terminò. Effettivamente non ci sarebbe potuto essere momento migliore per attaccare che quello, se avesse voluto. Solo che Giuseppe non voleva, evidentemente, perché anche a quel punto Giuseppe si limitò a fermarsi.
Poi, improvvisamente, si voltò verso Marco, provando a colpirlo. Fu allora che, con il solito telecomando, Marco, premette il pulsante ed anche la tuta di Giuseppe si spense.
Giuseppe si inginocchiò stremato. In quel momento Marco tirò fuori una pistola. “Questa è meccanica, quindi funziona ancora! Se fai un solo passo, prima sparo a tuo padre e poi ti uccido!” disse Marco senza permettere dubbi sulle sue reali intenzioni.
“Sparami allora, ma non farò mai del male a una persona innocente!” rispose, lasciando esterrefatto Marco. Ma anche Simone.
“Come?! Dai dell’innocente a quello che ha fratturato un braccio al tuo migliore amico? A quello che ti ha lasciato a morire sott’acqua, a quello che ti ha ingannato, a mio figlio?!” chiese Marco.
“Non sono io che gli do dell’innocente. Antonio è una povera vittima innocente di tutto questo!” rispose fermamente Giuseppe.
“E chi te lo dice?!” chiese, sempre più arrabbiato Marco.
“Semplice! Da quando sono arrivato alla stanza dove c’era Andrea, ho capito che c’era qualcosa che non funzionava. Prima di tutto la camera dove si trovava Antonio era completamente sigillata. Io non sarei mai potuto entrare in quel locale, il che significa che qualcuno aveva previsto di farlo fuggire, vivo. Il che significa che io non potevo salvarlo. Questo, unito al fatto di Andrea, mi ha fatto immediatamente capire che il vero nemico era lui. La conferma l’ho ricevuta, quando Antonio se n’è scappato. A quel punto Andrea mi confermò che Antonio era tuo figlio. Quella cosa mi sconvolse e mi colpì. Ma devo dire che mi fece pensare tantissimo. Effettivamente io non avevo mai conosciuto il padre di Antonio, solo la madre. Purtroppo per te, però, Antonio mi ha parlato di suo padre. Si ricorda, quando era piccolo, delle continue liti con sua madre. E sua mamma gli ha pure dimostrato che, preso da un attacco di gelosia nei suoi confronti, aveva chiesto un esame del DNA che ha dimostrato oltre ogni dubbio che lui era veramente il padre. Quindi ho capito che quello che aveva detto Antonio ad Andrea era una balla!”
Simone aveva da un pezzo incominciato a ridere sotto lo scotch. Senza farsene accorgere, ma era assolutamente felice di quella notizia, inaspettata quanto benaccolta.
Antonio invece era enormemente confuso. Sapeva di essere il figlio di Marco. Anche se evidentemente in quel momento qualcosa nei suoi ricordi era cambiato. Sapeva che quello che aveva creduto in quella giornata non era per nulla vero. Sapeva che non aveva alcuna base, aveva capito che era una bugia, ma non riusciva ancora a capire fino in fondo quale fosse la verità.
Giuseppe e Antonio si guardarono per qualche secondo fino a quando non sentirono una punta toccargli la gamba e una scossa elettrica fargli perdere i sensi. Era Marco. Immediatamente dopo liberò la bocca di Simone.
“Povero Marco! Con la mia famiglia non l’hai mai scampata! E neanche con i miei amici! È incredibile quanto poco tu possa contro la nostra intelligenza e contro il nostro spirito indomito!”
“Vediamo se riderai ancora dopo aver visto quello che vi farò tra poco!” rispose Marco.
E andò verso i due ragazzi. Prese dei sottilissimi cavetti, come quelli che Giuseppe aveva visto nella sua prova. Collegò lo spinotto ad uno dei due capi del cavetto, al casco di Giuseppe. Inserì l’altro spinotto ad un computer portatile, lasciato momentaneamente lì per terra.
Fece la stessa cosa con l’altro cavetto, però collegando al computer il casco di Antonio. Poi accese il computer.
Tempo altri trenta secondi e proprio quando Antonio e Giuseppe stavano riprendendo i sensi, Marco attivò il programma. Immediatamente le tute si mossero, contro la volontà dei loro proprietari, posizionandosi in piedi, con braccia e gambe divaricate. Antonio e Giuseppe, compresero immediatamente quello che stava accadendo.
“Papà! Perché mi fai questo?!” chiese Antonio. Non riusciva a capire il suo comportamento, come non riusciva a capire fino in fondo il comportamento di suo padre, Marco, qualche ora prima, quando mentre Andrea era già imprigionato nella tuta, suo padre l’aveva picchiato. E, anche se non aveva sentito quello che aveva detto Giuseppe prima, qualche domanda incominciava a farsela anche lui: perché non aveva così tanti ricordi di suo padre? Perché aveva solo dei flash di avvenimenti passati particolari, ma non aveva alcun ricordo della normalissima vita di tutti i giorni con suo padre? Chi era sua mamma? E Giuseppe era veramente così cattivo? A lui non sembrava, e non sembrava cattivo anche perché non aveva neanche provato a colpirlo, prima, nonostante il suo fisico gliel’avrebbe di certo permesso. Eppure nulla! Ed ora, quello che sapeva essere una cosa bruttissima, forse l’unica cosa della quale si era dispiaciuto in quelle ultime ore, quando l’aveva fatta a Andrea, quella cosa suo padre la stava facendo a lui.
Marco, senza neanche prestare attenzione alle parole di suo “figlio”, si rivolse direttamente a Simone.
“Quello che stai per vedere in funzione è lo strumento di tortura più semplice e facile da utilizzare che sia mai stato inventato. E ci ha pensato Giovanni, pensa! Mi basta selezionare il proprietario della tuta, cliccare su un punto specifico dello schema della tuta, che un segnale viene inviato alla tuta stessa e questa si muove, inesorabilmente, fino a provocare una frattura, proprio nel punto selezionato”.
Simone impallidì mentre sentiva Marco fare quella descrizione in modo così freddo.
“Anzi! Tu che sai tutta la verità!” disse Marco, rivolgendosi proprio a Simone “Ti do la possibilità di decidere chi sarà il primo a subire una frattura!”
Simone guardò Giuseppe, poi guardò Antonio. Sapeva che una sola era la risposta giusta. A rischio di incorrere in qualsiasi ira da parte di Marco.
“Non ti darò mai la soddisfazione di permettere a qualcuno di incolpare me per i danni che tu gli arrechi. Non posso fare una scelta del genere!” disse, offuscato dall’orrore di quello che stava accadendo. Anche se una risposta giusta, la risposta migliore, in quel caso, ci sarebbe stata. E Giuseppe se ne accorse.
“Perché! Devi scegliere! La risposta è ovvia! Papà! Devi scegliere! Scegli! Non puoi permettere che Antonio subisca ancora di più quello che gli è successo finora a causa di un lavaggio del cervello!” urlò Giuseppe.
“Ma come posso dirgli di fare questa cosa a te?!” chiese stizzosamente Simone.
“Va bene!” interruppe Marco “Allora significa che deciderò io che cosa fare!”.
Marco fece finta di fare la conta. E cadde su Antonio.
“Bene! Caro Antonio! È in arrivo una bella frattura dell’indice sinistro! Iniziamo da qualcosa di semplice!”.
Diede il comando. Giuseppe non poteva vederlo, avendo la testa, fissata dalla tuta, davanti a sé. E Simone decise di chiudere gli occhi, mentre aveva già incominciato a vedere Antonio che forzava in tutti modi quel movimento assolutamente innaturale del suo dito. Che inevitabilmente si concluse con un urlo che squarciò il silenzio dei calanchi. In sottofondo si sentivano solo Giuseppe che piangeva e Marco che rideva. Quando Simone riaprì gli occhi vide l’indice sinistro di Antonio piegato sopra il dorso della mano, giusto a metà della falange più grossa.
Antonio urlò finché ebbe fiato, ma non poté effettuare neanche un movimento.
“È troppo bello! E tu smettila di urlare, sennò quando ti fratturerò la tibia cosa farai, eh!?” disse, urlando, verso Antonio. Che stoicamente si riprese ritornando in silenzio.
“Ti prego, Marco!” disse a quel punto Giuseppe “non fargli più niente! Non c’entra niente! È solo un povero ragazzo, che non ha alcuna colpa! Colpisci me! Fammi tutto il male che ritieni opportuno, ma per favore, lascia stare Antonio!”
“Oh! Ma che nobiltà d’animo abbiamo qui! Ancora maggiore di quella di tuo padre! E pensare che anche tuo padre si offrì di essere picchiato al posto di Giuseppe, qualche annetto fa! È proprio vero che tale padre, tale figlio!” rispose Marco “E comunque non vale, perché deve essere tuo padre a dirmi che devo rompere un osso a suo figlio, piuttosto che non far soffrire ulteriormente un innocente!”
Giuseppe comprese che non era possibile fare altro. Almeno fino a che suo padre non fosse uscito da quello stato di disperazione mentale che lo attanagliava. Fu allora che gli venne un’idea.
“Papà! Ricordati il Jolly e l’Asso di Picche!” urlò, mentre, purtroppo, Marco stava selezionando l’indice della mano destra di Antonio. Questa volta si sentì il rumore dell’osso, e brividi scesero lungo la schiena di Giuseppe e Simone, mentre le urla di dolore di Antonio tagliavano l’aria.
“Allora lo vedi che non capisci niente? Non vedi che ci prova gusto a torturare Antonio? Lo vedi che non vede l’ora di spezzarti emotivamente e di ottenere da te il permesso di giocare un po’ con me? Possibile che sia così ignorante? Ignorante e egoista!” furono le parole che urlò Giuseppe. A suo padre.
Simone era bloccato. Non si sarebbe mai aspettato una reazione tale di suo figlio! Come si permetteva di trattarlo in quel modo!? Pensava che suo figlio lo stimasse e lo considerasse un padre fantastico! Anzi, più che pensarlo lo sapeva per certo, avendoglielo detto più volte proprio Giuseppe.
Fu l’assoluta fiducia in quella verità che lo convinse che sotto dovesse esserci qualcos’altro. E infatti, dopo pochi secondi, giunse alla conclusione corretta.
Capì, infatti, cosa c’entravano le due carte che gli aveva urlato!
-Ma allora questo significa che Giuseppe vuole veramente che Marco lo sottoponga a quella tortura! E perché? Un momento! UN MOMENTO! Ho capito!!-
Passò qualche secondo. Intanto Marco aveva smesso di ridere, e Antonio, aveva smesso di urlare, anche se era dall’inizio che non smetteva di piangere e di implorare che finisse quella tortura.
“E va bene!”. Marco si voltò mentre si accorse di ciò che aveva appena detto Simone. Anche Giuseppe sgranò gli occhi.
“Quello che hai appena detto non sono cose che un figlio dovrebbe dire al proprio padre! Marco! Puoi provocargli quanto più dolore è possibile!” disse Simone, con degli occhi pieni di odio.
“Ma che bella sorpresa! Sentito Giuseppe? Questo è il modo in cui ti considera tuo padre! È fantastico!” disse Marco guardando Simone.
In quel momento un leggero sorriso di intesa uscì da Giuseppe nei confronti di suo padre. Aveva capito il gioco delle carte. Ritornò immediatamente serio e sbalordito quando Marco voltò la testa nella sua direzione, solo per accogliere l’occhiolino che suo padre gli lanciò una volta uscito dal campo visivo di Marco.
“No! papà! Ti prego non farmi questo! Scusa! Scusa per quello che ti ho detto!” implorò Giuseppe.
-Certo che oltre a disegnare, sa anche fingere bene, quel ragazzo! Devo stare più attento la prossima volta che dice di essere dispiaciuto!- pensò Simone.
“Penso che romperti la tibia sia una bella fonte di dolore! Così impari a rispondere così a tuo padre!” continuò imperterrito Marco.
Fu il mezzo secondo più lungo della vita di Giuseppe. Non appena percepì, dai sensori del casco, che il programma di comando stava commutando il segnale sulla sua tuta, fece partire la scarica elettrica più forte che avesse mai potuto produrre. Il computer del casco segnalò una tensione raggiunta di circa 6000 Volt. In meno di un centesimo di secondo, la scarica partì dal casco, attraversò i cavi, oltrepassò la scheda madre del computer, rompendola, e si scaricò a terra attraverso il mouse e il corpo di Marco. Stordendolo. Ovviamente la potenza non poteva essere eccessiva, perché la carica nella batteria del casco di Giuseppe era quella che era. Ma bastò per mettere fuorigioco Marco per qualche minuto.
In quel preciso istante le tute persero la loro rigidità. Antonio cadde a terra contorcendosi ancora per il dolore. Giuseppe, ormai ben più rilassato, si inginocchiò, respirando affannosamente.
In quello stesso momento le comunicazioni con Frem si ripristinarono. Probabilmente era stato Marco, con la sua tuta a schermare la zona. Ci mise un millesimo di secondo, il super computer, per rintracciarli e avvisarli che pochi minuti dopo, Michele sarebbe arrivato a dargli una mano.
Per prima cosa, a Giuseppe toccò l’ingrato compito di sistemare le fratture di Antonio. Solo che prima di farlo, utilizzò lo stesso metodo utilizzato da Marco poco prima per addormentare lui e suo padre, per produrre lo stesso effetto in Antonio, che almeno non soffrì troppo, quando Giuseppe “operò”.
Poi corse immediatamente da suo padre. Passando vicino a Marco, ne approfittò per togliergli definitivamente il casco da vicino.
“Papà! Scusa se ti ho detto quelle cose!! Mi dispiace!” disse, mentre lo slegava.
“Oh! non preoccuparti. Anzi, scusami tu che non ho capito subito cosa avevi in mente!” rispose Simone, ancora un po’ confuso.
“Io pensavo che il fatto che Marco avesse detto che l’inventore di quell’aggeggio infernale era Giovanni, ti avrebbe fatto capire che c’era il modo di utilizzarlo per risolvere le cose a nostro favore!”
“Scusa, ma perché Andrea non l’ha fatto con Antonio?!”
“Eh! Perché Andrea non è capace di usarlo il casco! E poi era completamente impazzito dalla paura e da quello che la tuta stava facendo fare al suo corpo senza che lui lo volesse! A me, invece, è bastato accorgermi che tutte le funzioni del casco erano comunque attive per incominciare a pensare ad una soluzione alternativa. Allora ho provato a muovere la tuta, ovviamente senza riuscirci. Queste due cose mi hanno fatto capire che il computer bypassava il casco, ma questo era completamente attivo. Solo che non riusciva a comandare la tuta. A quel punto ho capito che, qualsiasi soluzione Giovanni avesse in mente doveva essere realizzata opponendo al computer il casco, senza preoccuparsi della tuta. quando poi, ho provato a scaricare Marco non ci sono riuscito, e ho capito che il programma doveva controllare la mia tuta, prima di poter agire nei confronti del computer!”
“Bravo! hai superato me quanto ad astuzia!” rispose Simone mentre si alzò e provvide ad indossare il casco.
“Grazie! Andiamo ora, prima che si svegli!”
“No!”
In quel momento Marco riaprì gli occhi.
“Giuseppe! Vola a casa! Portati Antonio. Accompagnatelo immediatamente in ospedale. Deve essere curato! Così puoi anche andare a vedere come sta Andrea! Io devo finire questa cosa una volta per tutte!”
E, mentre Giuseppe ubbidiva, andando a prendere in braccio Antonio, Simone si avvicinò a Marco.
“Papà! Che cosa vuoi fare?!” disse un Giuseppe più che preoccupato. Stava infatti vedendo negli occhi di suo padre uno sguardo che non gli piaceva per niente.
“Continuando come prima, ventiquattro anni fa, ho fatto una promessa. Gli ho promesso che se avesse di nuovo messo il naso nella mia vita, messo in pericolo la mia famiglia o i miei amici, gli avrei fatto del male. molto male. e io mantengo sempre le promesse!” rispose Simone. Questa volta, però, il messaggio, per Giuseppe, fu estremamente chiaro.
“E va bene! In fondo se lo merita! Buon divertimento!” gli rispose, prendendo contemporaneamente il volo.
Cinque minuti dopo era a casa, e, come aveva già immaginato, Michele già non c’era più.
“Lo so che vuoi uccidermi! Allora fallo e levati questo peso!” disse Marco, non avendo neanche la forza di guardare Simone negli occhi.
“Ti piacerebbe!?”
“Almeno non dovrei continuare a guardare la tua espressione orgogliosa!” rispose sarcasticamente.
In quel momento arrivò Michele con una macchina della polizia. Era solo. scese dalla macchina e puntandogli una pistola contro, si avvicinò a Marco. Simone, invece, continuò.
“No! non ti voglio uccidere! Come hai detto tu, sarebbe una liberazione per te. E non voglio assolutamente che tu sia libero. Devi pagare!” rispose Simone. E, prendendo lo stesso scotch con cui era stato imbavagliato fino a quel momento, gli tappò la bocca.
“Adesso mi ascolti! Voglio spiegarti un paio di cose!” cominciò Simone. Michele, intanto, tenendo sotto tiro Marco, gli impediva qualsiasi mossa.
“Hai sulla testa almeno la vita di dieci persone. compresi i tuoi complici. Senza contare le lesioni aggravate che hai provocato a noi e a loro. Sei riuscito a coinvolgere anche le nostre famiglie, i nostri figli in questa guerra. Non hai avuto pietà neanche di due persone innocenti, come Antonio e Andrea, che non avevano alcuna voce in capitolo. E, ancora una volta, come ventiquattro anni fa, non hai raggiunto nessun’obiettivo. Siamo stati più forti. Siamo sempre stati più forti di te. Non sei mai riuscito a farci più male di quanto te ne abbiamo concesso. Non sei riuscito a dividerci. Anzi, come i veri amici, quando c’è stato bisogno, sebbene non ci vedessimo da tanto tempo, ci siamo riuniti e come una grande famiglia, abbiamo combattuto e abbiamo, ancora una volta, vinto. Adesso dovrebbero chiuderti in una cella e buttare la chiave. Permettendoti di aprire la bocca solo per mangiare, in modo da non avvelenare nessun’altro, con le tue parole. Il bello è che noi, ufficialmente, non ci conosciamo. Perché agli occhi della legge siamo due persone sconosciute l’uno all’altro. Perciò, per me, questa storia è semplicemente finita qui. Tu finisci in galera, ed io, dopo questi due giorni pieni di fatica, posso godermi le mie vacanze. e ritornare alla mia vita. Addio!”
E, dicendo ciò, Simone si voltò verso Michele e gli fece cenno di chiudere quella cosa una volta per tutte. Michele lo prese e lo ammanettò. Poi, senza permettergli di parlare, anche se avrebbe voluto farlo, lo mise in macchina. Intanto Simone si cambiò, indossando una divisa della polizia, che Michele gli aveva consegnato, ed entrò in macchina. I due arrivarono fino a Matera, consegnando Marco direttamente al commissariato di polizia che c’era lì.
E poi se ne tornarono a casa. Intanto, Michele aveva chiesto a Giuseppe e Roberto di andare ai calanchi per eliminare tutte le tracce. Michele sapeva che nessuno avrebbe creduto ad una storia simile, e nessuno avrebbe dovuto saperla. Si inventò quindi una storia soddisfacente per non indurre la polizia ad avere ulteriori indizi su cui indagare. Avevano distrutto tutte le altre tute. Conservando i caschi, per la comodità di poter, velocemente, comunicare tra di loro. E con Frem.
Nessuno scoprì il montacarichi nella radura. La pressione dell’acqua aveva sepolto tutti quei cadaveri. Michele e Roberto si dovettero occupare, loro malgrado, del “fortuito” ritrovamento di tutti i corpi, che “inspiegabilmente” riaffiorarono in acqua nei giorni seguenti. A Michele dispiacque moltissimo, ma nessuno venne a sapere del segreto della radura. Trovarono, però, solo i cadaveri di Massimo, Giovanni, Cosimo, Dorian, Claudio e Jonathan. L’acqua di mare aveva cancellato tutte le tracce biologiche che potessero far capire chi altro era stato lì dentro. Il cadavere di Amaraldo non venne ritrovato. Michele decise di tenere quella cosa solamente per sé.
Andrea e Antonio, in un paio di giorni furono dimessi dall’ospedale, con un braccio e due dita ingessate. Intanto Frem aveva creato a d’hoc una storia credibile che giustificasse la loro presenza lì e il loro incidente, e dopo una mezz’oretta che erano a casa del loro amico Giuseppe, sentirono un forte sibilo, e si rialzarono come nuovi. Antonio vide cessare anche quell’incubo. Scordandosi completamente di Marco e di quello che gli aveva fatto. Verso la fine delle vacanze, Michele fu informato del fatto che Marco era riuscito a venire in possesso di un qualche oggetto in metallo, ed aveva provato a togliersi la vita, purtroppo riuscendoci.
Quanto a Simone, Maria e Giuseppe, Giuseppe, Anna e Simone, Michele, Roberto e Francesca, continuarono tranquillamente le loro vacanze, ben felici di potersele godere. E, alla fine di agosto, se ne tornarono a Milano felici, rilassati, contenti di aver risolto anche quel problema.
Simone ritornò al lavoro, e ricominciò la sua vita di sempre. O, almeno, ci provò. Perché appena aperta la posta dell’ufficio, si accorse che tra le più di 150 e-mail arrivate in quel mese, ce n’era una che arrivava da un indirizzo sconosciuto. Un certo Marco82 gli aveva scritto una brevissima e-mail. L’e-mail era del 5 Agosto.
 
"Se ho causato tutto questo è solo per quello che mi è successo in quei quindici giorni di vacanze natalizie, mentre eravamo in prima media. 31 anni fa. se leggerai questa e-mail, sarà perché avrò perso, e quindi probabilmente non sarò più in vita. Vi chiedo scusa.
Marco"

La lettera conteneva anche un allegato. Era un’immagine. Ritraeva una foto di Marco. Era in compagnia di un altro ragazzino, uguale e identico a lui. Stessa età, presumibilmente, stesso viso, stessa corporatura. Sembravano quasi gemelli. Erano appena fuori una villa, immensa. Ed era inverno. Fuori c’era la neve ed erano ben coperti.
Simone si prese un colpo. Ed in quel momento comprese solo una cosa. Inoltrò l’e-mail all’indirizzo segreto di Frem. E cancellò dal suo computer l’e-mail, sia quella ricevuta, sia quella inviata a Frem. Poi andò in bagno. In uno scaffale in alto, aveva conservato il casco della tuta. Lo indossò, accendendolo.
“Frem?!”
“BUONGIORNO! DIMMI!”
“Hai appena ricevuto una e-mail. voglio che la conservi e la utilizzi solo nel caso in cui si rendesse veramente necessario. Per quanto mi riguarda, voglio che mi cancelli la memoria degli ultimi dieci minuti!”
“SEI SICURO? HO VISTO LA MAIL, E APRE NUOVI INQUIETANTI SCENARI. NON SAREBBE MEGLIO INDAGARE?”
“Frem! È un ordine!” fu l’ultima parola di Simone. E Frem, agli ordini, non poteva disubbidire. Un sibilo confuse Simone per qualche secondo. Poi venne indotto in uno stato di semi coscienza, durante il quale si levò il casco e lo ripose al suo posto, riprendendo conoscenza solo quando fu uscito dal bagno e si fu seduto alla propria scrivania.
In quel momento, si riprese e continuò, tranquillamente, a leggere le e-mail che aveva ricevuto in quel mese di agosto. Decisamente una vacanza fuori dal comune e ricca di emozioni.
Ebbe, in quel momento, l’impressione di essere nel vuoto e di stare precipitando. In quel momento, ebbe la sensazione di qualche pericolo incombente. Ma gli passò. Subito. Diede la colpa a tutto quello che era successo in quegli ultimi mesi e, in parte, alla peperonata che aveva mangiato la sera prima.

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Buongiorno a tutti! Eccoci giunti alla fine di questo secondo racconto. Ovviamente avrò il piacere di sapere che cosa ne pensate, sia del capitolo, sia in generale di tutta la storia. per il momento, come per l'altro racconto, permettetemi di spendere mezza parola per spiegarvi perché mi è piaciuto scriverlo. devo dire che, contrariamente alla prima storia, questo racconto ha subito enormi cambiamenti dalla prima stesura, ho voluto inserire qualche elemento di "fantascienza" (quando non addirittura fantasy), l'introduzione di nuovi personaggi (nella stesura originale Roberto e Francesca non esistevano), ma soprattutto la scrittura delle ultime frasi che avete appena letto. cioè l'apertura di un possibile nuovo "filone di indagine" su tutta la storia di Marco. perché? beh! perché le storie non sono mai semplici, come pensiamo. e a volte, perché narrino di personaggi realistici, dobbiamo tener conto del fatto che nella realtà l'amicizia non è solo amicizia, e l'odio non può essere semplice odio. insomma... in questi mesi sto facendo in modo di tirare fuori una storia da quest'ultima paginetta di racconto. vediamo se ci riesco! a presto, sempre su questo canale!!! :)
  
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