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Autore: MadLucy    04/06/2017    5 recensioni
{Lucy Quinzel | Injustice: Gods among us reference | Lucy/Damian | what if}
Harley Quinn è triste perché non può fare la madre, Damian Wayne ha un messaggio da riferire e Lucy -di cui nessuno conosce il cognome- ha stretto un accordo.
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Damian Wayne
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Poi quell'ombra bionda entrava dalla porta, si tuffava sul suo lettino, le copriva la faccia di baci e le faceva il solletico. Quando Lucy le saltava in braccio, serrando le gambette alla sua vita, Harley la stringeva come se volesse conquistarla, ingozzarla d'amore, inculcarle l'ossigeno di quella maternità necessaria per entrambe, non sufficiente ad entrambe. Lucy si abbandonava sul suo petto, in pace; Harley cullava sulle ginocchia quella bambina bellissima e bianca come un foglio di carta. Cosa sperava di vedere in lei? Una minuscola Joker incorrotta, spurgata di quel gene distruttivo, che non sapesse soffrire. Ma non cercava nulla, si limitava ad accettarla, respirarla, contemplarla senza davvero convincersi che fosse sua fino in fondo, e sentendosi irradiare dal brivido di quella verità come una gioia, come una droga.
«Potresti fermarti per un po' a casa nostra.»
La voce e le parole di Audrey erano diventate meno gradevoli, da quando era nata Lucy, fin dal primissimo momento in cui Harley aveva chiesto di vederla e Audrey, dopo avergliela sfilata dal ventre, l'aveva guardata così, da sotto in su, come si guarda una che ruba. Harley carezzò la fronte di sua figlia, quella pelle di fiore, quel sudore dolce di bambina che gioca e dorme.
«Adesso è un periodo un po' difficile... Io e mister J abbiamo molto da fare. Quando le acque si calmeranno verrò a prenderla. Non posso lasciarlo a sbrigarsela da solo.»
«Ovvio che no.» Ancora questo sarcasmo, questo stridio. Harley la ignorò, toccò ancora quell'infanzia lattiginosa, quel batuffolo di cotone che russava silenzioso contro il suo corpo, e avrebbe continuato a farlo anche se il resto della realtà intorno si fosse sgretolato. Quando la restituì ad Audrey -il tempo che poteva passare con sua figlia era scaduto- mentre lei ancora dormiva per non farla piangere, avvertì quel senso di sconfitta, come chi confessa un crimine che non ha commesso, chi si accolla la responsabilità di un furto non suo. Harley si disse che quella dolcezza la levigava troppo, le restituiva troppa lucidità e saggezza, non le faceva bene.


*


Quando la porta si schiudeva cautamente e Harley sporgeva la testa all'interno dell'appartamento di sua sorella, Lucy spesso stava facendo esercizi sul suo tappeto giallo, si reggeva in verticale sulle braccia e congiungeva i piedi sotto la testa, oppure stava di schiena e per guardarla sporgeva il collo tra le gambe. Harley mostrava entusiasmo per ogni progresso, ogni figura nuova, applaudiva. Tredici anni sono un po' tanti per farsi tenere ancora in braccio, ma a volte Harley vinceva la sua ritrosia da vecchina adolescente e la tirava su. Non aveva mai cercato, no, però ogni tanto spiava in quel viso, in quei tratti: giusto per riconoscere qualcosa, un gesto, un modo di dire, una lentiggine. Lucy non faceva mai domande nè richieste, le offriva da bere, le parlava della scuola, senza molta euforia. Sembrava più adulta di Harley, forse perchè era meno allegra, forse perchè le trasgressioni non la divertivano.
«Non vi assomiglia. Assomiglia di più a me» rincarava infatti Audrey, dal canto suo, sembrava che gongolasse. Erano le uniche cose che ci teneva a ripetere, di fronte a Harley. Lei dal canto suo sorrideva, con una spavalderia che non si sentiva dentro.
«Niente che un vestito come si deve e un rossetto nero non possano rimediare.»
Ma Audrey si rabbuiava, insisteva. «Non vuole essere come voi. Le fate paura.»
«Non è tua figlia.» Harley sapeva che era ingiusto, sapeva che era ingrato, addirittura, però sganciava quella bomba, giocava quella carta, quella verità incandescente, adoppio taglio.
E Audrey afferrava quel coltello che le veniva lanciato e tagliava. «Allora prenditela, portala nei vostri covi a fare la puttana dei criminali.»
Harley si mordeva la lingua, taceva, invece avrebbe voluto urlare è questo che pensi di me, vero? Eppure era costretta ad avere torto un'altra volta.
«... lui ha già tante cose a cui pensare, al momento. Magari, tra un po'...»
Intanto studiava Lucy, cosa di lei avrebbe mai potuto interessare mister J? Una pupattola appena scesa dal suo scaffale, torpida, carina e pensosa, per nulla unica e per nulla banale, del tutto sana di mente? Sarebbe terminata lì dove terminava la sua utilità. Era davvero un destino a cui voleva destinare quella figlia delicata, quell'erede mal riuscita, con il suo DNA muto ed inespresso, che conteneva il ghigno di Joker ma non lo dipingeva su quel visetto imbambolato? Lei continuava ad andarsene di nascosto e Lucy continuava a far finta di non accorgersene, a fare gli esercizi sul tappeto.


*


Lo spogliatoio si era svuotato, ed era allora che Lucy iniziava davvero i suoi riti. Le piaceva così. Scioglieva il grumo di capelli zuppi imprigionati nello chignon, scollava la tela elasticizzata dal proprio corpo, la appallottolava nella borsa, avanzava con le piante dei piedi sulle tegole di legno limato delle ampie docce. Lo zampillo delle cipolle sopra la sua testa era frammentato in mille sottili rigagnoli pungenti, sempre più caldi, le picchiettavano la fronte. Lei si spalmava quello shampoo all'arancia, scioglieva via il sudore e l'indolenzimento dei muscoli, si ammorbidiva e poi usciva, pacificata, involta nell'asciugamano. Si vestiva. I jeans incespicavano sulla pelle bagnata. Stava riordinando le cose nello zaino, gli scaldamuscoli nelle tasca interna, la busta dei lacci in fondo.
«Non c'è più tempo.»
Se non fossero state le sillabe ritagliate in quella voce di cuoio, a palesarlo, sarebbe stato il carattere laconico e definitivo delle sue sentenze. Lucy increspò la bocca lunga e sottile, mentre le sue dita continuavano a muoversi come piccoli ragni ammaestrati sulle spugne, le barrette energetiche.
«Se non so di cosa stai parlando, non posso darti ragione.»
Suole di plastica bagnate su quel pavimento di linoleum. 
«Non ho bisogno che tu me la dia. Ce l'ho già» osservò Damian, pratico. Lucy si decise a voltarsi, dopo aver fatto calare misuratamente diversi secondi di inerzia. Serrò in un solo fendente di giudizio la sua figura bassa ma massiccia. I colori della terra ambrata nell'incarnato, nei capelli, le orecchie compresse al cranio, le alette del naso perennemente dilatate in un unico respiro pesante e fremente. La violenza della sua persona era diluita con vestiti da ragazzino, roba scarsa, il costume da Robin non sarebbe passato inosservato. Questo forse si ripercuoteva sul suo umore. Gli occhi, ferite nella pelle, schiacciati severamente sotto le sopracciglia. Lucy distolse lo sguardo.
«Non posso trattenermi a chiacchierare. Jenny sarà qui a minuti.»
Damian continuò a scrutarla, serio. «È fuori dalla palestra. Fra poco entrerà a verificare che fine hai fatto. La mia presenza ti mette a disagio.»
«Ciò che rappresenti mi mette a disagio» ammise Lucy, cingendosi il busto con le braccia. «Non è carino lasciare Jenny fuori al freddo.»
Il ragazzino fece una smorfia scocciata. «Ormai è tardi per pensare ancora al tuo surrogato di famiglia. Finirai in una tempesta mediatica che neanche immagini. E allora forse sarai contenta che io sia venuto da te, perchè avrai preso dei provvedimenti.»
Lei aveva uno stranissimo modo di sorridere, era come se la risata le sfiorasse le labbra solo di sfuggita, le baciasse per un istante, gli angoli accennavano alla curva e già si distendevano di nuovo in basso. Qualcosa di fioco e triste, frustrante. Si allineava con la sua immagine, alimentava il presentimento che fosse solo una manciata di luce tenuta insieme da un velo di cartilagine. Spariva facilmente. Ma era paradossale, tenendo conto della sua discendenza.
«Se hai un messaggio per me, limitati a riferirlo.»
Damian cominciò a girarle attorno, come un avvoltoio. Gli mancava il mantello.
«Non sono io, è Gotham che lo manda. Per quanto ancora credi di nasconderti fra le pecore?! Devi decidere da che parte stai. Sempre che il sangue a cui appartieni te lo permetta.»
«Io non ho i mezzi per arrogarmi il diritto di scegliere una parte. Non ho dei tirapiedi. Non ho nemmeno un soprannome strambo che rimanda alla commedia dell'arte. Non vado in giro di notte in calzamaglia a rapinare banche.» Lucy scosse la testa, fissando il pavimento. «Non presento nessuno dei requisiti indispensabili per diventare una protagonista in questa città.»
«Non è ciò che sei, è ciò che rappresenti
«Gotham non ha mai avuto bisogno di assoldare me, per divertirsi. Le cose non devono cambiare per forza.»
«Non fare finta di essere più stupida di quel che sei» brontolò Damian, «adesso è tutto cambiato. Prima nessuno sapeva. Ma una ragazzina da poter rapire è un capro espiatorio perfetto per ricattare qualcuno. E adesso gli altri sanno di te.»
Lucy gli afferrò l'avambraccio, esasperata dal suo muoversi in circolo. «Chi sa?»
«Chi di dovere. Chi ha i soldi per farci qualcosa sopra» sogghignò Damian. «Sei lo scoop della settimana. Bess e Sherry ti vogliono come terza componente delle nuove Gotham City Sirens. Non puoi dire di no, altrimenti saranno costrette ad ammettere Kitrina Falcone.»
Rimase con il braccio immobile sotto la sua stretta e la guardò, rimanendo come al solito perplesso. Era graziosa come uno zuccherino e amara come un caffè stagnante da giorni nella stessa tazza. Aveva degli occhi molto belli: non era per il colore, un turchese cupo cerchiato di blu, da prodotto in serie, ma la forma. Erano lunghi e languidi, leggermente affossati, all'insù. Sembrava un'orientale con i colori di una finlandese. Se non fosse stato per questa calma di sasso, di prateria più che di persona, sarebbe stata anche una compagnia migliore di altre.
«Non comprendo la loro necessità di emulazione. Cosa le porta ad essere, se non brutte copie?» mormorò Lucy.
«Sono state cresciute nell'idolatria» le fece notare Damian. Lo sguardo di lei si smarrì, vitreo come una polla d'acqua.
«Mio padre non sa nemmeno della mia esistenza. Almeno, non ne sono sicura. E se lo scoprisse, non gli importerebbe granchè. Le uniche volte che l'ho visto è stato alla televisione, quando zia Audrey non riusciva a cambiare subito canale. Lui mi ha lasciato nascere, lui mi lascerebbe morire.»
Damian esibì un sorriso furbo. «Harley Quinn no, però.»
Lucy aggrottò la fronte. La sua espressione continuava a rimanere, perlopiù, triste. E allarmata.
«Tenersi fuori dai guai, dal mio punto di vista, ha sempre significato non impiacciarsi in queste faccende. Non il contrario.»
«Quelli che non si schierano, alla fine, sono i più pericolosi.»
Lei sospirò, portandosi una mano alla fronte. «Non sono pericolosa, sono spaventata.»
«Non abbastanza, io credo.» Damian adesso era alle sue spalle. La voce che le inoculò nell'orecchio era un sibilo ruvido, sporco di quei bassifondi di infimo, laido inquinamento. «Immagina che qualcuno che ce l'ha a morte con i tuoi adorabili genitori scoprisse che tu sei figlia della Quinzel sbagliata, e non di quella che ti ha cresciuta.» La sua mano temprata dalle spade che contava le vertebre. «Adesso immagina che organizzi un attentato a tuo danno, e che questo attentato ti costringa per sempre sulla sedia a rotelle. Una disgrazia per chiunque, ma... per una ginnasta...»
Lucy lo sentì dentro, la forza esercitata nel momento flettente, la tensione dell'opposizione, la curva tremante della resistenza di un osso continuamente avvezzo ai rischi, come una canna di bambù; avvertì la schiena che si piegava come al solito ma che sbagliava qualcosa, che barcollava ed esitava nel riassestarsi, che si storceva in maniera inaspettata e che infine cedeva secca. Il rumore duro e profondo della rottura, che non è quello molle e umido dellalacerazione, ma uno scricchiolio che diventa tuono, di fibre compatte tranciate insieme, di cellule staccate. Di fine. Non era realmente successo, ma se lo percepì addosso come se fosse stato. Non era una fantasia nuova nella sua mente. A volte aveva avuto paura di questo -faceva quello sport da così tanti anni che sarebbe stato assurdo il contrario- ma non aveva mai pensato che la disgrazia avrebbe potuto non dipendere da lei. Damian decrittava il suo orrore, soddisfatto. Lucy si chiese perchè sembrasse così ferocemente deliziato dalla prospettiva di terrorizzarla.
«Cosa mi stai suggerendo?» concluse, sperando che la sua voce non suonasse intrisa di lacrime ricacciate nella gola.
«Di restituire la vita che ti hanno dato in prestito, ed imparare a guardarti le spalle» tagliò corto Damian. «Sta per arrivare qualcosa di grosso. Qualcosa che al confronto fa sembrare tuo padre un animatore di centri vacanze.»
Lucy inclinò il capo. «E così salverai questa città. Pensavo appartenessi alla setta di tua madre.»
«Non so più a chi appartengo» replicò il ragazzo, rigido. Lei gli sorrise ancora il suo sorriso fantasma.
«Forse non apparteniamo a nessuno.»
Damian la prese per i corti capelli biondi, la strattonò verso di sè e la baciò, un bacio aspro e brusco.
«Ti piacerebbe, vero? ma non è possibile per nessuno.»
Lei rimase tiepida, calma, e senza scomporsi lo ricambiò. Quando la lasciò si voltò verso la panca, mise il borsone sottobraccio, chiuse tutte le cerniere. «Senti, Damian-»
Quando tornò a girarsi, lo spogliatoio era nuovamente deserto. Lucy alzò lo sguardo al soffitto. Poi la porta si aprì e Jenny venne a chiamarla a gran voce nei corridoi gridandole di sbrigarsi, che facevano tardi per cena. La telefonata le giunse una decina di minuti dopo, quando camminavano a passo celere nel freddo di quell'autunno, imbottite nelle cuffie di lana. Lucy estrasse il cellulare ronzante dalla tasca del cappotto con le dita paonazze ed insensibili.
«Pronto.»
«È venuto?»
Lucy rabbrividì nel piumino. Il vento le entrava nelle orecchie.
«Sì, è venuto.»
«Sai che odio quando tutto va secondo i piani. Ho diffuso la diceria ad Arkham. Fra meno di dodici ore tutta la malavita di Gotham la riterrà una notizia ritrita.»
Più secondi passava al telefono, più l'inquietudine si impadroniva di lei. «Come ti pare. Cosa vuoi che faccia?»
«Alle cinque e mezza di domani ti verrà una gran voglia di farti un giro per Robinson Park. Così ce li avrai tutti addosso in men che non si dica.»
Lucy rispose al sorriso che Jenny le stava rivolgendo. «Andrà tutto... come previsto, spero.»
«Per caso non ti fidi di me, Lucy? Mi offendi. Io e te abbiamo un accordo.»
«Tienilo a mente.»
«Sei una figlia molto obbediente.»
Lucy riattaccò. Il freddo si faceva strada nella carne come un rampino nel ghiaccio. Desiderò tanto che questa storia finisse presto. Appena maggiorenne, avrebbe preso i soldi insanguinati di quel criminale e se ne sarebbe andata in Europa, dove nessuno sapeva niente, nè di lei nè di ciò che rappresentava. Quel traguardo all'improvviso pareva lontano, disseminato di ostacoli, di chilometri di bugie dette a zia Audrey, a Jennifer e Nicholas, a Harley. A Damian Wayne.
«Chi era?» le domandò sua cugina.
«... una compagna di classe. Com'è andata la giornata?»
















Note dell'Autrice: Su Injustice 2 è apparsa a maggio la prima Lucy Quinzel canon, e dovevo festeggiare. Se vi chiedete che fumetto segue questa fanfiction, nessuno, è puro delirio fanon.
Bess è Enigma, la figlia dell'Enigmista, e Sherry è la sorella dello Spaventapasseri a cui ho assegnato arbitrariamente una sopravvivenza e un nome legato alla sua storyline (...) Anche il nome della sorella di Harley non è mai stato detto, quindi è inventato.
Grazie di aver letto!
Lucy (abbastanza ironico ma non c'è self insert, grazie al cielo)
 
  
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