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Autore: Sunshiner    11/06/2009    5 recensioni
One shot di natura introspettiva, che immagina House e Cuddy, nonché Wilson, in una situazione estremamente delicata, durante l'ultima estate di uno di loro.
Genere: Romantico, Triste, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Greg House, James Wilson, Lisa Cuddy
Note: What if? (E se ...) | Avvertimenti: nessuno
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FAREWELL

"Farewell, non pensarci e perdonami, se ti ho portato via un poco d'estate." F. Guccini


– Buongiorno, Raggio di Sole. Sei in ritardo. Ah, se quella scollatura potesse parlare... –

– House... –

– Sono almeno tre settimane che folleggi: le tue labbra tacciono, ma le notti ruggenti lasciano il segno negli occhi impuri... –

– Bella. Di chi era? –

– Mia. –

– Bene. Adesso, per favore, lasciami in pace. Ho del lavoro da fare. –

Cuddy si allontanò sulle ballerine di vernice nera. Sembrava che sfiorasse il pavimento, invece di camminarci sopra.

Le ballerine.


– Ehi, Wilson! Congratulazioni, amico! –

Tutta la sala mensa si zittì. Wilson, incerto sul da farsi, si concentrò sulle uova al bacon, pregando che la frase che House stava per dire non fosse troppo imbarazzante.

– Hai pagato Cuddy o lei ha pagato te? Quando nasce? –

Ecco fatto. Adesso tutti, ma proprio tutti, si erano voltati verso Wilson.

– House, basta così... –

House marciò verso il tavolo dell'amico con quel suo passo sghembo. Si lasciò cadere sulla sedia vuota e tirò il piatto dalla propria parte, iniziando a mangiare. Il brusio ricominciò.

– Allora. E' quasi un mese che gira per l'ospedale senza i suoi soliti tacchi da escort di lusso. Arriva la mattina più stanca di come se n'era andata la sera. Ha delle occhiaie che sembrano pozzi senza fondo e viene a trovarti un giorno sì e uno no, sempre senza farsi notare troppo. E quando lei arriva, tu chiudi la porta a chiave. Lo so. Non dovresti cercare di fregarmi. –

– House, non è come pensi, davvero. –

– Guarda che non mi offendo. Voglio dire, chi prima arriva... –

– House, è che... Io devo andare. Scusami. – Wilson corse via senza guardarlo e sparì nella folla.

In quel momento, il cercapersone di House squillò. Dannazione. Si era appena ricordato del turno in clinica: il prezzo da pagare per una settimana senza casi.


– Buongiorno signor... Gates. La Microsoft non paga l'assicurazione medica oppure non vuole ridurre il suo bonus? –

Il neonato balbettò un versetto e si illuminò di un sorriso ampio e puro, gli occhioni blu fissi su House, che, interdetto, restò sulla soglia, la cartella aperta in mano.

– William ha un po' di febbre, il nasino che cola e anche la tosse... –

– E questo la autorizza a scrivere il diminutivo sulla cartella, al posto del nome? –

– No, è che tutti lo chiamiamo Bill a casa... Mi sarà sfuggito. – La giovane madre di Bill prese un grosso pacco di plastica dal fondo del passeggino.

– ...E poi c'è il problema della ca... – abbassò il tono, coprendo le orecchie al bambino – ...della pupù. Senta, senta che odore terribile... – cacciò il pannolino sotto il naso di House – ...e il colore. Questo non è un marrone sano! –

Circa cinque minuti dopo, House si lasciò alle spalle il caso di influenza, con ancora sotto il naso quel tremendo odore di cacca di neonato. Sano.

Fu una giornata lunga. La gente stava male, chi più chi meno. House prescrisse antidolorifici, antipiretici, elettrocardiogrammi e conte leucocitarie. Litigò con almeno due infermiere in due turni consecutivi, ordinò una ricarica di epipen per la sala visite numero tre e poi, senza aver incrociato nessuna faccia conosciuta o amica, imbracciò il casco e raggiunse la sua moto nel parcheggio. Non aveva dimenticato del tutto la scena della mattina, le scarpe basse e l'aria stravolta di Cuddy. Wilson pareva sincero. E poi Cuddy incinta di Wilson, non si poteva proprio sentire: le loro vite avrebbero preso una piega molto simile a General Hospital.

L'alternativa lo tormentò per qualche minuto. Ma pensò che non fosse sano crearsi dei film in cui le persone a lui care gli nascondevano malattie mortali.


Il giorno nuovo sorse su Princeton e illuminò quasi all'improvviso i tetti e le strade della città, i prati dei parchi e dei giardini e le finestre aperte di chi dava il benvenuto all'estate sulla costa atlantica.

Cuddy si rigirò nel letto per l'ennesima volta, la notte insonne ad appesantirle le palpebre, i cerchi viola sotto gli occhi stanchi. Era giorno pieno. Ogni mattina sentiva la consapevolezza del conto alla rovescia che batteva il suo ritmo inesorabile, scandendo il proliferare malefico della cosa dentro di lei, contando i battiti rimasti al suo cuore, i respiri ancora da assaporare.

Aspettava solo il risultato della risonanza, per confermare la certezza di quello che le si agitava dentro. Passò l'ora seguente accovacciata sul pavimento, nel bagno, la mano che premeva sullo sciacquone ogni due, tre minuti. Non fece colazione, sperando così di riuscire a controllarsi per qualche altra ora. Poi salì in macchina e guidò verso l'ospedale.

Parcheggiò vicino all'entrata e lentamente si avviò verso la grande porta a vetri.


– Lisa. –

– Ciao. –

Wilson non sapeva da dove cominciare. Con una persona che conosci è diverso. Non sai mai come fare a dirlo.

– Ma non mi dire. – Il tono glaciale e sarcastico lo colse di sorpresa.

– Che cosa... –

– James. – La voce di Cuddy si affievolì, assumendo una tonalità più dolce. – Non c'è bisogno di farne un dramma. Lo sapevamo entrambi. –

– Io, beh, i risultati sono arrivati stamani e... pensavo di studiarli un po' da solo, ma dovevo venire, capisci? E poi tu sei forte ed è un bene e comunque ho chiamato Boston, dicono che ti metteranno in attesa per un trattamento sperimentale e poi, oh Cuddy, è una cosa grossa e non... e beh, ecco... e House l'ha quasi scoperto ieri nel bar, ma non sapevo cosa dire... e... oh... no. Io... io non voglio. – Wilson crollò sulla poltrona, annientato.

– Jimmy. – Cuddy si sedette accanto a Wilson, cercando di resistere all'impulso di lasciarsi cadere a terra, dimentica del mondo intero. Strinse forte un cuscino per nascondere le mani che le tremavano.

– Lisa... mi dispiace da morire. Non so nemmeno cosa dire. I marker sono chiari e le cifre altissime. L'hot spot nel lobo frontale sinistro è inequivocabile, il che chiarisce anche la natura dei tuoi sintomi: la pressione... –

– ...la pressione intracranica provoca i mal di testa e la nausea. E il senso di disorientamento. Fammi vedere. – Lei prese dolcemente la cartella dalle mani dell'amico.

Impallidì. Non le restava che un paio di mesi, se avesse iniziato il trattamento immediatamente. Il tempo di un'estate. L'ultima estate della sua vita.

Wilson le cinse le spalle.

– Non avere paura, Lisa. Noi non... –

– Forza Wilson. Abbiamo da fare. – Cuddy si alzò di scatto, combattendo il capogiro che cercò di farla ricadere sul bracciolo della poltrona, su cui era appollaiata fino a pochi secondi prima. La giornata passò con una fretta demoniaca.


House fece irruzione nello studio di Cuddy. Erano appena le otto. Oh, se la piccola sgualdrina avesse saputo il piano di vendetta che aveva preparato per ripagarla del tiro mancino alla clinica. Estrasse il cacciavite dalla tasca della giacca. I cassetti avrebbero avuto la loro mezz'ora di gloria. Abbassò le tendine e si preparò ad armeggiare in solitudine con i pezzi della scrivania. Lei era, come al solito, nello studio di Wilson. Dove altro avrebbe potuto...

...Certo. Dove altro avrebbe potuto essere. La domanda diventò una certezza, quando la cartella blu scivolò fuori da sotto una pila di fogli messa lì ad arte.

Lesse tutto, da cima a fondo, un paio di volte.

Poi passò alle cifre. Altissime.

E infine guardò bene l'immagine.

Uscì dallo studio, lasciandolo intatto, la mano in tasca, stretta attorno al manico del cacciavite inutilizzato. La cartella riposava di nuovo sotto la pila di fogli, come se nessuno l'avesse mai tolta dal suo nascondiglio.

E così, era questo che gli nascondeva. Non perse tempo a chiedersi perché: da lui ci si aspettava solo derisione e sarcasmo, niente manifestazioni di sfacciata ipocrisia. Si sentì ferito, ma non dal silenzio della sua migliore amica, della donna che era sulla terra apposta per dare vita ai suoi giorni. Si sentì ferito dal proprio modo di essere, che scoraggiava tanto una confidenza sincera, quanto una richiesta d'aiuto. Pensò con nostalgia ai giorni in cui le faceva le iniezioni per la fertilizzazione in vitro, considerando gli anni che erano passati su di loro, ai segni che avevano lasciato sui visi e dentro i cuori affaticati.

Sperò che ci fosse in programma una biopsia. Sperò che il microscopio smentisse l'immagine della risonanza magnetica.

In quel momento, lei dormiva in sala operatoria, mentre Wilson, le stesse speranze di House che gli vorticavano in testa, cercava la lucidità mentale per compiere l'esame.


– Come stai? –

– Al solito. House dov'è? –

– Nel suo studio. Sembra non sospettare nulla. –

Cuddy abbassò lo sguardo.

– Lisa, posso chiederti perché? Perché gli fai questo? –

– Io non lo so... Solo, non saprei cosa dirgli. Cosa dire poi. Non voglio che pensi che io... che ho paura. –

– Lisa. – Wilson le prese la mano. – Lisa, hai paura? –

– No. –

– Maledizione. – Wilson le lasciò la mano. – Perché sei così testarda? –

Uscì sbattendo la porta a vetri, che tremò per qualche secondo. Sulla scrivania era rimasto il risultato della biopsia, di cui non avevano nemmeno parlato. Cuddy prese il foglio e scorse le righe, una dopo l'altra. Le sembrò di essere fuori dal suo corpo, mentre si vedeva sola, seduta al tavolo, il foglio in mano. Quando rientrò in sé, sentì il terrore più totale allagarle il cuore, la mente, gli occhi.


Giugno finiva. Il tepore lasciò lentamente il posto alla canicola. I bambini correvano tra gli irrigatori e cuocevano le uova lasciandole cadere per gioco sull'asfalto bollente. Mentre i ricchi andavano a Rhode Island, i poveri si accontentarono di Pleasantville per un altro anno.

House, come un angelo cacciato dal paradiso, seguiva a distanza quel suo pezzo di vita, che se ne andava senza darlo a vedere. Osservava Cuddy arrivare al lavoro ogni mattina, sempre più stanca, e sparire una volta alla settimana con qualche scusa. Usciva dalla hall e rientrava da qualche porta secondaria. Non era un mistero per lui, quello che le facevano gli assistenti di Wilson, mentre tutto il resto dell'ospedale la credeva giocare a tennis o golf con qualche misterioso e ricco ammiratore.

Lei sembrava più o meno la solita persona. House si scoprì a contare sulle dita tutte le discussioni che avevano avuto nell'ultimo mese. Era lui che non riusciva più a reggere la commedia: cominciava a temere di scoppiare e rivelarle che sapeva tutto, che non doveva fingere di essere coraggiosa con lui, che poteva piangere e gridare e insultare dio e gli uomini e l'estate e tutto il resto.


– Buongiorno. Ti ho portato della cioccolata... Magari possiamo farci una torta e mangiarla domenica a casa tua. –

– Wilson, io non ho mai nemmeno acceso il forno di casa mia. – Cuddy, suo malgrado, sorrise. Non avrebbe sprecato il suo ultimo mese di vita imparando a cucinare. – Grazie, comunque. Adoro la cioccolata. –

Lui le accarezzò la testa, dolcemente. Una ciocca dei suoi bellissimi riccioli neri gli restò tra le dita.

– Lisa, forse dovresti smettere. Non puoi nasconderti per sempre. In reception pensano che tu abbia trovato un ricco amministratore delegato che ti porta a giocare a golf, ma se stasera, uscendo, ti lasciassi guardare per bene da un'infermiera qualsiasi, penserebbero che non li hai voluti vicini. Ed è un peccato. Ti amano tutti, qui dentro. –

Lei alzò lo sguardo verso l'amico e posò la mano sulla sua.

– James, anch'io ho... pensato. –

Lui la osservò con attenzione. I grandi occhi verdi, il viso stanco e smagrito, le braccia sottili. Sembrava fatta di cristallo, in quel vestito bianchissimo che la proteggeva dal calore infernale dell'estate. Era così bella. Ma le spalline sottili, la scollatura ampia, lasciavano intravedere il pallore del suo corpo ancora in fiore, soffocato da una chimica ingiusta. Wilson credette di capire cosa stava per dirgli.

– Io vorrei smettere con... tutto. –

Aveva indovinato.

– Ne sei sicura? Non sarò io ad obbligarti... Ma potresti arrivare all'autunno con le terapie. –

– E poi? –

Wilson tacque. Quando si muore, si muore. In estate, in autunno. Con il corpo pieno di radiazioni e preparati chimici, o puliti come bambini.

– E' davvero questo che vuoi? –

– No. Vorrei vedere un nuovo anno sorgere su tutti noi. Vorrei vederti sorridere di nuovo. Vorrei non avere i giorni contati. Ma quello che voglio ormai non ha importanza. Morirò comunque. –

Wilson le accarezzò una spalla e uscì, lasciandola sola.

E avrebbe voluto dire ad House che aveva paura. E che desiderava tanto averlo vicino, ogni giorno, ogni secondo di quelle settimane, fino alla fine.

Cuddy iniziò a piangere. Sguaiatamente, a sospiri lunghi e sonori, le lacrime pesanti, vischiose, che si abbattevano schizzando le carte e la tastiera del computer, gli occhi che bruciavano come pagliericci in fiamme, la consapevolezza dell'ingiustizia profonda e insanabile e totale di tutto questo.


Quando le lacrime finirono, lasciandola svuotata e stanca, scoprì di non essere sola.

House, seduto accanto a lei, la strinse a sé con tutta la forza di cui fu capace.

– Lo sapevi. –

– Mi hai sottovalutato. –

– Sei entrato senza bussare. –

– Mi avresti detto che l'amministratore delegato ti ha mollato per una modella di diciassette anni. –

– Grazie al cielo non c'è nessun amministratore delegato. –

– E' una prospettiva interessante, nel tuo stato attuale. –

– Sei un bastardo. –

– E tu una bugiarda che sta morendo di paura. –

– House. –

– Sì? –

– Non andare via. –

– Stacco alle cinque. Ma possiamo discuterne. –

– Oh, sta' zitto, per amor di dio. –

Lui la strinse ancora più forte, posando la guancia sui soffici ricci neri, grato per lei che, da quel momento, non avrebbero avuto il tempo di cadere uno ad uno.

– Non vado da nessuna parte, Raggio di Sole. –


   
 
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