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Autore: xX__Eli_Sev__Xx    04/06/2017    4 recensioni
Eurus ha dato a Sherlock una scelta per proseguire nel loro gioco: uccidere John o uccidere Mycroft.
Ma Sherlock potrà davvero compiere una scelta del genere? Sarà in grado di scegliere fra suo fratello e l'uomo che ama da sempre, rinunciando a una parte del suo cuore per poter salvare l'altra?
Genere: Angst, Drammatico, Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Eurus Holmes, John Watson, Mycroft Holmes, Rosamund Mary Watson, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Insieme
 
I told you to hide your heart once.
You should have listened.
Red Queen – Victoria Aveyard
 
 
 «Be’» esordì Mycroft, avanzando e fermandosi di fronte a Sherlock. «Non penso sia necessario discuterne, giusto?» chiese, poi si voltò verso John, fermo a qualche passo da lui. «Mi dispiace, dottor Watson. Sei un brav’uomo, degno di rispetto.» affermò, poi tornò a voltarsi verso il fratello. «Digli addio e sparagli.» concluse freddamente.
 Sherlock sembrò spiazzato di fronte a quell’affermazione. Il suo volto venne attraversato dalla confusione e il suo cuore mancò un battito udendo quelle parole.
 Sparare a John?
 No, si disse immediatamente.
 Lui non avrebbe mai sparato a John.
 Lui e il suo migliore amico… il suo unico amico.
 Non poteva farlo.
 «Sparagli, avanti.» lo incalzò il maggiore, riportandolo alla realtà.
 «Cosa?» sbottò John, aggrottando le sopracciglia e avanzando.
 «Spara al dottor Watson.» ripeté il politico, senza tradire alcuna emozione e senza degnare il medico di uno sguardo. Tutta la sua attenzione era rivolta verso il fratello. «Non c’è dubbio su chi debba proseguire in tutto questo. Dobbiamo essere noi due. Io e te, Sherlock. Qualsiasi cosa ci aspetti di qui in poi, richiederà grandi capacità intellettive, Sherlock, non sentimenti. Non prolungare oltre la sua agonia. Sparagli.»
 «Ho voce in capitolo?» chiese John.
 «Oggi siamo soldati. E i soldati muoio per il loro paese.» affermò Mycroft, volgendosi finalmente verso Watson. «E temo che questo privilegio sia tuo, adesso, John.»
 John esitò per qualche secondo, lo sguardo basso. Alla fine si riscosse. «Merda, ha ragione.» confermò. Si voltò verso Sherlock e incrociò il suo sguardo. «Effettivamente, ha ragione.»
 Sherlock lo osservò senza proferire parola, il cervello in completo black-out, le mani tremanti all’idea di ciò che di lì a poco avrebbe dovuto fare a una delle due persone a cui più teneva al mondo. Non poteva fare una cosa così terribile e mostruosa. Nemmeno sapendo che quello che Mycroft stava dicendo era la verità.
 Tuttavia, quando i suoi occhi agganciarono quelli del dottore, non vi lesse rabbia o rancore per ciò che suo fratello aveva detto, ma soltanto comprensione.
 John aveva capito.
 Sapeva che lui aveva bisogno di Mycroft per proseguire e riuscire battere Eurus.
 Sapeva di essere quello sacrificabile.
 «Sii rapido, non prolungare la sua agonia.» proseguì Mycroft. «Metti una fine a tutto questo, così potremmo tornare a lavorare.»
 Sherlock esitò, abbassando lo sguardo e voltandosi per dare le spalle al fratello. Aumentò la presa intorno alla pistola, accarezzando il grilletto con l’indice, sentendo la paura scuotere la sua mente con tanta potenza di disorientarlo.
 Ma da quel groviglio di pensieri riuscì ad estrarne uno lucido e limpido: non avrebbe ucciso John.
 Non poteva farlo.
 Non poteva uccidere il suo migliore amico.
 E nemmeno Mycroft.
 Tuttavia, la consapevolezza che non avrebbe avuto altra scelta che porre fine alla vita di uno dei due soppiantò immediatamente quel pensiero.
 Avrebbe dovuto farlo, o nessuno di loro sarebbe uscito vivo di lì.
 Probabilmente se non avesse ucciso uno dei due di sua spontanea volontà, lo avrebbe fatto sua sorella, proprio come era successo poco prima con la moglie del direttore. E quasi certamente, si ritrovò a pensare Sherlock, la vittima sarebbe stata John.
 Perché Eurus sapeva.
 Fin dall’inizio aveva capito quanto Sherlock tenesse a John, perché se davvero non avesse avuto indizi al riguardo, non gli avrebbe mai permesso di restare, ma lo avrebbe eliminato immediatamente, ancora prima di cominciare quel gioco. Invece aveva preferito stordirlo con un tranquillante per fare in modo che potesse prendere parte a quella follia. E questo perché sapeva che John era sempre stato il suo punto debole. Il suo cuore.
 Ma lui non le avrebbe mai permesso di toccarlo. Lo avrebbe protetto fino alla fine, anche a costo della sua vita. Perché lui era la sua vita. Lo era sempre stato, fin dall’inizio. E avrebbe fatto qualsiasi cosa per tenerlo al sicuro, proprio come aveva fatto con Moriarty e con Magnussen.
 La domanda era: come poteva, Mycroft, chiedergli di sparare a John, sapendo ciò che provava per lui? Ciò che aveva sempre provato per lui?
 La risata leggera del fratello lo riportò alla realtà, prima di poter concludere quel pensiero.
 «Dio…» disse Mycroft. «Avrei dovuto aspettarmelo.» scosse il capo, visibilmente deluso. «Patetico. Sei sempre stato quello più lento. L’idiota. Per questo ti ho sempre disprezzato.» gli rivolse uno sguardo carico di disgusto. «Sei la vergogna della nostra famiglia.» sibilò. «Per una volta nella tua vita, fa’ la cosa giusta e poni fine alle sofferenze di questo pover’uomo.» ringhiò. «Sparagli, Sherlock. Uccidilo.»
 Patetico.
 Idiota.
 Ti ho sempre disprezzato.
 Sei la vergogna della nostra famiglia.
 Quella parole smossero qualcosa dentro la mente di Sherlock.
 Perché lui sapeva che nonostante i loro contrasti e i loro litigi, Mycroft non avrebbe mai potuto pensare una cosa del genere di lui.
 «Smettila.» sbottò, realizzando solo in quel momento ciò che stava succedendo.
 Aveva ragione. Mycroft sapeva ciò che lui provava per John. Lo aveva sempre saputo. E dicendo quelle cose non stava tentando di convincerlo ad uccidere il suo migliore amico, ma sperava di spingerlo a uccidere lui, in modo da risparmiare la vita di John e il dolore della perdita che la sua morte gli avrebbe procurato.
 «Guardalo.» insistette il politico. «Cos’è John Watson? Niente più che una distrazione. Un essere comune su cui fare colpo e da incantare con il tuo ingegno.» scosse il capo. «Ne troverai un altro.»
 «Per favore, per l’amor del cielo, smettila.» lo implorò Sherlock a bassa voce, sentendo il cuore dolere di fronte alla consapevolezza che suo fratello si sarebbe fatto uccidere pur di risparmiargli il dolore di perdere il suo migliore amico.
 «Perché?» chiese Mycroft.
 «Perché in paragone anche il tuo monologo di Lady Bracknell era molto più convincente.» concluse, incrociando finalmente il suo sguardo.
 Immediatamente gli occhi di Mycroft vennero attraversati dalla consapevolezza che suo fratello avesse compreso ogni cosa, e la facciata spavalda e fredda che aveva tentato di costruire crollò in meno di qualche secondo, lasciando spazio al dolore e alla paura.
 Il consulente investigativo si voltò verso John. «Ignora quello che ha detto. Stava tentando di essere gentile. Cercava di rendermi più facile il compito di ucciderlo.» spiegò. Poi sospirò. «Per questo sarà ancora più difficile.» disse, sollevando la pistola e puntandola verso Mycroft.
 «Hai detto che ti era piaciuta la mia Lady Bracknell.» affermò il maggiore, il volto pallido e gli occhi lucidi di lacrime.
 «Sherlock, non farlo.» sussurrò John.
 «Non è una tua decisione, John.» replicò Mycroft, rivolgendogli uno sguardo fugace, per poi tornare a voltarsi verso il fratello. «Non in faccia, per favore. Ho promesso il mio cervello alla Royal Society.»
 «Dove suggeriresti?» chiese Sherlock, la voce tremante.
 «Be’, suppongo che ci sia un cuore, da qualche parte, dentro di me.» affermò il politico, allentando leggermente il nodo della cravatta. «Non sarà un bersaglio facile da trovare, ma perché non provarci?»
 Sherlock non poté trattenere una risata di fronte alle parole di Mycroft, ma le uniche cose che riusciva a provare in quel momento erano dolore e rabbia di fronte a ciò che la loro stessa sorella l’avrebbe costretto a fare.
 Inspirò profondamente, sentendo il suo corpo tremare violentemente. Sherlock accarezzò il grilletto con la punta dell’indice, il cuore a pezzi.
 Poi John si frappose fra loro. «Non lo permetterò.» disse, puntando gli occhi in quelli dell’amico.
 «È tutta colpa mia…» affermò Mycroft. «Moriarty.»
 Watson e Holmes sollevarono lo sguardo sul suo volto.
 «Moriarty?» chiese Sherlock, aggrottando le sopracciglia.
 «La sua ricompensa di Natale.» spiegò. «Una conversazione di cinque minuti con Jim Moriarty, cinque anni fa.»
 Sherlock si sentì disorientato. Barcollò leggermente sulle gambe, che non sembrarono più in grado di reggere il suo peso, mentre i pezzi del puzzle, nella sua mente, con lentezza, andarono al loro posto.
 «Di cosa hanno parlato?» domandò.
 Mycroft deglutì a vuoto. «Cinque minuti di conversazione…» si interruppe per qualche secondo, abbassando lo sguardo. «Non supervisionata.»
 Sherlock e John emisero un gemito.
 Il consulente investigativo sospirò e abbassò la pistola, prendendosi un momento per osservare suo fratello.
 Come aveva potuto essere così sconsiderato? Così stupido?
 Risollevò la pistola.
 Mycroft raddrizzò la schiena e ricacciò indietro le lacrime. «Addio, fratellino.»
 La mano di Sherlock tremò nuovamente.
 «Niente fiori, ti prego.» aggiunse Mycroft. «È la mia unica richiesta.»
 «Jim sapeva che sarebbe finita così.» tuonò la voce di Eurus. «Era così eccitato, all’idea…»
 L’ambiente venne invaso da una luce rossastra e la voce di Moriarty rimbombò fra le pareti. «Eccoci qui, alla fine… Holmes che uccide Holmes…» disse con un ghigno perverso sul volto. «Ed io scendo qua.»
 La luce tornò normale.
 «Cinque minuti.» sussurrò Sherlock. «Le sono bastati cinque minuti per farci questo.» concluse, stringendo maggiormente la pistola nella mano destra.
 Il suo sguardo e quello di Mycroft si incontrarono per qualche secondo, e Sherlock poté leggervi il dolore e il senso di colpa per averli messi in quella situazione.
 I suoi occhi gli stavano chiedendo perdono. Gli stavano chiedendo scusa per avergli causato quel dolore, per averlo coinvolto in quella situazione senza via d’uscita e per avergli mentito per tutto quel tempo. Ma nemmeno l’idea che suo fratello lo avesse preso in giro per tutti quegli anni sembrava riuscire a spingerlo a premere il grilletto.
 
 E mentre Sherlock tentava di trovare la forza di sparare, John si frappose ancora una volta fra lui e il politico, approfittando di quel momento di esitazione.
 «Fermo.» sbottò il dottore, parandosi di fronte a Mycroft. «Non farlo.»
 «Va bene così, John.» disse il politico, la voce straordinariamente ferma e sicura.
 John si voltò verso il maggiore degli Holmes e scosse il capo. «No, non va bene così.» replicò, duramente, incontrando i suoi occhi azzurri, scintillanti a causa delle lacrime. «Lui ha bisogno di te.» disse, poi si voltò verso Sherlock. «Spara a me.»
 Sherlock abbassò la pistola. Scosse flebilmente il capo, gli occhi spalancati dall’orrore, che immediatamente trovarono quelli del fratello, implorandolo di fare qualcosa.
 John captò immediatamente quello sguardo, sapendo cosa avrebbe significato.
 «Hai bisogno di lui per uscire di qui.» aggiunse per incalzarlo. «Perciò uccidi me e proseguite.»
 «John…» protestò Mycroft.
 «Sta’ zitto, Mycroft.» ringhiò John, senza nemmeno voltarsi. Mantenne lo sguardo fisso sul viso del suo migliore amico, senza tradire alcuna emozione. Non poteva permettere che Sherlock sparasse al suo stesso fratello. Non gli importava di morire, se avesse significato risparmiare a Sherlock il dolore di convivere con quella scelta in futuro. «Sparami, Sherlock.» insistette.
 Sherlock scosse il capo. «No.» disse, la voce tremante e ridotta ad un sussurro. «No, io non…»
 «Avanti.» insistette il dottore. «Guardami, io non sono niente.»
 «Questo non è vero.» replicò il consulente investigativo.
 «Cosa potrei fare per aiutarti?» chiese lui, alzando la voce. «Non sono neanche lontanamente intelligente quanto te o Mycroft. Sono completamente inutile. E se ucciderai Mycroft, probabilmente non usciremo vivi di qui. Perciò sparami.»
 «No.» insistette Sherlock, con voce ferma.
 «Non ti permetterò di uccidere tuo fratello.» disse John. «Se lo farai ne porterai il peso tutta la vita. Non riuscirai a perdonarti per averlo fatto, e io non posso permetterlo.»
 «Non mi importa quello che pensi.» ringhiò Holmes, visibilmente furioso. «Non ti ucciderò. Non lo farò mai.»
 «Preferiresti uccidere Mycroft?» chiese John, incredulo. «Sherlock, per l’amor del cielo, è tuo fratello.»
 Sherlock scosse il capo. «Tu non capisci.»
 «No, infatti.» confermò il medico. «Aiutami a capire perché io non ci riesco.»
 Sherlock indietreggiò, portandosi le mani alle tempie e chiudendo gli occhi.
 «John, ti prego.» lo implorò Mycroft, accorrendo in aiuto del fratello. «Va bene così. Tutto questo è successo per colpa mia. Lascia che uccida me. È giusto così.»
 John si voltò di scatto. «Come può essere giusto, Mycroft?» esclamò. «Sei suo fratello, per la miseria, possibile che ti odi a tal punto da volerti uccidere? Sei la sua famiglia!» ringhiò, poi si voltò nuovamente verso l’amico. «Sherlock, per l’amor del cielo, sparami e poni fine a tutto questo. Ricordati che c’è una ragazzina prigioniera su un aereo che sta per schiantarsi chissà dove. Non abbiamo tempo per discutere.»
 «Basta!» esclamò Sherlock, voltandosi verso di lui. «Smettila. Non ti ucciderò.» ribadì. La voce si fece tremante e rotta. «Non posso. Non ci riesco.»
 «Ma certo che puoi.» replicò John. «Devi farlo, altrimenti–»
 «No, invece!» ringhiò Holmes, interrompendolo, e le lacrime traboccarono dai suoi occhi improvvisamente, bagnandogli le guance.
 Il medico sentì una fitta al cuore vedendo Sherlock crollare in quel modo. Tutto quel dolore e tutto ciò che Eurus stava facendo erano troppo anche per lui, che era sempre riuscito a rimanere lucido e distaccato in situazioni critiche come quelle.
 «Non posso farlo. Non… non posso perderti, John.» singhiozzò il moro. «Non posso, capisci?» scosse il capo, il volto bagnato dalle lacrime, il corpo scosso dai singhiozzi.
 «Sherlock…» tentò di dire John, avanzando per rassicurarlo, ma le parole dell’amico lo bloccarono.
 «Io ti amo…» mormorò Sherlock.
 Gli occhi di John si spalancarono.
 Quelle parole gli tolsero il fiato, fermandogli il cuore.
 No. Sicuramente aveva frainteso.
 Sherlock non amava nessuno.
 Lui disprezzava i sentimenti. Ne era sempre rimasto distaccato per limitare i danni che avrebbero causato ai suoi processi mentali.
 Non poteva essere…
 Oppure sì?
 All’improvviso pensieri sconnessi presero ad accavallarsi nella sua mente.
 Non ho amici. Soltanto uno.
 Lui non è fatto così. Non prova quel tipo di sentimenti.
 Il punto debole di Sherlock Holmes è il suo migliore amico, John Watson.
 John, c’è qualcosa che avrei dovuto dirti… avrei voluto farlo, ma non l’ho fatto…
 Era sempre stato sotto il suo naso. Come aveva potuto non rendersene conto?
 «Mi dispiace…» gemette il consulente investigativo, il viso rigato dalle lacrime, riportando John alla realtà.
 Il medico spostò lo sguardo sul volto dell’amico, appena in tempo per vederlo abbassare il capo, scuotendolo vigorosamente.
 «Non posso ucciderti… non puoi chiedermi questo…» ansimò Sherlock, indietreggiando verso la parete. «Mi dispiace… mi dispiace tanto…»
 John abbassò lo sguardo per qualche secondo, disorientato, il cuore che galoppava nel petto.
 Ogni sua certezza… ogni sua convinzione… tutto ciò che fino a quel momento l’aveva guidato era crollato sotto il peso di quelle tre semplici parole.
 La verità è raramente pura e mai semplice, aveva detto Mycroft, citando Oscar Wilde.
 Io ti amo.
 Io ti amo.
 Io ti amo.
 «Mi dispiace…» continuò a sussurrare Holmes, come una cantilena, portandosi le mani al capo e premendole sulle tempie. «Perdonami… non volevo…»
 John risollevò lo sguardo di scatto, colpito da quelle parole. I suoi occhi incontrarono quelli dell’amico, colmi di lacrime e di paura, per la prima volta da quanto quella storia era cominciata.
 «Non volevo…» disse Sherlock, respirando affannosamente. «Io… io ci ho provato, ma non sono riuscito a… Non riesco a lasciarti andare…» scosse il capo. «Perdonami… ti prego, perdonami…»
 Watson a quel punto avanzò verso di lui. «Sherlock, guardami.» disse, il cuore che pulsava con violenza contro la cassa toracica.  
 Il consulente investigativo scosse il capo, abbassando lo sguardo.
 «Sì, guardami.» ripeté il medico e, poggiandogli una mano sul viso, lo sollevò, in modo che i loro occhi potessero nuovamente incontrarsi.
 I loro sguardi si agganciarono.
 «Va tutto bene.» sussurrò. «Andrà tutto bene.»
 Sherlock scosse il capo. «No…»
 «Sì, invece.» replicò John. «Adesso ascoltami. Se davvero tieni a me… se davvero mi ami, ti prego, non uccidere tuo fratello.» lo implorò. «Spara a me.»
 «Perché?» chiese Sherlock. «Perché mi chiedi una cosa del genere?»
 «Perché se ucciderai Mycroft, io non potrò aiutarti a uscire di qui.» mormorò. «Non riuscirei a salvarti, e l’ultima cosa che voglio è che tu muoia a causa di tua sorella.» sospirò, abbassando lo sguardo per qualche secondo, riportandolo poi nuovamente sul viso di Sherlock. «Non voglio che tu muoia. Tu mi hai salvato così tante volte… lascia che questa volta sia io ad aiutarti.» e dicendo questo prese la mano dell’amico e si portò la pistola al petto, puntandosela al cuore. «Ti prego – ti imploro, spara a me.»
 
 «Oh, davvero patetico.» tuonò la voce di Eurus. «Ma devo dire che questa è una svolta alquanto interessante e inaspettata. Adesso chi sceglierai, Sherlock? Mycroft o John? Famiglia o amore?» lo canzonò, senza tradire alcuna emozione. «Il tempo sta per scadere… e qualcuno dovrà morire. Quindi considera ciò che ti ha fatto John non poco tempo fa in quell’obitorio. Non è stato affatto carino da parte sua pestarti a sangue.» gli ricordò la donna, accennando un sorriso, gli occhi illuminati da una strana luce. «Perciò non sarebbe forse meglio salvare Mycroft? Qualche bugia è certamente preferibile alla violenza. E nostro fratello ha sempre tentato di proteggerti… non ti ha disprezzato e lasciato come ha fatto il dottor Watson, preferendo un’assassina a te. L’uomo che lo aveva sempre amato e protetto, fin dalla prima volta.» concluse. «Pensaci con attenzione, fratellino…»
 L’ambiente venne invaso da una luce rossa e la voce di Moriarty tornò a invadere l’aria.
 «Tic toc. Tic toc.» disse. «Tic toc. Tic toc. Tic, tic, tic, tic, toc.»
 Sherlock si asciugò le guance con un rapido gesto della mano, chiudendo gli occhi per poter tornare in se stesso. Si impose di mantenere la calma e il contegno necessari per poter proseguire in quella follia.
 «Tic toc. Tic toc.»
 Avrebbe dovuto scegliere.
 Non c’era altra soluzione.
 Uno di loro avrebbe dovuto morire.
 E John si stava offrendo per lui.
 Per dargli la possibilità di sopravvivere.
 Per salvarlo.
 «Tic toc. Tic toc.»
 Il consulente investigativo sollevò lo sguardo sul viso dell’amico.
 Watson annuì e sfiorò le sue dita, chiuse intorno alla pistola, con le proprie, rivolgendogli uno sguardo rassicurante.
 «Lei ha ragione, Sherlock.»
 «No.»
 «Sì, invece.» confermò. «Quello che ti ho fatto è stato disgustoso e imperdonabile. E non mi perdonerò mai per averti causato tanto dolore, incolpandoti per qualcosa di cui non eri assolutamente responsabile. Non solo in quell’obitorio, ma in tutti questi anni.»
 Sherlock chiuse gli occhi, imponendosi di non starlo a sentire. «Smettila.» gemette.
 Il medico scosse il capo. «No, perché è la verità.»
 «Non è vero.»
 «Ti ho fatto del male.» proseguì il medico. «Me lo merito. Sparami.»
 Sherlock singhiozzò, il cervello sovraccarico di emozioni e parole. «Basta» si lamentò, tentando di liberarsi dalla presa dell’amico. «Basta, per favore…»
 «E se ti facessi ancora del male?» chiese John, cercando il suo sguardo. «Se un episodio come quello dell’obitorio si ripetesse? Se perdessi nuovamente il controllo come quel giorno?»
 «Non accadrà.» replicò Sherlock, incontrando i suoi occhi. «Io so chi sei. Ti conosco e so che non mi faresti del male.»
 «Anche io credevo di non esserne capace, eppure è successo.» affermò Watson, gli occhi di lacrime. «Con Mycroft non accadrà. Lui saprà proteggerti come io non sono stato in grado di fare. Saprà amarti come io non sono stato in grado di fare.»
 Dopo qualche secondo passato ad osservarlo, sconvolto da quelle parole, Sherlock scosse il capo. «Mi dispiace. Non posso farlo.» e detto questo indietreggiò, allontanando l’arma dal petto di John, approfittando di quel momento di distrazione e debolezza. «Mi dispiace.» disse, poi dal suo volto scomparve ogni traccia di emozione.
 «Oh…» disse Eurus. «Quindi è Mycroft che ucciderai… interessante…»
 Sherlock, tuttavia, non diede peso alle parole della sorella. Inspirò profondamente e poi riprese. «Poco fa un uomo ha chiesto di essere ricordato… Sto ricordando il direttore.» e detto questo si portò la pistola sotto il mento.
 John e Mycroft scattarono in avanti, gli occhi spalancati dall’orrore. «No!»
 «State indietro.» intimò lui, indietreggiando. «Vi prego, state indietro entrambi.»
 «Sherlock, che stai facendo?» chiese Eurus, la voce rotta dalla paura.
 «Non ucciderò nessuno di loro.» spiegò lui, capendo di aver colpito nel segno. «Hai detto che qualcuno deve morire?» concluse. «Bene, quel qualcuno sarò io.»
 Sapeva che sua sorella aveva bisogno di lui. Lo voleva vivo per continuare quello stupido gioco, perciò non gli avrebbe mai permesso di uccidersi. Quindi minacciare di uccidersi sarebbe stato l’unico modo per salvare sia John che Mycroft.
 Rivolse uno sguardo fugace a Mycroft, sapendo che non ci avrebbe messo molto per realizzare che cosa stava tentando di fare. 
 «Sherlock, no!» lo implorò John, avanzando. «Ti prego, non farlo! Uccidi me!»
 Come Sherlock aveva previsto, suo fratello avanzò e afferrò John per le braccia, trattenendolo prima che potesse avvicinarsi per fermarlo.
 «No!» protestò John, gli occhi colmi di lacrime. «Ti prego!»
 «Mi dispiace, John.» fu l’ultima cosa che disse Sherlock, incrociando lo sguardo del suo migliore amico. Poi cominciò a contare. «Dieci. Nove. Otto.»
 «No, Sherlock.» disse Eurus, sconvolta di fronte alla scelta del fratello. «Non sai ancora di Barbarossa.»
 «Sette. Sei. Cinque.»
 «Fermati subito, Sherlock!» gridò la donna.
 «Quattro. Tre…» Sherlock si interruppe, sentendo una leggera puntura sul collo. Si portò una mano alla nuca ed estrasse una piccola fialetta sulla cui sommità spiccava un ago di piccole dimensioni.
 Prima di poter realizzare che si trattava di un tranquillante, tutto si fece buio.
 
 «Credo che sia arrivato il momento che tu mi dica come ti chiami.» disse Sherlock, salendo le scale che portavano al piano superiore della sua vecchia casa, il respiro rotto e ansante per la corsa.
 «Non ho il permesso di dire come mi chiamo agli sconosciuti.» disse la bambina, dall’altro capo del telefono.
 Sherlock attraversò il corridoio, arrivando all’ultima porta e bloccandosi di fronte ad essa.
 «Ma io non sono uno sconosciuto.» affermò. Poi poggiò la mano sulla maniglia e spalancò la porta della vecchia stanza di Eurus con una spinta. «Sono tuo fratello.» disse.
 La luce della lampada che teneva fra le mani, illuminò parzialmente la stanza e lui la vide.
 Sua sorella era lì, seduta sul materasso, le ginocchia strette al petto, le braccia chiuse intorno ad esse, gli occhi serrati. I suoi vestiti bianchi quasi brillavano nella semioscurità della stanza, sotto la luce.
 L’uomo la osservò per qualche istante.
 Dopo aver giocato con lei e risolto l’indovinello che tanto l’aveva ossessionata fin da quando era bambina, e aver capito che non c’era nessuna bambina su un aereo in procinto di schiantarsi chissà dove, finalmente era riuscito a trovarla. Non era stato facile, ma ci era riuscito.
 E adesso non rimaneva altro da fare che convincerla a dirgli dove avesse portato John. Sapeva che si trovava in un pozzo che lentamente si stava riempiendo, ma non sapeva dove. Per anni aveva vagato nei campi intorno alla casa, ma mai si era imbattuto in un pozzo. Perciò avrebbe potuto trovarlo solo con l’aiuto di sua sorella.
 «Sono qui, Eurus.» disse.
 «Stiamo giocando, Sherlock.» disse lei, senza aprire gli occhi, rimanendo completamente immobile. «Stiamo facendo un gioco.»
 «Il gioco, sì… adesso ho capito.» affermò lui. Si mosse verso di lei, fermandosi a qualche passo, avendo paura di spaventarla. «La canzone non è mai stata una serie di indicazioni.»
 «Sono sull’aereo…» ansimò la donna. «Sto per schiantarmi… devi salvarmi…»
 Il consulente investigativo si accovacciò accanto a lei. «Guarda quanto sei brava.» mormorò. «La tua mente ha creato la metafora perfetta… sei in alto, tutta sola, nel cielo e capisci tutto. Tranne come atterrare.» spiegò, poi si avvicinò, prendendo posto accanto a lei. «Ora, io sono solo un idiota, ma sono a terra. Posso portarti a casa.» concluse.
 «No…» gemette Eurus. «No… no, è troppo tardi…»
 «Non è vero. Non è troppo tardi.»
 «Ogni volta che chiudo gli occhi sono sull’aereo…» disse lei, la voce tremante. «Sono persa… sono persa nel cielo… e nessuno può sentirmi…»
 Sherlock percepì una potente fitta al petto, all’altezza del cuore. Sospirò, poi poggiò delicatamente una mano su quella di lei.
 «Apri gli occhi.» sussurrò. «Sono qui.»
 Eurus tremò, ma alla fine, lentamente aprì gli occhi.
 «Non sei più persa.» aggiunse.
 La sorella singhiozzò e si sporse verso di lui.
 Sherlock la strinse fra le braccia, sentendo il cuore alleggerirsi. Le accarezzò la schiena, cullandola leggermente. «Hai solo…» esordì, ma la voce tremò. Si schiarì leggermente la gola, poi riprese, deciso a capire come arrivare a John. «Hai solo preso la strada sbagliata, l’ultima volta… tutto qui. Questa volta fai la cosa giusta… dimmi come salvare il mio amico.»  
 Eurus singhiozzò ancora.
 «Eurus.» disse Sherlock, allontanandosi da lei e prendendole il volto fra le mani, incrociando il suo sguardo. Le accarezzò dolcemente il capo. «Aiutami a salvare John Watson.»
 Lei lo osservò, le guance bagnate dalle lacrime.
 «Ti prego.» la implorò Sherlock, sfiorandole una guancia con le dita. «Ti prego, dimmi dove si trova, prima che sia troppo tardi.»
 Alla fine, Eurus annuì.
 
 Sherlock uscì di corsa dalla sua vecchia casa, diretto verso il vecchio capanno per gli attrezzi che si trovava sul retro. Spalancò la porta con una spallata e illuminò la stanzetta con la lampada.
 La canzone di sua sorella diceva “sedici per sei”, quindi il pozzo era profondo sedici metri e largo sei. Doveva trovare qualcosa per calarsi all’interno del pozzo e liberare John dalle catene che lo tenevano legato sul fondo.
 Sapeva che avrebbe dovuto attendere l’arrivo della polizia, ma sapeva anche che dopo averla chiamata intimando di sbrigarsi ci avrebbe messo troppo tempo a raggiungere la sua vecchia casa e probabilmente John sarebbe morto, annegato nell’acqua del pozzo.
 Perciò non poteva aspettare.
 Si voltò a destra e a sinistra, rivolgendo occhiate veloci agli oggetti poggiati sui tavoli e appesi alle pareti. Alla fine vide, accanto al tornio, sul banco da lavoro, un rampino a cui era stata legata una spessa corda marrone.
 Senza perdere tempo afferrò la corda e uscì, dirigendosi verso il vasto campo di grano dietro casa. Eurus gli aveva detto che il pozzo si trovava sul limitare del bosco in cui lui e Victor giocavano da bambini, perciò non sarebbe stato complicato da trovare.
 Il consulente investigativo corse più veloce che poté, diretto verso il pozzo, pregando che non fosse troppo tardi. Il cuore pulsava contro la sua cassa toracica con così tanta forza da togliergli il fiato, i muscoli bruciavano e dolevano così tanto da rendergli difficile reggersi in piedi. Nonostante ciò si impose di fare un ultimo sforzo, e con la vista ancora appannata dalle lacrime dopo tutto ciò che aveva scoperto e subito quel giorno, continuò a correre.
 Poi lo vide.
 Era di fronte a lui, esattamente come sua sorella gli aveva detto. Un buco scavato nel terreno, larga sei metro e profondo sedici, alle cui spalle sorgeva la foresta dove lui e il suo migliore amico si rifugiavano per giocare ai pirati.
 Sherlock si asciugò le lacrime con un rapido gesto della mano e una volta arrivato al pozzo poggiò le mani sulla pietra, sporgendosi oltre il bordo.
 «John!» gridò. «John!»
 Ma non ottenne alcuna risposta.
 Senza perdere altro tempo poggiò la lampada a terra, sperando di riuscire a vedere qualcosa all’interno del pozzo, poi agganciò il rampino ad una sporgenza nella pietra, assicurandosi che potesse reggerlo, e srotolò la corda all’interno. Si sedette sul bordo, afferrò saldamente la fune e si calò all’interno del pozzo, poggiando i piedi contro le pareti in pietra.
 Scese velocemente e quando i suoi piedi toccarono l’acqua si lasciò cadere sul fondo, atterrando sulle pietre e sulle ossa che John aveva trovato.
 Le ossa di Victor.
 Rimani concentrato, si disse, riemergendo lentamente.
 Si mosse nell’acqua, muovendo le gambe e reggendosi alle sporgenze sulla parete per poter continuare a rimanere a galla, cercando a tentoni il corpo del suo amico; le sue dita ben presto incontrarono la stoffa della giacca di John.
 «John» ansimò, avvicinandosi e tirandolo verso di sé.
 Sbatté più volte le palpebre e quando finalmente riuscì a mettere a fuoco la figura del medico attraverso l’oscurità, vide che stava galleggiando sotto la superficie dell’acqua, completamente immobile.
 Non perse altro tempo: prese la chiave che Eurus gli aveva dato dalla tasca dei pantaloni e poi si immerse. Seguì con la mano la catena legata alla caviglia dell’amico e quando trovò il lucchetto, infilò la chiave e lo liberò dalle catene, riemergendo per riprendere fiato. 
 Il corpo di John emerse e galleggiò sull’acqua. 
 Sherlock lo afferrò, tirandolo a sé e stringendolo fra le braccia, tentando di impedirgli di andare a fondo. Mosse le gambe e si diresse verso la parete, tenendo l’amico stretto a sé e aggrappandosi ad una sporgenza per poter rimanere a galla dato che il livello dell’acqua era aumentato ancora ed era diventato impossibile poggiarsi al pavimento.
 «Forza, John» disse, la voce tremante. «Resisti… presto ci tireranno fuori…»
 In quel momento il rumore di un elicottero risuonò nell’aria e un potente fascio di luce penetrò nel pozzo, riflettendosi sull’acqua e abbagliandolo.
 Sherlock fu costretto a chiude gli occhi per qualche istante, poi quando li riaprì e sollevò il capo vide che delle persone si erano affacciate sul pozzo.
 «Adesso vi tiriamo fuori!» gridò una voce maschile.
 Holmes annuì, pur sapendo che non avrebbero potuto vederlo. Non aveva più la forza di parlare e doveva risparmiare le energie per tenere John a galla. Si impose di resistere ancora, stringendo i denti.
 In quell’istante, una seconda corda a cui era stata legata un’imbragatura calò accanto a loro, sollevando degli schizzi che lo colpirono sul viso.
 «Indossate l’imbragatura e aggrappatevi.» ordinò l’uomo. «Date uno strattone alla corda quando siete pronti.»
 Sherlock la afferrò e fece passare la cinghia intorno al suo corpo e a quello di John, poi strinse leggermente il nodo per assicurarsi che potesse reggerli entrambi. Avvolse il corpo di John con un braccio e intrecciò le gambe a quelle di lui, poi con l’altra mano si aggrappò alla corda e la tirò con forza.
 I poliziotti cominciarono ad avvolgerla e i loro corpi lentamente si sollevarono, emergendo dall’acqua.
 Sherlock rabbrividì sentendo l’aria fredda sferzare il suo corpo zuppo d’acqua, ma si impose di tenere duro; strinse maggiormente John a sé, affondando il viso nella sua spalla e chiudendo gli occhi, pregando che non fosse troppo tardi.
 Arrivati sul bordo, tre poliziotti li aiutarono ad uscire, liberandoli dall’imbragatura. Due di loro afferrarono John per le braccia, allontanandolo da Sherlock, e lo fecero stendere sull’erba accanto al pozzo, poi si voltarono, rivolgendo un cenno ai paramedici in modo che si avvicinassero; l’altro avvolse il petto di Sherlock con un braccio e lo aiutò a mettersi in piedi.
 Il consulente investigativo, tremando, il viso pallido e rigato dalle lacrime, si lasciò aiutare; poi, sentendo che il poliziotto stava tentando di allontanarlo dal suo amico, scosse il capo, tentando di liberarsi dalla sua presa per raggiungere Watson.
 «John…» balbettò, barcollando sulle gambe. «Lui… devo…»
 «Se ne stanno occupando i paramedici, signor Holmes.» affermò il poliziotto, tenendolo per le braccia. «Andrà tutto bene. Venga con me. Ha bisogno di una visita e di stare al caldo.»
 Lui scosse il capo, ansimando. «No… per favore…» implorò, vedendo che i paramedici avevano cominciato con la rianimazione. «John… devo rimanere con lui…» balbettò, muovendosi verso di lui. «Non posso lasciarlo…»
 «Signor Holmes, si calmi…» aggiunse il poliziotto, continuando a tenerlo per un braccio.
 Sherlock ansimò e le gambe non lo ressero più. Cadde a terra in ginocchio, impotente di fronte alla scena che aveva di fronte.
 Nonostante le manovre dei paramedici, John era immobile, pallido e freddo. Il suo corpo non dava segni di vita e la rianimazione non sembrava essere efficace. Ma non poteva essere morto. Eurus non poteva aver ucciso anche lui. Non dopo tutto ciò che aveva fatto passare a lui e a Victor.
 Le parole lasciarono le sue labbra involontariamente. «John, ti prego…» sussurrò.
 Il poliziotto tentò di aiutarlo a mettersi in piedi. «Signor Holmes, sia ragionevole…»
 Una terza voce vibrò nell’aria. «Agente, ci penso io.»
 Sherlock sentì una mano poggiarsi sulla sua spalla e ansimò. Quando si voltò, incontrò, a poca distanza dai propri, gli occhi color cioccolato di Lestrade, che lo stava osservando con sguardo preoccupato.
 «Greg…» mormorò il consulente investigativo.
 L’Ispettore si inginocchiò al suo fianco.
 «Stai bene?» chiese, poggiandogli una mano sul viso e scostandogli i capelli dagli occhi con l’altra. Si tolse il cappotto e lo poggiò sulle sue spalle, per riscaldarlo. «Ti hanno fatto del male?»
 Sherlock scosse il capo. «John…» gemette, voltandosi nuovamente verso Watson.
 Non riusciva a pensare nient’altro. Tutto ciò che voleva in quel momento era John, vivo, accanto a lui. Non gli importava nulla di se stesso e di ciò che gli avevano fatto, non quando John stava rischiando di morire a causa di sua sorella.
 Greg gli accarezzò la schiena e i capelli, tirandolo a sé, senza aggiungere altro, probabilmente avendo capito che nulla di ciò che avrebbe detto avrebbe potuto aiutare lui o John.
 Ad un tratto i paramedici si bloccarono, allontanando le mani dal corpo di Watson, fermando le manovre di primo soccorso. Lo osservarono per un momento, si scambiarono sguardi fugaci, poi il più anziano di loro scosse il capo.
 «È finita.» disse, mettendosi in piedi. «Non c’è altro da fare.»
 A quelle parole, Sherlock sentì il cuore fermarsi nel petto. «No…» ansimò, sentendo la nausea invaderlo. «No, per favore…»
 Greg gli poggiò una mano sulla spalla. «Mi dispiace tanto, Sherlock…»
 Holmes, tuttavia, non gli diede ascolto: si scostò e si mise in piedi, raggiungendo l’amico, ancora steso sull’erba.
 «John…» singhiozzò, vedendo il suo volto pallido e le sue labbra esangui. Cadde in ginocchio al suo fianco, accarezzandogli il viso, lasciando che le lacrime gli rigassero le guance. «No…» ansimò. «No, ti prego… non puoi morire…»
 I paramedici e gli agenti avanzarono per tentare di allontanarlo dal corpo del dottore, ma Lestrade li bloccò sollevando una mano.
 «Lasciatelo.» ordinò con voce ferma e perentoria. «È il suo migliore amico.»
 A quelle parole, tutti fecero un passo indietro, osservando senza parole quella scena straziante.
 Sherlock accarezzò il viso di John, singhiozzando, mentre lacrime bollenti tracciavano solchi profondi sul suo viso, bruciando la sua pelle.
 «John… apri gli occhi, ti prego…» pianse. «Non puoi lasciarmi solo… ho bisogno di te…» poggiò la fronte contro la sua, continuando ad accarezzargli le guance. «Per favore, John… ti prego… non essere morto… torna da me…»
 Sherlock si mosse in avanti e poggiò le proprie labbra su quelle fredde ed esangui del suo migliore amico, regalandogli un bacio carico di tutti quei sentimenti mai espressi e di tutto l’amore che sempre aveva provato per lui.
 E il suo cuore si frantumò definitivamente. Pezzo dopo pezzo venne inghiottito dall’oscurità e avvolto dall’oblio; ogni singola parte della sua anima venne cancellata non appena la sua bocca si poggiò su quella di John, assaggiando il sapore della morte dalle sue labbra.
 Un singhiozzo lasciò le labbra del consulente investigativo, accarezzando quelle di John. Il consulente investigativo sfiorò i capelli dell’amico e il suo viso, mentre le sue lacrime lasciavano i suoi occhi per infrangersi sulla pelle fredda di John.
 Sherlock gemette sulla bocca dell’amico. «Ti amo, John… ti amo, non puoi lasciarmi solo… per favore…»
 E John riprese a respirare improvvisamente.
 Il consulente investigativo si allontanò di scatto, ansimando.
 Watson annaspò e, voltandosi su un fianco, tossì e vomitò l’acqua che aveva ingerito.
 Gli occhi di Sherlock si spalancarono.
 «John» disse senza fiato.
 E il suo cuore ripartì, insieme a quello di John Watson.
 John continuò a tossire convulsamente, e quando i suoi polmoni si furono svuotati completamente, prese un profondo respiro e gemette, cadendo nuovamente sulla schiena. Fece qualche respiro profondo, poi aprì gli occhi e incontrò il viso di Sherlock, a pochi centimetri dal suo.
 «Sher… lock…» sussurrò sollevando una mano nella sua direzione.
 Sherlock non perse tempo: lo prese fra le braccia, sollevandolo da terra e stringendolo a sé. Poi poggiò la fronte contro la sua, chiudendo gli occhi.
 «John…» singhiozzò, il cuore che galoppava nel petto, il viso rigato dalle lacrime.
 Il medico poggiò una mano sulla sua guancia, accarezzandola teneramente con il pollice.
 I loro nasi si accarezzarono e le loro labbra si sfiorarono. A quel contatto, i due ansimarono uno nella bocca dell’altro.
 Sherlock strinse più forte il corpo di John.
 «John…» mormorò, solleticando la bocca dell’amico nel pronunciare il suo nome.
 John sfiorò nuovamente il viso dell’amico con una mano. «Sherlock…»
 «Stai bene?» chiese Sherlock, cullandolo fra le sue braccia.
 John annuì, avvolgendo il suo collo con le braccia. «Tu stai bene?»
 «Adesso sì.» rispose il consulente investigativo. Aumentò la stretta intorno al corpo di John, sentendo che il suo cuore aveva lentamente ricominciato a battere, riportandolo in vita. «Credevo di averti perso.» sussurrò sulla sua bocca, poi affondò il viso nella sua spalla.
 «Anche io.» mormorò John, in risposta.
 
 «Mi dispiace per il tuo amico.» disse John.
 Sherlock annuì.
 Dopo il controllo medico, aveva raccontato a John tutta la storia sentendo di dovergli una spiegazione dopo tutto ciò che aveva subito a causa di Eurus. Gli aveva spiegato chi era stato per lui Victor Trevor, gli aveva raccontato delle loro avventure e di quanto avesse tenuto a lui, di quanto avesse sofferto dopo averlo perso, tanto da averne rimosso completamente il ricordo, raccontandogli di come e perché sua sorella lo avesse ucciso.
 Watson aveva ascoltato in silenzio seduto sull’ambulanza, avvolto in una coperta, permettendogli di sfogarsi versando le sue ultime lacrime, in modo che potesse liberarsi dal terribile peso che fino a quel momento lo aveva oppresso e tormentato, senza che nemmeno ne fosse cosciente.
 Sherlock si strinse nelle spalle. Ripensare a tutto ciò che era successo gli fece provare una potente stretta al cuore. Gli occhi gli si riempirono nuovamente di lacrime e, prima che potesse fermarle, queste traboccarono rigandogli le guance. L’uomo abbassò lo sguardo, tentando di nasconderle; le sue labbra presero a tremare e un leggero singhiozzo eruppe da esse.
 John, seduto accanto a lui sull’ambulanza ancora ferma nel giardino, si avvicinò maggiormente e gli circondò le spalle con un braccio in modo che la coperta che lo avvolgeva potesse coprire anche lui.
 Sherlock si portò una mano al viso per nascondere quelle lacrime che tanto detestava e che non avrebbe mai voluto versare a causa di Eurus.
 «Va tutto bene.» disse John, proprio come Sherlock aveva fatto con lui non molto tempo prima. Gli accarezzò la schiena e il viso, avvolgendolo completamente con la coperta. «Shh… va tutto bene, Sherlock.»
 Sherlock scosse il capo, riconoscendo le sue parole in quelle di John. Purtroppo, però, questa volta, nulla andava bene.
 «No, non è vero.» singhiozzò, tremando contro di lui.
 John sospirò. «No.» sussurrò. «Ma le cose stanno così.»
 
 Sherlock e John vennero trasportati in ospedale per gli accertamenti medici, ed entrambi vennero visitati approfonditamente per capire se avessero subito danni fisici o psicologici.
 John sembrava stare bene: non aveva subito traumi, aveva espulso completamente l’acqua dai polmoni, e i paramedici erano intervenuti appena in tempo sventando l’ipotermia, perciò non ci sarebbero state conseguenze permanenti dopo quell’esperienza. 
 Sherlock, invece, era visibilmente sotto shock. Da quando era salito sull’ambulanza non aveva più proferito parola: si era chiuso nel più completo silenzio, rannicchiandosi su un fianco su una delle barelle, e circondandosi il corpo con le braccia. Unico segno della sua presenza erano stati i leggeri singhiozzi che di tanto in tanto lasciavano le sue labbra rimbombando nell’abitacolo, accompagnati dalle lacrime che continuavano a rigargli le guance senza sosta.
 Anche in quel momento, a visita conclusa, sdraiato su uno dei lettini, rannicchiato su un fianco, in attesa del via libera dei medici, Sherlock sembrava prigioniero della sua stessa mente, chiuso in una specie di trance che ormai durava da ore.
 John – che durante il controllo dell’amico era rimasto sul materasso accanto a quello di Holmes, per non lasciarlo solo – non poté fare a meno di provare una dolorosa fitta al petto nel vedere così il suo migliore amico. Non aveva mai visto Sherlock così esposto, fragile e completamente privo di difese. Tutta la sua forza sembrava svanita, per lasciare posto a quel bambino che trent’anni prima aveva perso il suo migliore amico a causa dell’ingiustificata gelosia della sorella.
 Il medico aveva pensato a lungo a ciò che Sherlock gli aveva raccontato poco prima e aveva capito che tutto ciò che il consulente investigativo era e tutto ciò che faceva era una diretta conseguenza di ciò che aveva subito e che aveva rimosso dato che gli avrebbe causato troppo dolore.
 Ciò che più lo aveva spiazzato era stato vederlo crollare subito in seguito a quelle rivelazioni, quasi quelle informazioni avessero finalmente scatenato in lui la reazione che avrebbe dovuto avere anni prima, subito dopo la morte di Victor. Era come se avesse trattenuto quel dolore così a lungo da permettergli di logorarlo dall’interno, cancellando ogni singola parte di ciò che era stato e sarebbe potuto diventare, rendendolo un uomo completamente diverso.
 Un singhiozzo improvviso eruppe dalle labbra di Sherlock rimbombando tra le pareti della stanza e riportando il dottore alla realtà.
 John sollevò lo sguardo e vide che il consulente investigativo aveva chiuso gli occhi e si rannicchiato maggiormente su se stesso, portandosi le ginocchia al petto e tremando.
 Il medico sospirò e scese dal materasso. Si mise lentamente in piedi e raggiunse l’amico; prese la coperta stesa ai piedi del materasso e la stese su di lui in modo che fosse al caldo. Poi sospirò e gli poggiò delicatamente una mano sul braccio, per richiamare la sua attenzione.
 «Sherlock?» mormorò con voce roca a causa dei conati di vomito indotti dai paramedici per fargli espellere completamente l’acqua dai polmoni.
 Tuttavia non ottenne risposta.
 Holmes mantenne gli occhi serrati, le braccia stretta intorno al petto, il corpo rannicchiato in posizione fetale, il respiro rotto dai singhiozzi.
 «Sherlock, guardami.» insistette John. E si chinò per avere il viso all’altezza di quello dell’amico.
 Il consulente investigativo non si mosse.
 A quel punto John gli accarezzò delicatamente il capo.
 «Sherlock…» sussurrò dolcemente.
 Il silenzio li avvolse per lunghi istanti, poi, finalmente, la voce di Sherlock – flebile e sommessa – lo ruppe.
 «Ti ho perso, John…» mormorò. «Ti ho perso…»
 John aggrottò le sopracciglia, spiazzato di fronte a quelle parole apparentemente prive di senso. «No. Non mi hai perso.» rispose, incerto. «Cosa te lo fa pensare?»
 «Non riesco a sentirti…» disse Sherlock con voce rotta.
 Quelle parole fecero capire al medico quanto il suo amico fosse sconvolto e perso. Erano prive di un’apparente senso, ma in realtà nascondevano un profondo dolore e un’immensa paura.
 Gli tornò in mente la storia del piccolo Victor.
 La sua scomparsa.
 Il pozzo.
 Le ricerca.
 La stessa cosa successa a lui poche ore prima.
 Eurus l’aveva preso, lo aveva gettato in un pozzo, sfidando Sherlock a ritrovarlo utilizzando il medesimo indovinello postogli anni prima. E lui era quasi annegato proprio come era successo a Victor.
 E Sherlock si era trovato nuovamente in quella situazione. Si era sentito impotente di fronte alla furia omicida della sorella, incapace di aiutare John, proprio come non aveva potuto aiutare il suo migliore amico trent’anni prima.
 «Sono qui, Sherlock.» sussurrò John. Poggiò una mano su quella di lui e continuando ad accarezzargli i capelli poggiò la fronte contro la sua tempia, chiudendo gli occhi. «Mi senti?» domandò sommessamente. «Sono qui con te.»
 Il corpo di Sherlock tremò e l’uomo gemette. «No… lei ti ha preso…» singhiozzò. «Ti ha portato via e io non riesco a trovarti…»
 John si allontanò da lui e portò nuovamente il viso al livello di quello di Holmes.
 «Apri gli occhi, Sherlock.» disse, affondando le dita nei suoi ricci. «Apri gli occhi.»
 Sherlock ansimò. Le sue palpebre tremarono, poi, lentamente si sollevarono, rivelando i suoi occhi azzurri colmi di lacrime. Non appena si posarono sul volto di John, un gemito sfuggì dalle sue labbra.
 «John» singhiozzò, come se solo in quel momento si fosse reso conto della sua presenza al suo fianco e avesse realizzato che era ancora lì con lui.
 Il medico accennò un sorriso e annuì.
 Il consulente investigativo sembrò disorientato. «Sei reale…» mormorò. «Sei… sei qui…»
 Watson annuì. «Sì.» rispose. «Sono qui e non me ne andrò, te lo prometto.»
 Sherlock ansimò, mentre le lacrime riprendevano a rigargli le guance.
 John lo sollevò e lo strinse fra le braccia, cullandolo dolcemente. Gli accarezzò i capelli e la schiena, lasciando che l’amico si rannicchiasse contro di lui e affondasse il viso nella sua spalla.
 «John…» singhiozzò il consulente investigativo, aggrappandosi alle sue spalle.
 «Va tutto bene.» assicurò il dottore, accarezzandogli i capelli. «È tutto finito. Sei riuscito a trovarmi.»
 Holmes scosse il capo. «Tu hai trovato me…»
 John chiuse gli occhi e lo strinse maggiormente a sé.
 
 Sherlock e John tornarono a casa il giorno seguente.
 Dato che Baker Street era stata distrutta dalla granata piazzata da Eurus, Sherlock si trasferì provvisoriamente a casa di Mycroft in attesa di risistemare l’appartamento e poter tornare a casa. John aveva insistito sperando che Sherlock decidesse di rimanere a casa sua insieme a lui e Rosie fino a che il 221B non fosse tornato agibile, ma il giovane Holmes aveva gentilmente declinato la proposta, sentendo di aver bisogno di rimanere da solo per un po’.
 Per giorni evitò ogni contatto con John e con suo fratello – nonostante vivessero a stretto contatto – rimanendo chiuso nella sua stanza, sdraiato sul materasso e immerso nell’oscurità. Non voleva vedere nessuno, né tantomeno confrontarsi con nessuno. Forse, si ritrovò a pensare, se fosse rimasto nella più completa solitudine, lontano da tutto e da tutti, avrebbe evitato altri crolli come quello avuto in ospedale di fronte al suo migliore amico. Inoltre, il più lontano fosse rimasto da John Watson, meno l’avrebbe messo in pericolo, rischiando di perderlo ancora una volta, com’era successo a Sherrinford.
 Nell’oscurità della sua stanza, le immagini di quel giorno continuavano a tormentarlo, impresse a fuoco nella sua mente, quasi a ricordargli che tutto era accaduto per colpa sua.
 Insieme ad esse, il dolore e le lacrime sembravano volerlo soffocare. Ogni cosa intorno e dentro di lui si era fatta opprimente: i ricordi, i pensieri, l’oscurità, la solitudine.
 Per questo, dopo una settimana passata rinchiuso in quella casa, Sherlock, nel bel mezzo della notte, se ne andò.
 
 Mycroft uscì dalla sua stanza lavato e vestito, pronto per fare colazione.
 Quella mattina sarebbe tornato al lavoro dopo i cinque giorni di malattia che il governo gli aveva gentilmente concesso alla luce di ciò che era accaduto. Finalmente, si disse, sarebbe riuscito a smettere di pensare a Eurus e a ciò che aveva fatto loro. Anche se per poco, dato che i suoi genitori li avrebbero raggiunti a breve per discutere della sorte di Eurus e del perché lui avesse scelto di mentire loro riguardo la sorella.
 Oltrepassò la porta della stanza di Sherlock e si bloccò.
 Forse avrebbe dovuto…
 Ma Sherlock gli aveva fatto capire che avrebbe voluto rimanere solo, quindi andare da lui non sarebbe stata una grande idea.
 Tuttavia, dopo quasi una settimana passato chiuso nella sua stanza senza mangiare e parlare con nessuno, probabilmente per Sherlock era arrivato il momento di uscire. E a tirarlo fuori avrebbe dovuto pensarci lui, o suo fratello non ce l’avrebbe fatta.
 Tornò sui suoi passi, deciso a tirare suo fratello fuori da quella stanza, anche se avrebbe significato doversi confrontare con lui.
 Poggiò una mano sulla maniglia, prese un bel respiro e la girò, aprendo lentamente la porta. Varcò la soglia ed entrò nella stanza, lasciandosi avvolgere dall’oscurità. Mycroft avanzò verso il materasso e una volta a pochi passi da esso, si bloccò.
 Cosa gli avrebbe detto?
 Come lo avrebbe convinto?
 Si impose di mantenere la calma e inspirò profondamente.
 «Sherlock?» lo chiamò sommessamente. «Devi alzarti. Non puoi continuare a rimanere chiuso qui dentro.»
 Silenzio.
 «Sherlock» ripeté il politico.
 Nulla. Nemmeno un movimento.
 «Sherlock, per l’amor del cielo, smettila di comportarti in maniera così infantile.» sbottò Mycroft, alzando la voce e avvicinandosi per scuoterlo e costringerlo ad alzarsi.
 Tuttavia, quando le sue mani sfiorarono il materasso, non incontrarono il corpo di Sherlock, ma solo la stoffa delle lenzuola e delle coperte.
 Holmes aggrottò le sopracciglia e si voltò, accendendo l’abat-jour sul comodino.
 Il fascio di luce illuminò il materasso e una porzione di camera da letto, abbastanza da permettere a Mycroft di vedere che suo fratello non si trovava lì.
 Il letto era sfatto e vuoto.
 «Cosa…?» sfuggì all’uomo, che si voltò in cerca di suo fratello.
 La stanza, però, era completamente vuota.
 Quando se n’era andato?
 Perché lui non se n’era accorto?
 La notte precedente era ancora lì, l’aveva sentito gridare a causa di un incubo e poi aveva sentito i suoi singhiozzi attraverso la porta. Non era entrato per controllare perché sapeva che Sherlock l’avrebbe cacciato, ma sapeva che suo fratello era lì. E anche la sera precedente l’aveva sentito muoversi all’interno delle stanza.
 Quindi doveva essersene andato quella notte, mentre lui stava dormendo.
 Mycroft sentì lo stomaco contorcersi dentro di lui.
 Da due giorni stava infuriando una vera e propria tempesta su Londra, e suo fratello decideva di andarsene a zonzo per la città, sotto la pioggia e durante la notte? Ma cosa gli era preso?
 Senza aspettare oltre prese il cellulare dalla tasca e compose il numero di Anthea.
 
 Il messaggio raggiunse John a metà mattina, mentre stava imboccando Rosie, che intanto era distratta dalla pallina di stoffa regalatale da Molly la settimana precedente. Quando sentì squillare il telefono, ormai rassegnatosi all’idea che sua figlia non avrebbe mai finito la sua colazione, poggiò il cucchiaino sul tavolo ed estrasse l’apparecchio dalla tasca.
 Quando vide che l’SMS era di Mycroft, lo aprì immediatamente, ricordando che il maggiore degli Holmes gli aveva promesso di dargli notizie di Sherlock.
 Il suo cuore perse un battito.
 
 Sherlock è sparito.
                        MH
 
 John aggrottò le sopracciglia. Sparito? Cosa significava?
 Digitò la risposta e la inviò.
 
 Che vuoi dire?
 
 Poco dopo giunse la risposta.
 
 È scappato e non riesco a rintracciarlo.
                                                           MH
 
 John osservò il messaggio per qualche secondo, mentre il suo cervello cominciava a lavorare freneticamente per capire dove Sherlock potesse essere andato.
 Alla fine scosse il capo, tornando alla realtà, richiamato dalla vocina squillante di sua figlia. Sospirò e inviò un SMS a Molly per chiederle di tenere Rosie per il tempo necessario a rintracciare Sherlock, e quando ebbe ottenuto una risposta affermativa da parte dell’amica, chiamò Mycroft, mentre preparava l’occorrente per sua figlia.
 «Quando se n’è andato?» chiese, cercando il sonaglino di Rosie fra i giocattoli sparsi sul pavimento, mentre Rosie, nel lettino, stava giocando con un pupazzetto e ridendo tra sé e sé, lanciandolo in aria e lasciandolo cadere fra le coperte.
 «Questa notte, credo.» rispose Mycroft, dall’altro capo. Nella sua voce erano perfettamente udibili la paura e la preoccupazione che lo stavano scuotendo.
 «Non l’hai sentito andarsene?» domandò John, maledicendo tra sé e sé il disordine del salotto.
 «No.»
 John sospirò e si alzò dal pavimento, riponendo distrattamente il sonaglio nella borsa.
 Stava piovendo ininterrottamente da quasi due giorni e quella notte e temperature si erano abbassate notevolmente. Sherlock poteva davvero aver passato un’intera notte in balia del freddo, vagando per Londra? O forse si era rifugiato in qualche covo per drogati in cerca di una dose e di un riparo?
 Scosse il capo. «Com’è possibile che nemmeno i tuoi uomini siano riusciti ad individuarlo?» chiese, riflettendo ad alta voce. Poi, un pensiero si insinuò nella sua mente e John si bloccò al centro del salotto. «Potrebbe aver lasciato Londra?»
 E se avesse deciso di tornare a Sherrinford? Da Eurus magari, per vendicarsi di ciò che la sorella gli aveva fatto passare durante l’infanzia e durante le settimane precedenti.
 «Non credo.» replicò Mycroft. «Non ha preso nessuna delle auto e non credo che a piedi possa essere andato lontano. Tantomeno a Sherrinford.» disse, intuendo ciò che spaventava il medico. Poi sospirò mestamente. «Ma era sconvolto.»
 John aggrottò le sopracciglia. «Sconvolto?»
 «Ha avuto gli incubi tutta la settimana.» spiegò Holmes. «E non ha mai lasciato la sua stanza. Nemmeno per mangiare.»
 Watson sentì lo stomaco contorcersi dentro di lui.
 Sherlock non l’aveva contattato per giorni, da quando si era trasferito da suo fratello, e adesso capiva perché. Era sconvolto, troppo anche solo per mangiare e lasciare la sua stanza, e persino per chiedere aiuto.
 «Io credo…» la voce di Mycroft si affievolì. «Ho paura che potrebbe fare qualcosa di stupido. Ho paura che-»
 «No.» sbottò John, interrompendolo, sapendo dove il maggiore degli Holmes sarebbe andato a parare. «Non succederà, Mycroft. Ok?»
 Mycroft sospirò.
 «Troverò Sherlock.» aggiunse, prendendo sua figlia fra le braccia e issandosi la borsa sulla spalla. «Andrà tutto bene.»
 Il politico rimase in silenzio.
 «Mycroft?» lo chiamò il medico, con dolcezza. «Te lo prometto.»
 «Grazie.» fu la flebile risposta dell’uomo.
 «Ti aggiorno appena scopro qualcosa.» concluse John, poi chiuse la chiamata. Ripose il cellulare in tasca, sospirando, poi osservò sua figlia, che gli aveva poggiato una mano sulla guancia. «Bene, amore, è ora di andare.» concluse e si avviò verso la porta.
 
 Una volta raggiunta casa di Molly e averle affidato Rosie, John si addentrò nelle vie trafficate di Londra, raggiungendo tutti i posti in cui Sherlock avrebbe potuto nascondersi, in cerca di qualche segno della sua presenza.
 Mentre si dirigeva verso il covo di drogati che lui e Billy erano soliti frequentare, aveva chiamato Greg chiedendogli di contattarlo se avesse avuto sue notizie, sperando che la polizia, che possedeva mezzi più avanzati dei suoi – anche se meno avanzati di quelli di Mycroft e dei suoi uomini – potesse riuscire a rintracciarlo. Tuttavia, dopo aver vagato per più di due ore per la città, controllando i nascondigli più utilizzati dal suo migliore amico, John poté affermare di aver fatto un buco nell’acqua. E considerato che nemmeno Mycroft né Greg si erano fatti vivi, anche loro dovevano essere nella medesima situazione.
 Il medico si bloccò su un marciapiede, poco lontano da Hyde Park.
 Dove poteva essere andato?
 Era sconvolto dopo ciò che Eurus gli aveva fatto passare e dopo aver scoperto cos’era successo a Victor, ma a meno che fosse tornato a Sherrinford per vendicarsi sulla sorella – cosa poco probabile – non c’era nessuno luogo a cui John potesse pensare, in cui Sherlock avrebbe potuto rifugiarsi.
 A meno che…
 A Sherrinford, Sherlock non aveva scoperto soltanto di cosa sua sorella fosse capace, la verità sulla sua infanzia e sul perché avesse scelto di rinunciare ai sentimenti e alle emozioni, ma anche che Eurus aveva pilotato tutta la sua vita.
 Tutto ciò che Sherlock aveva fatto e tutto ciò che aveva vissuto era stato parte di un grande piano studiato da Eurus, soltanto per vendicarsi di un bambino di cinque anni che non era mai riuscita ad amare.
 Ogni cosa, ogni singolo attimo della sua vita, ogni sua battaglia per il bene, non era stato altro che una mossa che lo aveva portato sempre più vicino a sua sorella.
 Anche Moriarty.
 Soprattutto Moriarty.
 E tutto era cominciato al Bart’s.
 Il cuore accelerò.
 Ma certo, Sherlock doveva essere lì. L’unico luogo in cui nessuno aveva ancora pensato di controllare e in cui era cominciata ogni cosa.
 La loro amicizia.
 Il primo incontro con Moriarty.
 Il problema finale.
 Senza perdere altro tempo, John si mise a correre.
 
 John spalancò le porte del laboratorio con una spinta. Corse all’interno, girando intorno ai banconi, in cerca del suo migliore amico, ma di lui non vi era alcuna traccia.
 Ansimando, abbassò lo sguardo, confuso e disorientato.
 Com’era possibile che Sherlock non fosse nemmeno lì? Lì, dove tutto era cominciato… dove Moriarty aveva dato inizio al loro gioco…
 Sherlock doveva essere lì. Non c’era altro posto in cui…
 «No…» ansimò, sollevando il capo e portandosi una mano alla bocca.
 C’era un altro posto.
 Era lì, al Bart’s, solo qualche piano sopra di lui.
 Ed era il luogo in cui lui e Moriarty si erano confrontati. Quello in cui Jim si era ucciso, per permettere a Eurus di proseguire nel suo piano, e quello in cui Sherlock aveva dovuto dire addio alla sua vita e ai suoi amici, per intraprendere una missione suicida in Europa dell’Est.
 John si precipitò fuori.
 
 Quando arrivò sul tetto, dopo aver spalancato la porta in ferro, John venne colpito in pieno viso dal vento freddo di fine estate e dalla pioggia che continuava a cadere incessante su tutta Londra da quasi tre giorni.
 Il medico dovette sbattere più volte le palpebre per mettere a fuoco la figura di Sherlock. L'amico era rannicchiata in posizione fetale sul pavimento del tetto, poggiato al cornicione, zuppo d’acqua a causa della pioggia che stava sferzando il suo corpo con violenza.
 «Sherlock» ansimò John e lo raggiunse.
 Si inginocchiò al suo fianco, poggiandogli una mano sulla spalla.
 «Sherlock» lo chiamò, parlando abbastanza forte da sovrastare lo scroscio della pioggia. Cercò la sua mano e la strinse, per richiamare la sua attenzione.
 Un brivido gli percorse la spina dorsale.
 La sua pelle era gelata.
 Per quanto tempo era rimasto lì fuori, in balia del temporale?
 Come aveva fatto a resistere?
 «Apri gli occhi.» aggiunse, pregando che non fosse troppo tardi e non fosse già in ipotermia. «Avanti, Sherlock, apri gli occhi.»
 Il corpo dell’amico tremò sotto il suo tocco e al suono della sua voce. Un ansito lasciò le sue labbra e, lentamente, Sherlock sollevò il capo e aprì gli occhi. Non appena il suo sguardo incontrò quello di John, il suo corpo tremò.
 «J-John…» balbettò, il respiro rotto.
 «Sì, Sherlock, sono io.» disse il medico, poggiandogli una mano sul viso, decisamente sollevato nel vederlo sveglio.
 Gli scostò una ciocca di capelli dagli occhi e osservò il suo volto scavato, la barba che gli incorniciava le labbra e le occhiaie che gli cerchiavano gli occhi. Era dimagrito così tanto che i suoi zigomi si erano fatti ancora più taglienti e persino le sue mani erano diventate scheletriche.
 John si tolse la giacca e gliela poggiò sulle spalle, facendo scorrere le sue mani sulle braccia dell’amico per tentare di riscaldarlo.
 «Cosa…» ansimò il consulente investigativo, tremando per il freddo. «Cosa fai qui?»
 «Ti stavo cercando.» rispose il medico. «Sei scappato… eravamo preoccupati per te. Credevamo ti fosse successo qualcosa.»
 Sospirò e si voltò verso la porta. Doveva portare Sherlock via di lì prima che fosse troppo tardi. Doveva riscaldarlo prima che andasse in ipotermia e per farlo doveva riuscire a trascinarlo giù per le scale e fuori dal Bart’s, fino a casa sua.  
 Si voltò nuovamente verso l’amico. «Ce la fai a camminare?» chiese, poggiandogli una mano sul volto e sfiorandogli lo zigomo con il pollice.
 Sherlock scosse il capo. «No…» prese un profondo respiro e riprese. «Lasciami… lasciami qui…»
 «No, è fuori discussione, Sherlock.» replicò Watson, in tono perentorio, scostandogli nuovamente i capelli dal viso e cercando il suo sguardo. «Dobbiamo riscaldarti prima che il tuo corpo vada in ipotermia. Se rimani qui, morirai.»
 Holmes scosse la testa con più vigore. «Tu non capisci… era… era tutta una bugia…» gemette. «Ogni cosa… tutto quello che ho fatto… i due anni che… che…» singhiozzò, mentre le lacrime prendevano a rigargli il volto mescolandosi alla gocce di pioggia. «Non era vero niente… è stato tutto inutile…»
 «Non è vero, Sherlock.» replicò il medico, accarezzandogli il capo, sfiorando i suoi riccioli grondanti di pioggia. «Hai fatto moltissimo, e tutto per tenere in vita noi. Hai protetto tutti noi da Moriarty… credi davvero che sia stato inutile?»
 Sherlock si rannicchiò maggiormente su se stesso, gemendo. «Non era reale…» pianse. «Ti ho rovinato la vita, ti ho fatto soffrire… ed è stato tutto vano… tutto il dolore e queste cicatrici… ogni cosa…»
 John aggrottò le sopracciglia, sentendo una morsa allo stomaco a quelle parole.
 Cicatrici?
 «E adesso io non…» singhiozzò Sherlock. «Sono inutile… ero solo parte di un gioco… nient’altro… non sono mai stato nient’altro…»
 John gli accarezzò la schiena. «Questo non è vero, e lo sai.» disse. «Sei sempre stato molto più di questo.»
 «Lei ti ha quasi ucciso per colpa mia…» replicò il consulente investigativo, scuotendo il capo. «Sei morto fra le mie braccia… sei morto e ho rischiato di perderti per sempre…»
 «Ma sono qui, Sherlock.» fece notare il dottore. «Sono qui con te.»
 Sherlock scosse il capo, tremando, scosso dai singhiozzi. «Lei ha vinto…» disse. «Ha vinto e io voglio solo che tutto questo finisca…» si interruppe di colpo, chinandosi in avanti e gemendo dal dolore. «Fallo smettere…» pianse. «Per favore… fallo smettere…»
 Il cuore di John, a quelle parole, si spezzò.
 Eurus era riuscito a distruggerlo, impresa in cui nemmeno Moriarty e Magnussen erano riusciti. Eppure, lei, con bugie e indovinelli, trucchi e sfide, era riuscita a distruggere quel poco che di Sherlock era rimasto.
 John sospirò e accarezzò la schiena dell’amico.    
 Avrebbe voluto tentare di farlo sentire meglio, aiutarlo a superare quel momento, ma sapeva di non averne il tempo. Il corpo di Sherlock era sempre più freddo e vicino all’ipotermia, e John avrebbe dovuto tentare di riscaldarlo al più presto. Ma di certo non poteva farlo lì su quel tetto. Perciò si mise in piedi e circondò il petto di Sherlock con le braccia, sollevandolo da terra.
 «Forza, Sherlock. Adesso ti porto a casa.» disse, sorreggendolo.
 Holmes si issò sulle gambe, reggendosi all’amico, continuando a tremare e singhiozzare.
 Il medico gli fece passare un braccio intorno alla sua vita e gli prese la mano. Camminando al suo fianco, raggiunse le scale, e lentamente i due si diressero verso l’uscita dell’ospedale.
 Il taxi accostò di fronte alla villetta di John.
 Watson pagò l’autista e aprì la portiera, aiutando Sherlock a scendere dall’auto e richiudendo la porta con una spinta. Poi circondò i fianchi dell’amico con un braccio, sorreggendolo mentre attraversavano il vialetto, sotto la pioggia battente.
 «Forza, Sherlock, ancora un piccolo sforzo.» disse, sentendo che il corpo del consulente investigativo si era fatto sempre più pesante e il suo passo sempre più trascinato.
 Holmes gemette sommessamente in segno di assenso e continuò a camminare lentamente, fino a che non raggiunsero la porta.
 Insieme salirono i tre gradini che li separavano dall’entrata e il medico girò la chiave nella toppa; quando ebbero varcato la soglia, Watson si richiuse la porta alle spalle con un calcio, continuando a sorreggere Holmes, che ormai sembrava non essere più in grado di stare in piedi da solo.
 «Vieni, andiamo in bagno. Devo riscaldarti.» disse John, indicando le scale che portavano al piano superiore. Tuttavia, quando si mosse, Sherlock collassò fra le sue braccia. «Sherlock» esclamò il dottore, lasciandosi scivolare al suo fianco, in modo che non si facesse del male.
 Gli accarezzò il viso, sentendo quanto fosse freddo, e cercò il suo sguardo. Vedendo che sotto le palpebre non c’era movimento, capì che Sherlock aveva perso i sensi. Il suo sguardo si posò sulle labbra bluastre dell’amico e il suo cuore accelerò.
 Non c’era tempo di aspettare che riprendesse i sensi.
 Perciò gli fece passare un braccio sotto le spalle e uno sotto le ginocchia e lo sollevò da terra, stringendolo fra le braccia. Era dimagrito così tanto che John non fece alcuna fatica a salire le scale e a trasportarlo fino al bagno.
 Una volta arrivato, lo fece sdraiare sul pavimento, accanto alla vasca, poi aprì il rubinetto sull’acqua tiepida e lasciò che la vasca si riempisse. Tornò a voltarsi verso Sherlock e, dopo essersi inginocchiato al suo fianco, gli sfilò il cappotto e la giacca, scarpe e calzini, e infine la camicia, lasciandogli soltanto i pantaloni.
 Fu in quel momento che lei vide.
 Delle piccola cicatrici circolari e dei tagli di varie dimensioni e spessore. Il petto del suo amico ne era ricoperto e il loro colore argenteo sembrava risaltare sulla sua pelle pallida e tirata.
 Le cicatrici, ricordò. Ecco di cosa parlava Sherlock, sul tetto.
 Oh, Dio… pensò. Chi ti ha fatto questo?
 Poi ricordò il racconto dell’amico sulla sua missione in Europa dell’Est e quanto fosse stato difficile e pericoloso smantellare la rete di complici di Moriarty.
 Bastardi.
 Quando la vasca si fu riempita, John lo sollevò nuovamente fra le braccia e si immerse nell’acqua, imponendo di non pensare alle cicatrici, almeno per quel momento.
 Si sedette e posizionò il corpo di Sherlock fra le proprie gambe, in modo che avesse la schiena poggiata contro il proprio petto, immergendosi nell’acqua fino al collo e prendendo a massaggiare il petto con delicatezza, in modo da riattivare la circolazione.
 Dopo un momento di immobilità, Sherlock riprese i sensi con un ansito, percependo la differenza fra la temperatura del proprio corpo e quella dell’acqua. Si agitò fra le braccia del medico, tentando di uscire dall’acqua, tremando per il freddo.
 John gli accarezzò la fronte e il petto per tranquillizzarlo. «Ehi, ehi… va tutto bene.» sussurrò al suo orecchio, chinando il capo per cercare il suo sguardo. «Stai fermo, dobbiamo alzare la temperatura, o rischi di andare in ipotermia.»
 Sherlock ansimò, il respiro rotto e accelerato, guardandosi intorno. Quando incontrò lo sguardo di John, i suoi occhi si colmarono di lacrime. «John…» balbettò.
 «Sì. Va tutto bene, stai tranquillo.»
 «Freddo…»
 «Lo so.» affermò il dottore. «Passerà, devi solo rimanere in acqua. Vedrai che passerà presto.» assicurò, continuando ad accarezzargli petto e braccia, poggiando una guancia contro la sua tempia. «Andrà tutto bene.»
 Sherlock tremò. «Sto cadendo… sto cadendo di nuovo…» singhiozzò, il volto rigato dalle lacrime, la voce tremante a causa dei brividi di freddo. «Per favore, non lasciarmi… non lasciarmi andare, John… tienimi stretto…»
 «Non ti lascio, Sherlock.» assicurò John, accarezzandogli i capelli, sapendo che, nonostante le sue parole sembrassero senza senso, in realtà erano perfettamente coerenti. «Non ti lascerò cadere, questa volta. Te lo prometto.»
 Sherlock gemette e si voltò, rannicchiandosi contro il suo petto e portando le ginocchia al petto. Si aggrappò alla camicia di Watson con le mani e affondò il capo nell’incavo della sua spalla, chiudendo gli occhi e piangendo silenziosamente.
 Fu in quel momento che John, accarezzandogli la schiena, si accorse delle altre cicatrici.
Aggrottò le sopracciglia e si sporse appena, studiando la schiena dell’amico e sfiorando la sua pelle con i polpastrelli.
 Gli mancò il respiro.
 La schiena di Sherlock era martoriata da una rete di cicatrici argentee ormai guarite ma perfettamente visibili sulla sua pelle pallida. Credeva che si fossero limitati a torturarlo con coltello e sigarette, ma quelli… quelli erano segni di frustate.
 Senza accorgersene, aumentò la presa intorno al corpo di Sherlock.
 Come avevano potuto fare una cosa del genere?
 E come poteva, Sherlock, averlo permesso?
 Sospirò e poggiò il capo sopra quello di lui, chiudendogli occhi e accarezzando il corpo del suo migliore amico. Non importava cosa fosse accaduto di lì in poi, John si ripromise che non avrebbe più permesso che una cosa del genere accadesse ancora.
 
 Mezz’ora più tardi, John aiutò Sherlock a mettersi in piedi, e dopo averlo fatto uscire dalla vasca e avergli sfilato i pantaloni bagnati, lo fece sedere sul pavimento, accanto alla stufa, sperando che riuscisse a scaldarsi, dato che ormai l’ipotermia era stata scongiurata grazie al bagno caldo. Prese un asciugamano e gli asciugò capelli, petto, braccia e gambe, sfregandoli con delicatezza, quasi avesse paura di fargli del male, tanto l’amico sembrava fragile sotto il suo tocco.
 Sherlock non protestò. Rimase immerso nel silenzio, lasciando che John si prendesse cura di lui, lo sguardo puntato sul pavimento, vacuo, quasi in quel momento non si trovasse realmente lì.
 Alla fine, quando fu completamente asciutto ed ebbe ripreso un po’ di colore, John raggiunse la sua stanza, si cambiò, poi prese una delle coperte poggiate sul materasso. Tornò in bagno e la poggiò sulle spalle di Holmes, avvolgendolo completamente in modo che potesse rimanere al caldo.
 E Sherlock sollevò finalmente lo sguardo sul suo viso. I suoi occhi erano colmi di lacrime, lucidi e scintillanti, le pupille così dilatate da cancellare quasi completamente l’iride.
 John non aveva mai visto tanto dolore e tanta angoscia perturbare il volto del suo migliore amico. Dopo l’esperienza a Sherrinford, Sherlock non sembrava più lo stesso. Era disperato, impaurito, perso.
 Il medico sollevò una mano e gli sfiorò il viso con le dita, in un gesto dolce e involontario.
 Un respiro tremante lasciò le labbra di Sherlock.
 John sospirò, poi gli fece passare un braccio sotto le ginocchia e uno dietro le spalle e lo sollevò nuovamente da terra, mettendosi in piedi.
 Sherlock circondò il suo collo con le braccia e affondò il viso nell’incavo della sua spalla, lasciandosi stringere e beandosi del calore del corpo di John, senza opporsi o protestare.
 Il dottore poté percepire il respiro accelerato dell’amico contro il proprio collo e il suo petto alzarsi e abbassarsi a contatto con il proprio.
 Insieme scesero al piano inferiore e raggiunsero il salotto.
 
 John si svegliò la mattina seguente ancora seduto sul pavimento del salotto, con un braccio poggiato sul divano e il capo premuto su esso.
 Non appena aprì gli occhi, la prima cosa che percepì fu un forte dolore al collo, a causa della posizione alquanto scomoda in cui aveva dormito, e un potente formicolio al braccio destro. Si portò una mano alla testa e si massaggiò la base del collo, stirando la schiena. Inspirò profondamente, poi si voltò, vedendo che Sherlock era ancora rannicchiato sul divano, sotto la coperta, immerso nel sonno.
 La sera precedente, dopo averlo portato in salotto e avergli somministrato un’aspirina, John era rimasto accanto a lui fino a che non si era addormentato e in seguito, accortosi di quanto fosse agitato il sonno dell’amico, si era seduto accanto a lui e gli aveva accarezzato i capelli e tenuto la mano, per calmarlo.
 Solo in quel momento si accorse di avere la mano ancora chiusa intorno a quella di Sherlock, pallida e magra come mai era stata prima di allora. Sollevò una mano e gli accarezzò i capelli e la fronte, sospirando nel vedere il suo migliore amico così diverso.
 Lo osservò per svariati minuti, studiando il suo volto immerso nel sonno e nella tranquillità dopo ore di agitazione e paura, e alla fine si mise in piedi, deciso a preparargli la colazione, in modo da costringerlo a mangiare e rimettersi in forze.
 Entrò in cucina e si mise al lavoro.
 Ciò che era successo il giorno precedente, sul tetto del Bart’s, lo aveva tormentato a lungo, quella notte. Le parole di Sherlock e il dolore con il quale le aveva pronunciate… John non avrebbe mai creduto di poter soffrire così tanto nel vedere così il suo migliore amico. Aveva sentito il cuore frantumarsi nel momento in cui Sherlock aveva pronunciato il suo nome, fra le lacrime, come una richiesta di aiuto.
 E lui avrebbe voluto aiutarlo. Strappargli quella sofferenza con la forza, restituirgli il sorriso e la serenità che ormai aveva perso dalla morte di Mary… ma non poteva. Era ben conscio di non poterlo fare.
 Del resto, non aveva mai fatto molto per lui, quindi non avrebbe fatto differenza.
 Al contrario di Sherlock, che per lui aveva rinunciato alla sua vita per ben due anni, aveva rinunciato alla su libertà uccidendo Magnussen, aveva minacciato di uccidersi piuttosto che fargli del male e che poi si era gettato in un pozzo per salvargli la vita, il medico non aveva fatto altro che farlo soffrire.
 Prima gli aveva spezzato il cuore, negandogli il suo amore – dato che a quanto pareva, Sherlock era palesemente innamorato di lui da anni – poi aveva disprezzato il suo sacrificio, sminuendolo come se il suo migliore amico avesse compiuto quelle scelte per farlo soffrire, invece che per salvargli la vita. E, non contento, l’aveva anche incolpato per la morte di Mary, malmenandolo e insultandolo per qualcosa che non aveva fatto e per cui non aveva assolutamente colpa.
 John sospirò, sollevando il capo e puntando gli occhi verso il soffitto.
 Come avrebbe potuto stare a guardare?
 Doveva fare qualcosa.
 Esattamente come Sherlock aveva fatto per lui, dando ogni cosa – la sua libertà, la sua vita – per permettergli di essere felice e avere la famiglia che tanto desiderava, pur sapendo che in quel modo lo avrebbe perso per sempre.
 Il dottore aveva pensato a lungo alle parole di Sherlock, a quel ti amo sussurrato a Sherrinford, che tanto lo aveva sconvolto e sorpreso, e si era domandato come il suo migliore amico avesse potuto vivere insieme a lui per tanto tempo senza confessarglielo. E ciò che più lo aveva sconvolto era stato pensare al fatto che avesse accettato di fargli da testimone al suo matrimonio con Mary, mettendo da parte i propri sentimenti, per renderlo felice.
 Dio, come aveva potuto essere così cieco da non vedere?
 Sherlock aveva tentato di farglielo capire in così tanti modi… tuttavia, John era sempre stato troppo impegnato a ignorare tutti quei segni e ad insistere sul fatto di non essere gay, per notarlo. E in quel modo aveva ucciso l’unico barlume di sentimento che si era acceso in Sherlock dopo tanto tempo.
 Sono un disastro, si disse. Un pessimo amico e un vero disastro.
 Il bollitore prese a sbuffare sonoramente, interrompendo il corso dei suoi pensieri.
 John si voltò e dopo aver versato il tè nelle tazze, tornò in salotto con il vassoio fra le mani. Tuttavia, quando varcò la soglia della cucina, vide che Sherlock era scomparso.
 Si bloccò, il cuore che batteva all’impazzata, gli occhi spalancati. Avanzò verso il divano e dopo aver poggiato il vassoio sul tavolino da caffè, si mosse per raggiungere il piano superiore e controllare se Sherlock fosse salito.
 Si scontrò con lui per le scale.
 Il consulente investigativo aveva recuperato i suoi abiti – ormai asciutti – dal bagno e si era rivestito. Era ancora pallido ma aveva le guance arrossate a causa della febbre, le mani stavano tremando leggermente mentre stava tentando di agganciare i bottoni della giacca e sembrava instabile sulle gambe.
 «Sherlock» disse John, bloccandosi di fronte a lui. «Cosa fai in piedi?»
 Sherlock abbassò lo sguardo. «Devo andare.» mormorò, oltrepassando l’amico, riprendendo a scendere le scale, senza degnarlo di uno sguardo.
 «Andare? Dove?» domandò Watson, voltandosi e seguendolo fino in salotto. «Hai ancora la febbre e a malapena ti reggi in piedi.»
 «Grazie per quello che hai fatto per me.» affermò Holmes, ansimando leggermente per lo sforzo, senza mai incrociare lo sguardo del dottore, quasi non avesse nemmeno udito le sue parole.
 John sentì un tuffo al cuore. Davvero pensava di andarsene dopo quel crollo emotivo e quella fuga in cui aveva rischiato l’ipotermia? Non riusciva nemmeno a reggersi in piedi, come avrebbe potuto lasciare la casa? Per andare dove, poi? Baker Street era distrutta.
 «Hai rischiato di andare in ipotermia soltanto ieri sera.» fece notare il medico, riscuotendosi, sperando di riuscire a convincerlo a rimanere. «Non puoi uscire vestito così, al freddo, rischiando di-»
 L’altro lo interruppe. «Sono rimasto qui già troppo a lungo. Devo tornare a casa.»
 «Dalla casa da cui sei fuggito nel bel mezzo della notte, dopo esserti rinchiuso nella tua stanza per una settimana?» chiese John, bruscamente. Poi sospirò, rendendosi conto di aver esagerato. «Sherlock, permettimi di aiutarti.» mormorò, avvicinandosi a lui e poggiandogli una mano sul braccio, accarezzandolo con delicatezza. «So che stai soffrendo e voglio solo-»
 «Non ho bisogno del tuo aiuto.» sibilò Sherlock, liberandosi dalla sua presa con uno strattone. La voce tremò. «Adesso lasciami andare.» e indossò il suo cappotto e si avviò verso la porta.
 John, nonostante l’amico non avesse mai sollevato lo sguardo per incrociare il suo, sapeva che le lacrime avevano rigato il suo volto non appena aveva nominato ciò che era successo. Perciò lo seguì.
 «Sherlock!» lo chiamò.
 Lo raggiunse, uscendo di casa, e nel mezzo del vialetto lo afferrò per un braccio, facendolo voltare verso di sé e fermandolo prima che potesse allontanarsi.
 «Fermati.»
 Sherlock ansimò. «Lasciami andare.»
 «No»
 «Lasciami subito, John.» ripeté, la voce ormai tremante, dimenandosi.
 «No. Non ti permetterò di commettere il mio stesso errore. La solitudine non farà che peggiorare le cose. Renderà tutto più difficile, lo sai.» affermò John, continuando a trattenerlo. «Lascia che ti aiuti. Lascia che ti rimanga accanto, come avrei dovuto fare fin dall’inizio.»
 Sherlock, gli occhi ormai colmi di lacrime, scosse il capo, tentando di liberarsi dalla sua presa d’acciaio.
 «Non posso.» gemette.
 «Perché no?»
 «Perché non ci riesco…» singhiozzò Sherlock e le lacrime gli rigarono le guance. «Non sopporto di rimanerti vicino. Non dopo quello che ti ho fatto…»
 Gli occhi di John si spalancarono per la sorpresa. «Di cosa stai parlando?»
 «Ho rovinato tutto…» ansimò il moro. «Ero riuscito a mantenere il segreto… e poi lei… lei ha rovinato tutto e io ti ho confessato quello che provo, e adesso è tutto distrutto…»   
 Il medico rimase senza fiato. «Sherlock, non è vero.» assicurò. «Non hai rovinato nulla.»
 «Invece sì!» esclamò il consulente investigativo. «Ho rovinato la nostra amicizia, la tua vita e tutto ciò che avevamo…» scosse il capo, abbassando lo sguardo. «Mi dispiace tanto…»
 «Smettila» ribattè John. «Sono stupidaggini. Non hai rovinato niente.»
 «Io… quello che ho detto…» ansimò, il respiro affannoso.
 John si avvicinò. «Sherlock, tranquillizzati.»
 Lui scosse il capo, sempre più pallido e sconvolto. Tuttavia, quando tentò di indietreggiare, le ginocchia cedettero sotto il suo peso, trascinandolo a terra prima che potesse allontanarsi da John.
 Il medico lo afferrò appena in tempo, prendendolo fra le braccia e accompagnandolo nella caduta. Una volta inginocchiato a terra, si sporse per cercare i suoi occhi, e vedendo che aveva perso i sensi lo sollevò nuovamente fra le braccia, avviandosi all’interno della casa.
 Dopo essersi chiuso la porta alle spalle, nuovamente grondante d’acqua a causa della pioggia, entrò in salotto. Si avvicinò al divano e vi fece nuovamente sdraiare Sherlock, ponendogli tre cuscini sotto i piedi, sperando che potesse aiutarlo a riprendere i sensi.
 Infatti, dopo qualche minuto, le palpebre di Sherlock traballarono. I suoi occhi si aprirono lentamente e le iridi blu incontrarono quelle di John, a poca distanza dalle sue. Per un momento sembrò disorientato, poi realizzò.
 «John…» mormorò con voce flebile.
 John annuì, accarezzandogli una guancia, ancora bollente a causa della febbre. «Rimani sdraiato.» si raccomandò, poggiandogli una mano sulla fronte. «Hai ancora la febbre, devi riposare.» sospirò e gli prese le mani stringendole fra le proprie per riscaldarle. «Hai freddo?»
 Sherlock annuì e il suo corpo tremò.
 «Ti prendo una coperta.» disse Watson e si mise in piedi, raggiungendo il lettino di Rosie, su cui era poggiata una coperta invernale. Tornò accanto all’amico e la stese sopra di lui, che intanto si era rannicchiato su un fianco, poi si sedette al suo fianco, osservandolo.
 Sherlock gemette, poi sollevò lo sguardo sul viso dell’amico, incontrando i suoi occhi. «John…» mormorò, allungando una mano verso di lui.
 «Shh…» sussurrò il medico e gli prese la mano. «Adesso dormi.» sussurrò, accarezzandogli teneramente i capelli e poggiando poi la fronte contro la sua. «Ti prometto che quando ti sveglierai sarò ancora qui.»
 Sherlock annuì, poi chiuse gli occhi.
 
 Sherlock si svegliò qualche ora dopo.
 John, come promesso, era ancora accanto a lui. Lo stava osservando, accarezzandogli le dita e il dorso della mano e giocherellando con i suoi capelli, che asciugandosi si erano arricciati, avvolgendosi ancor più su loro stessi.
 Le iridi blu di Sherlock saettarono immediatamente a cercare quelle dell’amico, a pochi centimetri dalle proprie, intente a studiare ogni particolare del suo viso, e quando i loro occhi si agganciarono, John gli rivolse un dolce sorriso.
 «Ciao.» mormorò Watson, accarezzandogli la fronte e controllando intanto che la febbre fosse scesa. «La febbre è scesa. Come ti senti?»
 «Meglio.» replicò Holmes. «Per quanto ho dormito?»
 «Qualche ora.» rispose John. «Tre per la precisione.»
 «E tu sei rimasto lì sul pavimento per tutto il tempo?» chiese il consulente investigativo.
 Il medico fece spallucce, rivolgendogli un mezzo sorriso. Si era spostato sul pavimento quando Sherlock aveva preso ad agitarsi leggermente nel sonno a causa della febbre, per permettergli di stare più comodo sul divano.
 «Controllavo che la febbre non salisse di nuovo.» spiegò. «E che non avessi incubi.»
 Sherlock accennò un sorriso e si mise lentamente seduto, poggiando la schiena alla spalliera del divano, massaggiandosi la fronte. «Nessun incubo.» assicurò.
 «Bene.» concluse John, prendendo posto al suo fianco. «Mycroft mi ha detto che nell’ultima settimana hai fatto fatica a dormire.»
 Sherlock annuì.
 «Eurus?»
 Annuì ancora, abbassando lo sguardo.
 «È finita.» assicurò John, avvicinandosi a lui e poggiando una mano sulla sua. «So che fa male, e che è difficile, ma devi provare a lasciarti tutto alle spalle.»
 Il volto di Sherlock si contrasse e le sue labbra tremarono.
 «Sherlock, guardami.» insistette il medico, stringendo leggermente la sua mano. «È tutto finito.»   
 Nell’istante in cui Sherlock chiuse gli occhi, un flash gli balenò nella mente. Lui si portò una mano alla fronte, improvvisamente disorientato. Frammenti di immagini si accavallarono nella sua mente, scorrendo velocemente una dietro l’altra, senza sosta, come le immagini di un film e aggrovigliandosi in una matassa confusa.
 Victor.
 «All’arrembaggio, Barbagialla!»
 «Agli ordini, capitano Barbarossa!»
 Eurus.
 «Gioca con me, Sherlock. Gioca con me!»
 John.
 Il suo corpo immobile.
 Le sue labbra fredde.
 Il sapore della morte.
 Sherlock ansimò, chinò il capo, ansimando pesantemente e tentando di allontanare quelle immagini dalla sua mente.
 Doveva dimenticare.
 Eliminare ogni cosa. Ogni immagine dolorosa. Ogni ricordo.  
 Le lacrime gli rigarono le guance e il suo respiro accelerò bruscamente.
 E le vide ancora.
 Victor.
 Le sue ossa.
 Il pozzo.
 L’acqua.
 John.
 Il suo corpo.
 Il freddo.
 La morte.
 «Sherlock»
 L’uomo riaprì gli occhi di scatto, ridestato dalla voce di John, mentre respiri rapidi e rotti lasciavano le sue labbra e lacrime fredde bagnavano la sua pelle bollente. Lo colse un improvviso capogiro e tutto intorno a lui cominciò a vorticare.
 «Sherlock, ehi.» ripeté il dottore.
 Holmes prese un profondo respiro e si voltò. Incontrò lo sguardo del suo migliore amico, e si mise in piedi, barcollando leggermente sulle gambe.
 Watson scattò in piedi a sua volta, seguendolo.
 Sherlock abbassò lo sguardo e scosse il capo, ansimando. Indietreggiò portandosi una mano alla fronte, senza fiato, ancora disorientato da quei ricordi che continuavano ad affiorare invece di sparire.
 «Non riesco a dimenticare.» mormorò con voce rotta.
 «Dimenticare?» domandò il medico, perplesso, aggrottando le sopracciglia.
 «Eurus» singhiozzò Sherlock, sapendo che Watson non avrebbe avuto bisogno di spiegazioni. «Come posso andare avanti se non riesco a cancellare dalla mia mente quello che è successo? Eurus… Victor… e te…» scosse il capo, mentre le lacrime continuavano a rigargli il viso senza sosta. «Ti ho quasi perso, e non riesco a non pensare al fatto che sei morto fra le mie braccia…»
 «Ma adesso sono qui.» fece notare John, raggiungendolo. «Siamo entrambi al sicuro.»
 «Sì, ma io…» Sherlock chiuse gli occhi e altre lacrime gli rigarono le guance. «Non sono stato in grado di proteggerti… proprio come non ero riuscito a salvare Victor. E non riesco a non pensarci. Continuo a rivederti in quel pozzo e a sentire la tua pelle fredda e…» il suo respiro accelerò ancora, tramutandosi in ansiti e gemiti.
 «Calmati, Sherlock.» disse John.
 Il corpo del consulente investigativo tremò violentemente, poi Sherlock sentì le gambe vacillare sotto il suo peso, cedendo improvvisamente sotto il suo peso, incapaci di reggerlo ulteriormente.
 Il medico lo afferrò appena in tempo prima che collassasse a terra e lo sorresse tenendolo per le braccia, scivolando a terra insieme a lui e inginocchiandosi al suo fianco e circondandogli il petto con un braccio.
 «Mi dispiace…» singhiozzò Sherlock, tremando. «Mi dispiace tanto…»
 Watson scosse il capo. «Va tutto bene.» assicurò, accarezzandogli la schiena.
 Sherlock scosse il capo, portandosi una mano alla bocca per attutire i singhiozzi che continuavano a scuoterlo violentemente. «Perdonami, John…» lo implorò. «Perdonami, ti prego…»
 Il medico sospirò e lo tirò verso di sé, lasciando che poggiasse il capo sul suo petto. «Non c’è nulla da perdonare.» sussurrò e gli accarezzò i capelli e il viso, tenendolo stretto a sé. «Va tutto bene. Stai tranquillo.»
 Sherlock gemette, chinandosi in avanti, sentendo una fitta potentissima trafiggergli il cuore. Per un momento gli mancò il fiato; annaspò, tremando e abbandonandosi contro il corpo dell’amico, sperando che quel momento di vicinanza potesse colmare il vuoto che sentiva dentro da quando quella storia era cominciata.
 
 Il mattino seguente, Sherlock si svegliò sentendo qualcuno accarezzargli i capelli.
 Aprì gli occhi e inspirò profondamente, osservando ciò che aveva intorno. Capì di essere ancora a casa di John, quando vide, sul pavimento a pochi centimetri dal suo viso, alcuni dei giocattoli di Rosie.
 Aggrottò le sopracciglia e si voltò, incontrando gli occhi di John, a poca distanza dai propri.
 «Ciao.» lo salutò il medico.
 Sherlock si era addormentato con il capo poggiato sulle sue gambe e a giudicare dalla stanchezza che traspariva sui suoi occhi, John doveva essere rimasto sveglio tutta la notte a controllarlo. Ricordò ciò che era successo la sera precedente. I flashback e il crollo che li aveva seguiti, le lacrime, le scuse e le rassicurazioni, e poi le mani di John, che lo avevano accarezzato fino a che non era sprofondato nel sonno.
 «Non hai dormito.» affermò con voce roca.
 «Ti stavo controllando.» replicò il medico.
 Sherlock si mise seduto, massaggiandosi la fronte e chiudendo gli occhi. Fece un respiro profondo, sentendo un leggero capogiro coglierlo all’improvviso, tentando di mantenere la lucidità. Si sentiva stranamente debole, come se il crollo della sera precedente avesse prosciugato tutte le sue forze.
 «Ti senti bene?» domandò Watson, poggiandogli una mano sulla spalla.
 Il consulente investigativo poté sentire la pelle bruciare, dove la mano di John era entrata in contatto con la sua spalla. Sospirò, imponendosi di mantenere il controllo, poi si voltò, incrociando il suo sguardo.
 Annuì e si schiarì la voce. «Mi… mi dispiace per ieri sera.» balbettò. «Non avrei mai voluto… non volevo reagire in quel modo e…» scosse il capo. «Scusami, John…»
 John accennò un sorriso. «Non devi scusarti.» disse. «Non è successo niente di grave.»
 Sherlock abbassò il capo, amareggiato. Aver perso il controllo di fronte a John lo faceva sentire in imbarazzo più di quanto avrebbe dovuto.
 Il suo migliore amico l’aveva già visto crollare dopo tutto ciò che avevano passato a Sherrinford, ma la sera precedente era accaduto senza alcuno motivo apparente e forse era stato proprio questo a sconvolgerlo. Il fatto di non essere più in grado di controllarsi.
 «Ehi» lo chiamò Watson, facendogli nuovamente sollevare lo sguardo e riportandolo alla realtà. Gli sorrise in modo rassicurante. «Va tutto bene. Ok? Basta scusarsi.»
 Sherlock lo osservò per qualche istante, poi annuì.
 «Ti va di fare colazione?» domandò il medico dopo un momento di silenzio.
 «Sì.» rispose Holmes.
 Watson si mise in piedi e gli offrì la mano. Sherlock la prese, e John, notando che l’amico sembrava troppo debole per alzarsi da solo, gli circondò il petto con un braccio, aiutandolo a mettersi in piedi.
 «Grazie.» mormorò il consulente investigativo, sentendo il cuore accelerare quando le mani di John entrarono in contatto con il suo corpo.
 Dopo anni passati insieme, John continuava a fargli quell’effetto. Ogni volta in cui lo sfiorava o il suo sguardo si posava su di lui, Sherlock poteva sentire la sua pelle bruciare come se fosse lambita dal fuoco, e il cuore galoppare nel petto così velocemente da togliergli il fiato.
 John sorrise e quando fu certo che Holmes fosse stabile sulle gambe, lo lasciò andare, interrompendo quel contatto e avviandosi verso la cucina per preparare la colazione.
 
 Proprio come la sera precedente, Sherlock e John fecero colazione immersi nel più completo silenzio. Bevvero il caffè e mangiarono qualche biscotto senza parlare, seduti uno accanto all’altro al tavolo della cucina, lasciandosi cullare solamente dal ticchettio dell’orologio appeso alla parete sopra il lavandino.
 Per questo quando Sherlock cominciò a singhiozzare, John se ne accorse immediatamente.
 Il medico si voltò di scatto, ridestato da un ansito improvviso, e vide che Sherlock aveva il capo basso e gli occhi serrati, le mani chiuse con forza intorno alla tazza. Il suo viso era bagnato dalle lacrime, che stavano scivolando lungo le sue guance, perdendosi nella barba che gli incorniciava le labbra da qualche giorno, e infrangendosi sulla sua giacca, scintillando sotto la luce proveniente dalla finestra.
 John sospirò. Si voltò e poggiò una mano su quelle di lui, allontanandole dalla tazza per stringerle, mentre con l’altra prese ad accarezzare la nuca di Sherlock.
 «Sherlock» disse, cercando il suo sguardo.
 Sherlock singhiozzò, scuotendo il capo. «Mi dispiace…» pianse. «Mi dispiace…» si portò una mano alla fronte, risalendo fino ai capelli, stringendoli con forza fra le dita. «Sono inutile… non sono nemmeno in grado di pensare con lucidità…»
 «Non è vero.»
 «Lei mi ha distrutto… ha distrutto ogni cosa…»
 John sospirò. «Dobbiamo andare avanti.» affermò. «Dobbiamo tentare superarlo.»
 «Come posso superarlo, se non riesco a dimenticare?» chiese Sherlock. «Non riesco a cancellarlo dalla mia mente… non ci riesco…»
 «Lo so.» confermò John. «E non devi cancellarlo, Sherlock. Hai visto cos’è successo l’ultima volta.» fece notare, continuando ad accarezzare gentilmente le sue mani. «Utilizza ciò che è successo per diventare più forte. Usa ciò che Eurus ti ha fatto per diventare l’uomo che lei ti ha impedito di essere tanti anni fa.»
 Gli occhi di Sherlock incontrarono quelli di John. «Non so essere un uomo diverso da ciò che sono.» affermò.
 Il medico sollevò una mano e gli accarezzò le guance, spazzando via le lacrime con delicatezza. «Questo non è vero.» affermò con un mezzo sorriso. «Sei cambiato così tanto in questi anni.»
 «Sei stato tu a cambiarmi, John.» replicò. «Tu mi hai reso migliore. Senza di te non sarei stato in grado di diventare l’uomo che sono adesso.»
 John rise sommessamente. «Lo sei sempre stato. Non è stato merito mio.»  
 Il consulente investigativo aggrottò le sopracciglia.
 «Io ti ho sempre visto per ciò che eri veramente, anche se avevi sempre tentato di nasconderlo. La recita del sociopatico iperattivo con me non ha mai attaccato.» affermò sorridendo. «Sherlock Holmes è sempre stato qui dentro.» disse, poggiandogli una mano sul cuore. «Insieme l’abbiamo solo fatto emergere, tutto qui.»
 Sherlock abbassò lo sguardo.
 John sospirò. «Ascolta, Sherlock, qualsiasi cosa accadrà da qui in poi, la affronteremo insieme.» disse. «D’accordo?» chiese, chinandosi per cercare lo sguardo dell’amico e intrecciando le loro dita, ancora poggiate le une sulle altre. «Non sei solo. Non lo sarai mai più, d’ora in poi.»
 Quando i loro occhi si incontrarono, Sherlock annuì.
 Il medico gli sorrise, poi affondò le dita nel suoi capelli, accarezzandogli la base del capo, tirandolo poi verso di sé e poggiando la fronte contro la sua tempia. Gli baciò delicatamente una guancia e si lasciò inebriare dal suo profumo.
 Entrambi chiusero gli occhi, beandosi di quella vicinanza e di quel calore, rimanendo immersi nel silenzio per lungo tempo.
 
 Mycroft aprì la porta che era da poco passata l’ora di cena, dopo aver sentito il campanello suonare insistentemente e a lungo, segno che qualcuno stava aspettando sotto la pioggia nel vialetto esterno.
 Non appena spalancò l’uscio, si trovò di fronte Sherlock e John, entrambi bagnati dalla pioggia che batteva incessante su Londra da quasi quattro giorni, in piedi uno accanto all’altro, in attesa.
 Il medico sembrava avere parecchie ore di sonno arretrate a giudicare dalle occhiaie che gli cerchiavano gli occhi e dal pallore del suo volto, ma sembrava essere deciso a rimanere in piedi, tanto che la sua posa militare era più rigida che mai.
 Suo fratello, invece, era così pallido e magro da sembrare reduce da una malattia. La barba – vecchia ormai di qualche giorno – gli incorniciava il volto contribuendo a rendere la sua magrezza ancora più accentuata; i suoi occhi, si solito di colori accesi e variopinti, erano di un azzurro spento e ceruleo, quasi il tempo uggioso di Londra ne avesse prosciugato completamente i colori.
 Tuttavia era lì.
 Dopo due giorni di assenza, era tornato a casa.
 Non appena John lo aveva ritrovato si era premurato di avvertirlo, facendogli sapere che si sarebbe preso cura di lui per il tempo necessario a rimetterlo in forze, ma Mycroft non aveva potuto nascondere che avrebbe voluto vederlo immediatamente per accertarsi riguardo le sue condizioni, non solo fisiche ma anche mentali.
 «Sherlock» esalò Mycroft, non riuscendo a trattenersi. «Stai bene? Ero così preoccupato.»
 Sherlock abbassò lo sguardo.
 Solo in quel momento il politico si accorse che John stava tenendo la mano di suo fratello, accarezzandone delicatamente il dorso con il pollice.
 «Sherlock ha bisogno di sdraiarsi.» affermò il dottore. «Ha ancora la febbre e deve riposare. Forse sarebbe meglio se adesso si mettesse a letto e parlaste più tardi.» consiglio, incontrando lo sguardo del politico.
 Mycroft annuì e si scostò, lasciandoli entrare.
 John si fermò nell’ingresso, aiutando Sherlock a sfilarsi il cappotto, appendendolo all’appendiabiti, poi gli sorrise dolcemente. «Chiamami se dovessi avere bisogno di qualcosa, ok?» disse. «E mettiti a letto.»
 Sherlock annuì.
 «Perché non lo accompagni tu di sopra?» propose Mycroft, chiudendo la porta e avviandosi verso il salotto. «La sua stanza è la seconda a sinistra.» poi entrò in salotto, lasciandoli soli.
 
 John osservò Mycroft andarsene, poi si voltò verso Sherlock, osservandolo in silenzio per qualche secondo.
 «Andiamo.» disse, prendendogli nuovamente la mano. «Ce la fai ad arrivare di sopra?»
 «Perché?» chiese Holmes, abbozzando un sorriso. «Altrimenti mi porti in braccio?»
 «Ah, vedo che abbiamo ritrovato il nostro senso dell’umorismo. Ti stai decisamente riprendendo.» ribatté John, ridacchiando e seguendolo lentamente su per le scale, affiancandolo in maniera da poterlo tenere nel caso fosse caduto o avesse perso l’equilibrio. «E per la cronaca sei molto leggero. Sei dimagrito ancora.»
 «Lo so.» ammise Sherlock, ansimando per la fatica.
 John si fermò, slacciandogli i bottoni della giacca per permettergli di respirare. «Con calma.»
 «Sto bene.» assicurò lui.
 «Sei ancora debole.» replicò il dottore, poggiandogli una mano sulla guancia, che si era colorata di rosso acceso e si era fatta bollente. «E non abbiamo fretta… Respira profondamente.»
 Sherlock annuì e chiuse gli occhi per qualche secondo. Quando fu certo di aver recuperato la lucidità, riaprì gli occhi e si voltò verso John, cercando il suo sguardo.
 «È tutto ok.» disse. «Andiamo.»
 E insieme ripresero a salire le scale.
 
 Quando raggiunsero la stanza di Sherlock, John si avvicinò alla cassettiera, porse il pigiama al consulente investigativo e lui raggiunse il bagno adiacente alla camera per cambiarsi, lasciando la porta leggermente aperta, sapendo che il medico avrebbe voluto controllarlo.
 John rimase in attesa nella stanza, con la schiena poggiata alla cassettiera.
 La camera da letto era immersa nella semioscurità, ma il medico poté vedere perfettamente che i pochi effetti personali rimasti a Sherlock dopo l’esplosione – il suo violino, qualche spartito, qualche libro e alcuni dei suoi oggetti scientifici – erano stati portati lì e poggiati accanto all’armadio.
 Il suo sguardo cadde sul violino, il bellissimo violino che il suo migliore amico aveva suonato così tante volte quando avevano condiviso l’appartamento al 221B, per allietare i loro pomeriggi o le loro serate, o per scacciare gli incubi che lo tormentavano dopo l’Afghanistan, sperando che lui non se ne accorgesse.
 Dio, da quanto non lo sentiva suonare?
 Solo in quel momento si accorse di quanto gli fosse mancato. E non solo il suono del violino, ma la sua vita al 221B, il disordine, le risate, le cene da Angelo, i casi, e soprattutto Sherlock.
 Non poté fare a meno di gettare uno sguardo all’interno del bagno, dove, riflessa nello specchio, vide nuovamente la schiena pallida e magra di Sherlock.
 Un brivido gli percorse la schiena nel vedere per l’ennesima volta le cicatrici e le ferite che la martoriavano partendo dalle spalle scendendo fino alla sua base, percorrendola per tutta la sua lunghezza.
 Tuttavia, nonostante il nodo allo stomaco, non riuscì a distogliere lo sguardo. La consapevolezza che fosse tutta colpa sua lo tormentava: tutto ciò che Sherlock aveva subito in quei due anni era stato per proteggere lui, la signora Hudson e Greg. Ma in fondo John sapeva che lo aveva fatto soprattutto per lui.
 A Sherrinford ne aveva avuto la conferma. E non solo a causa della dichiarazione d’amore che Sherlock gli aveva fatto, ma anche perché aveva dato tutto per salvarlo e proteggerlo dalla follia di Eurus.
 Proprio come aveva fatto in quei due anni, contro i complici di Moriarty.
 Come avevano potuto fargli una cosa del genere? Come aveva potuto spingersi così oltre?
 E come aveva potuto, lui, non accorgersi di ciò che aveva subito in quella missione suicida? O comunque non chiedere spiegazioni riguardo quei due anni che Sherlock aveva passato lontano da Londra? Era davvero un tale, pessimo amico?
 Non aveva fatto altro che incolparlo per averlo lasciato solo quando Sherlock aveva passato due anni della sua vita a proteggerlo a costa della sua vita, rinunciando a tutto per lui.
 Quindi, forse, era giunto il momento di chiedere spiegazioni.
«Forse dovremmo parlarne.» esordì il medico, rompendo il silenzio che si era creato all’interno della stanza.
 Vide il riflesso di Sherlock bloccarsi improvvisamente, gli occhi fissi sul suo riflesso nello specchio, dove le sue braccia nude e coperte di cicatrici spiccavano sotto le luci a neon della specchiera. Deglutì a vuoto, abbassò lo sguardo e abbassò le maniche della camicia fino ai polsi tentando di nascondere le ferite. Le spalle si curvarono involontariamente, quasi il peso di tutto ciò che era successo lo stesse schiacciando.
 «Di cosa?» domandò dopo qualche secondo di silenzio, riemergendo dal bagno e fermandosi sulla soglia, osservando l’amico.
 «Delle cicatrici.» rispose il dottore, incrociando il suo sguardo.
 Holmes rimase in silenzio, immobile, cercando di non tradire alcuna emozione. Ma i suoi occhi raccontavano tutta un’altra storia.
 «Sì, le ho viste.» disse John, vedendo che non aveva accennato a parlare o rispondere alle sue domande. «E vorrei che mi spiegassi.»
 Il moro abbassò lo sguardo. «Non c’è nulla da spiegare.»
 «Io invece credo di sì.» affermò il dottore.
 «Be’, le hai viste. È successo nei due anni in cui sono stato lontano da Londra.» chiese, schiarendosi la voce. «Cos’altro c’è da dire?»
 «Oh, non lo so.» replicò Watson. «Forse chi sia stato a farti una cosa del genere? O come sia successo? O perché tu abbia scelto di non dirmelo?»
 Sherlock strinse i pugni. «Non era importante.»
 John aggrottò le sopracciglia, ma quella reazione non gli sfuggì. «Come, scusa?» chiese, la voce ridotta ad un sussurro. «Come può non esserlo, Sherlock? Ti hanno torturato. Come fai a dire che non è importante? Guarda cosa ti hanno fatto…»
 «Lo vedo ogni giorno!» esclamò Sherlock, improvvisamente, riportando lo sguardo sul viso del dottore.
 Gli occhi di Watson si spalancarono per la sorpresa.
 Il consulente investigativo, resosi conto della sua reazione improvvisa ed esagerata, sospirò, abbassando lo sguardo e chiudendo gli occhi.
 «Lo vedo ogni giorno…» mormorò nuovamente e si avvicinò al materasso, scostando le coperte e sistemando i cuscini, tentando di evitare in tutti i modi lo sguardo dell’amico, ancora fisso su di lui.
 John lo osservò, e non gli sfuggì la rabbia nei suoi movimenti e il tremore che lo aveva colto improvvisamente; lo raggiunse e gli poggiò le mani sulle braccia, bloccandolo.
 «Fermati.» disse.
 Lui scosse il capo.
 «Fermati, Sherlock, ti prego.» ripeté e lo fece voltare gentilmente verso di sé prendendolo per le spalle. Lo costrinse a guardarlo negli occhi, prendendogli il volto fra le mani e agganciando il suo sguardo. Gli sfiorò gli zigomi con i pollici, accarezzandoli con delicatezza e tenerezza. Poi riprese, in un sussurro «Mi permetti di vederle?»
 «Perché?» chiese Sherlock, incerto.
 «Perché se lo farai, io ti lascerò vedere le mie.»
 Holmes esitò, aggrottando le sopracciglia, visibilmente confuso. Tuttavia non fece domande: deglutì a vuoto, osservando a lungo il volto del suo migliore amico, e alla fine si ritrovò ad annuire flebilmente.
 John lo liberò dalla sua presa, abbassando le braccia, e Sherlock tolse i bottoni dalle asole, aprendo la camicia. Prese un bel respiro, poi la sfilò, facendola scorrere lungo le braccia, scoprendo petto e schiena; chinò il capo, sentendo il sangue affluire alle guance.
 Il medico sollevò una mano, facendola scorrere sulle cicatrici con delicatezza, accarezzandole con le dita, percorrendole una ad una, come se servisse a spazzarle via. Sul petto, sulle braccia, sulle spalle, sulla schiena, sfiorando ogni centimetro della sua pelle.  
 «Chi?» sussurrò, senza allontanare gli occhi dalle bruciature di sigaretta sulle braccia e dai tagli sul suo petto.
 «I complici di Moriarty.»
 «Dove?»
 «Est Europa.»
 John sollevò lo sguardo di scatto e aggrottò le sopracciglia. «Quindi…» esordì, mettendo insieme i pezzi del puzzle, uno ad uno. «Per questo ti sei indotto quell’overdose, sull’aereo… non volevi tornare là un’altra volta.»
 Holmes annuì.
 Gli occhi di John luccicarono. Abbassò lo sguardo e poggiò una mano sul petto di Sherlock, sul suo cuore che stava galoppando sotto la pelle pallida, scendendo poi fino ai suoi fianchi.
 «Perché non me lo hai detto?» chiese in un sussurro, con voce tremante. «Perché non mi hai mai raccontato quello che era successo?»
 Le lacrime colmarono gli occhi di Sherlock e lui scosse il capo.
 John sospirò, poi indietreggiò. Era arrivato il momento di mostrare le proprie.
 Si tolse la giacca e dopo averla poggiata sul materasso, slacciò i polsini della camicia e arrotolò le maniche fino ai gomiti, sotto lo sguardo perplesso di Sherlock, poi tornò di fronte a lui, colmando la distanza che li separava, porgendogli le braccia.
 Sherlock trattenne il fiato.
 Dopo mesi, il medico abbassò nuovamente lo sguardo sulle proprie braccia, ritrovando il coraggio di guardare ciò che si era fatto.
 La sua pelle erano percorsa orizzontalmente da cicatrici sottili, e ormai rimarginate, di un pallido colore argenteo. Erano così fitte da coprire quasi ogni centimetro di pelle, come se avesse passato ogni giorno a infliggersele per anni, perché in fondo era proprio così che era andata.
 Era successo subito dopo la morte di Sherlock. Era cominciata per sbaglio, con un taglio fatto con il rasoio da barba mentre si radeva; poi la cosa era andata peggiorando sempre di più, e lui aveva perso il controllo. Da una volta a settimana, era passato a una volta al giorno, poi due volte al giorno, poi sempre di più. Fino ad arrivare ai due profondi tagli sui polsi da cui a salvarlo era arrivato Lestrade.
 Sherlock sollevò una mano e sfiorò la pelle dell’amico con le dita, poi spostò le sguardo sul viso di John.
 «Cosa…?» mormorò senza fiato. «Quando te le sei fatte?»
 «Nei due anni in cui non eri qui.» rispose John.
 «Perché?» ansimò il consulente investigativo, mentre le lacrime gli rigavano le guance.
 John scosse il capo. «Perché tu non eri qui.» replicò. «Credevo di non… di non aver fatto abbastanza per salvarti e che fosse tutta colpa mia. Sentivo di dovermi punire in qualche modo e…» la voce si spezzò. Non appena abbassò lo sguardo sugli avambracci, vedendo ciò che aveva fatto, le lacrime gli rigarono le guance.
 Sherlock gli prese il volto fra le mani. «No» sbottò. «Mio dio, John, non è stata colpa tua. Non l’ho mai pensato. E non avresti dovuto pensarlo nemmeno tu.»
 «Lo so, ma ti avevo perso. Eri morto e non ti avrei rivisto mai più.» replicò John, riportando lo sguardo sul viso di Sherlock. «E l’unico modo per riuscire a sopportare quel dolore sembrava essere provarne altro.»
 «John, io…» sussurrò Sherlock, improvvisamente pallido, tremando e indietreggiando. «Io… mi dispiace così tanto… non avrei mai voluto farti questo.»
 «E io non avrei mai voluto farti questo.» ribatté il medico, indicando il suo petto.
 «Non sei stato tu.» fece notare Holmes.
 «L’hai fatto per salvarmi. Sono stato io.»
 «Io ho scelto di farlo per proteggerti. Non è stata colpa tua.» esclamò Sherlock. «Ma questo…» ansimò, indicando le braccia dell’amico e i tagli che si era auto-inferto come punizione. «Sono stato io a spingerti a questo. E mi dispiace così tanto…»
 John sospirò. «Il punto, Sherlock, è che ci siamo fatti questo.» concluse. «E queste cicatrici, esattamente come tante altre, non se ne andranno. Saranno sempre qui a ricordarci ciò che abbiamo passato. E in fin dei conti forse è giusto così.» poggiò nuovamente le mani sul petto dell’amico, accarezzando una delle cicatrici che attraversava perpendicolarmente il suo cuore. «Non potremmo semplicemente provare ad andare avanti?» chiese, incontrando i suoi occhi. Poi gli prese la mano, intrecciando le loro dita. «Noi due, proprio come una volta.»
 Sherlock abbassò lo sguardo sulle loro mani, poi lo risollevò sul viso del dottore, agganciando i suoi occhi. «Insieme?» chiese timidamente.
 John sorrise e annuì. «Insieme.»
 Un’ultima lacrima scivolò lungo la guancia di Holmes, che annuì.
 Il dottore sollevò una mano, gli asciugò la guancia, poi affondò le dita nei suoi capelli, tirandolo verso di sé e stringendolo in un abbraccio. Percepì il corpo di Sherlock irrigidirsi a contatto con il proprio, ma alla fine, Holmes si aggrappò alle sue spalle lasciandosi stringere e ricambiando debolmente la stretta, esalando un lungo respiro.
 Dopo qualche secondo di immobilità, il corpo di Sherlock tremò. Un gemito sommesso lasciò le sue labbra e l’uomo si strinse maggiormente a John, affondando il viso nella sua spalla.
 John ricambiò la stretta, accarezzandogli il capo.
 «Resta con me, John.» sussurrò Sherlock contro il suo collo. «Resta, ti prego.»
 Il medico sorrise.
 Dopotutto Rosie sarebbe potuta rimanere ancora una notte con Molly, considerato che si era fatto comunque troppo tardi per andare a prenderla. E a Mycroft non sarebbe importato molto se lui fosse rimasto lì o no. Anzi, probabilmente lo aveva immaginato, dato che gli aveva permesso di accompagnare suo fratello al piano di sopra.
 «Ok.» rispose, allontanandosi da lui e rivolgendogli un sorriso. «Mettiti a letto, io intanto ti prendo un’aspirina per la febbre.»
 Sherlock annuì e indossò nuovamente la camicia.
 John entrò nel bagno e dopo aver rovistato nell’armadietto dei medicinali, tornò nella camera con un bicchiere colmo d’acqua e la pillola. Li porse entrambi a Sherlock, che ingoiò la pastiglia e poi poggiò il bicchiere sul comodino.
 «Preferisci che dorma sulla poltrona?» chiese John, indicando la poltrona accanto all’armadio, non sapendo se il consulente investigativo avrebbe gradito la sua presenza al suo fianco durante la notte.
 Sherlock, che si era già infilato sotto le coperte, scosse il capo. «No.» rispose. «Voglio che mi resti vicino.» concluse e scostò le coperte, in un tacito invito a seguirlo sul materasso.
 John annuì. «Ok.» concluse.
 Si sedette sul materasso, si sfilò le scarpe e poi si infilò a sua volta sotto le coperte, scivolando accanto all’amico e sdraiandosi su un fianco, per guardalo negli occhi. Gli rimboccò le coperte e dopo avergli sfiorato la fronte con una mano per controllare la temperatura, gli sorrise nuovamente.
 «Dormi, Sherlock.» sussurrò. «Non ti lascio, te lo prometto.»
 Sherlock lo osservò per qualche istante, poi chiuse gli occhi, scivolando nel sonno.
 
 La luce del mattino penetrò dalle persiane illuminando parzialmente la stanza. Uno dei raggi colpì il viso di Sherlock, illuminandone la pelle pallida e liscia, che John stava osservando da ore.
 Quella notte non aveva chiuso occhio.
 Aveva provato a dormire, ma nonostante la stanchezza pesasse da giorni sui suoi occhi e sulle sue membra, proprio non era riuscito a riposarsi. Troppi pensieri affollavano la sua mente, troppi dubbi lo tormentavano, e per troppo tempo lui aveva tentato di ignorarli con il solo risultato di farli affondare ancora di più, permettendo loro di mettere così tante radici da essere ormai diventati impossibili da estirpare.
 Da quando Mary era morta, il suo mondo era stato messo in discussione.
 Fin da quando aveva scoperto che sua moglie non era la donna che credeva – e forse ancor prima, dopo ciò che Sherlock aveva detto al suo matrimonio, durante il discorso – aveva cominciato a sentire qualcosa di diverso per Sherlock. Qualcosa che si era ampliato nei mesi che aveva passato a Baker Street, durante la pausa di riflessione che si era preso da Mary dopo aver scoperto che aveva sparato a Sherlock, nell’ufficio di Magnussen.
 Tuttavia, convinto dai doveri di padre, e forse in parte spinto da Sherlock, era tornato da lei, convincendosi di poterla perdonare e di amarla ancora, anche sapendo che nulla sarebbe più stato come prima.
 Per questo dopo la sua morte era così furioso. Per questo aveva reagito così, in quell’obitorio, e se l’era presa con Sherlock, che in fondo non aveva colpe: perché per sopportare la morte di Sherlock era arrivato a doversi fare del male, invece per quella di Mary non era riuscito a versare nemmeno una lacrima.
 E non era giusto.  
 Niente di ciò che era successo era giusto.
 Mary non meritava una morte del genere. Né tantomeno di morire fra le braccia di un marito bugiardo, che non solo l’aveva lasciata morire sola senza nemmeno una parola di conforto, ma che aveva anche mentito sull’averla perdonata e sull’amarla ancora.
 Perché John sapeva bene di non amare più Mary.
 Ma in fondo, si ritrovò a pensare, l’aveva mai amata davvero?
 O Mary era stata soltanto un’ancora utilizzata per rimanere a galla in un periodo in cui tutto lo stava trascinando a fondo?
 Lei lo aveva salvato dopo la morte di Sherlock. Lo aveva riportato in vita trascinandolo fuori a forza da quel tunnel di dolore in cui era caduto, aiutandolo a tornare a vivere una vita normale, lontano da tutte le cose brutte che la morte di Sherlock aveva portato con sé.
 La medesima cosa che aveva fatto Sherlock anni addietro, quando John, ferito e solo, aveva fatto ritorno dall’Afghanistan, con solo morte e distruzione alle spalle.
 Ma allora perché nella sua mente e nel suo cuore, Sherlock e Mary erano così diversi?
 Perché era riuscito a perdonare a Sherlock di avergli mentito e averlo lasciato per due lunghi anni, e non era riuscito a perdonare Mary per avergli nascosto la verità riguardo al suo passato?
 Dio, era così confuso…
 Qualcosa nella sua mente scattò.
 Ma certo… era sempre stato sotto il suo naso.
 Tutto ciò che Sherlock aveva fatto, fin dall’inizio, anche se non aveva mai avuto il coraggio di ammetterlo apertamente, era stato per proteggere lui e i suoi amici. Nessun gesto, neanche il più piccolo era mai stato compiuto egoisticamente per salvare se stesso. Al contrario di ciò che aveva fatto Mary, che per fuggire dal suo passato era arrivata anche a sparare a Sherlock – anche se a detta di entrambi era stato a fin di bene. E forse era proprio questo il piccolo ma enorme dettaglio che nel cuore di John aveva sempre fatto la differenza, e che gli aveva sempre fatto guardare Sherlock con occhi diversi.
 Si voltò verso l’amico e allungò una mano verso di lui, prendendo a giocherellare con i suoi riccioli corvini tutti in disordine.
 Sorrise dolcemente.
 Oh, Sherlock. Il suo meraviglioso, speciale Sherlock.
 Con il pollice accarezzò il suo labbro inferiore.
 Per un momento si ritrovò a desiderare di poggiare le sue labbra su quelle di lui per poterle assaporare e scoprire che sapore avessero.
 Che sensazione avrebbe provato baciandolo?
 Sarebbe stato diverso da baciare Mary, questo era certo, ma… Sherlock era pur sempre il suo migliore amico… era certo che avrebbe provato qualcosa di diverso dal semplice trasporto del momento?
 Eppure sentiva qualcosa per Sherlock, qualcosa che non aveva mai sentito per nessun altro prima di allora. E non era semplice amicizia. Era qualcosa di più profondo, che aveva affondato radici nel profondo del suo cuore fin dal primo istante, quando, in quel laboratorio i suoi occhi avevano incontrato per la prima volta quelli di Sherlock Holmes.
 E in quel momento, osservando il suo viso rilassato e immerso nel sonno, l’unica cosa che desiderava più di ogni altra era baciarlo, dopo anni di attesa e lontananza. Voleva sentirlo vicino come mai era accaduto prima di allora, provare cosa significasse poterlo stringere in modo diverso da come era successo fino a quel momento.  
 Quasi avesse udito i suoi pensieri, Sherlock aprì gli occhi e non appena lo fece, le sue iridi multicolore sembrarono illuminare la stanza, incontrando quasi immediatamente quelle di John, a pochi centimetri dalle proprie.
 Il medico, ancora intento a giocherellare con i suoi capelli e ad accarezzargli il viso, si bloccò, prendendosi qualche istante per osservarlo. Sembrava stare decisamente meglio dopo qualche ora di sonno: le occhiaie erano quasi completamente scomparse, il suo volto aveva recuperato colore e i suoi occhi sembravano essere tornati vispi e luminosi come una volta.
 «Scusa, non volevo svegliarti.» sussurrò, allontanando le mani dal suo capo. Si allontanò impercettibilmente e poggiò un braccio sotto il capo per sorreggerlo e poter osservare Sherlock.
 L’angolo delle labbra di Sherlock guizzò, formando un sorriso accennato. «Non mi hai svegliato.» mormorò in risposta. Lo osservò per qualche istante assottigliando lo sguardo, poi riprese. «Non hai dormito.»
 John rise sommessamente, sapendo che Holmes se ne sarebbe accorto senza troppa fatica e con pochi sguardi. «Troppi pensieri.» ammise con un sospiro. «E in ogni caso dovevo controllare che non avessi incubi.»
 «Se ci sei tu non ho incubi.»
 Quelle parole lo sorpresero più di quanto si sarebbe aspettato. John si ritrovò a sorridere e per nascondere il leggero rossore che gli aveva colorato le guance, abbassò lo sguardo.
 «La cosa è reciproca.» disse dopo un momento, poi sollevò nuovamente lo sguardo, incontrando gli occhi dell’amico. Gli rivolse un sorriso accennato e parlò ancora. «Vuoi andare a fare colazione?»
 Sherlock scosse il capo. «Rimaniamo qui ancora un po’.»
 John sollevò le sopracciglia, stupito. «Sherlock Holmes che vuole rimanere a letto. Non era mai successo prima. Devo assolutamente annotarlo sul calendario.» disse ridacchiando. Poi tornò serio. «Devi proprio essere distrutto se non hai voglia di alzarti.»
 «Sto bene.» assicurò Holmes. «È solo…» esitò e le sue guance si colorarono di un leggero rossore. Si schiarì la voce. «Non ho voglia di vedere Mycroft.» concluse.
 John sentì la delusione pervaderlo. Per un momento aveva sperato…
 Sospirò, allontanando quel pensiero dalla mente. Non era il momento di farsi prendere dai sentimentalismi.
 «Se n’è andato presto questa mattina.» spiegò il dottore, mettendosi seduto sul materasso e massaggiandosi il collo, tentando di ignorare la stretta allo stomaco che l’affermazione dell’amico gli aveva procurato. «Perciò non c’è il rischio che lo incontriamo in giro per casa.»
 «Oh» sfuggì a Sherlock. «Allora direi che possiamo… possiamo andare di sotto a mangiare qualcosa.» concluse, mettendosi seduto a sua volta. Esitò, poi indicò il bagno. «Puoi usare il bagno, se vuoi. Io posso usare quello della camera di Mycroft.»
 John annuì. «D’accordo.»
 Ed entrambi si rintanarono in bagno per farsi una doccia e prepararsi.
 
 Dopo aver preparato la colazione, Sherlock e John si sedettero uno di fronte all’altro al tavolo della cucina e immersi nel silenzio bevvero le loro tazze di tè, mangiando alcuni dei biscotti che Mycroft aveva lasciato per loro in un vassoio sul tavolo.
 Nessuno dei due proferì parola per tutta la durata della colazione e nessuno dei due incrociò mai lo sguardo dell’altro. Il silenzio li avvolse completamente, rotto soltanto dal rumore dai loro respiri e da quello delle stoviglie.
 Una volta finito il tè, Sherlock si mise in piedi e raggiunse il lavello, dove poggiò la tazza vuota, insieme al cucchiaino e il bicchiere utilizzato per assumere l’aspirina. Quando si voltò per tornare al tavolo, però, trovò la strada sbarrata da John, fermo di fronte a lui.
 «Scusa» disse, indicando il lavello, la tazza e il piatto di biscotti fra le mani.
 Sherlock si scostò, poggiando la schiena al piano cucina e osservandolo con attenzione.  Studiò i suoi movimenti, il suo viso, i suoi occhi, i suoi capelli color sabbia, le sue mani piccole e dalle dita sottile e il suo corpo magro e allenato. Tuttavia, non appena John si voltò verso di lui, incrociando il suo sguardo, il consulente investigativo lo distolse, tentando di allontanarsi.
 E questo a Watson non sfuggì.
 «Sherlock» sbottò, prendendolo per un braccio per fermarlo. «Forse è arrivato il momento di parlare.»
 Sherlock abbassò lo sguardo. «Di cosa?» domandò, pur sapendo di cosa l’amico avrebbe voluto discutere.
 «Di ciò che mi hai detto a Sherrinford.» rispose John e vedendolo chiudere gli occhi, infastidito da quelle parole, aggiunse: «Dovremmo farlo prima o poi, lo sai anche tu.»
 Il consulente investigativo scosse il capo. «Non siamo costretti a farlo.»
 «Sì, invece.» insistette il medico, cercando il suo sguardo. Poi sospirò. «Ascolta, è difficile anche per me, Sherlock, ma non possiamo-»
 «Cosa? Fingere che non sia mai successo?» lo interruppe Holmes, bruscamente, liberandosi quanto più delicatamente poté dalla sua presa. «Io invece credo di sì. Fingiamo che niente di ciò che è successo a Sherrinford sia mai accaduto e andiamo avanti.»
 John scosse il capo. «Non posso dimenticare.»
 «Perché no?»
 «Perché quello che mi hai detto mi ha fatto pensare.» spiegò il medico. Fece una pausa, poi riprese, inspirando profondamente. «Tu sei importante per me, Sherlock. Lo sei sempre stato.»
 Sherlock scosse il capo. «Non nel modo in cui tu lo sei per me.»
 John sentì una stretta la cuore. Davvero Sherlock pensava di non essere importante per lui? «Cosa te lo fa pensare?» domandò, incredulo.
 Holmes rise, ma nella sua voce non vi era alcuna traccia di divertimento. «Hai sentito quello che ti ho detto quel giorno?» chiese. «Hai ascoltato?»
 «Certo che ho-»
 Non lo lasciò concludere. «Ti ho confessato di amarti. E questo più o meno da quando ci siamo conosciuti. Da sempre, John, capisci? Dalla prima maledetta volta in cui ho posato gli occhi su di te.» replicò. «Mi chiedi cosa mi fa pensare che per te non sia lo stesso?» domandò poi, più duramente. «Forse il fatto che tu abbia ripetuto per anni di non essere gay? O che tu sia sposato?»
 «Ero sposato.» precisò Watson. «Non lo sono più ormai.»
 «Non voglio ferire i tuoi sentimenti, John, ma non credo che se non fosse successo ciò che ben sai, saremmo qui a discutere di questo.» ribatté. Poi sospirò, scuotendo il capo. «Tu amavi Mary. E io l’ho accettato. Ero felice per voi. Per te. E vedervi insieme e felici era la cosa che più mi rendeva felice.»
 «Non stiamo parlando di questo.» affermò il dottore. «Stiamo parlando di ciò che hai-»
 «Lo so.» lo interruppe. «Ma ciò che ho detto non ha la minima importanza. Perché ciò che importa è ciò che vuoi tu. Ma soprattutto ciò che ti rende felice. E non sono io. Credimi, John, ne sono ben consapevole.»
 «E se invece ti sbagliassi?» chiese John. «Se fossi tu a rendermi felice?»
 Il consulente investigativo rise, volgendo lo sguardo. «John, ascoltati quando parli.»
 «No, tu devi ascoltarti.» sbottò il medico, avanzando verso di lui. «Perché dirmi una cosa del genere per poi fare un passo indietro? Perché usare un’argomentazione del genere e poi dire che non ha alcuna importanza?»
 «Perché dovevo salvarti la vita!» esclamò.
 «Avresti potuto dire qualsiasi altra cosa! Qualsiasi. E sarebbe andata bene comunque.» fece notare, e a quell’affermazione Sherlock esitò. Perciò John riprese. «Eppure hai scelto di confessarmi che mi ami.» proseguì poi con più calma. «Perché?»
 Il consulente investigativo abbassò lo sguardo. «Io… credevo stessimo per morire.» ammise. «Credevo fosse la mia ultima occasione per dirti che…» la frase rimase in sospeso. Scosse il capo. «Ma hai ragione. Non avrei dovuto farlo nemmeno in quel caso.»
 «Te ne sei pentito?»
 Holmes rimase in silenzio per qualche istante. «Forse.»
 «No, non è vero.» ribatté il medico, inaspettatamente.
 Sherlock risollevò lo sguardo sul suo viso, perplesso, aggrottando le sopracciglia.
 «Ciò ho pensato a lungo dopo ciò che è successo a Sherrinford, e ho capito che avevi tentato di farmelo capire già molte volte. Soltanto… io sono stato troppo stupido per coglierlo. Non è così?» aggiunse. «Prima sul tetto del Bart’s, poco prima di buttarti. Poi quel giorno, in metropolitana quando mi hai fatto credere che stessimo per morire. E al mio matrimonio, con quel bellissimo discorso. Poi di nuovo sulla pista, prima di partire per la missione in Europa dell’Est. E non solo: ma anche prima, nei due anni che abbiamo passato insieme.»
 Il consulente investigativo abbassò lo sguardo, sentendo gli occhi pizzicare a quei ricordi così vividi e dolorosi nella sua mente.
 Tutte quelle parole non dette, tutti quei gesti per lui così esplicativi che per John non erano tuttavia significati nulla… facevano ancora così male, che il solo pensiero era come una pugnalata al cuore.
 «Perché non me lo hai detto prima?» chiese Watson, prendendogli la mano e riportandolo alla realtà. «Perché me lo hai nascosto per tutti questi anni?»
 Sherlock scosse il capo, le lacrime che gli rigavano le guance. Nemmeno lui aveva una risposta a quella domanda. Nemmeno lui sapeva perché non era stato in grado di confessare quella semplice verità all’uomo che aveva di fronte.
 «Non volevo rovinare tutto.» rispose alla fine, la voce straordinariamente ferma, nonostante le lacrime. «Ciò che avevamo mi bastava. Averti vicino ogni giorno era abbastanza. Non avevo bisogno di nient’altro finché avevo te. E sapevo che se ti avessi detto la verità, tu non avresti scelto me e mi avresti allontanato.» scosse il capo. «Non volevo che accadesse, perché non avrei potuto sopportarlo… Mi eri rimasto soltanto tu.»
 Lo sguardo di John si addolcì. «Vedi: è su questo che ti sbagli, Sherlock.» replicò, sollevando una mano per accarezzare teneramente il viso dell’amico, spazzando via le lacrime che gli avevano rigato le guance. «Perché alla fine io torno sempre da te. E se mi avessero chiesto di scegliere, io avrei scelto te un milione di volte.»
 Gli occhi di Sherlock, colmi di stupore per ciò che aveva appena udito, si spostarono di scatto, agganciando quelli azzurri di John.    
 «Tu sei sempre stato la mia prima scelta.» affermò il medico. «Ho sempre scelto te sopra ogni altra cosa: il lavoro, le donne, gli appuntamenti e tutto il resto. E questo perché tu eri tutto il mio mondo.» sospirò mestamente. «Ma quando te ne sei andato… quando sei morto…» chiuse gli occhi a quel ricordo ancora troppo doloroso. Poi li riaprì, incontrando nuovamente quelli dell’amico. «L’unico modo che ho avuto per rimanere a galla è stata Mary. Mi sono aggrappato a lei con tutte le mie forze. Perché lei mi ha salvato, Sherlock, proprio come avevi fatto tu dopo l’Afghanistan. Ed è diventata la mia ancora.»
 Sherlock annuì.
 «Poi quando sei tornato… Dio, Sherlock, sei riuscito a sconvolgere la mia vita una seconda volta.» affermò con un sorriso. «Ed ero così arrabbiato… non perché mi avessi mentito o te ne fossi andato. Forse all’inizio era così, ma alla fine, dopo aver capito le tue ragioni, lo ero perché proprio quando ero riuscito a dimenticare ciò che avevamo avuto, tu avevi deciso di tornare e ricordarmi tutto ciò che mi sarei perso rinunciando a te per avere Mary.»
 «Non era questa la mia intenzione.» replicò Holmes.
 «Lo so.» confermò John. «Ma ero così arrabbiato che non riuscivo a capire che ero io a sbagliare. Che avrei dovuto tornare da te invece di illudere me stesso e Mary, facendo credere a entrambi di provare qualcosa di così profondo da poter proseguire con una relazione che chiaramente non avrebbe potuto avere un futuro.»
 «Dal vostro amore è nata Rosie.» fece notare Sherlock. «È una bambina splendida. Non puoi davvero rimpiangere ciò che hai avuto e passato con Mary, sapendo che ti ha portato a tua figlia.»
 «Forse non tutto.» spiegò John. «Amo Rosie con tutto il mio cuore. E ho tenuto davvero a Mary fino a che non ti ha sparato rischiando di ucciderti, e non mi ha mentito sul suo passato facendomi credere di essere qualcuno che non era, mettendo in pericolo non solo se stessa ma anche me, Rosie e te.» scosse il capo. «È questo che non sono mai riuscito a perdonarle. Dopo ciò che aveva fatto non riuscivo nemmeno più a guardarla negli occhi, figuriamoci a crescere una figlia insieme o amarla
 «Ma l’hai amata.» affermò il consulente investigativo. «Questo è ciò che importa.»
 «Sì, amavo Mary, e forse una parte di me terrà sempre a lei.» confermò. «Ma quello che provo per te, che ho sempre provato per te, è diverso. Va oltre qualsiasi cosa avrei mai potuto immaginare di provare per qualcuno. Non so nemmeno come definirlo.» ammise, abbassando lo sguardo e accennando un sorriso.
 Sherlock sentì il respiro accelerare. «John…» sussurrò.
 Il medico poggiò le mani sul petto di Sherlock, puntando nuovamente lo sguardo sul suo volto, sorridendo dolcemente. «No, ti prego, fammi finire, o potrei non avere il coraggio di dirti questa cosa mai più.» concluse.
 Il consulente investigativo si zittì, sentendo ogni muscolo del suo corpo tendersi sotto il tocco delicato del suo migliore amico.
 «Di poche cose sono stato completamente sicuro nella mia vita, ma di una cosa sono certo, Sherlock Holmes.» disse, puntando nuovamente gli occhi nei suoi. «Non voglio lasciarti andare mai più. Voglio passare il resto della mia vita insieme te. Voglio risolvere casi al tuo fianco, tornare a correre per Londra e alle nostre cene da Angelo. Voglio tornare a quello che avevamo una volta. Voglio che torniamo ad essere io e te contro il resto del mondo.» dichiarò con voce ferma. «Ti prego, non perdiamo questa occasione. Non questa volta.»
 Sherlock lo osservò per qualche istante, poi poggiò le mani su quelle di John, ancora poggiate sul suo petto, chiudendo le dita intorno ai suoi polsi, sentendo il suo battito accelerato, appena percepibile sotto la sua pelle sottile e coperta dalla vecchie cicatrici che si era inferto durante la sua assenza.
 «Sei certo di volere tutto questo? Di volere me?» domandò, incerto, percorrendo ogni centimetro del suo volto con gli occhi. «Sai bene che non sono perfetto e che posso essere davvero insopportabile, a volte.» ammise, sollevando un sopracciglio. «Sei sicuro che io sia ciò che vuoi davvero?»
 John annuì. «Voglio ogni singola parte di te, Sherlock. Pregi e difetti. Non desidero altro che stare al tuo fianco.» rispose con voce ferma. Sollevò una mano e gli accarezzò la linea della mandibola. Poi sorrise e il suo volto si illuminò, come faceva ogni volta quando un sorriso faceva capolino sulle sue labbra.
 Sherlock non poté fare a meno di ricambiare; sfiorò il volto dell’amico con le dita, lasciando che la barba che incorniciava le labbra del dottore gli solleticasse i polpastrelli. Gli sfiorò il labbro inferiore con il pollice, beandosi delle carezze che John gli stava regalando, tirandolo sempre più verso di sé, per aumentare il contatto fra i loro corpi.
 Rimasero per un lungo istante immobili, semplicemente ad osservarsi, immersi nel più completo silenzio, lasciandosi cullare solamente dal rumore cadenzato e lento dei loro respiri e dai loro movimenti. Poi John fece scivolare una mano sulla nuca di Sherlock, tirandolo verso di sé, facendo avvicinare i loro volti.
 Le loro bocche si fermarono a pochi millimetri di distanza le une dalle altre, tanto da respirare la stessa aria. Sarebbe bastato un minimo movimento per rompere quella distanza e dare via a quel bacio tanto agognato e desiderato da entrambi, un singolo passo in avanti per rompere quell’infinitesimale ma allo stesso tempo ancora troppo grande distanza.
 «Posso baciarti?» soffiò John sulle labbra dell’amico, cercando i sui occhi.
 Sherlock risalì la schiena di John con le mani, sentendolo gemere sulla sua bocca.
 «Mi stai chiedendo il permesso?»
 Watson rise sommessamente. «Non voglio che scappi da me.» spiegò. «Non voglio che tu abbia paura.»
 «Non ho paura.» assicurò Holmes, il cuore che batteva a mille, il respiro accelerato. «E non scapperei mai da te, John Watson.»
 John sorrise e lentamente lo tirò verso di sé.
 Quando le loro labbra si incontrarono, lo fecero gentilmente, poggiandosi dolcemente le une sulle altre. Si sfiorarono con delicatezza, incastrandosi perfettamente le une sulle altre, come una chiave nella propria serratura, come se fossero state create per baciarsi, unica combinazione possibile in un mondo colmo di possibilità.
 Tutto intorno a loro si fermò, sospeso nel tempo, intrappolato fra le loro labbra, in quell’istante, e in quel bacio tanto atteso da entrambi, così dolce e dal sapore diverso.
 Sapeva di casa, di amore e di salvezza.
 Era la conferma che Sherlock e John, finalmente, avrebbero avuto la loro occasione.  
 
 Quando i due si separarono, rimasero con le fronti a contatto.
 Nessuno dei due osò interrompere quel contatto, né aprire gli occhi.
 Sherlock tenne il medico stretto fra le sue braccia, quasi avesse paura a lasciarlo andare, mentre John continuava ad accarezzare i suoi capelli con estrema delicatezza, beandosi delle carezza che il suo migliore amico gli stava regalando.
 «Sherlock…» soffiò John sulle sue labbra.
 «John…» sussurrò soltanto Sherlock.
 E non ci fu bisogno di nient’altro.                                   
  
 Dopo ciò che era accaduto a Sherrinford, Sherlock aveva creduto che confrontarsi con suo fratello sarebbe stato complicato, se non impossibile. Mycroft, proprio come Eurus, l’aveva fatto soffrire in maniera indicibile e forse il consulente investigativo non sarebbe mai riuscito a perdonarlo.
 Tuttavia quando aveva raggiunto la villa del fratello, subito dopo aver lasciato Sherrinford, pronto ad odiare Mycroft per avergli mentito per tutto quel tempo, e lo aveva visto con il volto coperto di lividi e pallido come un cencio, ancora provato da ciò che era successo, proprio non ci era riuscito.
 Sherlock, nonostante ciò che aveva scoperto riguardo a Victor e al fatto che Mycroft gli avesse mentito per tutto quel tempo, si era reso conto di non riuscire ad odiarlo per ciò che aveva fatto. Suo fratello, fin dall’inizio, aveva solo tentato di proteggerlo e anche se Eurus aveva tentato di metterli uno contro l’altro, alla fine non ci era riuscita. Perché quel giorno, quando Mycroft si era offerto al posto di John, pronto a morire per impedire a Sherlock di uccidere il suo migliore amico e l’uomo che amava, Sherlock aveva capito quanto suo fratello lo amasse e a cosa fosse disposto a fare per proteggerlo.
 Nonostante questa consapevolezza, per settimane nessuno dei due aveva rivolto la parola all’altro, nemmeno dopo la sua fuga, nemmeno dopo essere stato spronato da John a farlo.
 Nessuno dei due aveva il coraggio di chiedere spiegazioni o scusarsi.
 E nessuno dei due sapeva come farlo.
 
 Tuttavia, dopo giorni di silenzi e parole non dette, Sherlock ebbe la sua occasione.
 La famiglia al completo era riunita nell’ufficio del politico, dato che dopo ciò che era successo, i signori Holmes avevano insistito per ricevere una spiegazione da parte dei propri figli.
 Mycroft li aveva quindi invitati a raggiungerlo e poi, con calma, lucidità e apparente freddezza aveva raccontato loro la verità. Tutto ciò che era successo a Sherrinford e ciò che per anni aveva nascosto loro per evitargli terribili sofferenze.
 Il padre aveva ascoltato senza proferire parola, rigidamente seduto sulla sedia di fronte alla scrivania; la madre, al contrario, era rimasta in piedi per tutta la durata del racconto, il volto una maschera di rabbia e dolore.
 Sherlock osservò suo fratello parlare senza intromettersi, rimanendo al fondo della stanza, la schiena poggiata alla parete accanto alla porta.
 «Com’è possibile?» ringhiò la donna, quando Mycroft ebbe concluso il suo racconto.
 «Ho pensato che fosse bene continuare ciò che lo zio Rudy aveva cominciato.» spiegò il politico, esitante, le mani che tremavano, intrecciate sulla scrivania.
 Il minore non poté fare a meno di notare che i suoi occhi fossero lucidi e vuoti, e il volto pallido e segnato dalla stanchezza accumulata dopo giorni di veglia ininterrotta.
 «Non ti ho chiesto come ci sei riuscito, stupido ragazzo, ma come hai potuto fare una cosa del genere!» replicò lei, furiosa, la voce incrinata da una nota di disprezzo.
 A quelle parole, Sherlock sentì una fitta al cuore. Mai sua madre aveva detto una cosa del genere, con così tanto disprezzo, ad uno dei suoi figli.
 Non si era mai interessata particolarmente ai suoi figli durante la loro giovinezza, ma mai aveva trattato uno di loro con disprezzo, o li aveva guardati con disgusto per ciò che erano o per ciò che avevano fatto. Eppure in quel momento qualcosa sembrava cambiato. Certo, era furiosa con Mycroft per le bugie che le aveva raccontato per anni, ma questo di certo non giustificava il suo comportamento. Non sapendo che tutto ciò che suo figlio aveva era stato per proteggerli da una verità troppo dura da sopportare.
 Mycroft visibilmente in difficoltà, aprì la bocca per parlare, ma si bloccò. Chiuse gli occhi e alla fine mormorò con voce flebile: «Tentavo di essere gentile.»
 «Gentile?» domandò la madre. «Gentile?!» sibilò ancora sbattendo le mani sulla scrivania con violenza. «Ci hai fatto credere che nostra figlia fosse morta! Che razza di mostro avrebbe mai potuto raccontare una cosa del genere invece della verità?»
 «Meglio questo che dirvi cosa fosse diventata.» ribattè il politico, incrociando finalmente lo sguardo di lei. Sospirò. «Mi dispiace.» concluse.
 E il consulente investigativo sentì che era sincero.
 Il signor Holmes, rimasto nel più completo silenzio fino a quel momento, si mise in piedi, poggiando le mani sulla scrivania e sporgendosi verso il figlio maggiore.
 «Qualsiasi cosa sia diventata…» disse, incrociando il suo sguardo, gli occhi traboccanti di rabbia e dello stesso disprezzo mostrato dalla madre. «Qualsiasi cosa sia adesso, lei rimane nostra figlia.»
 «E mia sorella.» precisò Mycroft.
 «Allora avresti dovuto fare di più.» sibilò la madre.
 Sherlock non riuscì a trattenersi.
 «Ha fatto del suo meglio.» sbottò, e lo fece con tutta la dolcezza e la sincerità di cui era capace, intenzionato a sostenere suo fratello e difenderlo dall’odio e dal disprezzo mostrato dalle persone che invece avrebbero dovuto comprendere, più di tutti gli altri. «Che, in ogni caso, è più di quanto abbiamo fatto tutti noi.»
 Quando sollevò lo sguardo e incrociò quello di Mycroft, vide quanto dolore vi fosse nei suoi occhi e quanto rammarico stesse provando di fronte a ciò che aveva orchestrato e messo in piedi per quasi trent’anni; vide il suo pallore, la sua paura, e le lacrime che brillavano nei suoi occhi nonostante i suoi tentativi di nasconderle; e vide l’angolo delle sue labbra sollevarsi in segno di ringraziamento per quel gesto così semplice eppure così significativo.
 
 I signori Holmes lasciarono l’ufficio di Mycroft poco dopo, furiosi e feriti, senza rivolgere saluti o parole di conforto ai propri figli dopo ciò che era successo.
 Sherlock rimase immobile accanto alla porta, e solo quando i genitori se ne furono andati richiudendosela alle spalle, sollevò lo sguardo, puntandolo nuovamente sul viso di suo fratello, che si era fatto sempre più pallido.
 Mycroft abbassò il capo, puntando gli occhi sulla scrivania per qualche secondo; poi si mise in piedi, prese alcuni dei documenti poggiati sulla scrivania e dopo averli raccolti in una pila ordinata, la oltrepassò e si avvicinò alla cassaforte. Digitò il codice e poi li depositò al suo interno.
 Il consulente investigativo lo osservò muoversi per l’ufficio, studiando i suoi movimenti di solito aggraziati e leggeri, ma adesso trascinati e pesanti. Per la seconda volta nella sua vita si rese conto di quanto suo fratello potesse essere umano. Aveva visto il suo sguardo addolorato e impaurito quando gli aveva chiesto di ucciderlo al posto di John, e adesso poteva vedere il peso di tutte le emozioni che stava provando pesare sulle sue spalle.
 Il politico chiuse la cassaforte, ma invece di tornare alla scrivania abbassò lo sguardo, poggiando le mani contro la parete. Le sue spalle tremarono, scosse da un singhiozzo improvviso e silenzioso.
 Il giovane Holmes si chiese come avesse potuto portare quel peso da solo senza crollare o dar voce ai suoi tormenti e alle sue paure con qualcuno fino a quel momento. Sapeva che Mycroft era forte, ma una cosa del genere sarebbe stata troppo per chiunque, e adesso ne stava pagando le conseguenze.
 Sherlock avanzò verso di lui, fermandosi alle sue spalle. Allungò una mano e la poggiò sulla sua spalla con delicatezza.
 Il maggiore, come ridestato da quel contatto, esalò un lungo respiro, raddrizzò le spalle e si asciugò una guancia con una mano, spazzando via le lacrime che l’avevano rigata. Inspirò profondamente, poi si voltò verso Sherlock, liberandosi dal suo tocco.
 I loro sguardi si agganciarono.
 «Basta portare questo peso da solo.» mormorò Sherlock.
 «È una mia responsabilità.» affermò il maggiore.
 Il consulente investigativo poté leggere il profondo senso di colpa che attanagliava il suo animo nel luccichio dei suoi occhi.
 «Non è vero.» replicò con risolutezza. «È una nostra responsabilità.»
 Mycroft scosse il capo. «Eurus ti ha già fatto troppo male.»
 «Anche a te. Per trent’anni.» affermò, senza mai lasciar andare i suoi occhi. «Da oggi in poi non sarai più solo, Mycroft. Lascia che ti aiuti a proseguire con tutto questo. Hai già fatto tutto ciò che era in tuo potere.»
 Gli occhi del maggiore luccicarono e l’uomo fu costretto ad abbassare lo sguardo. «Non è bastato.» affermò con voce tremante.
 Sherlock ripensò alle parole che la madre aveva rivolto a suo fratello poco prima, sentendo una fitta allo stomaco. «Nostra madre non può capire. E non capirà mai nemmeno nostro padre.» affermò. «Ma questo non significa che io non possa farlo.» sospirò. «Hai fatto del tuo meglio. Più di quanto avresti dovuto fare.» fece notare. «Loro avrebbe dovuto occuparsi di Eurus e di noi, non tu.»
 Mycroft risollevò il capo.
 «E io sono fiero di te.» affermò. «Sono fiero di ciò che hai fatto, di come hai gestito la situazione e del fatto che tu abbia sempre tentato di proteggere tutti noi… e soprattutto me.» concluse. «E non sarà quello che pensano i nostri genitori a farmi cambiare idea su di te. Continuerò ad essere orgoglioso di te in ogni caso.»
 «Davvero?» chiese il maggiore.
 Sherlock annuì. «Sì.»
 «Non me lo avevi mai detto.»
 «Era arrivato il momento di farlo.»  
 Si osservarono per qualche istante, poi Sherlock sollevò una mano e la poggiò sulla guancia di suo fratello, in un gesto carico d’affetto; Mycroft fece lo stesso, accarezzando la pelle di Sherlock con le dita, poi entrambi si mossero in avanti, poggiando le fronti una contro l’altra, sapendo che da quel momento in poi avrebbero sempre potuto contare l’uno sull’altro.
 
 Sherlock sollevò Rosie, facendola volteggiare e facendo un giro su se stesso, beandosi della risata acuta e infantile della bambina, che inspiegabilmente sembrava essere una delle poche cose in grado di rallegrarlo in quel periodo buio e doloroso, poi tornò a stringerla fra le braccia, scoccandole un bacio sulla guancia.
 John tornò in salotto con un vassoio, la teiera e due tazze di tè, poggiando il tutto sul tavolino da caffè, osservando quella scena intenerito.
 «Quindi i tuoi genitori hanno incolpato Mycroft?» domandò poi, prendendo posto sul divano e versando il tè nelle tazze.
 Sherlock annuì, stringendo Rosie a sé, baciandole nuovamente il viso e accarezzandole il capo. Raggiunse l’amico e prese posto accanto a lui sul divano, facendo sdraiare la bambina sulle sue gambe e continuando a giocare con lei, che intanto stava tentando di afferrare le sue dita.
 «Dopo tutto quello che ha fatto per proteggervi da Eurus in questi anni?» proseguì John.
 «Sì.»
 «Non capisco… Lui ha fatto del suo meglio.» John scosse il capo, accarezzando il capo di sua figlia. «Forse ha sbagliato a nascondervi il fatto che fosse ancora viva, ma non avrebbe certo potuto farvi sapere, dopo quattordici anni, che vostro zio l’aveva rinchiusa in un carcere di massima sicurezza… ha solo tentato di risparmiarvi una sofferenza enorme. A modo suo l’ha fatto per proteggervi.»
 «Lo so.» confermò Sherlock. Poi sospirò. «Ma i miei genitori sono di vedute molto ristrette. Soprattutto se non riescono a capire che in questi anni Mycroft è stato logorato da Eurus e dalla sua pazzia, e soltanto per assicurarsi che non lo fossimo noi.»
 John sollevò lo sguardo, puntandolo sul viso del consulente investigativo, stupito da quelle parole pronunciate in difesa del fratello. Lo osservò per qualche istante, poi portò una mano al suo volto e gli accarezzò teneramente una guancia.
 «Stai bene?» chiese.
 Sherlock agganciò i suoi occhi. «Sì.» rispose, poggiando una mano su quella di lui, accarezzando le sue dita. Poi accennò un sorriso, abbassando lo sguardo su Rosie, sfiorandole il capo e riportando lo sguardo sul viso dell’amico. «Adesso sì.»
 John ricambiò il sorriso.
 Impercettibilmente, i loro visi si avvicinarono; e le loro bocche si ritrovarono così vicine da poter respirare la stessa aria, e così vicine che arrivarono a sfiorarsi impercettibilmente.
 Era passata quasi una settimana dal loro primo bacio. Nessuno dei due ne aveva più fatto parola, ma troppo spesso si erano ritrovati vicini a baciarsi ancora, ritrovandosi poi interrotti da qualcosa o da qualcuno.
 Esattamente come in quel momento, quando Rosie emise un gorgoglio, reclamando attenzioni e interrompendo il loro contatto visivo.
 Entrambi si voltarono verso di lei.
 «John, smettila di ignorare tua figlia.» lo rimproverò Sherlock, ironicamente, rompendo la tensione che si era creata fra loro, accarezzando il viso della bambina. «Tuo padre è così distratto, ultimamente, apetta.» disse rivolto alla piccola, solleticandole il pancino e scatenando le sue risate.
 John rise sommessamente. «Sì, c’è qualcuno che mi distrae in modo particolare di recente.»
 Holmes sentì il sangue affluire alle guance. Si schiarì la voce, imbarazzato, poi la adagiò fra le braccia dell’amico, passandogli il biberon, poggiato sul vassoio, accanto alla teiera.
 Il medico sorrise, poi con un cenno del capo lo invitò ad avvicinarsi e dar da mangiare alla bambina lui stesso.
 Il consulente investigativo esitò, ma dopo un istante sospirò e annuì, con un mezzo sorriso. Si spostò più vicino all’amico e i loro corpi entrarono impercettibilmente in contatto; Sherlock avvicinò il biberon alle labbra di Rosie e lei cominciò a mangiare, accarezzando le dita dell’uomo con le manine paffute.
 John sorrise, accarezzando le gambe della figlia, intenerito da quella scena. Poi volse leggermente il capo, incontrando di sbieco gli occhi di Sherlock, il cui volto era fermo a pochi centimetri dal proprio.
 Si osservarono per un lungo istante, poi John poggiò la tempia contro quella dell’amico ed entrambi chiusero gli occhi, beandosi di quella vicinanza e del silenzio che si era creato avvolgendoli completamente.  
 
 Qualche settimana dopo, grazie all’aiuto della signora Hudson e di Molly – che si era gentilmente offerta di occuparsi della piccola Rosie – John e Sherlock poterono dedicarsi alla ricostruzione di Baker Street, che avrebbe decisamente avuto bisogno di una risistemata dopo esplosione della granata che aveva quasi ucciso i fratelli Holmes e Watson.
 Perciò, aiutati da alcuni degli uomini di Mycroft, gentilmente finanziati dal fratello, i due si misero al lavoro, decisi a rimettere a nuovo il 221B.
 La bomba aveva danneggiato gran parte del salotto e alla cucina, risparmiando tuttavia le camere da letto e il bagno, perciò i lavori si concentrarono nelle due stanze principali dell’appartamento.
 Gli uomini di Mycroft si occuparono di sbaraccare le stanze, eliminando tutti i mobili e gli oggetti che non erano più utilizzabili e, una volta finito, annunciarono che sarebbero tornati quando Sherlock e John avessero ripulito cucina e salotto per installare quelli nuovi acquistati da Mycroft.
 Il consulente investigativo ringraziò, ignorando il fatto che suo fratello non lo avesse minimamente preso in considerazione per la scelta dei nuovi arredi, e si dedicò alla pulizia insieme a John.
 
 Dopo qualche ora e dopo aver eliminato tutti i soprammobili inutilizzabili, aver spazzato e pulito, il 221B sembrava essere tornato simile a quello che era una volta. Soltanto un po’ più ordinato.
 John sorrise, guardandosi intorno. «Non è poi tanto male.» concluse. «Sicuramente più ordinato rispetto a prima.» ridacchiò, dando un buffetto sul fianco all’amico.
 Sherlock rise a sua volta. «L’universo è nato dal caos, eppure adesso è perfetto. Non ci si può aspettare nulla di diverso da me.» fece notare, ironicamente.
 Il medico si voltò verso di lui, ammirato. «Credevo non ti intendessi dell’universo.»
 «Non sono completamente ignorante in materia, John.» replicò, incrociando il suo sguardo. «Con chi credi di avere a che fare?»
 Watson rise dolcemente, ma proprio mentre stava per ribattere, venne interrotto dagli uomini di Mycroft, che varcarono la soglia cominciando a trasportare all’interno dell’appartamento i mobili che il politico aveva acquistato, posizionandoli esattamente dove prima si trovavano quelli vecchi, senza degnare di uno sguardo i due uomini.
 John e Sherlock li osservarono per lunghi istanti, scostandosi per lasciarli passare, scambiandosi sguardi perplessi senza proferire parola e alla fine decisero di lasciare la stanza, avendo capito di non essere di alcuna utilità.
 Si rintanarono in cucina, richiudendosi la porta alle spalle e isolandosi dal brusio che il trasloco stava provocando.
 «Ti va un tè?» chiese Sherlock.
 John annuì. «Certo.»
 Il consulente investigativo riempì il bollitore e lo mise sul fuoco, preparando poi le tazze, la zuccheriera e poggiando sul tavolo un piatto di biscotti gentilmente offerti qualche ora prima dalla signora Hudson.
 Quando il bollitore cominciò a sbuffare sonoramente, Sherlock riempì le tazze, porgendone poi una a John, e insieme presero posto al tavolo, sedendo uno di fronte all’altro.
 Per lunghi minuti nessuno dei due parlò. Rimasero immersi nel silenzio, gustandosi le loro tazze di tè, beandosi della calma che l’isolamento della cucina aveva dato loro.
 Ma alla fine, Sherlock sospirò, mettendosi in piedi e poggiando la tazza nel lavello, e prendendo un bel respiro.
 «John, devo farti una domanda.» sbottò, voltandosi verso di lui per poterlo guardare negli occhi e valutare ogni sua reazione alle sue parole.
 Il medico sollevò lo sguardo. «D’accordo.» disse, poggiando la tazza di fronte a sé sul tavolo e rimanendo in attesa, senza allontanare lo sguardo dal volto del suo migliore amico.
 «Ci ho pensato a lungo. E…» si fermò, esitando per qualche secondo, puntando lo sguardo sul pavimento e poggiando la schiena al piano cucina. Poi prese un bel respiro e si impose di proseguire, risollevando lo sguardo sul volto del dottore. Erano giorni che programmava di domandarglielo ed era decisamente arrivato il momento di farlo. «Vorrei che tu e Rosie tornaste a vivere qui a Baker Street. Insieme a me.»
 John non parlò, attendendo che l’amico andasse avanti.
 Holmes raddrizzò la schiena ed esalò un lungo respiro. Avanti, si disse.
 «Ascolta, so che sarà un grande cambiamento, ma con tutto ciò che è successo credo che avrai bisogno di una mano con Rosie e io… io vorrei…» esitò. «Voglio riaverti qui con me.»
 John rimase in silenzio.
 E il consulente investigativo venne colto dal panico. «Ovviamente se non vuoi tornare qui non sei costretto.» si affrettò ad aggiungere. «Insomma, capisco che tu e tua figlia abbiate bisogno dei vostri spazi e che sia passato poco tempo dalla morte di Mary e-»
 «Dio, credevo che non me l’avresti mai chiesto.» lo interruppe John, un sorriso a trentadue denti stampato sulle labbra. Poi si mise in piedi, lo raggiunse e dopo avergli circondando il collo con le braccia, lo baciò sulla bocca.
 Sherlock, dopo un iniziale momento di perplessità, poggiò le mani sui fianchi dell’amico e chiuse gli occhi, abbandonandosi a quel bacio che tanto lo aveva sorpreso.
 
 Quando il dottore si allontanò da lui, gli accarezzò gli zigomi, sorridendogli dolcemente, al colmo della felicità, gli occhi brillanti come mai prima di allora.
 «Credevo fossi arrabbiato.» disse Sherlock, ancora sorpreso dopo quella reazione inaspettata. «Invece mi hai decisamente – piacevolmente stupito.» concluse con un sorriso sghembo e divertito, accarezzando i fianchi dell’amico.
 «Arrabbiato?» chiese John, inarcando un sopracciglio. «Aspettavo da settimane che mi chiedessi di tornare a Baker Street.»
 Il consulente investigativo aggrottò le sopracciglia, confuso. «Ma se tornare qui era quello che volevi, avresti semplicemente potuto dirmelo.» fece notare. «Potevi chiedermelo.»
 «Lo so, ma non ero certo che fosse ciò che avresti voluto anche tu.»
 «Perché non avrei dovuto volerlo?» chiese. «Ti amo, voglio passare il resto della mia vita con te e con Rosie… di quali altre prove hai bisogno per sapere che vi voglio entrambi qui con me?»
 John sospirò. «Sai che ti amo anche io, ma pensavo che significasse correre troppo. Insomma, portare qui una bambina… è un grosso cambiamento, Sherlock.» spiegò, accarezzandogli la nuca con le dita.
 «John, amo moltissimo anche Rosie.» replicò. «E ci vediamo praticamente ogni giorno.»
 «Sì, ma vivere sotto lo stesso tetto non sarebbe la stessa cosa.»
 Sherlock sorrise. «Lo so.»
 «Cambierebbero molte cose.»
 «Lo capisco.» concordò il moro. «Diventeremmo come… una vera famiglia.»
 John, di fronte a quell’ammissione, si irrigidì. «Lo siamo già, Sherlock. Stai crescendo Rosie come fosse tua figlia… non è questo il problema.» concluse, spostando lo sguardo sul petto dell’amico, quasi fosse stato imbarazzato dalla sua stessa ammissione ed esitazione. «È che avevo paura di… non lo so…» scosse il capo, indeciso sul termine da utilizzare. «Spaventarti e vederti andare via… Perderti.»
 Sherlock rimase in silenzio per qualche secondo, poi sfiorò la base della schiena dell’amico con una mano, tirandolo maggiorente verso di sé in modo da fare aderire i loro corpi; poi gli sollevò il volto con una mano, accarezzando la linea del suo viso con il pollice e i loro sguardi si incontrarono.
 «John Watson» esordì, parlando dolcemente e in tono sommesso «Quante volte dovrò ripeterti che non devi avere paura di perdermi? E, soprattutto, che non ho paura di te e che non l’avrò mai?»
 Watson esitò. «Sai che non mi toglierò mai questo pensiero dalla testa.» ammise con amarezza, abbassando lo sguardo. «Non dopo quello che ti ho fatto in quell’obitorio.»
 «È acqua passata.»
 «Non per me.»
 Sherlock sospirò. «John, guardami.» disse.
 John, dopo qualche secondo di esitazione, sollevò lo sguardo sul volto di Holmes.
 «Poco tempo fa mi hai detto che avremmo dovuto lasciarci questa storia alle spalle.» gli ricordò, agganciando i suoi occhi. «Eurus, Sherrinford… Quindi questo comprende anche Smith e tutto il resto. Non credi?»
 Watson sospirò. «Non potrò mai dimenticare di averti fatto del male. Mai.»
 «Non ti chiedo di dimenticare.» replicò Sherlock, ripetendo le parole che poco tempo prima il dottore aveva rivolto a lui. «Ma potremmo costruire dei nuovi ricordi.» propose, accarezzandogli il viso e sorridendo dolcemente. «Io, te e Rosie. Insieme.»
 John sorrise e, dopo aver accarezzato il viso di Sherlock, annuì. «Sì, mi sembra una buona idea.» concordò. «E credo che potremmo cominciare da subito.» e detto questo, lo tirò nuovamente verso di sé e poggiò le labbra su quelle di lui, accarezzandole con le proprie e baciandolo teneramente, chiudendo gli occhi.
 
 Fu un bacio lento, dolce, profondo.
 Labbra contro labbra, respiro contro respiro.
 Una dolce carezza che sembrò bloccare ogni cosa intorno a loro, lasciandoli sospesi in quell’istante, racchiusi in quella stretta, in quello sfiorarsi di labbra.
  
 Quando si separarono, i loro occhi si trovarono immediatamente, come calamitati da una forza invisibile. Sherlock mosse il viso, accarezzando il naso di John con il proprio, regalando un altro breve bacio a John, sfiorando stavolta l’angolo delle sue labbra.
 Sarebbero state tante le cose che avrebbero potuto dire in quel momento, eppure né Sherlock né John parlarono, poiché nessuno dei due ne aveva bisogno.     
 Il medico sorrise e abbracciò il consulente investigativo, affondando il viso nell’incavo del suo collo, aggrappandosi alle sue spalle, depositandogli un leggero bacio sul collo.
 E Sherlock lo strinse a sé, accarezzandogli la schiena e i capelli, lasciandosi inebriare dal suo profumo, e cullandolo fra le braccia, imprimendo quel nuovo, splendido ricordo – che non sarebbe stato che il primo di tanti – nel suo palazzo mentale.
 E stretti in quell’abbraccio, al 221B di Baker Street, Sherlock Holmes e John Watson, diedero ufficialmente il via al loro nuovo inizio.
 Insieme.
 
     
ANGOLO DELL’AUTRICE
Ciao a tutti! ;) Come state?
Be’, che dire? La terza storia in pochi giorni… è decisamente tornata l’ispirazione ed p meglio sfruttarla prima che scompaia di nuovo! xD
Stavo lavorando a questa One-shot fin dall’ultima puntata della quarta stagione, che devo dire, mi h lasciata molto con l’amaro in bocca. Perciò ho deciso di scrivere la mia personale versione della vicenda U.U
Che altro dire? Spero che la mia storia vi sia piaciuta… a presto ;)
Eli♥
 
 
   
 
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