Storie originali > Fantascienza
Ricorda la storia  |      
Autore: Carlo Di Addario    05/06/2017    3 recensioni
"Mio padre, il signor Remì Lancaster, ce lo ricordiamo tutti così: diretto in Inghilterra, seduto su un traghetto senza un penny in tasca, con una fumante tazza di tè verde in mano e un buon libro aperto sulle ginocchia.
Era così che in gioventù, coi genitori e la sorella Marì, emigrarono dalla Provenza in quanto ricercati, perché membri del PSF, il Partito Socialista Francese.
I miei nonni paterni, infatti, erano socialisti, oltre che due artisti mancati: mia nonna si era cimentata per tutta la vita nella pittura, mio nonno, di antica origine inglese, nella scrittura. Ma nessuno dei due era mai riuscito ad aver successo, giusto a camparci in qualche modo."
-
"E quando scioccamente gli si chiedeva: “Ma lei si sente più inglese o francese?” Lui sorrideva, guardava il suo interlocutore con un misto di pietà e comprensione e, con fare teatrale, rispondeva solenne: “Il mio paese è il mondo… e la mia religione è fare del bene” citando pedissequamente Thomas Paine, altro suo pilastro etico e morale."
-------------------------------------------------------
(Terzo racconto della serie "Metafisica Musicale")
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
- Questa storia fa parte della serie 'Metafisica Musicale'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

“Mio padre, il signor Remì Lancaster, ce lo ricordiamo tutti così: diretto in Inghilterra, seduto su un traghetto senza un penny in tasca, con una fumante tazza di tè verde in mano e un buon libro aperto sulle ginocchia.

Era così che in gioventù, coi genitori e la sorella Marì, emigrarono dalla Provenza in quanto ricercati, perché membri del PSF, il Partito Socialista Francese.

I miei nonni paterni, infatti, erano socialisti, oltre che due artisti mancati: mia nonna si era cimentata per tutta la vita nella pittura, mio nonno, di antica origine inglese, nella scrittura. Ma nessuno dei due era mai riuscito ad aver successo, giusto a camparci in qualche modo.

Mio padre aveva mutuato entrambe le passioni… e al tempo stesso nessuna: vuoi perché sconfortato dall’aver visto per tutta l’infanzia i genitori fallire rovinosamente nell’affermarsi, vuoi perché di suo era sempre stato più incline alla riflessione che all’atto pratico, ma il suo interesse per l’arte e la letteratura era sempre stato sul piano teorico: mai aveva provato a cimentarcisi.

Eppure lui le amava, quanto i suoi genitori: non c’era ora del giorno che non avesse in mano un qualche testo d’arte, o di filosofia, o di storia, o di narrativa, o di qualunque altra cosa. Accompagnato sempre da una fumante tazza di tè verde.

Anche negl’ideali crebbe diverso: inizialmente nella gioventù si mostrò più radicale e improntato verso la dottrina Marxista, probabilmente anche perché traumatizzato dall’esser dovuto fuggire dal suo paese natale per via del governo fascista, per evitare l’incarcerazione in qualche carcere nord africano.

Pian piano, però, si discostò dalle idee del dottor Marx, avvicinandosi più a quelle di Michail Bakunin, il teorico dell’anarchia. Mio padre rimase come folgorato dai suoi scritti: in essi vedeva la più essenziale e giusta delle verità,  un inno magnifico alla libertà, l’unica condizione umana nella quale l’intelletto e la virtù potevano davvero sbocciare, dove l’uomo poteva davvero ritornare alla sua condizione originaria di felicità.

E quando parlava di libertà, intendeva la più assoluta delle libertà, dell’uomo che non ha leggi, se non la legge morale.

Zia Marì spesso mi raccontava che, all’epoca, non era raro vederlo camminare avanti e indietro per la loro stanza, a decantare con fare concitato e passionale scritti non solo di Bakunin, ma anche di illuministi inglesi e francesi che esaltavano la libertà dell’individuo, deprecavano la società e le sue leggi, esaltando la ragione e il pensiero critico: decantava Voltaire, Cartesio, Rousseau… di quest’ultimo in particolare, trovava così giusto, il ritorno dell’uomo allo stato di natura come unica e vera utopia auspicabile…

E quando scioccamente gli si chiedeva: “Ma lei si sente più inglese o francese?” Lui sorrideva, guardava il suo interlocutore con un misto di pietà e comprensione e, con fare teatrale, rispondeva solenne: “Il mio paese è il mondo… e la mia religione è fare del bene” citando pedissequamente Thomas Paine, altro suo pilastro etico e morale. 

Ho sempre pensato che gli anarchici fossero un po’ tutti dei debosciati. Ai miei occhi di fanciulla, mio padre non ha mai fatto eccezione: perennemente in bolletta, sempre in difficoltà a mantenere per me e mia madre un tetto sopra la testa e un pasto caldo da mangiare, emarginati socialmente come famiglia per via delle nostre idee politiche… la mia infanzia fu miseria e isolamento, per quanto i miei genitori mi abbiano cresciuto con tutto l’affetto del mondo. Tutt’ora non so decidermi se sia stato un periodo felice della mia vita.

Ma ho un ricordo in particolare, che rimembro ancora nonostante il tempo trascorso… avrò avuto quanti anni? Dieci, undici al massimo… mi ero svegliata e, alzandomi dal divano in salotto,  ero andata in cucina a prendermi un bicchiere d’acqua. Passando davanti alla camera dei miei vidi che l’uscio della porta era socchiuso e che, a lume di lanterna, stavano parlottando fra loro.

Curiosa com’ero da piccina, mi avvicinai all’uscio per origliare la loro conversazione notturna: stavano discutendo di pronostici disillusi sulla loro vita, in particolare mia madre. Mio padre, come al solito, era invece molto tranquillo a sorseggiare una fumante tazza di tè verde a bordo del comodino.

Rimembro che mia madre mormorò, malinconica, come avesse sempre desiderato tutt’altra vita: una villa in campagna, uno status sociale da borghese, tanti figli….

Sgranai gli occhi: mia madre voleva avere altri bambini…? Altri figli oltre me?!

E mio padre le rispose, desolato, che purtroppo era tutto impossibile: la villa in campagna mai se la sarebbero potuti permettere, men che meno lo status da borghese… e neanche altri bambini, come avrebbero fatto a mantenerli?! A stento mantenevano me, la loro unica piccina!

Eppure, nonostante la risposta di mio padre fosse tanto chiara quanto categorica, per qualche strano motivo mi convinsi che presto, non nell’immediato ma comunque in un prossimo futuro, avrei avuto un fratellino… e quella notte non riuscì a chiudere occhio, tanto mi sentii confusa ed emozionata!

Ovviamente mi sbagliavo: il fratellino non arrivò mai, neppure tanti anni dopo, quando la situazione economica della famiglia migliorò abbastanza da permetterci davvero di comprarci una piccola casa in campagna: sebbene credo che mia madre, all’epoca, fosse ancora in grado di avere un bambino, nonostante l’avvicinarsi della terza età, ormai era andato irrimediabilmente a scemare quel desiderio di avere una prole numerosa di tanti anni prima… e inconsciamente, ora mi rendo conto, ne fui felice: significava che con il passare degli anni, come unica figlia, le ero bastata per esser felice. Lo spero, almeno… non ho mai avuto il coraggio di chiederglielo.

Ma tant’è, se una giovane coppia di amanti, nel pieno della loro passionale convivenza, deve venir meno al loro naturale istinto di procreare per miseria e povertà, potete ben capire quanto fu difficile per tutti noi il periodo della mia infanzia… e di tutto ciò, non posso che dar la colpa a mio padre e alle sue idee: più volte gli offrirono lavori più che dignitosi che avrebbero un minimo aiutato la nostra precaria situazione economica, ma sempre rifiutò perché gli parvero lesivi per la sua libertà. 

Volendo, la sua vasta cultura artistica e letteraria avrebbe potuto avvicinarlo al mondo accademico e a qualche contatto ma, anche li, si rifiutò sempre: le istituzioni erano nemiche della libertà dell’individuo, ripeteva.

Avrebbe addirittura potuto azzardare la carriera politica, tanto era bravo a parlare e a intortare me e la mamma con le sue arringhe filosofiche e i creditori a fagli credito malgrado la perenne insolvenza… ma lui, ovviamente, odiava la politica in ogni sua forma: era la massima nemica dell’uomo e del suo naturale stato, spiegava.

Eppure, nonostante la sua precaria condizione umana inflittasi, era sempre dannatamente calmo: e non importava che la fine del mese fosse vicina, o che ci stessero per staccare la corrente, o che i creditori gli fossero alle calcagna per riscuotere settimane di pagamenti arretrati: lui era sempre lì, fra i libri a sorseggiare tè bollente.

Una volta, ricordo ancora vividamente, dovemmo andare qualche tempo a dormire in tenda: il vicino di casa, sciaguratamente, aveva dato fuoco al suo appartamento, facendo propagare l’incendio fino alla nostra cucina rendendola inagibile.

Io e la mamma prendemmo tutte le cose che ci parvero più essenziali: il fornelletto, i vestiti, la radio… mio padre no, lui prese solo tutte le scatole di tè che avevamo in dispensa, tre tazze e qualche libro.

Quella sera, mentre sorseggiavo tè mangiando gallette, vidi i miei litigare pesantemente.

Tirando le somme, mio padre era, ed è tutt’ora, una persona controversa, per il quale non nutro particolare stima o affetto… ha fatto vivere me e mia madre, santa donna, molto peggio di quanto avrebbe potuto, per perseguire degl’ideali esistenziali distorti ed estremisti, e non so se riuscirò mai a comprenderlo o giustificarlo.

Ora che sono donna, per quanto ancora giovane giovane, mi rendo anche conto di non aver preso quasi nulla da lui: non ho preso la loquacità, taciturna come sono. Non ho preso la passione per la filosofia, benché l’abbia studiata molto. Non ho preso le idee e gli ideali, che non condivido.

Ma ho preso l’amore per la lettura e per il tè… perché, nella solitudine e nell’emarginazione della mia infanzia, solo nella lettura trovavo conforto e distrazione… e solo tè trovavo in dispensa.

E quindi, per quanto dentro io sia l’antitesi di quello che fu ed è tutt’ora il buon vecchio Remì, all’apparenza ne sono uguale: eccomi qui per esempio, diretta in Accademia, seduta sul treno senza un penny in tasca,  con una fumante tazza di tè verde in mano e un buon libro aperto sulle ginocchia”

 

-Anna Lancaster, Memorie, 15 Settembre 1985
 

Copyright: All right reserved  (Tutti i diritti riservati​)



 

Note Autore: "La guerra delle due rose" fu una sanguinosa lotta dinastica combattuta in Inghilterra tra il 1455 ed il 1485, tra due diversi rami della casa regnante dei Plantageneti: i Lancaster e gli York.
La guerra fu così denominata dopo che Walter Scott, nel 1829, pubblicò il romanzo "Anna di Geierstein" facendo riferimento agli stemmi dei due casati, recanti rispettivamente una rosa rossa e una rosa bianca.

(Fonti: Wikipedia)

 

   
 
Leggi le 3 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Fantascienza / Vai alla pagina dell'autore: Carlo Di Addario