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Autore: LisaDalPra    07/06/2017    0 recensioni
Non è semplice essere Nami: una ragazza la cui vita sembra dover essere stravolta, soprattutto dopo aver conosciuto Luca, un misterioso uomo che sembra seguirla nell’ombra e che la inquieta pur di ogni altro, sebbene dica di aiutarla. Lei è speranza e dolcezza, lui rabbia e rassegnazione. Quando il mondo sembra essere sull’orlo del baratro, e la giustizia va perduta, quando morte e disperazione toccano anche il più lieto degli uomini, c’è bisogno di ognuno dei pregi di Nami e di ognuno dei difetti di Luca per poter resettare la bilancia ed evitare che il terrore conquisti le strade, le case ed i cuori delle loro città.
Genere: Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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IL DRAGONE SUL TRENO
Lisa Dal Prà
In tutte le librerie online
 
PROLOGO
BASTA UNA SCINTILLA PER ACCENDERE UN FUOCO
 
L’uomo dai capelli corvini sembrò apparire in mezzo alla folla per puro caso. Nessuno aveva fatto caso ai suoi abiti poveri ma ben tenuti, né al suo taglio di capelli così anonimo; nessuno si era accorto che aveva una spighetta mollata o che sorrideva nervosamente, mentre una goccia di sudore gli bagnava la tempia, nonostante stesse camminando ad una normale andatura. Era solo un uomo in mezzo a tanti uomini come lui… almeno finché non decise di salire sopra un logoro sgabello di legno scuro.
Qualche passante lo guardò con strana curiosità, qualcuno sogghignò, domandandosi che cosa stesse facendo lì sopra, ma senza accorgersi di quell’aura nervosa che lo avvolgeva.
L’uomo dai capelli corvini allora prese un bel respiro e trovò il coraggio di fare quello che chiaramente aveva pianificato di svolgere quando era uscito di casa con uno sgabello. Estrasse un libro da sotto la giacca, un libro che tutti conoscevano molto bene.
«La storia delle città sotterranee.» Disse, leggendo il titolo dell’opera che teneva tra le mani.
Nessuno sembrò troppo colpito da ciò, ma qualcuno tra i più giovani, amanti delle grandi storie e qualcuno tra i più anziani, amanti dei grandi eventi passati, si fermò ad ascoltare.
«Distese verdi, accanto a città libere, circondate solo dal cielo e dalla libertà. Questo era il mondo dell’uomo. La grandezza dell’umanità si rifletteva in ogni meraviglia da lui creata ed in ogni meraviglia da lui preservata.»
Alcuni sorrisero, ripensando a quel mondo che non avevano mai visto e che mai avrebbero potuto conoscere, mentre l’uomo dai capelli corvini si era lanciato nella lettura che descriveva la vita della sua specie di circa due secoli prima. Città, tecnologia, medicina, arte, cultura, natura… tutto ciò che poteva far sembrare l’uomo qualcosa di perfetto, quasi divino.
«Ma se l’uomo controllava il suo mondo e la sua vita, non poteva controllare quella del Sole.»
Alcuni bambini trattennero il fiato, mentre gli anziani li guardavano per assicurarsi che comprendessero ogni parola e mentre sempre più persone si soffermavano ad ascoltare la storia con la quale erano cresciuti giorno dopo giorno.
«La nostra stella si è scagliata sul nostro mondo, più grande, più calda e da amica, è diventata il nostro nemico più pericoloso. I raccolti morivano, le acque si asciugavano, l’aria si densificava, i boschi bruciavano… Non c’era scampo a quei raggi mortali, che mangiavano la pelle e la carne dei vivi, che uccidevano tutto ciò che ci poteva mantenere in vita, che rendevano piccola la grandezza dell’uomo.»
«E allora che cosa accadde?» Chiese una bambina sorridendo e conoscendo chiaramente il capitolo successivo di quella storia.
L’uomo sorrise di nuovo prima di continuare, non era quasi più nervoso sebbene la parte più importante della sua missione non fosse ancora arrivata.
«L’uomo era grande e nemmeno il Sole poteva sconfiggere ciò.» Le rispose prima di proseguire. «Con il timore della morte nel cuore, l’uomo decise di affidarsi ancora una volta al grembo materno, non per trovare cibo o acqua, ma per ottenere un nuovo e sicuro rifugio. Come molti degli animali che aveva imparato a conoscere, l’uomo iniziò a scavare. Sempre più in profondità arrivarono i suoi picconi, le sue macchine e la sua mente, ma scavare non bastava, perché l’uomo più di ogni altra cosa, sapeva costruire. Nuovi palazzi e nuove strade si ersero nel grembo del suo pianeta, un pianeta che appariva morto sulla superficie bruciata, ma che pullulava di vita nelle protette profondità. La Capitale è stata la prima città ad essere popolata e da essa ci siamo evoluti ancora, dimostrando la nostra grandezza, scavando e costruendo, creando un mondo invisibile dove salvare la specie, dove far si che la vita trionfasse. Come una fenice, l’uomo è risorto dalle ceneri, imponendo la sua grandezza anche sul Sole.»
Tutti iniziarono a battere le mani, sorridendo, sentendosi fieri di ciò che erano, della specie alla quale appartenevano, ma non era certamente questo l’intento dell’uomo dai capelli corvini. Il suo nervosismo e la sua paura erano spariti, ma non i suoi intenti.
«Si… si: l’uomo è grande, ma la sua grandezza dov’è finita?»
Alcuni applausi cessarono, facendo smorzare anche tutti gli altri… qualcuno si guardò intorno.
«Abbiamo fondato queste città per sopravvivere e per ridare vita, futuro e libertà alla specie umana. Abbiamo fondato il Magistero ed eletto tre Magistri… ma dove sono questi Magistri? Quando avete votato i loro successori? Quando avete potuto mettere la vostra voce in mezzo alla loro? Quando avete potuto dire la vostra sulle leggi che intimoriscono questa comunità?»
Qualcuno tra il pubblico s’innervosì, alcune madri tirarono via i propri figli, ma qualcun altro, anche se con timore, fece un piccolo cenno di assenso e l’uomo dai capelli corvini ebbe la conferma di non essere solo, la conferma che altri in quel mondo avevano capito che l’uomo non era grande quanto dicevano i libri. 
«Bambini che spariscono nel nulla, portati via a genitori che non possono nemmeno parlare della loro scomparsa! Persone condannate a morte per mano dell’esilio in superficie solo perché provano a contraddire il Magistero! La paura di non avere un lavoro, di perderlo o che lo possa perdere qualcuno dei nostri cari… quanti di voi conoscono qualcuno che si rannicchia disperato la sera, perché sta per perdere tutto?»
Solo una piccola folla era sopravvissuta, meno della metà delle persone che inizialmente si erano soffermate ad ascoltare la lettura erano rimaste anche per ascoltare lo sfogo di un cittadino qualunque, che parlava di cose tanto pericolose, ma all’uomo dai capelli corvini questo bastava. La sua missione non era scatenare una rivolta, non era marciare per la strada per cambiare il mondo; la sua missione era fare in modo che qualcuno accettasse, che qualcuno ammettesse, anche e soprattutto a se stesso, che l’uomo, che ora viveva in quella città non era grande, era piccolo, infimo e debole e che si stava facendo schiacciare da altri uomini.
«Molti di noi nascono e vivono poveri e non hanno speranza di cambiare nulla! Ci sono madri costrette a vendere i propri figli! E uomini che sono disposti a comprarli! È grandezza questa?»
«No!» Rispose una voce indistinta ed inaspettata tra il pubblico, contornata da qualche assenso.
«No, non lo è infatti. Ci hanno insegnato che l’uomo sa sollevarsi ed evolversi ed è giunto il momento che lo faccia di nuovo!»
Qualcuno osò persino applaudire, anche se piano, nascosto.
L’uomo dai capelli corvini stava facendo ciò che si era prefissato e, come sapeva, sarebbe accaduto, attirò anche l’attenzione di alcune Guardie del Magistero, ma ciò non lo avrebbe rallentato, non in quel momento: se gli uomini non trovavano il coraggio da soli, magari glielo avrebbe dato lui.
«Persone picchiate dalle Guardie! Detenuti che nessuno può visitare! Sanità solo per i ricchi!»
«Basta!» Urlò qualcun altro.
«A mia cugina hanno portato via i figli perché erano gemelli!» Disse una voce spezzata tra la piccola folla.
Le parole stavano tuttavia diventando troppo aspre per le Guardie. Nessuno poteva parlare così liberamente nelle città sotterranee, non se linciava le leggi che le mantenevano attive da così tanti anni.
Una Guardia, con la sua divisa bianca si avvicinò, intimando l’uomo dai capelli corvini di scendere dallo sgabello e di smettere di parlare, mentre l’altra cercava di disperdere la folla.
Molti seguirono le istruzioni e se ne andarono in silenzio, fingendo di non aver mai pensato di essere d’accordo con quello strano interlocutore, ma pochissimi altri restarono e si scagliarono a parole contro i due funzionari.
«Non avete niente da dire?»
«Nascondete le crudeltà del Magistero?»
«Perché nessuno conosce l’identità o la dimora dei Magistri?»
Dall’alto del suo sgabello, l’uomo sorrise e decise di non arrendersi.
«Dove finiscono i bambini scomparsi? Smettiamola di inneggiare a questi falsi salvatori dell’uomo, che lo imprigionano in timori e repressione!»
La guardia più vicina lo strattonò tirandolo giù dallo sgabello e colpendolo con un manganello per farlo tacere in modo definitivo, innescando però la reazione di alcuni membri del ristretto circolo rimasto, che si avventarono su di essa per allontanarla.
«Violenza contro semplici parole! Questa è la risposta di chi è colpevole!»
L’uomo dai capelli corvini sorrise un’ultima volta, erano forse in sei contro le due Guardie, ma esse erano armate, addestrate e protette e non ci volle molto perché fermassero quei poveri uomini e li arrestassero.
Mentre veniva portato via, una delle Guardie si avvicinò all’uomo con lo sgabello, ricordandogli con un sussurro che sarebbe morto per ciò che aveva cercato di fare.
«Lo sai, ciò che vuoi è impossibile.»
«Dicevano che era impossibile sopravvivere al Sole… un giorno vedrai una cosa impossibile e quando accadrà, saprai per certo che anche tutte le altre cose impossibili si possono avverare.»
«Hai perso ancor prima di cominciare.»
«No, io ho vinto.» Rispose. «Io ho acceso una scintilla, e basta una scintilla per accendere un fuoco.»
Non era più nervoso, non era nemmeno impaurito. Sorrideva quasi. Sapeva a cosa sarebbe andato incontro, ma aveva comunque deciso di agire quella mattina ed aveva appena avuto la prova che le sue azioni non erano state vane.
Mentre le Guardie lo portavano via, vide arrivare un treno alla fermata della metropolitana che collegava la Capitale alle altre città sotterranee. La prima persona a scendere era una giovane ragazza dai capelli color miele e gli occhi che sembravano scolpiti da una lastra di ghiaccio. Nessuno dei due poteva sapere che quella cosa impossibile, era appena arrivata nella Capitale.
  
CAP 1
IL DRAGONE VI SALVERA’
 
Clary urlò. Le avevano detto di non farlo, di stare zitta, di restare in silenzio, ma il dolore era davvero troppo forte e le sembrava che il corpo le si spaccasse a metà.
Robb le stringeva la mano, ma a differenza della moglie, lui era completamente lucido e ciò lo faceva stare anche peggio. Sfiorò i capelli color miele della donna che aveva accanto, la sua fronte era imperlata di sudore, il respiro affannato, i muscoli contratti e i nervi tesi, mentre grosse lacrime che raccontavano un momento di terrore mentale e dolore fisico, le rigavano le gote.
Un altro urlo divampò nella sala, facendo rabbrividire Robb, che continuava a tenerle la mano, ringraziando mentalmente quella città che aveva sempre detestato, che tutti detestavano.
Non era un segreto che Buia fosse la città sotterranea più malvista. Era la più profonda e la più piccola, scavata nella roccia dura, spigolosa e creata solo per far funzionare i polmoni artificiali di quella società nascosta nel grembo del pianeta, rintanata. Definirla città era già un elogio date le pochissime case che ospitava, poco meno di duecento abitanti incastrati in un angolo di quel buco freddo illuminato a malapena da lampioni a fiamma sparsi per le ripide e strette stradine che si diramavano tra poco forniti negozi e appartamenti troppo piccoli.
Due terzi di quel buco nel pianeta erano riservati ai depuratori: decine e decine di camini creati per risucchiare l’aria dalla superficie, la portavano giù, nelle profondità della terra, fino a Buia, dove veniva raffreddata, depurata e divisa dal vapore acqueo che la rendeva così densa ed irrespirabile fuori dal mondo sotterraneo. Da lì passava ai polmoni artificiali che la rispedivano nelle altre città, mentre l’acqua veniva raccolta e mandata al bacino idrico che si trovava nella Capitale, dove poi era divisa. Accanto a tutto ciò c’era un altro depuratore: quello per i liquidi: qualsiasi cosa non fosse solida, in ogni città, finiva lì dentro, veniva filtrata e vi si ricavava altra acqua; nulla poteva essere buttato in un mondo in cui la natura aveva smesso di offrire sostegno alla vita e le fonti d’acqua sotterranee e naturali, sarebbero potute finire da un momento all’altro.
Macchinari che rombavano notte e giorno erano la compagnia costante degli abitanti di Buia e Robb aveva sempre odiato ogni angolo di quella città proprio per questo motivo: macchine che hanno più valore della vita degli uomini.
Non quella notte però. Quella notte il brusio era un incredibile alleato perché nascondeva le strazianti grida di Clary.
«Dov’è Moreau?» Chiese la donna respirando a fatica.
Robb si guardò intorno, ma non c’era traccia del loro vecchio amico e, nonostante si fidasse ciecamente di lui, non riuscì ad evitare di pensare che forse non si sarebbe fatto vivo, e nessuno avrebbe potuto biasimarlo.
«Arriverà.» Cercò di consolarla.
La mano di Clary strinse ancor più forte quella del marito, ma solo per pochi istanti; stava finendo le forze e lui non sapeva come aiutarla.
«Qualcosa non va Robb. Me lo sento… fa troppo male…»
Robb le guardò il pancione e lo sfiorò appena con la mano libera, come se quella carezza potesse davvero placare i gemelli che vi dimoravano all’interno. Ricordò la felicità che aveva provato quando Clary gli aveva detto che sarebbe diventato padre, una gioia incontenibile che si era tramutata in completa disperazione ed in terrore cieco nel momento in cui avevano scoperto che i bambini erano due.
Nessuno sapeva che cosa accadeva ai bambini che venivano portati via dal Magistero, ma la cosa più raccapricciante era la sorte dei gemelli, che non potevano restare nelle famiglie d’origine, ma venivano portati via ai genitori nel momento stesso della nascita, senza che nessuno assegnasse loro un nome.
Avevano nascosto bene la gravidanza, avevano avuto mesi per trovare il modo di salvare quelle creature, ma tutto era andato in pezzi quando avevano deciso di nascere in anticipo e Clary aveva iniziato ad avere dolori lancinanti.
Robb cercò di consolarla, di dirle che tutto sarebbe andato bene, ma era terrorizzato quanto lei e non sapeva come aiutarla.
Solo qualche minuto dopo comparve un uomo dai ricci castani e gli occhi chiari, impaurito quanto la coppia, ma certamente più lucido e disposto quanto loro a fare ciò che aveva promesso.
«Che cosa succede?» Chiese avvicinandosi.
Clary continuava a soffrire e Robb lo guardò con disperazione, senza lasciarle mai la mano e permettendo che l’amico si avvicinasse per vedere che cosa stava creando tanti problemi.
«Riesco a vedere la testa di uno di loro Clary, sei bravissima!» Disse mentre si rimboccava le maniche e s’infilava dei guanti, senza però proferir parola sulle piccole stranezze che aveva notato.
Robb prese un respiro, confortato dalle parole dell’amico e, soprattutto, dalla sua presenza. Moreau non era un medico, era un veterinario, ma in una città come quella, non era la prima volta che si occupava anche di esseri umani.
Il dottore accese una seconda candela e l’appoggiò ai piedi della donna, che continuava, stremata, a soffrire, poi iniziò la sua analisi.
Per lunghi minuti mosse le sue abili mani, osservò e fece domande, dicendo a Clary quando spingere e quando trattenere, aiutandola a respirare ed incoraggiandola a lottare, ma aveva ben compreso che qualcosa non andava bene e che il parto sarebbe stato molto più complicato del previsto.
«Non funzionerà. Non nasceranno mai in questo modo, moriranno loro e morirà anche Clary.» Disse infine, in modo rozzo, diretto, crudele, ma anche nell’unico modo che non facesse perdere loro tempo prezioso da usare per provare a salvare quella frenetica situazione.
Clary non udì nemmeno le sue parole, le si era alzata la febbre, aveva il desiderio di spingere ma le mancavano le forze ed il dolore la continuava a invadere, Robb invece sembrò risvegliarsi da un incubo di colpo, solo per scoprire di essere entrato in qualcosa di peggio. Guardò l’amico in tacita supplica, quasi non avesse davvero compreso l’entità delle sue parole.
«Robb! Riprenditi! Moriranno tutti e tre. Concedimi il permesso di tagliare.»
«Se fai un cesareo qui, non sopravvivrà!»
«Probabile.» Ammise, senza dare a vedere il peso che gli opprimeva il cuore e che gli chiudeva lo stomaco e la gola nell’ammettere tal esito. «Ma se non lo facciamo morirà di sicuro e di sicuro moriranno anche i gemelli!»
«Ma che cosa c’è che non va?»
Moreau non lo sapeva, non ne aveva idea. Non avevano mai fatto un’ecografia dopo la terribile scoperta, non avevano mai fatto analisi mediche, controlli, nulla… c’erano diverse ipotesi che gli frullavano per la testa in quel momento, ma non aveva idea di quale fosse quella più vicina alla realtà.
«Robb, fammi tagliare e avremmo l’occasione di salvarli. O resta in silenzio e li lasciamo morire.»
«Taglia.» Fu la risposta, ma la voce non era quella di Robb, ma quella della sua rassegnata moglie. Voleva di certo avere l’occasione di salvare i suoi figli e, probabilmente, preferiva l’incombenza della morte che quel continuo dolore che l’accompagnava da quando aveva iniziato a dilatarsi.
Moreau non se lo fece ripetere. Ordinò a Robb di tenere la moglie il più ferma possibile, le diede un calmante e tagliò la carne viva della donna, facendola esplodere di nuovo in un grido disperato.
Clary svenne poco dopo e Moreau ebbe più libertà di movimento.
«Non è possibile…» Furono le uniche parole che riuscì a dire quando finalmente fu in grado di tenere tra le braccia i due gemelli.
Robb alzò lo sguardo e li vide per la prima volta, piccoli, fragili, aveva la sensazione che sarebbe bastato il dannato rumore dei depuratori per poterli spezzare, ma non si accorse minimamente dell’assurdità di ciò che stava guardando, non come se ne accorse il dottore.
«Cazzo… cazzo! Come facciamo adesso? Come…»
Si bloccò guardando i due bambini e solo allora Robb capì la gravità della situazione: erano siamesi.
Il piano era di dividerli; per quanto terrificante, uno dei due sarebbe cresciuto altrove e nessuno avrebbe mai dovuto sapere che esisteva un gemello, così avrebbero avuto la possibilità di una vita… ma come avrebbero potuto dividere due neonati siamesi, tra caldaie e depuratori? Eppure, per Moreau non sembrava questa la cosa più scioccante.
«Fammeli tenere, potrò farlo una volta sola in tutta la mia vita. Fammeli tenere.» Chiese il padre, rassegnato al fatto che non sarebbero mai riusciti a nascondere due siamesi per tutta la vita.
Moreau gli passò i bambini e ciò che finalmente lo sconcertava, fu evidente a tutti: non solo i due bambini erano siamesi, ma erano un maschio ed una femmina.
«Com’è possibile?»
«Non lo è.» Rispose Moreau.
Robb sfiorò la testa dei due bambini mentre sorrideva e piangeva nello stesso tempo.
«Un nome a testa.» Disse rivolgendo appena lo sguardo a Clary, che giaceva svenuta a terra, mentre Moreau cercava di ricucirla. Avevano preparato quattro nomi e ora toccava a lui scegliere quali usare, prima che gli portassero via quelle bellissime ed indifese creature. «Lei si chiamerà Nami: è sempre stato il mio nome preferito. E tu sei Alex, come tuo nonno materno. La tua mamma lo amava con tutto il cuore.»
Li cullò per qualche istante prima di accorgersi che Moreau aveva smesso di occuparsi di Clary. Sedeva immobile con le mani tra i ricci, singhiozzando.
Non aveva bisogno di fare domande per sapere che cos’era accaduto, ma non poteva nemmeno accettarlo senza sentirselo dire.
«Mi dispiace Robb. Mi dispiace tanto. Le volevo bene… così bene…»
Tornando a stringere la mano della moglie ormai deceduta, Robb prese un respiro profondo. Non voleva entrare nel panico, non poteva. Sapeva che era impossibile salvare quei due bambini, ma non si sarebbe arreso senza almeno provarci. Non li conosceva e li amava con tutto il cuore e Clary era morta per salvarli, doveva fare lo stesso se occorreva.
«Dobbiamo nascondere il corpo.»
«Che cosa?»
«Moreau, dobbiamo farlo: se la trovano capiranno che era incinta, capiranno che è stata operata e tutti sanno che sei l’unico in questa minuscola città a poterlo fare… verranno da te e sai bene che quando vogliono sapere qualcosa, trovano il modo di scoprirlo!»
Aveva ragione, Moreau non poteva che essere d’accordo, ma dove potevano nascondere un cadavere? E come avrebbero spiegato la scomparsa della donna?
«Robb, lei non deve sparire… non può.»
L’amico sembrava aver formulato gli stessi pensieri. Strinse a sé i due bambini pensando che presto avrebbero avuto fame e capì quale sarebbe stata la scelta più rapida e la più crudele…
«Le diamo fuoco.»
«Sei impazzito?»
«Non possono capire nulla da un cadavere carbonizzato e a nessuno al Magistero importa dei poveracci che vivono qui, non finché queste macchine continuano a funzionare. Quindi non ci saranno grandi indagini.»
Moreau si strinse le braccia al petto. Apriva la bocca, ma nessun suono usciva dalle sue labbra tremanti. Stava vivendo l’incubo peggiore della sua vita e sapeva di non potersi svegliare.
«Moreau! Devi essere forte ora! Prendi i bambini.» Gli ordinò, mettendogli tra le braccia i due corpicini avvolti dalla stessa coperta. «Devi andare al tuo studio e nasconderli. Quando il fuoco sarà alto, attirerà l’attenzione molto più di un po’ d’urla mascherate dai rumori di sottofondo e loro non devono essere qui quando arrivano le Guardie!»
«Nemmeno noi! Dovresti portarli via tu!»
«No! Se qualcuno mi vede entrare nel tuo studio appena prima che mia moglie venga ritrovata morta, desteremo sospetti… invece un veterinario che entra nel proprio studio è di certo meno ambiguo.»
Sembrava che la situazione si fosse capovolta: pochi minuti di differenza e loro due si erano invertiti, non era più Robb ad essere immobile accanto alla moglie sofferente, mentre un lucido Moreau si occupava della situazione; ora era il dottore ad essere nel panico ed il neo padre ad avere la lucidità necessaria per proteggere i propri figli.
Tra un tremore e una lacrima, Moreau raccolse i suoi strumenti e, con i bambini tra le braccia, pregando che non iniziassero a piangere per la strada, si avviò verso il suo studio, lasciando Robb accanto al corpo esanime della donna che amava.
Sfiorò i suoi capelli chiari un’ultima volta e le appoggiò con delicatezza le labbra alla fronte, ricordando che era un gesto che Clary aveva sempre amato, per dolcezza e conforto.
«Mi dispiace tanto.»
Aveva almeno un milione di cose che desiderava farle sapere, ma non riuscì a dire più di quelle tre parole.
Si passò una mano sul viso, cercando di trovare il coraggio di fare quel che doveva, ma quando prese la candela in mano, non fu capace ad inchinarsi per avvicinare la fiamma alle vesti di quella donna ridotta in quel modo così pietoso.
Alla fine allargò solo le dita, piano, impercettibilmente, quel tanto che consentì alla cera umida di scivolare sulla pelle e cadere tra i capelli ed il vestito alzato.
Le fiamme si allargarono quasi con eleganza, danzando febbrilmente. Robb sapeva bene che doveva fuggire, ma non riusciva a staccare gli occhi di dosso a Clary, ai capelli che sparivano nella luce vermiglia, alle vesti che si rimpicciolivano, lasciando scoperta la pelle ora addobbata da lingue incandescenti.
Quando il danno fisico iniziò a farsi notare si voltò, non voleva guardare e sapeva che non lo avrebbe voluto nemmeno lei, era come guardare un momento privato, uno di quelli che si vogliono tenere solo per sé, ma anche se aveva deciso di allontanarsi definitivamente, era troppo tardi.
Due Guardie erano state attirate dalla luce, come previsto e lo avevano appena colto sul fatto.
Sarebbe dovuto scappare, correre come il vento, ma in quel caso bruciare Clary sarebbe stato inutile, avrebbero spento il fuoco, scoperto del parto e tutto quel lavoro sarebbe stato vano perché avrebbero trovato i bambini. No, doveva fare in modo che sua moglie fosse irriconoscibile e per questo non poteva scappare, ma doveva restare e trattenere i due uomini.
Ne colpì uno al volto e schivò il manganello del secondo mentre le fiamme si facevano sempre più alte.
Urlò qualche insulto, attirò l’attenzione, prese qualche botta, poi una delle due Guardie, stanca di quel fervido balletto, estrasse la pistola e sparò un colpo.
Robb cadde a terra, ma era stato colpito solamente alla spalla e non gli ci volle molto per rialzarsi. Sapeva che quella era la fine, che qualunque altra mossa avesse tentato, sarebbe stata stroncata da un colpo ben assestato, così si lanciò direttamente verso la Guardia armata, che lo colpì in pieno petto.
Il cadavere di Robb cadde addosso all’uomo in divisa bianca che richiamò il collega per farsi aiutare a spostare la carcassa e, una volta in piedi, si avvicinarono a ciò che una volta era stata Clary.
«Spegnila.» Disse uno dei due.
Ci sarebbe voluta un’accurata autopsia, a quel punto, per confermare che la persona ai loro piedi fosse stata gravida ed avesse partorito da poco, ma come aveva affermato Robb solo poco prima: a nessuno importava della povera gente che viveva a Buia, non finché i macchinari continuavano a funzionare.
«C’è qualcosa qui in mezzo!» Disse l’uomo in uniforme, accucciandosi sul cadavere bruciato e prendendo tra le mani un anello.
«Clary e Robb. Amore per sempre.»
«Scommetto che quello lì e Robb.» Rispose il secondo uomo, avvicinandosi a colui che aveva appena ucciso e sfilandogli la fede nuziale.
«Che ti dicevo? Clary e Robb. Amore per sempre… certo. Un fuoco questo matrimonio!»
Entrambi risero, senza sapere che una terza persona si trovava lì, nascosta, invisibile e terrorizzata: Moreau.
Il caso venne presto archiviato: un uomo aveva deciso di uccidere la moglie, il movente poteva essere gelosia, rabbia, pazzia… non importava a nessuno al Magistero. L’unica cosa che interessava all’organo governativo era dire che aveva fermato un altro assassino pericoloso.
Robb aveva fatto bene i suoi calcoli, tranne sui due piccoletti, che ora se ne stavano in un retrobottega, circondati da gabbie di animali.
L’unica cosa che avevano era Moreau e lui aveva giurato a loro, alla memoria dei suoi amici appena morti ed a se stesso, che avrebbe fatto tutto ciò che era in suo potere per tenerli in vita.
Per tre anni li sfamò, li nascose, li aiutò a crescere, insieme, uniti, osservandoli con orgoglio mentre si coordinavano nel muovere i primi passi e sentendo una fitta al cuore ogni volta che pensava al fatto che mai sarebbero potuti uscire da quel magazzino. Li vedeva fare amicizia con gli animali e al contempo sentirsi soli e un giorno decise di cambiare la situazione una volta per tutte: avrebbe trovato il modo di separarli.
Per mesi si esercitò su carcasse di animali, studiò l’anatomia più complessa e provò varie teorie. L’operazione sarebbe stata un grosso azzardo, ma era convinto che fosse anche l’unica opzione che avessero quei due per poter vivere.
Non si sentiva pronto quando venne il fatidico giorno, ma non ebbe altra scelta.
Quella mattina entrò in negozio un ragazzino della città; Moreau lo conosceva da quando era nato ed ora aveva già 12 anni. I suoi genitori avevano serie difficoltà economiche e lui era entrato, come diverse altre volte, a chiedere di qualche animale deceduto: il dottore era infatti solito tenerne da parte per consegnarli alla famiglia, in modo che avessero qualcosa da mangiare.
«Te lo vado subito a prendere.»
In seguito, per tutta la durata della sua vita, si maledisse per non aver detto a quel bambino di aspettarlo nell’altra stanza… perché il giovane lo seguì fin nel magazzino e la prima cosa che notò, fu un vestitino largo, che copriva due bambini attaccati tra loro.
«Fuori di qui!» Urlò immediatamente, rendendosi conto nemmeno un istante dopo, che spaventare quel poveretto era forse anche peggio che aver lasciato che vedesse quel segreto che per tre anni aveva protetto.
Nami iniziò a piangere, spaventata dalle urla e Moreau si chiuse nel magazzino per calmarla, sapendo che era arrivato il momento. Non poteva più aspettare, non poteva più rischiare.
Chiuse lo studio e si rintanò nella piccola sala operatoria. Normalmente era utilizzata per gli animali di grossa taglia come cavalli e asini, creature che servivano per il trasporto di materiali e per il funzionamento di alcuni dei macchinari per i quali quella città esisteva. Ora invece sarebbe stato il luogo in cui Moreau avrebbe determinato la sopravvivenza o la dipartita di Alex e Nami.
Sedò i due bambini ed iniziò il lavoro.
Il momento che non avrebbe mai dimenticato era stato quando aveva scoperto che i due piccoli non avevano nessun organo comune. Nervi, muscolo, carne e pelle erano già un alto muro per lui, ma l’idea che non avrebbe dovuto preoccuparsi anche di organi vitali era stato un tale sollievo, che per tutta la sua vita aveva ricordato quel momento con estrema calma, anche se viverlo era stato ben diverso.
Alla fine dell’operazione, era sicuro di averli salvati: sarebbero sopravvissuti entrambi e tutto ciò che doveva fare ora, era dividerli.
Per una settimana intera gli sembrò che tutto andasse bene e si consolò nella speranza che quel bambino non avesse detto nulla a nessuno, che forse nemmeno aveva davvero visto i gemelli o che non poteva aver capito di che cosa si trattasse, ma i guai sembravano perseguitare quelle due creature ed anche quel momento di serenità finì in fretta.
«Cinquemila.» Disse una mattina un uomo entrando nello studio.
Moreau conosceva bene quella testa stempiata, quegli occhi stanchi e quegli abiti logori. Era per lui, per sua moglie e per suo figlio che teneva da parte i piccoli animali che morivano e ora quell’uomo era entrato chiedendo del denaro, ben più di quello che Moreau possedesse.
«Come scusa?»
«Sai cosa significherebbero per la mia famiglia cinquemila pezzi? Potrei dar loro una vita vera.»
«Mi stai ricattando per cosa?»
«Lo sai per cosa.»
Moreau non credeva alle sue orecchie, avrebbe voluto superare il bancone e prendere a pugni quell’uomo che aveva aiutato così tante volte prima. Si domandava per quale motivo non avesse un minimo di lealtà nei suoi confronti ma, in fin dei conti, che avrebbe fatto lui per Alex e Nami? Non erano morte due persone per salvarli? Non stava infrangendo la legge ed obbligando due bambini a vivere rinchiusi in un retrobottega pur di dare loro una possibilità? Cinquemila pezzi avrebbero dato al suo di figlio un’opportunità, quella di non restare a Buia, quella di trovare un lavoro che non gli lasciasse fare la fame, che gli permettesse di avere una vita che potesse essere definita tale.
«Non ce li ho, dove potrei mai trovarli?»
«Sono quelli che mi offrirebbe il Magistero per aver trovato dei gemelli Moreau. L’unico motivo per il quale non ti ho ancora denunciato alle Guardie è dovuto all’aiuto che hai dato alla mia famiglia, ma ora devo pensare prima a loro che a violare la legge.»
Il dottore si passò due dita sulle labbra, sentendo i polpastrelli sfiorare ogni singolo pelo dei suoi folti baffi. Doveva pensare in fretta e trovare una soluzione. Aveva giurato.
«Dammi una settimana, te ne prego.»
L’uomo lo fissò per qualche istante prima di fare un cenno di assenso e scomparire nuovamente dietro la porta di legno chiaro, lasciando Moreau da solo con una moltitudine di pessimi pensieri e limitate prospettive.
Rimase sveglio tutta la notte prima di prendere la sua decisione e la mattina seguente non aprì lo studio.
Avvolse i due bambini in due coperte ed uscì prima che il resto del paese si svegliasse, sgattaiolando per le viette umide fino ad un piccolo appartamento e bussando piano la porta.
Ad aprire fu una signora più vicina ai sessanta che ai cinquanta, con i suoi stessi ricci.
«Fammi entrare Mamma.»
La donna lo fece accomodare e solo quando Moreau fu seduto gli chiese che cosa nascondesse in quelle coperte, scoprendo per la prima volta l’esistenza di quei due bambini, che per il mondo, non erano reali.
Il respiro le si spezzò e non trovò nemmeno il coraggio di toccarli, nonostante fossero incredibilmente belli e, addormentati com’erano, fossero la cosa più dolce che avesse visto da tanto tempo.
«Robb e Clary?» Chiese con timore.
Suo figlio annuì.
«Ora si spiega il tutto. Gemelli… che cosa credi di fare? Li hai nascosti per tutti questi anni?»
«Ho dovuto. Erano siamesi, mamma. Dovevo provare a salvarli e devo provare ancora. So che tu hai ancora l’attrezzatura da tatuaggi.»
La donna parve non capire, era visibilmente sotto shock e sicuramente stava pensando al dafarsi: Moreau considerava quei bambini come fossero i suoi figli, li amava con tutto il cuore e loro non potevano proteggersi da soli ma davanti a lei c’era il suo di figlio e stava rischiando la vita.
«Mamma!» La richiamò, alzando un po’ la voce. «L’attrezzatura! Ho un piano e li salverò!»
La donna superò il tavolo barcollante e si avvicinò ad un logoro mobile che un tempo era stato bianco, ma la cui vernice si era quasi tutta sfogliata. Estrasse da un’antina, una scatola con l’occorrente.
«Come pensi di fare?» Chiese.
«Coprirò la cicatrice di uno di loro. Nessuno deve capire che sono siamesi e, senza la cicatrice non potranno saperlo, perché non possono esistere dei siamesi di sesso opposto.»
«Ma esistono.»
«Questo non cambia il fatto che sia impossibile. Non oso immaginare cosa possa capitargli se lo scoprono…»
Moreau tolse la coperta ai due bambini e Alex si svegliò, sorridendo appena. Dei due era sicuramente il più pacato. Aveva degli occhi incredibili, identici a quelli della sorella, di un colore indeciso tra il grigio e l’azzurro. Anche Clary aveva gli occhi chiari e lo stesso colore di capelli dei due bambini, ma mai guardarla negli occhi aveva dato un brivido gelido a qualcuno, non come accadeva con i due piccoli.
«Quello tatuato lo darò via. Farò un viaggio, prenderò la metro e troverò una famiglia che se ne voglia occupare. Non possono restare insieme: sono troppo uguali. L’altro lo terrò con me.»
«E chi vuoi tenere?»
Quella era la domanda che più lo affliggeva. Nami e Alex erano i suoi figli, quelli che non aveva voluto ma che amava più di quanto amasse se stesso… non poteva sceglierne uno sull’altro.
«Quello la cui ferita sta meglio, sopporterà meglio l’ago e l’inchiostro.»
Esaminò a lungo i due bambini, ma la verità era chiara: Nami era già quasi completamente guarita, mentre la ferita di Alex aveva qualche difficoltà in più.
Serviva un disegno importante, colorato, che coprisse bene, con colori caldi che nascondessero perfettamente la cicatrice ancora rossastra e che avrebbero continuato a mimetizzarla anche una volta schiarita e Moreau optò per un dragone dalle fauci spalancate, un dragone che significasse potenza, avvolto da quel fuoco che da tre anni non riusciva a dimenticare.
Nemmeno mezzo centimetro di colore e Nami iniziò a piangere, spaventando anche il fratello.
«Falla stare zitta! Ci scopriranno, uccideranno entrambi!» Strillò sua madre, mentre teneva tra le braccia Alex, nella speranza che non piangesse anche lui.
Moreau guardò la bambina, sapendo che avrebbe sentito dolore, sapendo che non poteva capire e che tutto il suo mondo, formato da quattro piccole pareti, era diventato improvvisamente confuso ed impossibile, ma doveva andare avanti.
«Non avere paura Nami: il dragone vi salverà!»
Si rivolse anche al fratello, sorridendogli.
«Il dragone vi salverà! Dovete amare il dragone! Vi salverà la vita.»
Con un nodo alla gola, tappò la bocca alla bambina e continuò il suo dipinto.
Non si era accorto che due grosse lacrime gli avevano rigato il viso mentre lavorava. L’unica cosa che lo fece stare meglio era sapere d’aver terminato e per non peggiorare il suo umore, non provò nemmeno a guardare il volto di Nami, immaginando soltanto quanto potesse essere terrorizzata e stravolta.
Coprì il tatuaggio e la prese in braccio.
«Resta con Alex. Io tornerò a breve.» Ordinò alla madre, sapendo che prima avrebbe separato i gemelli, più possibilità avrebbe avuto.
Accarezzò la bambina mentre la avvolgeva nella coperta, senza nemmeno salutare il fratello che presto avrebbe cresciuto come suo, pubblicamente.
Pochi passi sulla strada furono tutto ciò che ebbe prima di sentire dei rumori provenire dalla casa di sua madre.
Quando si voltò, vide due Guardie che entravano e, senza pensare, tornò indietro.
Sua madre lottava per non fargli prendere Alex, ma non ci volle molto prima che prendessero il sopravvento e s’impossessassero del corpicino.
«Avevano detto siamesi… questo è solo.»
«Ora è solo! Guarda lì!» Disse il secondo, indicando la benda sul ventre di Alex e strappandola via, facendolo piangere. «Scommetto che è una ferita recente.»
«Li hanno separati… davvero furbi. Ma l’altro bimbo non può essere lontano: questa è una piccola città ed è piena di morti di fame, difficile andarsene con la metropolitana.»
Il secondo uomo si avvicinò nuovamente alla madre di Moreau e le chiese dove fosse il secondo gemello.
«Me ne hanno portato solo uno! Solo uno!»
«Inutile vecchia! Dobbiamo cercare!»
Moreau si fece da parte, ma venne fermato da una terza Guardia, rimasta fuori.
«Hai un bambino lì?»
Nami si era riaddormentata per la fatica e lo stress che il tatuaggio le avevano dato, probabilmente aveva la febbre e Moreau le aveva coperto anche la testa. Aveva un’unica opportunità di salvarla.
«Una bambina.» Disse solo, alzando coperta e vestitino e lasciando scoperte solamente le gambe e le parti intime, anziché mostrarne il volto.
«Qui c’è una bambina!» Strillò la Guardia alle altre due.
«Non ci serve! Cerchiamo un maschio: i due gemelli erano siamesi.»
«Va bene. Intanto prendete quello. Presto troveremo il fratellino.»
Moreau rimase immobile finché le Guardie furono oltre l’angolo, lontane dalla casa, da lui, da sua madre, da Nami, in cerca di un bambino che non esisteva, poi crollò.
Si accasciò a terra tra le lacrime, chiedendo scusa a tutti ed a nessuno, sapendo che non era riuscito a salvare nemmeno Alex e che di quella che doveva essere una splendida famiglia era rimasta solamente una piccola bambina di tre anni.
Nessuno parlò più di Alex, del fatto che Nami avesse un fratello da qualche parte, di nulla. Lei crebbe credendo, come tutti in città, di essere la figlia di una sorella di Moreau che era deceduta e di essere stata allevata dallo zio.
Per diciannove anni visse a Buia, accanto a Moreau, amandolo come un padre, finché lui non si ammalò.
Il dottore era troppo onesto per portarsi tali segreti nella tomba e la fece chiamare poco prima della sua dipartita.
«Nessuno deve sapere che ti ho mentito Nami.»
La ragazza lo guardò con curiosità e pietà.
«Non sei figlia di mia sorella. Io non ho mai avuto una sorella. Robb e Clary sono i tuoi genitori e sono morti il giorno della tua nascita, per salvare te e tuo fratello.»
«Io non ho un fratello, ricordi zio?»
«Ricordo bene… ogni cosa.» Rispose con un sorriso amaro. «Si chiamava Alex ed eravate siamesi. Non sono riuscito a salvarlo dal Magistero, ma almeno ho potuto salvare te. Questa città ti ha portato via tutto e tu ancora non lo sai.»
Raccontò a tratti tutto ciò che era successo, fino alla scomparsa di Alex; non serviva specificare che nessuno lo avrebbe mai più ritrovato, che probabilmente era già morto da tempo.
«Non parlare a nessuno di quella cicatrice… non possiamo sapere cosa accadrà se qualcuno oserà anche solo sospettare che tu abbia un gemello. Come ti dissi quel giorno: il dragone ti salverà.»
Solo due giorni dopo, Nami aveva lasciato quella città così detestabile, sperando di poter dimenticare quella storia nel caos della Capitale.
 
CAP 2
LASCIARE IL BUIO PER UN ALTRO BUIO
 
Nami guardò dritta nello specchio; ciò che vide fu il riflesso di una giovane donna di ventun anni dal fisico asciutto, scattante. I capelli biondo miele le scivolavano sui seni piccolini ma tondi e sodi ed i fianchi risultavano sensuali tanto quanto le sue gambe. Occhi color del ghiaccio, in contrasto con la sua pelle ambrata, la fissavano, correndo sulle sue labbra rosate, scendendo sul collo fino ed elegante e posandosi sulla parte destra del ventre, dove un tatuaggio raffigurante un dragone in fiamme le copriva una cicatrice, ricordandole sempre il gemello perduto che non aveva mai avuto modo di conoscere sebbene fossero nati talmente uniti da condividere anche parte del loro stesso corpo.
Sbattè le palpebre, poi si voltò verso il materasso, dove erano poggiati i suoi abiti. Indossò una camicia color avorio, coperta da un bustino di cuoio scuro, fasciante, asimmetrico; più lungo sul dietro, tanto da coprire l’intera coscia, più corto sul davanti, via via scoprendo l’anca, fino ad andare ad allacciarsi sul fianco. Infine si infilò un paio di pantaloni stretti, dello stesso colore, fissati da un cinturone dalla fibbia grossa, in ferro. Prima di uscire dalla stanza prese con sé anche dei guanti lunghi in pelle, di quelli che piacevano a lei: con le dita scoperte e libere.
Due uomini sedevano ad un tavolo piccolo e zoppo, vicino ad una misera cucina, priva persino di un frigorifero. Erano Ronnie e Yamato, i suoi coinquilini da ormai quasi cinque mesi, che non parlavano mai più dello stretto necessario ma riuscivano comunque ad essere di buona compagnia.
Le avevano preparato la colazione; se preparare valeva a dire tagliare a spicchi una mela e versare del latte in un bicchiere.
Fu Yamato ad indicargliela con un mezzo sorriso, mentre si portava alla piccola bocca un bicchiere bollente di tè, strizzando i suoi scuri occhi a mandorla, dopo essersi scottato la lingua.
Nami non aveva tempo di fermarsi a fare colazione: se quel giorno non avesse trovato un lavoro avrebbe dovuto andarsene dalla città o quantomeno nascondersi dalle autorità e dalla burocrazia giacché non erano ammessi cittadini inutili nella Capitale, come in nessun’altra città sicura.
La Capitale era la città più grande del regno ed anche la più vecchia. Era Scavata per leghe sotto la terra, sfruttando un antico e valido sistema di lenti e specchi per avere luce solare fin nelle profondità della terra; la luce del sole riflessa illuminava gran parte della città e dava la misura del giorno e della notte, tanto cara al ritmo vitale di tutti coloro che si erano rifugiati in quel luogo sicuro.
L’entrata più antica era un grande foro che si apriva su un’immensa scalinata a chiocciola in grado di scendere fino alle prime abitazioni; ora però l’entrata dalla superficie era un’altra, più comoda e sicura, ma nessuno aveva mai dimenticato l’importanza di quel foro enorme che sovrastava la testa di tutti i cittadini.
Inizialmente era stata solamente un piccolo rifugio per coloro che fuggivano dal sole e da tutto ciò che quei raggi distruggevano, ma col tempo era cresciuta immensamente. In un mondo come quello, dove lo spazio era sempre angusto, sempre troppo misero ma così anelato; se non potevi avere un’utilità, dovevi lasciare il tuo spazio a qualcun altro e tornare in superfice, sperando di sopravvivere quel tanto da poter trovare una città ancora viva, cercando riparo sotto tettoie scure e fresche fino a trovare un nuovo ingresso, in una nuova città o cercando qualche villaggio sopravvissuto a quel sole; c’era chi sosteneva che di città così non ne esistessero più.
Gli uomini avevano vissuto per decenni nel caos, senza regole, scavando e costruendo senza sosta, solo dopo avevano capito che serviva loro una guida e così avevano eletto i tre Magistri: uomini di cultura, di saggezza, che potessero guidare il genere umano a nuova prosperità.
Con il tempo i Magistri si erano rintanati sempre più, fino a diventare invisibili, misteriosi fantasmi e nessuno sapeva più nemmeno che volto avessero. Avevano portato regole e leggi, avevano portato ordine, ma l’ordine era andato perduto nel tempo ed era rimasta solo una sovrappopolazione continua, uomini e donne spaventati dalle tasse e dal lavoro, spaventati dall’idea di essere condannati alla superfice, costretti ad inventare lavori che secoli prima erano stati considerati abominevoli, rintroducendo in società la violenza legale, la droga, la prostituzione.
Ricordando quelle storie che non aveva mai vissuto di persona, addentò uno spicchio della mela che le si presentava davanti e bevve un sorso di latte poi lasciò i due uomini alle loro faccende, infilò i suoi stivali ed uscì con passo sicuro.
Una volta aperta la porta ebbe la visione del caos: case e palazzi si ammassavano l’uno sull’altro in modo quasi impossibile, facendo credere che l’esistenza di un baricentro fosse solamente una futilità; blocchi di cemento e roccia uscivano e rientravano da altri blocchi più grandi, alcuni sembravano sospesi nel nulla, uniti all’edificio madre solo grazie a pochi metri di fusione. Le strade erano un intrico indistricabile, un labirinto che girava intorno alle case ed ai negozi, salendo e scendendo e spesso combaciando con il tetto di un qualche edificio. Capitava persino che, mentre si passeggiava, si finisse in una strada chiusa da muri di spessa plastica al cui interno scorreva l’acqua per arrivare a tutti gli abitanti, o quasi; se eri fortunato potevi girarci intorno, ma capitava spesso che una scaletta ti portasse più in alto o più in basso per trovare una deviazione a quella via, ma la cosa peggiore erano i pali della luce che, in effetti, non esistevano proprio: lunghi cavi elettrici correvano saltuariamente sui lati delle strade e le lampadine a loro collegati erano lasciate appese dove veniva trovato un po’ di spazio e, laddove posizionare lampadine era impossibile, grandi e grosse candele venivano attaccate alle pareti, illuminando flebilmente il cammino.
La porta di casa di Nami si affacciava su un piccolo strapiombo dove, circa dieci metri più sotto, uno scivolo portava l’acqua attraverso la città, scomparendo poco più avanti; accanto ad esso si ergevano altre case e qualche fabbrica; dopotutto lei viveva nel quarto livello di quella città a forma di cono e quel livello era riservato alle case per i meno abbienti, alle fabbriche, alle produzioni. Le dava i brividi, talvolta, pensare che solamente tre piani sopra la sua testa, c’era la superficie.
Guardò verso il basso: era ora di scendere.
Ad aspettarla, coperto da un gilet lungo e logoro che ne lasciava intravedere il fisico un po’ troppo magro, c’era Luca, accovacciato a terra, intento a leggere una scritta sul muro. Quando la vide si alzò in piedi facendo notare i suoi jeans infilati in un paio di vecchi anfibi che lo facevano apparire ancora più secco di quanto non fosse.
Quando Ronnie le aveva detto che conosceva un tizio che l’avrebbe potuta aiutare perché si occupava del Porto dei Pugni, Nami si era immaginata un uomo dal fisico possente e la voce profonda, invece davanti a lei si ergeva un uomo alto e mingherlino, più simile ad uno spaventapasseri che ad un lottatore.
«Ronnie ha detto che mi cercavi. Ha detto che è il tuo ultimo giorno.»
Nami annuì cercando di sembrare più sicura di sé di quanto in realtà fosse, ma a quell’uomo non sembrava importare troppo del suo carattere, delle sue potenzialità: continuava a fissarla, la scrutava dalla testa ai piedi; per un momento pensò quasi che riuscisse a vederla attraverso i vestiti.
«Seguimi.» Disse solo.
Camminarono a lungo, addentrandosi verso il fondo della città e spostandosi verso la parete rocciosa che ne delimitava i confini, senza però mai arrivare a nessuna estremità. Nami cercò di tenere a mente tutta la strada, ma dopo qualche minuto le fu impossibile ricordare tutte le svolte, le salite, le discese… Non ricordava quando aveva preso le scale o quando la strada si alzava soltanto, non ricordava se era passata prima accanto alla macelleria o prima sopra all’oppieria, se il suo accompagnatore l’avesse abbandonata lì ci avrebbe messo ore per riuscire a tornare a casa.
Luca si fermò di colpo davanti ad una porta di legno adornata da maniglia e cardini in ferro color ruggine, mal lavorato e spesso, incastonata in un muro senza finestre dove diversi cavi elettrici si arrampicavano tessendo una ragnatela mortalmente pericolosa. A quel punto si girò verso Nami con un sorriso inquietante contornato dai ricci scuri che gli ricadevano sul viso.
Quando la porta si aprì Nami si rese conto che quel muro non era la parete di un palazzo, era solamente un enorme pannello di cemento fine a se stesso e vide per la prima volta il Porto dei Pugni: era uno spiazzo incredibilmente grande per i canoni di quella città; una passerella in legno e gomma attraversava una pavimentazione dove, in circa due centimetri d’acqua, erano stati lasciati cavi ed apparecchiature elettroniche collegate ad un generatore indipendente da quello della città e che riversava scintille e sinistri rumori tutto intorno. La passerella che fu costretta a percorrere, stando attenta a non cadere nell’acqua che l’avrebbe di certo fulminata in pochi istanti, arrivava ad un ring centrale, anch’esso rivestito di gomma, i cui quattro angoli di roccia erano stati scolpiti come braccia dai muscoli tesi e contratti sulle dita per sfoggiare degli enormi pugni, uno con un anello, uno con un tirapugni, uno fasciato ed uno al naturale ma tutti quanti con le nocche rivestite in ferro. L’acqua elettrizzata divideva il ring da una scalinata molto ripida e semicircolare dove il pubblico sedeva per godere dello spettacolo che quel luogo offriva.
Dietro le scalinate si ergevano enormi container di ferro, i depuratori dell’acqua, dove qualcuno aveva dipinto due uomini intenti ad uccidersi a vicenda.
«Benvenuta al Porto dei Pugni!»
Nami si guardò intorno: quello era un luogo in cui erano caduti in molti, solo perché le persone erano tanto sadiche da permettersi di sorridere davanti a due persone che si colpivano con violenza fino ad esaurire le proprie forze, e lei stava per chiedere di farne parte.  
Luca le fece strada per qualche altro metro fino a che, seguendo la passerella, arrivarono di fronte ad un tavolo in legno sul quale erano sparsi fogli, penne e sangue. A quel punto la fece fermare dicendole di aspettare, superò il tavolo e scomparve dietro una seconda porta, molto più piccola, tanto che dovette chinarsi per passare e che Nami non si era nemmeno resa conto esistesse.
Rimasta sola in quel luogo tetro, illuminato da lampadine e candele attaccate ai muri e posate a terra, cominciò a pensare di voltarsi ed iniziare a correre, fuggire da quel luogo e non tornarci mai più, sparire prima che Luca tornasse. Continuava a domandarsi come Ronnie potesse essere coinvolto in qualcosa di simile, lui che era sempre stato più gentile e timido che legato al denaro.
Ci volle qualche minuto prima che Luca uscisse nuovamente da quella porticina, questa volta accompagnato da un uomo che era l’opposto di lui, con spalle larghe ed addominali scolpiti, braccia forti e gambe possenti ed uno sguardo più feroce che intelligente. Era vestito con una maglietta aderente e dei pantaloni comodi, anche se la cosa che si notava di più era la sua testa, dove i capelli non potevano crescere per via di una grossa ustione che gli si riversava sul collo e spariva dentro la stoffa. Alla mano sinistra era legato una sorta di guanto in maglia di ferro che restava più ampio in prossimità delle dita, per sferrare pugni potenti ma lasciare anche libertà di movimento.
Dire che si sentì intimidita sarebbe stato un eufemismo.
«Voltati e cammina.» Le ordinò l’omone e lei mai si sarebbe permessa di contraddirlo in quel momento, così girò su se stessa ed iniziò a camminare lungo la passerella, fino a che non le fu ordinato di tornare indietro.
«Il culo va bene, ma le tette sono piccole.» Constatò senza preoccuparsi del fatto che lei stesse sentendo ogni cosa e senza rivolgerle nemmeno uno sguardo, ma parlando direttamente con Luca che invece sembrava divertirsi a posarle sempre gli occhi addosso.
«Posso farle sembrare più grandi.» Disse lei.
Luca sorrise di quel suo sorriso disgustoso e la guardò con occhi penetranti e pieni di sfida, divertito dal fatto che una ragazza evidentemente impaurita riuscisse a trovare il coraggio di offrirsi spontaneamente a loro.
Si sfilò i guanti di pelle e li arrotolò infilandoli poi nella parte inferiore del reggiseno sollevando di più i seni che sembrarono acquistare una taglia.
Non riusciva nemmeno a credere di aver fatto una cosa simile davanti a quei due individui, uno più inquietante dell’altro.
Come se quella situazione non fosse sufficientemente imbarazzante per lei, entrò in campo anche una terza persona: una donna sulla trentina con un trucco tanto pesante da deformarle i lineamenti, capelli lunghi e scuri, disseminati da ciuffi colorati e volgari quanto il suo abbigliamento dalla gonna troppo corta e colorata e la scollatura tanto ampia che Nami non si sarebbe troppo sorpresa se, da un momento all’altro, le avesse potuto vedere un capezzolo.
La donna salutò l’uomo che aveva criticato il suo seno con un bacio spinto, utilizzando più lingua di quanta fosse normale averne, salutò Luca con un occhiolino e poi le si presentò come Diamante, nome che molto probabilmente non era davvero il suo.
«Che ci fa una bimba come lei qui?» Chiese con voce melensa ed un sorriso accattivante, in modo che Nami potesse sentirsi ancora più a disagio di prima.
«Vattene via. Non sono affari per te.»
L’uomo la spinse con violenza di lato facendola oscillare su quei suoi tacchi fuxia ed indecentemente alti.
«È giovane, alla gente piacerà vederla mezza nuda che cammina. Vuoi ributtare un bocconcino simile in superfice?» La difese Luca. Almeno Ronnie era stato sincero quando le aveva detto che il suo amico avrebbe fatto tutto quello che poteva per inserirla.
«Non me ne frega un cazzo di chi crepa sotto al sole. Voglio che piaccia al mio pubblico o non se ne fa niente.»
Quando l’uomo mise il punto alla sua decisione, Luca non attese un solo secondo prima di trascinarla fuori dal Porto dei Pugni, lasciando però Diamante esattamente dov’era, probabilmente per farle concludere il lavoro per il quale era arrivata.
Si richiuse la porta di legno alle spalle ed iniziò a camminare senza dire una parola, lasciando Nami in preda a dubbi e timori, con i guanti ancora arrotolati nel reggiseno che, essendo troppo piccolo per contenere tutto, le stava schiacciando il seno in modo piuttosto doloroso.
Improvvisamente Luca si fermò e la squadrò nuovamente con inquietante intensità
«Sembri una bambina. Non comportarti come tale. Non fare mai più un gesto come quello di prima… a nessuno fregherà niente della grandezze delle tue tette se saprai fare il lavoro.»
Nami fu sollevata dal fatto che Luca non le avesse chiesto nulla di troppo assurdo, ma fu allora che non sopportò più l’idea di non sapere a quale lavoro sarebbe andata incontro; il pensiero di dover girare per la città imbottita di alcolici e preservativi per dare piaceri a uomini come Luca, la disgustava tanto quanto l’idea di morire bruciata sotto un sole assassino.
«Volete che io faccia cosa? Vada a letto con uomini per denaro?»
«Oh, non ti preoccupare cara.» Rispose con voce fastidiosamente divertita. «Di donne così ne abbiamo a bizzeffe, pur di vivere molte donne vengono volentieri in cerca di un lavoro simile! No, il tuo posto sarà nel ring: sarai la pausa pornografica tra un round e l’altro, con tanto di cartello!»
Luca la riaccompagnò esattamente dove si erano incontrati qualche ora prima, raccomandandole di memorizzare quella strada che a lei sembrava di aver già dimenticato e che avrebbe dovuto ripercorrere da sola solamente il giorno seguente e le consegnò una tessera di occupazione: il suo salvavita, almeno fino alla sera dopo, quando avrebbe definitivamente saputo se il suo destino le riservava una vita nella Capitale o una morte in superfice.
Uomini fermavano cittadini ogni giorno per chiedere quella carta, la carta che dimostrava la propria utilità alla città e, se non si possedeva la carta di occupazione si doveva avere la carta di soggiorno valida solamente quindici giorni, alla scadenza, se un controllore trovava un cittadino senza una carta di occupazione, egli veniva portato fuori, sotto il sole, lasciato in balia di se stesso.
Quando entrò in casa la trovò vuota. Yamato lavorava come lavapiatti in una bettola poco lontano dalla loro casa e Ronnie si occupava dei biglietti della metropolitana: l’unico mezzo che correva attraverso le gallerie e poteva portare i passeggeri da una città sotterranea all’altra anche se estremamente costoso.
Riuscì finalmente a respirare in tranquillità. Tolse i guanti e li posò sul materasso, poi si spogliò completamente e tornò a posare gli occhi sulla cicatrice “pausa pornografica, sperando che un dragone inferocito non rovini l’atmosfera” pensò con ironia, iniziando a credere che mai l’avrebbero voluta ancora se l’avessero visto e, sicuramente, i loro costumi l’avrebbero mostrato.
Decise di non pensarci, dopotutto non sembrava il suo unico problema e ora sentiva solo l’estrema necessità di lavarsi, come se Luca e quell’omone e Diamante l’avessero in qualche modo sporcata con il loro indecente modo di vivere che lei trovava anche incredibilmente spaventoso.
Cercò di riconcentrarsi per qualche istante sulla sua infanzia… non era stato poi così male crescere con Moreau ma ora che era morto, il pensiero di un fratello perduto la tormentava. Tutti sapevano che di tanto in tanto, nelle città sotterranee, i bambini sparivano, ma nessuno sapeva per quale ragione i gemelli erano sempre richiesti, pretesi, per legge e nessuno sapeva cosa accadeva loro.
Le avevano detto che doveva sempre conservare il ricordo del fratello, che era estremamente raro, quasi impossibile che nascessero dei siamesi di sesso opposto e che questo, insieme a quel tatuaggio, le aveva salvato la vita: quale persona cerca un siamese di sesso opposto? Doveva a quell’incredibile stranezza la sua libertà.
Era per lui che aveva lasciato Buia: come aveva detto Moreau, non poteva vivere in una città che le aveva portato via tutto, ma mai aveva pensato che si sarebbe sentita più sola e sconfitta che nel momento in cui aveva salutato per sempre l’uomo che l’aveva cresciuta. Aveva lavorato come messaggera e come copiatrice, persino come infermiera, ed ora si ritrovava a dover mostrare il suo corpo al Porto dei Pugni e non era nemmeno sicura che avrebbe funzionato.
Quando il giorno dopo si rese conto che sarebbe davvero dovuta tornare laggiù, decise di partire molto in anticipo e per sua fortuna fu la scelta più giusta perché le ci vollero quasi due ore per ritrovare la porta di legno, soprattutto perché non ebbe il coraggio di domandare ai passanti quale fosse la direzione giusta, per paura che iniziassero a guardarla con il disprezzo che lei stessa riservava a quel luogo.
Quando arrivò alla porta di legno, trovò nuovamente Luca ad aspettarla, armato di un sorriso compiaciuto,  come se il suo disagio lo divertisse.
L’accompagnò di nuovo attraverso la passerella.
«Collezionista di Denti.» Mormorò con il suo solito sorriso quando furono in prossimità del tavolo.
Nami non capì che cosa intendesse dire fino a che non fu costretta a varcare la piccola porta dove l’uomo che aveva incontrato il giorno prima sembrava vivere. Al suo interno c’erano solo un tavolino con due sedie ed un letto nel quale era addormentata, completamente nuda e probabilmente ubriaca, Diamante, adornata solo, sulla coscia sinistra, del tatuaggio di una giarrettiera di pizzo.
Sulla parete era esposta una catena di ferro e ad ogni anello era appeso con un filo un dente umano; non sapeva dire con una sola occhiata quanti denti fossero in mostra, ma era certa che il numero non potesse essere inferiore a trenta.
Non riuscì a trattenere un brivido quando capì che quando Luca le aveva detto le parole “Collezionista di Denti” si era riferito al nome dell’uomo che le stava di fronte.
L’uomo la guardò attentamente per qualche secondo poi spostò lo sguardo su Luca, che era entrato appena dopo di lei.
«Va bene, vediamo oggi come va e poi decidiamo.» Disse senza troppa convinzione prima di spostare nuovamente il suo sguardo su Diamante.
«Sveglia quella donna e dille di trovare un costume per la nostra nuova ring girl, poi riportamele tutte e due.»
Una volta che il Collezionista di Denti fu uscito, Luca guardò profondamente Nami e poi sfiorò i denti con le dita, più divertito che mai, mentre si dirigeva verso il materasso. Scosse Diamante con forza, serrandole un braccio con tanta energia che lei si svegliò più per il dolore che per il movimento violento. Una volta in piedi le rimasero i segni delle dita sulla pelle la donna non sembrò arrabbiata per il fato anzi, guardò Luca con estremo desiderio ma non per sesso, come se provasse sentimenti ben più intensi nei suoi confronti.
Una volta ascoltato l’ordine si svegliò completamente e fece accomodare Nami sul letto, scegliendo per lei un completo formato da un reggiseno nero rivestito di pizzo rosso, più coprente di quanto lo avesse cercato.
Le venne quasi da ridere quando Diamante le consegnò il pezzo sotto: un tanga nero ed incredibilmente piccolo alla cui vita era legato un gonnellino in pizzo lungo appena qualche centimetro.
Una volta fattasi nuda, Diamante sgranò gli occhi nel guardarla e si morse il labbro in un’espressione quasi d’invidia, posando il suo sguardo nel basso ventre di Nami, facendole i complimenti per la scelta del disegno. Sempre avvolta da un profondo disagio, Nami se ne sentì quasi sollevata.
La donna le girò intorno e poi si avvicinò alla collezione del padrone di casa.
«Sono le sue vittorie, ma il quinto da destra è mio sai?» Disse con un misto di orgoglio e rassegnazione, come per voler trovare del buono anche in una situazione terribile, mentre con le unghie finte e rosso fuoco sfiorava il dente. «Mi ha colpita quando gli ho chiesto una paga più alta… certo mi sono abituata a trovarlo... interessante. Dovresti fare lo stesso.»
Sembrava più un consiglio serio che il delirio di una prostituta ubriaca ma Nami non ebbe il tempo di domandarglielo perché Luca ed il Collezionista rientrarono nella stanza con aria soddisfatta.
L’omone le girò intorno un paio di volte e le consegnò un paio di scarpe dai tacchi vertiginosi, ma fortunatamente grossi quel tanto che le rendevano possibile camminare. Una volta pronta le fecero muovere qualche passo insieme ad uno dei cartelli, per essere sicuri che non combinasse qualche guaio, mentre Luca usciva a dare il benvenuto al pubblico della serata. 
Il Collezionista di Denti le si avvicinò ad un soffio dal viso.
«Voglio che tu sia sexy, che sappia far galoppare la fantasia di ogni uomo che ti guarderà ed anche di ogni donna se ce ne saranno. Ricordati: sei tu che rendi eccitante il sangue e la lotta, solo se aspettano tutti eccitati la fine del round resteranno per aspettare anche quello seguente, solo se pensano con le palle si divertiranno a sentire la scarica di adrenalina dovuta da due uomini che si uccidono a vicenda. Fallo e il lavoro è tuo, altrimenti puoi anche evaporare sotto la luce del giorno. Qualcosa non ti è chiaro?»
No, aveva capito ogni volgare, irritante, crudele e sporca parola che fosse uscita da quella bocca che odorava di alcol e, per quanto il suo desidero fosse di far ingoiare al Collezionista ogni suo singolo trofeo, sapeva che la sua unica scelta era quella di lavorare, almeno per il momento, come le aveva comandato lui.
Quando dovette uscire con il cartello numero uno le sembrò che lo spiazzo si fosse rimpicciolito: le scalinate erano piene di uomini urlanti e, al centro del ring, Luca cercava di attirare la loro attenzione urlando i nomi degli sfidanti dentro un megafono, evidenziando le loro vittorie ed i loro punti forti. Infine diede il via all’incontro e fu il turno di Nami.
Prese la mano di Luca che l’aiutò a salire sul ring. Accanto a quel grande pugno fasciato si sentì incredibilmente piccola, inoltre percepiva tutti gli sguardi del pubblico su di lei, che penetravano quegli esigui ritagli di stoffa che indossava, facendola sentire incredibilmente insicura e terrorizzata. Si riscosse solo nel notare il divertimento che invadeva Luca e decise che non gli avrebbe dato quella soddisfazione, così alzò il cartello ed iniziò a camminare, cercando di dimenticare il luogo in cui era e che decine di uomini ridevano ed urlavano i loro sconci commenti su di lei. Sorrise e si morse il labbro come lo aveva visto fare da Diamante, solo movimenti sensuali prima di tornare verso Luca ed accettare nuovamente la sua mano per scendere dal ring.
Il Collezionista di Denti le fece un solo semplice cenno con la testa e lei tornò a nascondersi dietro la piccola porta che le aveva fatto tanta paura e che ora le sembrava una sicura protezione. All’interno, Diamante stava bevendo un liquido dall’odore amaro in un bicchiere di vetro.
Si sedette sul materasso incurante del fatto che la donna ed il Collezionista lo avevano usato solo poco prima, aveva bisogno di sedersi perché l’unico pensiero che le girava nella testa era quello che presto le gambe le avrebbero ceduto e si sarebbe ritrovata a terra senza più avere la capacità di reggersi sulle ginocchia.
Rifiutò di fumare o di bere, cercando di concentrarsi solo sul fatto che se ci era riuscita una volta, poteva farlo per tutti gli altri round della serata.
«Sei piaciuta.» La rassicurò Diamante.
Nami annuì senza risponderle.
«Eri davvero sexy. Potresti persino trasferirti al bordello e lavorare al mio fianco… dovrei davvero prendere una nuova protetta da istruire…»
«No grazie.»
Diamante ne fu evidentemente offesa, tanto che uscì dalla stanza, lasciandola finalmente, completamente sola.
Il secondo turno sembrò sopraggiungere in pochi secondi, quando uscì venne acclamata molto più della prima volta, ma le fu più difficile cercare di non pensare al ring mentre la visione dei due uomini le invadeva la mente. Uno di loro continuava a perdere sangue dal naso visibilmente rotto, mentre il secondo non riusciva ad aprire l’occhio destro che aveva già iniziato a gonfiarsi ed a diventare violaceo. Tutte e quattro le mani avevano le nocche rossastre e macchiate di sangue, che fosse il loro o quello dell’avversario era impossibile da capire.
I tre round seguenti invece sembrarono dilatare il tempo e quando finalmente diede il via all’ultimo round le sembrava di essere nata e cresciuta in quel luogo infernale.
Una volta scesa dal ring Luca non le lasciò la mano ma la attirò a sé.
«Meriti di vedere il finale dopo una lunga serata di lavoro.» Le disse sfoggiando uno dei suoi sorrisi che lo rendevano sempre più detestabile.
Rabbrividì ad ogni pugno sferrato, le sembrava impossibile che quei due ammassi di carne sanguinanti fossero stati uomini e, soprattutto, che fossero riusciti a resistere fino al quinto round. L’uomo dall’occhio maciullato sferrò il colpo finale all’altro mettendolo al tappeto, dopo averlo colpito alle costole, con un tonfo sordo e secco. Il pubblico urlava il suo disprezzo per il perdente e la sua ammirazione per il vincitore apparendo come un grosso branco di scimmie impazzite; fu a quel punto che Luca tornò sopra al ring con il suo megafono.
«Signori! Cosa vogliamo farne del nostro caduto? Lo aiutiamo a rialzarsi? O vogliamo chiedergli di scendere?» Urlò attirando su di sé tutta l’attenzione.
Il pubblico si alzò in piedi ed iniziò un coro ritmato che continuava a ripetere la parola “giù!” mentre batteva le mani.
«Sembra che il pubblico abbia votato!» Disse allora Luca guardando il campione della serata con un sorriso divertito e, questa volta, ricambiato.
Il vincitore si trascinò vicino al caduto e lo sollevò con estrema fatica, per poi gettarlo oltre il ring, laddove acqua e cavi non gli avrebbero lasciato scampo.
Il corpo vibrò per qualche secondo prima di afflosciarsi completamente tra il boato del pubblico e la voglia di vomitare di Nami a cui sembrava che qualcuno stesse cercando di estrarle lo stomaco dalla gola.
«Pare che si sia liberato un posto di lavoro in città!»
Nami indietreggiò fino al tavolino e poi entrò nella stanza del Collezionista crollando a terra. Le ultime parole di Luca gridate al megafono le fecero posare il pensiero sul suo di lavoro: chi lo aveva fatto prima? E soprattutto, dove era finita?
Si cambiò più in fretta che poteva, l’idea di riavere i suoi vestiti a coprirle la pelle la fece sentire molto più sicura, ma non ebbe il coraggio di uscire, non sapeva se sperare di essere cacciata o sperare di essere tenuta.
Luca rientrò con il Collezionista di Denti poco dopo, discutendo con lui del successo della serata e comunicandole la felice notizia che il suo corpo aveva svolto bene il lavoro e che poteva tornare la settimana seguente; la carta di occupazione era sua.
Se ne andò prima che potessero aprire bocca un’altra volta e tornò a casa muovendosi più in fretta che poteva. Ronnie e Yamato dormivano già quando rientrò. Si chiuse nella sua stanza come era solita fare e si tolse i vestiti, voleva lavarli e lavarsi, ma l’unica cosa che riuscì a fare fu passare le sue dita sul tatuaggio. “Il dragone ti salverà” le avevano detto… ma ora le sembrava solo di aver scambiato il buio del suo passato con un altro buio più profondo, dalle sembianze di un perizoma.

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