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Autore: MadLucy    08/06/2017    1 recensioni
{Seppius/Seppia | incest | pre-canon | missing moments | fluffangst}
Ciò che davvero rischiava di fargli perdere il controllo di sè era quando, nel buio, Seppia gli veniva incontro correndo e si gettava tra le sue braccia, come se fosse stata inseguita, e venivano attanagliati dalla sensazione che fosse una materia omogenea a riunirsi, e niente a potersi mettere in mezzo.
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Seppia, Seppius
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Incest
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Aveva capito come funzionava la gerarchia in quella casa e non le stava bene. Trascendendo da qualsiasi logica, dalla sua innegabile debolezza, aveva quegli occhi scottati e aperti da fabbro accecato di scintille. Aspettava che Seppius fosse trattenuto fino a tardi di notte agli stessi banchetti a cui Seppia non era affatto tenuta a presenziare -anzi, mandata a letto con buffetti affettuosi e perentori- entrava nelle sue stanze, recuperava il pettorale di bronzo di cui suo padre gli aveva fatto dono per premiarlo e lo gettava dalla finestra. Pesava un quintale, quel dannato scafandro di ferraglia, Seppius era tenuto ad indossarlo solo in parata, impalato su un maledetto cavallo con le gambe divaricate e il petto ricoperto di sudore, a malapena i piedi in grado di muoversi, in dentro e in fuori, come una papera. E quella bambinetta scema riusciva a tirarla su abbastanza per spingerla giù dal davanzale. Uno strappetto al vestito, le mani che facevano male, soltanto per combinare quel guaio che la opprimeva subito, che sapeva benissimo non poteva passare inosservato -l'oggetto si schiantò appena a due passi dall'ingresso di casa, perpendicolare alla finestra- e che però compiva, come una sciagurata, per sentirsi arrabbiata prima e intontita dopo. Sapeva che le venivano inferte punizioni leggere. Lo sapeva. Quando c'era tutta la gente che la sgridava intorno era un conto, ma quando Seppius raccoglieva il suo sguardo dal suo sfuggirgli capiva che lei sapeva. Lei, che si lagnava che solo suo fratello potesse ricevere lezioni per cavalcare e che poi rifuggiva l'odore dei cavalli, la scomodità delle selle, che dava ragione ai suoi aguzzini e non smetteva di lagnarsi. 
«Perchè non accetti che gli uomini ti sono superiori, come tutte le donne?»
«Non mi ribello alla supremazia maschile. Soltanto alla tua.»
Questo era il loro segreto. Non erano fratello e sorella, o maschio e femmina, erano due mostriciattoli meschini, liberi da corpi e titoli, esattamente sullo stesso piano, esattamente di uguale indole, ma che fanno una gara per chi fa lo spettacolino migliore, per chi si ingrazia meglio quella turba di umani indistinti, dominati solo da pensieri strategici e trascendenti ogni logica, che conoscevano soltanto la loro. Due anime infere, ma di quelle non ancora marce, in selvatica competizione senza vera rabbia. E quindi Seppius non riusciva mai a vederla come una bambina che non sa stare al suo posto. C'era il mondo, con la sua forma, le sue convenzioni, i nomi che dava alle cose, e poi c'erano le loro gallerie sotterranee di intrighi nascosti e giochi d'astuzia, che anche se in parte inconsci e in parte quasi sciocchi alla sua stessa mente quando li formulava erano quanto di più vero il suo istinto gli suggerisse, una mutua, silenziosa partita di cui entrambi erano assolutamente consapevoli, senza averne mai parlato. Seppia prendeva atto del suo vantaggio, dal trattamento diverso da quello riservato a lei non giustificato da nessuna differenza, di quello scarto che cercava di recuperare ferendo il suo orgoglio, screditandolo, ferendosi con i sassi del giardino e poi piangendo con i genitori miagolando che era stato lui, mettendo in giro la voce tra i suoi amici che bagnava il letto a dieci anni. Seppius non reagiva, la teneva d'occhio. Non afferrava il suo polso, lo lasciava folleggiare. Aspettava tempi migliori per la sua stoccata. Aspettava, con la pazienza di quegli strateghi leggendari ricoperti di polvere fra le rocce, che venisse il tempo in cui avrebbe dovuto sposarsi. Solo allora, solo quando lei avrebbe potuto acquisire qualche valore per la famiglia, avrebbe colpito. Farlo prima, screditare qualcosa che già non serviva a nulla, non avrebbe fatto breccia nell'opinione degli adulti. Seppia sarebbe diventata una delusione, e sarebbe arrivata ultima.

*

L'adolescenza, la primavera della sua vendetta, aveva fatto capolino, e con essa l'indole da faina di sua sorella, temperata di ogni lunatico rancore. All'improvviso il loro gioco non le importava più, c'erano altre distrazioni, altre occupazioni, altri pensieri. E fu quel voltargli la schiena -una schiena lunga, inarcata, fasciata di raso, con scapole da Nike di Samotracia- fu quello il fendente che mozzò le ginocchia del vendicatore senza requie. E Seppius aveva capito cosa avesse di tanto speciale il loro gioco -che lei si sforzasse il più possibile di evitare il suo sguardo ma non volesse guardare che lui. Ora invece pascolava con gli occhi nei suoi, placida, bucolica, feroce tant'era soave -salve, fratello, è bello vedere con quanta dedizione ti alleni- distratta da ogni voce avesse intorno, come se all'improvviso la marmaglia umana avesse assunto un senso nuovo. Non voleva più sconfiggerlo, non voleva più il suo posto, voleva il proprio. E Seppius aveva realizzato che doveva recuperare il controllo di quella stupida, magnetizzare il suo sguardo e incatenarlo ad una manetta al suo polso prima che danzasse con le Baccanti sul Citerone. Che quella stizzosa egocentrica era la metà della psiche che doveva ricomporre per non perdere il senno. E si era spinto ai limiti di quanto sapeva di essere disposto a rischiare, affinchè fosse lei a fermarsi e tornare indietro, ipnotizzata, docile, tremante, e lui potesse restare assiso ed algido a contemplare lo starnazzo adorabile dei suoi tormenti viscerali. E per farlo aveva dovuto appellarsi a ciò che ora per lei era l'unica cosa, le sue membra pallide, fino a pochi anni prima uguali a quelle lunghe e magre delle lepri sotto la pelliccia, uguali alle sue. Aveva il suo vantaggio anche lì, c'erano molti più bisbigli al suo orecchio di cosa dovesse fare un ragazzo per ridurre in venerazione una fanciulla ignara -per lui sarebbe stato una dimostrazione di vigore, per lei di indecenza. Però faceva buon viso a cattivo gioco con la sua rivale, che magari stava solo giocando, che correva via forse per udire il suo richiamo. Forse era lei che voleva essere rincorsa. Ma Seppius piazzò la sua trappola, paziente, la coprì di fuscelli, smosse la terra intorno. Sapeva che era sbadata, che le sue zampe erano sottili. Quasi lo inteneriva con quanta facilità potesse scivolare. Guardava le reazioni che aveva disegnato per lei animarsi sul suo volto. Era la sua opera d'arte, muovere l'acqua per vederla incresparsi, arricciarsi negli arabeschi previsti.
Seppia gli saltò quasi addosso, lo tempestò di spinte. Come ti permetti, come ti... permetti... come se fossi una schiava... La sua rabbia era tornata. Seppius aveva sorriso, le aveva storto quei polsi, quelle giunture da pupazzo di ceramica, senza causarle dolore. Soltanto girandoglieli, neutralizzandoli, rivolgendo quei fili di vene inoffensive gli uni contro gli altri, mostrandole quasi divertito com'era sciocca quella schermaglia. Se lui non riusciva ad avvicinarsi ad altre donne perchè ricattato dal pensiero della battaglia in sospeso, nemmeno lei poteva. Il primo risultato che Seppius ne otteneva era questo, vedere quanto sua sorella non fosse in grado di gestire le emozioni, come le straripassero, l'avessero in pugno -e farle perdere la testa, farla accanire di nuovo su un unico obiettivo, contemplare la vampa che quel solo pungolo le suscitava, poteva quasi considerarsi una vittoria. Ma la vera vittoria sarebbe venuta solo con la resa incondizionata, la quiete dopo la tempesta, i rimasugli che avrebbe lasciato la risacca della sua furia, ritirata per far posto ad una ammissione di sconfitta, una spiaggia di conchiglie. E Seppia stava per cedere, contesa tra il desiderio di compiere la propria volontà e la consapevolezza di farlo anche con quella del fratello, come una Medea al contrario, una che anzichè a due dolori doveva dare il proprio consenso a due piaceri. Contesa tra il prendersi ciò che voleva e il consegnarsi come l'ennesima lorica ornamentale. Tra l'istinto ad unirsi, che condivideva, e quello a disgiungersi, nel quale era sola. 

*

E poi le era venuta quella febbre, lunga, infinita, con i suoi boli di sangue e succhi di stomaco, in cui anche l'umidità delle spugne dei suoi polmoni era essiccata e non era più in grado di parlare nè tenere le labbra chiuse. E Seppius, invece che pregare, aveva preso una moneta di bronzo. L'aveva lanciata in aria. Se muore sarà il segnale, capirò di aver sfidato la sorte, farò ammenda, butterò il mio denaro nelle latrine dei tempi, nella cloaca delle bocche sdentate di tutte le Pizie di questo mondo, lascerò solo i passi di me stesso nelle mie vene. Aveva riafferrato la moneta al volo. Ma se vive, se vive, se vive, se vive, se vive. Galleggiava in apnea nell'odore degli intrugli che lei era costretta a bere, a ingollare da un angolo della bocca, a spandersi per metà sulla gola palpitante. Anche Seppius ne beveva un po', per ammalarsi insieme a lei, guarire insieme a lei. La puliva come un neonato, le annusava i capelli per capire se la febbre si fosse alzata. Quando Seppia cominciava a delirare, suo fratello scacciava anche il medico, con un gesto secco, disperato, cosciente. Sapeva cosa fare, le parlava nella lingua di quando ancora non avevano appreso quella degli uomini, le parlava in quell'acqua amniotica. Le prendeva il viso tra le mani per riportarlo in superficie. Se vive incendio l'Olimpo, spacco tutto, immolo agnelli solo sull'altare di questa fessa con cui sono nato, e perchè me la dovreste togliere, che ve ne fate lassù, è troppo indisciplinata, troppo empia, vive di cose da poco, di euforie economiche, di belletti che si squagliano subito. Era il suo turno di far sanguinare le mani, di ansimare aggrappato ad uno spigolo, di spingere giù sotto gli occhi di tutti qualcosa di più grande di lui.
Era guarita, era guarito il suo naso da coniglio bianco, il suo modo di pronunciare le parole. Era guarita ma aveva più freddo, girava con un mantello avvolto intorno. Sono caduta nel torrente, per quello mi è venuta la febbre. Mi lavavo al torrente per venire da te... ho pensato... Seppius le aveva pianto in mano, ci aveva strofinato quegli occhi pieni di sale, sui dorsi delle sue mani. La necessità di parlare li avrebbe rovinati. Una volta non ce n'era bisogno. E ora l'inutilità del mondo si faceva sentire, si frapponeva nel loro gioco proprio quando esso si rannicchiava in un buco degli inferi per non farsi più trovare. Le fiaccole che li cercavano bruciavano la schiena di Seppius, ma quella di sua sorella non gli era più voltata contro, e lui non poteva scegliere, erano gli schemi del suo sangue a decidere. Non voleva più vederla supplicare ai suoi piedi, voleva farle scudo con tutto il corpo, racchiuderla e salvare la debolezza che lei gli si affidava rivelandogli. Era stata lei ad incoronarlo, senza umiliazione ma con i palmi colmi della stessa passione che lui sognava altezzoso. E allo stesso tempo la parte più onesta di lui sapeva che era Seppia a permettergli di proteggerla, e che senza quel consenso benevolo la forza d'animo virile non sarebbe bastata a difenderlo da lei e il suo potere. Erano di nuovo allo stesso livello, nello stesso fango, sulla stessa Isola dei Beati.

*


Seppia afferrò una coppa, si alzò irrequieta dal loro letto, raggiunse una finestra, conficcò il suo malumore nel buio come un uncino. 
«In Egitto i faraoni potevano sposarsi con le figlie e le sorelle, per ricevere l'investitura regale dalla benedizione del loro sangue... Mi sarebbe piaciuto sposarti.»
Seppius riusciva a vederle, le loro teste accostate sotto il flammeum, la garza scintillante che consacrava la loro unione e lasciava trasparire la luce del sole. 
Il vino rosso oscillava tra le pareti di cristallo del calice, sciabordando in un riverbero intermittente sul muro come una macchia di sangue. 
«Penso che dobbiamo crescere» disse Seppia. Aveva una faccia scontenta. Oggi le avevano fatto visita delle amiche con i mariti, uomini semisconosciuti ma, a quanto raccontavano, estremamente focosi.
Rispondimi con più cura, abbi compassione della nudità di fronte a te, non lasciarmi colpe, non essere così superficiale, insofferente. Seppius cercò di capire cosa le mancasse. Magari era il senso dell'avventura, della scoperta, della curiosità. Tremare per qualcosa di nuovo. Forse anche lei voleva un marito che non la interpretasse con tale eccessiva esattezza. 
«Siamo già cresciuti, insieme» aveva mormorato Seppius. Lei si era infastidita, aveva alzato la voce. 
«Allora quando mio marito verrà a fottermi digli la stessa cosa, che deve fottere anche te.» Non si capiva se lo volesse o lo temesse. 
Seppius attese paziente che tornasse da lui. La verità era che aveva tutta intenzione di impedirlo. Avrebbe trovato una scusa per ogni pretendente. Avrebbe scavato fino a una pecca, un crimine, un vizio, un precedente, anche a costo di inventarseli. Non sarebbe entrato in nessuna casa in nessuna notte di follia a tagliare nessuna testa per riprendersi qualcosa che non gli era mai stato sottratto. Non poteva permettersi di impazzire. Non poteva permettersi di prendersi dentro un cancro simile. Ma non avrebbe detto nulla a Seppia dei suoi piani, non adesso. Avrebbe lasciato che lo capisse da sola. Lei forse sarebbe arrivata ad odiarlo, ma avrebbe compreso, in fondo alla pancia, e in fondo Seppius non aveva bisogno della sua approvazione, del suo benvolere. 
A che pro bramare il mistero? Chi altro avrebbe potuto mai amarla? L'avrebbero davvero amata se non avessero conosciuto i suoi incantesimi, che solo Seppius conosceva, e quelli che non conosceva nemmeno lui, e che contemplava dall'esterno compiaciuto? Chi altro avrebbe visto nei suoi difetti il sudore innocente dei suoi pregi? Nessuno era capace di amarla perchè nessuno era capace di contenerla. Lui amava tutto perchè accettava tutto. Nessun altro sarebbe stato in grado di guardarla attraverso il filtro depurante di un amante e la coltre di organico affetto delle balie. C'era quel sentimento affilato con attenzione, dai suoi piedi bianchi solcati di screziature violette, dalla tortuosità elastica dei suoi boccoli, e poi c'era quell'attaccamento formato come una muffa, dal tempo, dalla vicinanza in uno spazio stretto, dall'abitudine, dalla biologia, e quello persisteva anche quando la mente se ne andava, quando le sue parole lo attaccavano, quando qualsiasi dei motivi per amarla che avevano affilato il sentimento precedente si fossero eclissati, lasciandolo in preda di un paradosso schiacciante. Tutti avevano scelta tranne Seppius, e chiunque avesse avuto un bivio l'avrebbe abbandonata, perchè Seppia se lo sarebbe andata a cercare. Bastava vederla, non era fatta per le cose a lungo termine. Era eccitata per un po', poi diventava nervosa, cominciava a misurare le dimensioni della gabbia, rovinava l'atmosfera. E in quel momento in cui si sarebbe messa a scalciare, lì Seppius l'avrebbe sempre recuperata. Seppia era più scompensata di lui, più combattuta, più instabile. Lui era in equilibrio. E lei sopravviveva di quell'equilibrio. Credeva di volere molte cose, si lasciava acceccare, ma in realtà voleva solo il modo in cui la trattava lui, soltanto quella mano che sapeva regolarizzarle il respiro, assecondare il suo orgoglio che non le faceva chiedere scusa. Nient'altro che quel trattamento speciale l'avrebbe resa felice, perchè nessun altro glie l'avrebbe fornito a parte Seppius, e lei l'avrebbe comunque preteso da chiunque si fosse parato sulla sua strada. 
Lui faceva finta di addormentarsi, e solo allora Seppia tornava a letto, senza aver toccato il vino, ancora lì a brillare come un'inservibile pietra preziosa. 

*

Si era svegliata di soprassalto a notte fonda, e aveva svegliato anche lui tanto era in subbuglio. 
«Dovremmo ucciderci a vicenda... Scomparire dalla faccia di questo mondo che non capirebbe... Siamo pazzi.» Seppia piangeva, nascondeva la faccia nelle ginocchia. 
Era proprio una delle sue solite idee, inutilmente violente e pittoresche. Seppius le aveva baciato la fronte, una spalla, poco impressionato.  
«Noi non moriremo. Stai tranquilla.»
Avrebbe provveduto lui a tutto. 

*

In presenza di ragazze della sua età, cambiava radicalmente. La gelosia non era la sua forma di amore più sincera, ma di certo la più soddisfacente. Gli solleticava l'interno del braccio con le dita, gli si appendeva al fianco come una spada, qualcosa che valesse tanto e incutesse timore. Diventava maliziosa ma non docile, solo un po' beffarda, come dimostrazione che poteva permetterselo senza incorrere in conseguenze. Seppius la lasciava fare. Recitare la parte della sua prigioniera di guerra non era altro che l'ennesimo gioco per passare il tempo. L'unico vero ruolo che le appartenesse era quello della lei che ancora combatteva e che l'avrebbe sempre sfidato, che non sarebbe mai stata capace di sedersi e mettersi in pace. Queste erano frivolezze. Ciò che davvero rischiava di fargli perdere il controllo di sè era quando, nel buio, Seppia gli veniva incontro correndo e si gettava tra le sue braccia, come se fosse stata inseguita, e venivano attanagliati dalla sensazione che fosse una materia omogenea a riunirsi, e niente a potersi mettere in mezzo.

*

L'ultima volta che aveva davvero pensato a Seppia senza identificarsi del tutto con lei, senza avvertire in se stesso le promesse di violenza che le erano rivolte, era stato quando gli avevano parlato della solitudine in cui lei si era barricata dopo le perdite subite a causa dei ribelli. Dovrebbe accogliere gli ospiti, ringraziare per le visite. Per Seppius era normale rispettare il suo cuore come se fosse ancora quello di una bambina a cui hanno pestato un piede, era normale credere che il suo dolore fosse sacro e inviolabile, costruire recinti intorno ai suoi lutti, scacciare il mondo ordinandogli di fare un passo indietro, di prostrarsi di fronte al drappo scuro che le copriva i capelli, impedire che la pioggia la raggiungesse, giustificarla mille volte come se l'avesse messa al mondo lui. Si era sentito stanco per tutti i doveri da cui l'aveva dispensata durante la loro vita. Si chiedeva quanto sarebbe potuto durare. Quando l'aveva vista, quella sera, non aveva avuto le energie per rimproverarla nè per esserle di conforto. Seppia gli aveva massaggiato la testa senza chiedere niente in cambio. 
«Se ti tradissi, cosa faresti?» La domanda nuotò tra loro senza impegno, fra l'odore d'incenso. Seppius rise, senza allegria. 
«Niente, cosa potrei fare?»
Seppia sorrise, momentaneamente spavalda della propria vanità. «Bugiardo... faresti sicuramente qualcosa
Ciò che un'altra sera, con più animo, lo avrebbe fatto scherzare, in quel momento lo rese triste.

«No, sei tu che puoi riuscirci... Ci proveresti, forse, ma non ci riusciresti.»
Lei l'aveva guardato, stranita, come se cercasse di disseppellire un tassello che le sfuggiva. Aveva l'aria di voler chiedere ancora qualcosa, invece tacque, distolse lo sguardo. Seppius si era portato la sua mano alle labbra, come una ciotola d'acqua. Le aveva sorriso. «Dormi, riposati. Calma i tuoi pensieri. I morti non soffrono.»
E forse lei se n'era andata a dormire rimasticando queste parole, che i morti non soffrono, e forse l'aveva preso come un affronto personale, forse pretendeva che anche i morti continuassero a soffrire per lei, che non si sentissero esentati. Forse sarebbe stata sollevata nel sapere che, quando fossero morti tutti, sarebbe lo stesso rimasto qualcuno a indignarsi per il suo male. Forse qualcuno dei suoi dei aveva tremato.


 
  
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