Anime & Manga > Detective Conan
Segui la storia  |       
Autore: Il Cavaliere Nero    10/06/2017    9 recensioni
Shinichi Kudo è famosissimo: il più giovane detective, un curriculm che vanta il maggior numero di casi- rapidamente!- risolti. Per la sua consapevole abilità, e talvolta saccente professionalità, parte della polizia lo applaude e lo stima; l’altra metà, per la stessa ragione, lo ostacola nascondendosi dietro una finta esaltazione di rigorismo, che è in realtà qualunquismo.

“Tu…sei, sei stato in centrale oggi?”
“Sì. Ma sai, non mi sono fermato lì con loro, non sono soliti parlare benissimo di me."
In quella dichiarazione di consapevolezza, in lui tornò a dominare il detective orgoglioso e sicuro di sé, distaccato e persino un po’ scontroso.
"Tu...sai che..."
"Mph, credi che io viva sulle nuvole? Dicono che io sia ancora più arrogante da quando sono amico suo. Un mese fa ero un eroe, ora improvvisamente uno sbruffone. Come si spiega quest'incoerenza? Io sono sempre io. Sono sempre stato un eroe, sarò sempre uno sbruffone. Purchè scelgano. Sono lo stesso di un mese fa, non c'è nulla di diverso in me."

Ran apprezza i suoi metodi, totalmente distanti da quelli di suo padre. Ma li apprezzerà anche quando ne verrà travolta?
Genere: Introspettivo, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti | Coppie: Ran Mori/Shinichi Kudo
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Avete ragione. Totalmente.

È passata una eternità, lo so. Anni, e anni e anni e anni…beh, insomma: ci siamo capiti. Non ho scuse, perciò non vi tedierò con le motivazioni che mi hanno costretta ad accantonare momentaneamente –ehm ehm…- questa storia, so di essere imperdonabile. Ma se ancora vi è rimasta un po’ di curiosità o voglia di leggere, se ancora questa fic può avere un po’ di presa, se oramai la trama di DC non è andata troppo avanti perché questi capitoli non siano eccessivamente OOC... io ne sarò davvero contenta: per me è stato un grande, enorme piacere tornare finalmente a scrivere. Si tratta, per me, di un atto liberatorio, capace di mettermi in comunicazione con un'altra, bellissima dimensione. (Ho cambiato addirittura l'avatar per festeggiare il mio grande ritorno! Niente male, no? - Sopportate il delirio di una povera pazza.)

Ringrazio di cuore tutti coloro che, nonostante la mia lunga assenza, hanno continuato ad inviarmi tramite le recensioni ed i messaggi il loro supporto e il loro affetto: ogni parola di incoraggiamento che leggevo, per me, è stata davvero molto importante.
Anche per merito vostro ora sono di nuovo qui. Non posso non citare e ringraziare in particolare la carissima _Rob_ .

 
Capitolo Settimo
Fervore

 

«Eppure resta,
che qualcosa è accaduto, forse un niente
che è tutto.»
Eugenio Montale

 
 
Acquattato dietro una panchina in acciaio, il giovane investigatore afferrò la ragazza per un braccio, tirandola a sé: “Sta’ giù, ho detto!”, l’ammonì, finché lei non s’inginocchiò accanto a lui. Le circondò una spalla con l’avambraccio, per farle da scudo con la sua schiena; entrambi celati dalla visuale dei cecchini, i proiettili non potevano raggiungerli e andavano al contrario ad infrangersi contro l’acciaio della panchina.
“Kogoro, sta bene?” si sporse leggermente con il capo, lanciando un’occhiata al cespuglio a un paio di metri da loro, dove aveva gettato il detective più grande con una spallata, qualche secondo prima.
“Sì, io sto bene! E voi?” rilanciò l’uomo in soffio, facendo per sporgere la testa oltre le foglie.
“Non si faccia vedere!” gridò lui, sapendo che ai cecchini bastava un secondo di disattenzione delle loro prede per mirare e colpire. E mentre l’uomo si ri-accartocciava su se stesso, Shinichi strinse Ran ancora a sé, sentendola tremare: “Non avere paura.”
Scoccò uno sguardo oltre la spalla di lei: alla loro sinistra, l’oscurità del parco di Beika che costeggiava la strada; alla loro destra, un piccolo supermarket aperto a tutte le ore, ma deserto. Alle loro spalle, tre edifici l’uno affianco all’altro, sede di alcuni appartamenti ma per lo più di uffici di marketing: non poteva essere che quello il luogo da cui sparavano i cecchini. Il parco sarebbe stato troppo buio per dei tiri tanto precisi –il primo sparo gli aveva trapassato il colletto della camicia con un sibilo profondo-, e l’angolazione degli spari ne denunciava la provenienza da una postazione più alta rispetto alla loro, e anche rispetto al basso capannone in cui era allocato il supermercato notturno. Quindi, dedotto razionalmente il luogo dell’appostamento dei criminali, si voltò con accortezza verso quei tre palazzi, per cercare di capire da quale esattamente provenissero le pallottole.
Ruotando lentamente il busto per una torsione di trecentosessanta gradi, si accorse che in automatico anche Ran faceva altrettanto.
 “Chi sono?” gli domandò, osservandolo mentre sbirciava la cima degli edifici attraverso una delle fessure della panchina. Non tremava più.
Secondo edificio, ultimo piano, finestra di mezzo: era da lì che sparavano!
“Hai uno specchietto?” le soffiò in risposta, meravigliandola.
“Allora?” la incalzò, vedendola esitare “Dammelo subito!” ma proprio in quell’istante, gli spari cessarono.
“Hanno smesso?”
“Continua a stare giù, Ran.” Le spinse leggermente il capo con la mano, affinché non si alzasse. Frattanto, infilò l’altra mano nella tasca dei suoi jeans, laddove l’aveva vista guardarsi quando le aveva fatto quella domanda. E infatti, lì trovo un piccolo specchietto tascabile. Chiamò Kogoro, e facendo scivolare quell’oggetto di make up sul pavimento, gli disse: “Senza entrare sotto il loro tiro, fallo brillare!”
“Perché?” gli domandò Ran, mentre lo osservava, ancora inginocchiato, stendere una gamba per afferrarsi la cintola.
“Per capire quanti sono…” rispose, estraendo una pistola che, fino ad allora, aveva tenuto nascosta tra la cintura dei pantaloni e la camicia, dietro la schiena. Una Glock 2.
Quando un nuovo sparo frantumò lo specchietto, affermò: “Sono due. Uno spara a noi, e uno spara a tuo padre.” Poggiò entrambe le mani, chiuse attorno alla pistola, sulla cima della panchina e, dopo aver preso la mira, fece esplodere un paio di colpi in direzione di quella finestra, sorridendo impercettibilmente quando la vide, da lontano, frantumarsi. Fu allora che lo vide: un piccolo scintillio, come una lucciola chiara, splendere da lassù: un puntatore!
Assottigliò gli occhi e mirò proprio lì: esplose il colpo, senza sapere che la donna dai capelli corti distesa sulla pancia dietro il fucile, in quella stanza all’ultimo piano, imprecasse: “Merda, mi ha distrutto il puntatore!”
“Che cosa facciamo?” la voce del suo complice le giunse dal trasmettitore ai suoi piedi.
“Ritiratevi.” Proferì una voce che entrambi conoscevano bene. Dalle ricetrasmittenti di entrambi, risuonò dura: “Avreste dovuto colpirlo con un solo colpo, non scaricargli addosso un caricatore intero. Siete degli incapaci. Filatevela, prima che arrivi la polizia.”

“Shinichi…” lo chiamò Ran, mentre ancora il giovane era teso con la pistola tra le mani.
“Credo di aver distrutto le loro armi, Ran. Se sono furbi, staranno scappando adesso…” le spiegò, dandole modo di capire per quale motivo gli spari fossero cessati per la seconda volta.
Attese un paio di secondi e poi, con misurata lentezza, si alzò in piedi: nessun colpo fendette l’aria. Il giovane detective allora si sciolse un sospiro, sicuro di avere ragione. Anche Ran allora si alzò, e così Kogoro, uscendo da quel nascondiglio improvvisato, il vestito elegante tutto sciattato e coperto di foglie e terriccio.
“Ma che diavolo…” borbottò, facendo per riavvicinarsi ai due ragazzi - ma una sgommata di pneumatici attirò l’attenzione di tutti e tre: si voltarono, senza vedere nulla. Tra di loro, Kudo scattò, correndo verso nord. Allora anche padre e figlia lo seguirono, e quando svoltarono l’angolo si ritrovarono di fronte al parcheggio coperto degli uffici di quel palazzo. Ran si volse a scrutare Shinichi, il quale aveva arrestato la sua corsa e aveva allungato le braccia, impugnando ancora la Glock. In trepidante attesa, non si mossero: d’un tratto, anticipata ancora una volta dal rumore delle ruote sull’asfalto, una Porsche 911 nera sfrecciò verso l’autostrada. Per l’aria echeggiarono gli ultimi tre spari che Shinichi aveva in canna, i quali andarono a conficcarsi nel cofano dell’auto.
“Gran bella mira, ragazzino…” borbottò col fiatone Kogoro, passandosi una mano sulla fronte sudata per la corsa e, soprattutto, la tensione del pericolo scampato, “Non hai preso una ruota neanche per sbaglio…”
“Non miravo alle ruote.” Rispose lui, continuando a scrutare quell’auto finché essa non scomparve oltre la strada.
 
 
“Non ho visto la targa, è successo tutto troppo in fretta, Ispettore Megure. L’auto era una decappottabile, era scura…nera? No, blu…no, nera…” rimuginava Kogoro, seduto sul sedile posteriore di un’auto della polizia. Tre volanti infatti erano sopraggiunte sul posto una decina di minuti dopo la sparatoria, allertate da una telefonata spaventata del proprietario di quel piccolo supermarket in fondo alla strada.
Un Megure allarmato si era lanciato fuori dal veicolo, per soccorrere quei tre che, ancora un po’ scossi, avevano cercato riparo sulla panchina che tanto bene era servita loro da scudo, o meglio: Kogoro e Ran erano seduti, mentre il ragazzo era in piedi, davanti a loro, con le braccia incrociate e lo sguardo serio, come se quel che avesse vissuto non fosse diverso dalle sue solite attività giornaliere. Stavano parlando, deducendo, ragionando sull’accaduto, cercando di mantenere uno sguardo lucido – ma probabilmente il giovane era l’unico a riuscirci, e Ran se n’era accorta benissimo.
Accertatosi che stessero bene, Megure li aveva divisi: lui stava raccogliendo la deposizione della famiglia Mouri, mentre il detective Kudo era stato affidato alla professionalità del braccio destro dell’ispettore, il detective Wataru Takagi. L’uomo, col taccuino nelle mani, procedeva con le domande di routine al giovane, appoggiato con la schiena al cofano di una delle volanti.
“E tu, Ran, che mi dici?”
Ma la ragazza non rispose: continuava a fissare il ragazzo, esattamente come aveva fatto per tutta la durata di quell’affrettata testimonianza. Lo vedeva, ancora con le braccia incrociate al torace, ascoltare pacato le parole dell’agente. Rispondeva affettatamente, laconico, senza perdersi in dettagli.
“Ran?”
Appariva tranquillo, eppure austero. Lo fissò: il giacchetto slacciato e un po' impolverato, i capelli scompigliati e il volto illuminato dalle sirene delle volanti -di quando in quando, le sue guance assumevano una sfumatura rossa, che poi pian piano si scuriva sino al blu, per poi tornare ad inarrossarsi-; insomma, perfettamente a suo agio, circondato ad agenti di polizia e paramedici accorsi sul luogo.
Aveva assistito ed anzi, ammirato, così tante volte scene di quel tipo, dalle carrellate di immagini mandate in onda sui notiziari, dalle foto sui giornali o gli articoli di cronaca: tante e tante volte, seguendo le gesta del suo detective preferito –rideva sempre a quel pensiero: avrebbe dovuto essere suo padre! - non le era capitato davanti agli occhi nulla di diverso. Eppure, in quel momento, quella sera, osservando senza interruzione Shinichi parlare con il poliziotto, dopo essere stata coinvolta in una sparatoria e aver quasi partecipato ad un inseguimento, non sentiva nient’altro che entusiasmo addosso: era su di giri, era…contenta.
-È forse effetto dell’adrenalina, questo? -
“Ran, mi senti? Stai bene, cara?”
Fissava Shinichi, ed era contenta di trovarsi lì con lui, sulla scena di un crimine. O beh, quasi…
“Ran!” Kogoro la scrollò per le spalle, temendo che il suo atteggiamento fosse frutto di una specie di shock post traumatico.
“Oh, papà! Ispettore...” si riscosse, tornando come d’improvviso nella realtà invece che nella bolla di sapone in cui si era accoccolata. “Sì, io…perdonatemi, non stavo ascoltando: che cosa mi avete chiesto?”
Improvvisamente, l’esaltazione si tramutò in smaniosa frustrazione.
-Sono patetica. - si disse, mordendosi un labbro – Ma che cosa spero? Non sono sulla scena del crimine con lui, sono solo capitata per caso in un’operazione...-
Tornò con la mente alle circostanze che avevano portato a quell’incidente.
 
“Papà!” gridò la ragazza, prendendo a correre in direzione dell’uomo che aveva riconosciuto sul marciapiede opposto, di fronte all’insegna rovinata dell’edicolante.
Kogoro neppure si voltò, continuando a scrutare con attenzione il terreno sotto i suoi piedi.
“Papà!” insistette Ran, poggiandogli una mano sulla spalla, “Cosa stai facendo, dove sei stato? Si è fatto tardi, non rispondevi al telefono. Stavo venendo a cercarti al distretto…”
“Sì, hai ragione, ero lì…” lanciò un ultimo sguardo alle sedie di plastiche poste al fianco della loggia dell’edicola, poi con un sospiro si arrese.
“Ma cosa stai cercando?”
“Un indizio.”
“Di cosa?”
“Cosa sono tutte queste domande? Di cosa ti impicci? Sai bene che dell’indagine non dovrei neppure parlartene!”
“Ma papà, sono le sette passate e sei ancora in giro. Certo che dovresti parlarmene. Almeno nei limiti che mi consentano di sapere dove ti trovi, per avvisare qualcuno se dovessi ritardare più del dovuto…se ti capitasse qualcosa…”
“E’ una saggia tecnica, questa.” Esclamò una voce alle loro spalle, richiamando l’attenzione di entrambi. Padre e figlia si voltarono, trovandosi davanti gli occhi brillanti e il sorriso furbo di Shinichi Kudo.
La giovane avvampò, mentre lui proseguiva: “Anzi, per la verità è proprio una strategia, e piuttosto diffusa, anche. Si usa spesso tra partner: il primo poliziotto comunica sempre i suoi spostamenti al secondo, e viceversa. Perché se d’un tratto si perdono le tracce dell’uno o dell’altro, è più facile capire da dove iniziare le ricerche, o quanto meno riuscire a ragionare a ritroso*: una capacità molto utile e molto facile, ma che in genere non viene messa in pratica. Nei problemi quotidiani della vita è più utile ragionare guardando avanti, e così l’altro sistema viene trascurato…la maggior parte delle persone, se descrivete una successione di eventi, vi diranno quali sono i risultati. Esistono però altre persone, poche, che, se raccontate un risultato, sono in grado di evolvere dalla loro consapevolezza interiore i vari passi che hanno condotto a quel risultato specifico.”
Annuì all’edicolante che gli chiedeva, con il sorriso cordiale che si rivolge ai clienti abituali, se desiderasse acquistare sempre il solito giornale. Afferrò il quotidiano in cambio di qualche spiccio, sotto le parole un po’ imbronciate dell’investigatore più grande: “Con l’uso dei gps oggi non è più necessaria una accortezza tanto rigida.”
“Dipende dal telefono.” Gli sorrise, e alla muta domanda del padre, rispose Ran: “Credo…credo che se si spenge il telefono, poi diventi impossibile tracciarne il segnale.”
“Esatto.” L’apostrofò canzonatorio il ragazzo, brandendo il quotidiano come fosse un’arma sotto gli occhi della karateka, “E cos’altro ha insegnato, Kogoro, a questa sua figlia così sveglia? Come la addestra per diventare una poliziotta?”
E mentre l’uomo borbottava un seccato “Figurarsi, Ran ha ripreso la medesima petulante parlantina di sua madre…”, la giovane, ignorandolo, rispondeva per le rime:
 “Tanto per cominciare, che è inutile acquistare il giornale a questa ora della sera. Le notizie saranno già vecchie. Non ci vuole un padre a insegnarlo, ma solo il buon senso.”
“Gne gne gne…” le mimò con le labbra Shinichi, attento che solo lei cogliesse la canzonatura – cosa che in effetti avvenne, facendola ridere.
“Sai, ragazzo, dovresti preoccuparti di qualcos’altro che le notizie sui giornali.” Lo richiamò Kogoro, uno scrupolo di coscienza che non lo abbandonava da quel casuale incontro alle corse dei cavalli, “C’è stato un interrogatorio oggi. Un tizio…”
“Lo so.” Gli sorrise di rimando, avviandosi dall’altro lato della strada.
Kogoro e Ran lo seguirono.
“Lo sai? E come?”
“Non mi sottovaluti: ho le mie fonti.”
“Sarei davvero curioso di conoscerle, giacché è una notizia veramente fresca…”
“Chi avete interrogato, papà?” s’intromise la ragazza, cercando di sostenere la loro falcata concitata. Così, mentre si avviavano verso il quartiere di Beika Choo, i tre si ritrovarono, senza averlo previsto, a discutere dell’indagine sulla rapina che teneva tutti col fiato sospeso. Una rapina, come sottolineavano i giornalisti che avevano intervistato il grande detective Kudo, compiuta in maniera singolare un sabato mattina quasi alla fine del mese–perché proprio quel giorno, quando tutti i conti sono quasi vuoti?-, da un solo rapinatore, mentre l’altro aspettava in macchina col motore acceso –perché non dare man forte alla sua complice, anziché rimanere immobile e passivo nell’auto?- e che pertanto portava con sé una serie di stranezze culminate nella morte delle prima rapinatrice –era scaturita una lite tra i due circa la refurtiva? Il secondo uomo aveva sin dall’inizio progettato di uccidere la complice una volta ottenuto i soldi? Si era trattato di un incidente e la donna era morta come una vittima casuale?-.
“Attraverso i tabulati telefonici del secondo cellulare* della donna, siamo risaliti a un numero che tornava molto frequentemente e spiccava tra gli altri, che anzi erano pochissimi. Si potrebbe quasi dire che quel numero era l’unico con cui la ragazza intrattenesse telefonate o inviasse sms. Allora abbiamo rintracciato questo numero e abbiamo scoperto che apparteneva ad un uomo, di nome…”
“Non sono importanti tutti questi dettagli.” Tagliò corto Shinichi, in maniera un po’ brusca. “Che cosa vi ha detto?”
“Non l’abbiamo interrogato come sospettato, ma soltanto come persona che poteva conoscere la vittima e avrebbe pertanto potuto darci informazioni utili per l’indagine. Ma si è rifiutato di parlare: non ci ha detto neppure perché la conoscesse o che rapporto avessero. Si è immediatamente appellato ai suoi diritti, e con una calma quasi serafica ha affermato che, se non era sospettato, non poteva essere trattenuto in centrale. Ha detto di non avere nessuna informazione utile e che gli dispiace di averci fatto perdere tempo, ma che ci consiglia di dare un’occhiata anche agli altri numeri di telefono emersi dai tabulati…”
“Scarica-barile?”
“Probabile. Se devo essere sincero, era parecchio presuntuoso…come dire…snob…”
“Non ne dubito.” Sorrise Shinichi, gli occhi attraversati da uno strano bagliore.
“L’hai interrogato anche tu?” gli chiese allora Kogoro, ma il ragazzo scosse la testa: “Non l’ho interrogato.”
“E’ brutto che una persona sia tanto chiusa, però.” Intervenne allora Ran, ricevendo un’occhiataccia da suo padre, che voleva significare: “Non ti intromettere con le tue chiacchiere in questioni importanti.”
“Cosa c’è? E’ vero.” Insistette però lei. “Voglio dire, il progresso della società civile dovrebbe andare di pari passo con l’empatia, non credi? Se io posso fare qualcosa che aiuti un’altra persona, perché rifiutarmi di farlo? È meschino…”
“Le tue chiacchiere di commento alle notizie di cronaca che vedi in tv quando sei a casa da sola in pigiama non ci sono utili, adesso…” borbottò il padre, ma Shinichi prese la parola:
“Però sua figlia ha ragione, Kogoro.” Quindi guardò Ran, serio: “Sai, una delle cose che ho imparato facendo questo lavoro è che, purtroppo, la conoscenza non equivale alla magnanimità. Grandi uomini, dotati di mezzi potenti o di grande cultura e influenza, non sempre fanno la scelta giusta. Si pensa, erroneamente, che le persone intelligenti o brillanti siano, in automatico, anche persone buone e disponibili. La verità dei fatti, sino ad ora, è che non è così: non vai al liceo, Ran? Quanti intellettuali si sono schierati contro le leggi di Norimberga e quanti a favore?”

“Credo che vi stiate perdendo in elucubrazioni inutili.” Riprese Kogoro, le mani nelle tasche, “Il presente è presente, che cosa andate a pensare? Le decisioni del passato non si possono cambiare, ed inoltre non si possono giudicare le persone per scelte che hanno preso o non preso. Non sapete perché hanno agito in quel modo anni e anni fa, e poi le distinzioni politiche di allora non ci sono più oggi. Sono problemi che non vi dovreste porre.”
“Cosa dici, papà? Il passato dovrebbe insegnarci, se non altro, che particolari fatti conducono ad inevitabili conseguenze. Se non vogliamo di nuovo quella conseguenza, dobbiamo impedire che quel medesimo fatto si riproduca.”
“Non è questione politica.” Le diede man forte il ragazzo “Credo che il pretesto di un’analisi oggettiva sia, talvolta, utile per non prendere posizione. Non dico che alcuni eventi non vadano soltanto analizzati senza frapporvi giudizi etici, anzi questo è vero. Ma è il primo gradino della conoscenza. Io trovo un cadavere e lo esamino, insieme alla scena del crimine. Se mi perdo in giudizi di valore –la vittima aveva meritato di morire? L’assassino ha agito in maniera furba e quindi amorale?- perdo di vista gli indizi necessari per la risoluzione del caso. Ma in un secondo momento non posso non pensare che se un uomo esplode un colpo per difenderne un altro in pericolo, compie un’azione. Se un uomo esplode un colpo perché vuole impadronirsi dei soldi di chi uccide, compie un’altra azione. Credo che agire senza tenere in mente le portate morali delle nostre azioni sia da irresponsabili.”
“E l’indifferenza alla riflessione morale è da irresponsabile allo stesso modo.” Gli disse Ran, facendolo sorridere, “Come se tra coloro che scelgono l’onestà, ve ne sia una parte la cui scelta è indirizzata solo dalla paura che qualcun altro li scopra disonesti. Che qualcun altro li veda.”
“Tutti abbiamo bisogno di qualcuno che ci guardi. A seconda del tipo di sguardo sotto il quale vogliamo vivere, potremmo essere suddivisi in quattro categorie. La prima categoria desidera lo sguardo di un numero infinito di occhi anonimi: in altri termini, desidera lo sguardo di un pubblico. La seconda categoria è composta da quelli che per vivere hanno bisogno dello sguardo di molti occhi a loro conosciuti. Essi sono più felici delle persone della prima categoria le quali, quando perdono il pubblico, hanno la sensazione che nella sala della loro vita si siano spente le luci. C’è poi la terza categoria, la categoria di quelli che hanno bisogno di essere davanti agli occhi della persona amata. La loro condizione è pericolosa quanto quella degli appartenenti alla prima categoria. Una volta o l’altra gli occhi della persona amata si chiuderanno e nella sala ci sarà il buio. E c’è infine una quarta categoria, la più rara…”
“… quella di coloro che vivono sotto lo sguardo immaginario di persone assenti. Sono i sognatori.” *
I due ragazzi si sorrisero mentre Kogoro arrestava il passo.
“Tu, ragazzino, fai tutti questi ragionamenti perché non hai altro a cui pensare o perché ti senti colpevole per qualcosa di orribile che hai fatto, e cerchi una giustificazione morale al tuo agire?”
“Giustificazione morale?”
“Io non so ancora se posso fidarmi di te. Da che parte stai?”
Ma Shinichi non fece in tempo a rispondere, perché si udì chiaramente un proiettile fendere l’aria.
 
-Svegliati, Ran. Dovresti essere importante per lui solo perché la pensate ugualmente su una questione di ordine morale? E quanti altri ne avrà incontrati nella sua vita così? Non sei sulla scena del crimine con Shinichi. Sei con tuo padre, coinvolta in una indagine di cui non sai nulla e della quale non capisci un’acca. Stai parlando con l’ispettore Megure, non con Shinichi. E poi, sentiti: ma come lo chiami? Shinichi, per nome! Credi sia un tuo amico? In questo momento, nonostante il suo comportamento con te sia stato…ambiguo…nonostante quelle parole, quel bacio…
Nonostante tutto questo, io non sono una sua priorità, adesso. Com’era ovvio, come avrebbe dovuto esserlo fin dall’inizio, per me. Dovevo sapere a cosa andavo incontro. E invece…che stupida, stupida sono stata! -
Gli occhi iniziarono a pizzicarle, le veniva da piangere per la delusione. Passò un istante e si sentì avvampare dall’imbarazzo, come se in quello spiazzo tutti sapessero, come se tutti avessero chiaro davanti agli occhi la sua cotta da ragazzina per un detective mondano che mai l’avrebbe ricambiata con la stessa intensità di sentimenti che lei provava; come se tutti, per questo, la deridessero.
-Non avrei mai dovuto neppure cominciare, lasciarmi andare a tutto questo…Avrei dovuto capire fin da subito che ci sarei rimasta male, che ci avrei sofferto…-
Scoccò l’ennesima occhiata in tralice al detective, e trasalì: le era parso che lui avesse lo sguardo posato su di lei, e che quando si era voltata, l’avesse distolto.
Possibile?
Di nuovo, nel giro di pochi secondi, il suo umore mutò. Voleva esultare, ma non si voleva auto-convincere: era successo davvero? O il suo inconscio non si arrendeva, e allo scopo di non soffrire le procurava queste suggestioni?
“Io…non l’ho vista bene neppure io, ispettore, mi dispiace. Ha ragione mio padre, era un’automobile scura, una decappottabile…”
“Capisco. Stai tranquilla, Ran-chan. Siete stati molto bravi. Ora però bisognerà capire se gli aggressori avevano come obiettivo te, Kogoro, oppure Kudo-kun…”
Kudo-kun.
Senza neppure rendersi conto, Ran gli lanciò un’altra occhiata: ed ecco che lo colse, stavolta senza ombra di dubbio, mentre anche lui la osservava. Ma non distolse lo sguardo: i due ragazzi si scrutarono per qualche momento, il cuore di lei batteva all’impazzata. Quindi, Shinichi le sorrise, mentre apriva la bocca, probabilmente per rispondere a una domanda di Takagi.
La fissò per qualche altro secondo, poi tornò a scrutare il volto dell’interlocutore.
La karateka abbassò lo sguardo, arrossendo: ma non era più il rossore di una delusione imbarazzante, al contrario: era il rossore dell’eccitazione.
-Allora…allora forse…-
Stette ad ascoltare -a fingere di ascoltare: non riusciva a seguire il dialogo tra l’ispettore e suo padre per più di qualche manciata di secondi; poi, di nuovo, la mente tornava al suo giovane detective preferito, e lo sguardo volava a lui; e più di una volta, i due ragazzi si osservarono negli occhi per un po’; di volta in volta, il volto di Shinichi si dipingeva di sempre maggiore divertimento, come se si trovasse in un pub, anziché in un luogo gremito di poliziotti- per un tempo che le parve interminabile. Poi, finalmente, lei e suo padre vennero congedati.
Voleva andare a parlargli: ma come?
“Forza, Ran. Torniamo a casa.” La richiamò Kogoro.
“Ma, veramente…”
“Cosa c’è?”
“È che io…”
“Non stai bene, tesoro?”
“No, papà. Soltanto…”
Kogoro sospirò, afflitto: “Piccola, vuoi dormire da tua madre, stasera? Se sei preoccupata, finché non scoprono chi fossero quei tizi, e con chi ce l’avessero…”
“Cosa? No!” la ragazza si affrettò a chiarire quell’equivoco, “Assolutamente no, papà. Voglio stare con te, davvero.”
L’uomo si aprì allora in un sorriso sincero, “Andiamo a casa, piccola.”
 
°§°

“Sei impazzito? Perché l’hai fatto, eh?”  gli ringhiò addosso l’uomo dai capelli corti, irrompendo nella sua stanza.
L’uomo dai capelli lunghi non lo guardò neppure in faccia; afferrò una sigaretta dal pacchetto poggiato di fianco allo schermo del computer, e se la ficcò in bocca.
“Non io, ma quei due.”
“Su tuo ordine.”
“Tu hai procurato un gran caos, e noi abbiamo provato a risolverti il problema.”
“Il gran caos lo avete fatto voi: avete sparato addosso a un investigatore! Cosa credi che faranno adesso, loro? Indagheranno, risponderanno all’attacco.”
“Le cose sono due.” Si accese la sigaretta, inspirando il tabacco “O sei un gran codardo, e temi la polizia; oppure vuoi tenere fuori quel detective dal mirino, per chissà quale motivo. In entrambi i casi, non mi sta bene. E non sta bene neanche a Lui. Senza considerare il fatto, che abbiamo ancora la questione di quella ragazzina in ballo.”
“Bisogna agire con cautela, tu sei troppo impulsivo. Non ragioni, non capisci che così ci stiamo scavando la fossa da soli.”
“Dimostrami di non essere un codardo. Va’ da quella ragazzina, e rimettila in riga. Non importa come: viva o morta, non deve più starci tra i piedi.”
 
°§°

Si voltò, insonne, dal lato opposto del letto. Che delusione!
Poi, tra sé e sé, ridacchiò: le avevano sparato addosso e tutto quel che riusciva a pensare era di essere contrariata perché non aveva potuto parlare con quell’arrogante investigatore.
-Sì, decisamente arrogante…- pensò, con una punta di ironia. Le piaceva quando faceva l’arrogante…
Sbuffò, cacciando le lenzuola con i piedi fino al bordo del letto. Quelle occhiate che si erano lanciati, le davano qualche speranza: un piccolo gradino a cui aggrapparsi, quando pensava a lui e un nodo le si piazzava nel bel mezzo dello stomaco. Le piaceva, ma era davvero un’incognita.
“Mhm?” notò solo allora che il suo telefono vibrava. Lo afferrò, un sms:
«Dorme, signorina Mouri?»
Balzò in piedi sul materasso, incredula: rilesse quelle tre parole almeno una dozzina di volte, raggiante.
Cosa c’è, di grazia?
No, troppo banale. Cancellò e riscrisse:
Pensava a me, signor detective?
Avvampò.
Sperava fosse così, dal momento che lei sì, pensava a lui, eccome. Ma non volle rischiare con un messaggio tanto audace. Riprese a digitare un terzo messaggio:
«Potrei chiederle altrettanto, signor Detective.»
Attese la risposta che giunse qualche minuto dopo: con il telefono tra le mani, la giovane leggeva e rileggeva quel messaggio come se quell’operazione avrebbe permesso alla replica dell’investigatore di materializzarsi sul display.
«Se non le è di troppo incomodo, perché non scende un minuto sotto il suo appartamento?»
Il cuore le balzò nel petto.
Che lui…?
«Perché, sei qui sotto?»
«Sì.»
 
Erano trascorse all’incirca cinque ore da quell’incidente, ed eccolo di nuovo di fronte a lei. Si era spogliata di quella maglietta ridicola del pigiama –larga, a maniche lunghe, persino a fiori! -, indossando la prima canottiera che le sembrasse carina dall’armadio –suo padre l’avrebbe definita troppo scollata-, ma lasciando i pantaloncini della sua tenuta notturna. Così, in shorts e canottiera chiari, si era guardata allo specchio, aggiustando i capelli raccolti uno chignon improvvisato e, facendo attenzione a non far rumore nell’appartamento, si era precipitata per le scale.
Shinichi l’aspettava, seduto sul bordo del marciapiede, dandole le spalle: questo la colpì; solitamente le sue posture erano sempre così calcolate e studiate, che quell’atteggiamento spontaneo tradiva qualcosa di diverso.
“Che succede?” le venne spontaneo, facendolo voltare nella sua direzione.
“Ciao anche a te, signorina che conosce Kundera.” La salutò, alzandosi. Poi la squadrò da capo a piedi: “Dormi così?”
“Problemi?”
“No, anzi. Stai bene.”
“Non credevo fossi qui per una consulenza di moda.”
“Ti ho detto che stai bene.” Rise, passandosi una mano tra i capelli. Fu allora che Ran notò che il giovane, al contrario, indossava ancora i vestiti di quel pomeriggio.
“Come stai?” gli domandò, muovendo qualche passo verso di lui.
“Tutto a posto. Tu, piuttosto: come ti senti? Non credo sia qualcosa che vivi tutti i giorni…”
“Anche io. Non ho avuto paura.”
“Perché?”
“Perché c’eri tu.”
Non si rese neppure conto di averlo detto, se non quando fu troppo tardi: vide Shinichi strabuzzare gli occhi, ma non si pentì delle sue parole. Era vero. Inoltre, che cosa voleva dire? Nulla. Lui era un bravo detective, lei lo pensava e che lui lo sapesse pure. Non voleva vergognarsi di questo, anzi: desirava lui capisse la stima che nutriva nei suoi confronti.
“Ah sì?” ed eccolo, quel sorriso da arrogante a incorniciargli il volto stanco.
“Perché sei qui? Cosa succede, Shinichi?” lo chiamò per nome: quei lineamenti tirati, quelle occhiaie…se c’era qualche problema, voleva saperlo. Voleva aiutarlo.
“Io…io volevo scusarmi con te. Mi dispiace per quello che è successo oggi.”
“Non è colpa tua.”
“Lo è. Sono un tutore della legge, dovrei evitare che…”
“Oh, ma non ti stanchi mai di essere così egotico?” lo apostrofò, sperando di alleggerire la discussione. E in effetti, lui sorrise.
“Non è anche per questo che ti piaccio?” rincarò.
“Non mi piaci affatto.”
“Un po’ ti piaccio.”
“Ti piacerebbe.”
“Sì, mi piacerebbe.”
La ragazza lo fissò con espressione interrogativa, e lui mosse qualche passo verso di lei, azzerando quasi del tutto la distanza tra loro.
“Sono venuto qui anche perché, io…” esitò, guardandole le labbra.
Esitò anche lei: “C-cosa?”
Rimasero così, vicini: la ragazza poteva udire il respiro di lui sul mento.
“Tirati indietro, Ran.”
“Come? Da dove, perché? Ti ho compromesso l’indagine?” immediatamente, ecco di nuovo quella orribile sensazione di delusione mista a disinganno che si impadroniva di lei, frustrandola.
Ma lui rise, poggiandole le mani sui fianchi. La guardò su tutto il corpo, mentre diceva: “No. Intendevo, fisicamente. Allontanati da me, adesso, per favore. Perché altrimenti…”
“Speri forse di spaventarmi? Hai visto come sono brava nel karate…”
Fece risalire lo sguardo, puntandolo negli occhi di lei: così determinati, così sicuri. Come quella sera, qualche giorno prima, a casa sua.
Risalì con le mani fino al suo volto, dischiudendole le labbra con i pollici. Si avvicinò a lei e le leccò con la punta della lingua il bordo della bocca, disegnandone il perimetro. Attese qualche secondo, ma Ran non si scansò. Allora, la baciò. Le tenne fermo il volto, anzi attraendolo verso il suo perché il contatto fosse maggiore, e più acceso. Ran, dal canto suo, si sentì mozzare il fiato: qualche giorno prima era stata a lei a fare il primo passo, ma quella sera non c’era ombra di dubbio su chi avesse agito. Shinichi la stava baciando! Il respiro mancò presto ad entrambi, e li costrinse a separarsi.
“È così che non ti piaccio?” le sussurrò sulle labbra, guardandola con una luce piuttosto maliziosa negli occhi. “E se ti piacessi, cos’altro mi lasceresti farti?”
“Un po’…mi piaci…” ammise lei, su di giri, elettrizzata dal fatto che ancora le teneva il volto tra le mani.
“Lo dici solo perché hai paura di cos’altro ti farei…”
“Chiacchieri tanto, ma perché non me lo fai vedere?” gli soffiò sulla bocca, sperando che lui raccogliesse la sfida.
“Non dirlo due volte.”
“Chi è che ha paura, adesso?”
Non si riconosceva in quello scambio di battute: ma era davvero lei a parlare così audacemente?
Non ebbe il tempo di riflettere troppo: la condusse con decisione nell’androne dell’edificio, facendole risalire qualche gradino perché non si trovassero nel bel mezzo del marciapiede. Quindi, al riparo dalla luce dei lampioni o dei fari delle auto che passavano, rischiarati soltanto dalla fievole luce della luna che filtrava oltre il cornicione dell’ingresso, la spinse con la schiena contro il muro, baciandola di nuovo; Ran gli intrecciò le braccia intorno al capo, per avvicinarsi di più a lui che, per tutta risposta, la tirò ancora di più a sé poggiandole una mano sulla schiena. E stavolta, Shinichi non smise: si allontanava qualche secondo per riprendere fiato, e la baciava di nuovo, ancora e ancora, con impeto sempre maggiore.
-Non finirà bene…- si ammonì lei –Finita questa indagine, lui se ne andrà e io starò malissimo…-
Intimorita a quell’idea, si scansò; ma proprio in quel momento, gli occhi le caddero sul suo collo, ed anzi sul colletto della sua camicia: e notò quel foro di proiettile che si era procurato qualche ora prima.
“E questo?” lo afferrò, realizzando solo allora quanto Shinichi avesse davvero rischiato quel pomeriggio.
“Lascia perdere.” Tagliò corto lui, afferrandole la mano e facendo per baciarla ancora, ma lei insistette: “Ma sei ferito? Ti sei fatto medicare?”
“Non sono ferito.” Le soffiò sulle labbra, stringendola saldamente per i fianchi.
“Vieni in ufficio.” Gli disse, mentre lui le massaggiava la schiena e la pancia “È…è quella porta, sotto il nostro appartamento. È l’ufficio di papà, non c’è nessuno. Ti…ti medico io…”
“Non sono ferito” ripeté ancora, continuando a toccarla. La stava immaginando nuda.
Era su di giri, era totalmente incapace di controllarsi. Non gli era mai capitato prima di allora di perdere a tal punto la razionalità: al contrario, si era sempre fregiato di riuscire a conservare lucidità e auto-controllo in qualsiasi circostanza, anche sotto pressione. Eppure, quella ragazza non gli faceva capire più niente. Il modo in cui aveva parlato, qualche ora prima…
Che cosa gli prendeva?
Sollevò il viso per scrutarla meglio: l’oscurità di quell’ambiente le rendeva gli occhi più belli.
“Sei sicuro?”
“Se non credi alle mie parole, dovrai spogliarmi e controllare tu stessa.”
Voleva cedere e lasciarsi travolgere da lui: ma aveva così paura di quel che ne sarebbe stato dopo…E inoltre, in quel momento un lampo le attraversò il cervello: e se non gli fosse piaciuta? Quanto poteva valere rispetto alle attrici cui era abituato lui?
“Sono seria.”
“Anche io.”
“Voglio aiutarti, Shinichi, voglio essere tua amica. Non tenermi fuori dai tuoi affari…”
“Dopo aver parlato con Takagi, mi sono visto con altri colleghi per parlare con loro di quanto accaduto. Ci abbiamo ragionato un po’ su, e quando abbiamo finito ero stanchissimo, e preoccupato. E l’unica cosa di cui avevo voglia era vedere te.” Le disse, tutto d’un fiato, dimostrando anche a se stesso di come, per la prima volta in vita sua, fosse completamente preda delle sue emozioni. Ma perché gliel’aveva detto?
Cionondimeno, a quel punto, tanto valeva proseguire così. Anche perché, per quanto si imponesse l’auto controllo, pareva proprio che non riuscisse a mantenerlo: aveva ceduto ed era andato da lei, all’una del mattino, pur sapendo fosse una pessima idea. Si era imposto di non fare nulla, di parlarle soltanto e assicurarsi che stesse bene, e invece l’aveva baciata. Aveva cercato di allontanarsi e andarsene, e si era ritrovato con lo spingerla dentro quell’androne e, non contento, desiderare di averla lì, in quel momento, riuscendo a stento a mantenere il controllo sul proprio corpo e sulle proprie azioni.
“Perciò, non ti conviene invitarmi nel vostro ufficio. Perché se ci metto piede, non sarà certo per farmi medicare.”
Era stato troppo impulsivo e troppo sincero: si aspettava mille reazioni da quella ragazza così forte, e ne avrebbe giustificata ciascuna. Che lo respingesse con vergogna, che lo invitasse a procedere con calma per pudicizia, che gli ricordasse che suo padre dormiva a pochi metri da loro, che gli confidasse di non conoscerlo abbastanza da cedere così repentinamente. Esaminò nella sua mente ogni possibile risposta, e si preparò a tornarsene a casa come il più tipico degli stupidi imbecilli da bar; ma Ran, con le guance imporporate e un sorriso imbarazzato, gli poggiò le mani sul petto, sbottonandogli i primi bottoni della camicia chiara. Alzò per un frammento di secondo gli occhi sul suo volto, poi continuò fino a scoprirgli leggermente anche la pancia.
“Dicevi la verità…non sei ferito…” sussurrò, aprendogli poi la camicia, pur con un po’ di esitazione.
Neppure lei era più in sé. Voleva soltanto assecondare quella situazione, e di tutto il resto si sarebbe preoccupata in seguito. C’era Shinichi Kudo davanti a lei! Che ogni altra cosa aspettasse.
Lo guardò negli occhi e lo vide sorridere:
“Sei una ragazzina veramente incosciente…” le soffiò “Non capisci quello che stai facendo…”
“Lo capisco benissimo, invece.” E per dargli prova di quanto aveva appena detto, si avvicinò al suo volto e passò la lingua sulle sue labbra, come aveva fatto anche lui poco prima. Gli pose una mano sulla guancia, applicando un po’ di pressione affinché aprisse la bocca; immediatamente Shinichi ricambiò, e si baciarono ancora.
Lo afferrò per il colletto slacciato e, mentre si baciavano, lo tirò con sé di fronte alla porta dell’ufficio; la aprì e lo condusse dentro, gettandolo a sedere sul divano che di solito accoglieva i clienti –rari- che si rivolgevano a suo padre per un’indagine.
Shinichi, sorpreso e divertito allo stesso tempo, arreso alle sue pulsioni così come Ran si era arresa alle sue, la lasciò fare, seguendola con gli occhi mentre si ergeva sopra di lui facendo leva sulle sue ginocchia, superandolo in altezza. Poggiò la fronte sulla sua, e gli sorrise.
Shinichi allora gli afferrò con le mani le cosce lasciate scoperte dagli shorts del pigiama, tirandole le gambe a contatto col suo torace nudo.
“Non sei che un detective arrogante…”
Lui rispose con un sorriso spavaldo, facendo risalire le mani, passando per i glutei ed infilandole sotto la canottiera. Le passò le mani su tutta la schiena, lanciandole uno sguardo elusivo quando s’accorse che non indossava il reggiseno.
Lei si chinò su di lui, come per baciarlo, ma si arrestò a pochi centimetri dalle sue labbra, nel momento in cui anche lui aveva fermato le mani sulle spalle di lei. A malapena trattenne un gemito, che si riversò in parte sulla bocca del detective, quando lui ripercorse di nuovo la schiena della giovane, a piene mani, dal collo alla vita. Allora le morse il labbro, attirandola a sé cosicché il suo ventre si poggiasse sul petto di lui. Sospirò ancora rumorosamente, mandandogli il sangue al cervello: afferrò i bordi della canottiera, e la lasciò nuda.
Ran rimase ferma, in imbarazzo, con la fronte appoggiata ancora sulla sua; Shinichi la scrutò completamente, facendo scorrere le mani di nuovo sulle sue gambe, perché si sedesse sul suo grembo più comoda. Risalì poi con gli occhi sul viso di lei, scoprendolo imporporato dall’imbarazzo.
“Mi vuoi, Ran?” si assicurò in ultimo barlume di lucidità. Le afferrò il capo con le mani, sciogliendole i capelli cosicché gli ricadessero sul viso.
“Sì.” Rispose in un bassissimo sussurro, arrossendo ancora di più.
Per tutta risposta, lui si tolse la camicia sbottonata e la attirò a sé, facendo scontrare i loro corpi con foga. Stavolta, lei non poté trattenere un gemito, cui fece eco anche Shinichi. Gli passò le mani sul petto, sull’addome e sui fianchi, facendolo trasalire.
Si baciarono. Ancora e ancora, continuando a toccarsi e scontrarsi così, per metà nudi, desiderosi l’uno dell’altra.
Improvvisamente però, la luce della stanza s’accese e la voce di Kogoro echeggiò nel locale:
“Ran?”
 
[1] Sappiamo essere una citazione cara al nostro Shinichi, memore delle sue letture di Sherlock Holmes, A study in scarlet.
[2] Come è ricordato nel capitolo quinto, la polizia ha scoperto un secondo cellulare, nascosto, tra gli oggetti personali della donna. Ran avvisa Shinichi di questo dettaglio correndo a casa sua.
[3] L’insostenibile leggerezza dell’essere, Milan Kundera.

Grazie ancora, di vero cuore, a chi è arrivato sin qui.

   
 
Leggi le 9 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Detective Conan / Vai alla pagina dell'autore: Il Cavaliere Nero