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Autore: Gipsy Danger    15/06/2017    3 recensioni
Un road - trip con un demone non era precisamente l'ideale di vacanza di Ryuunosuke.
{ Minilong intermedia tra Afterdark. Rebirth e Firebird. Renewal }
Genere: Slice of life, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Nuovo personaggio, Ryuunosuke Ibuki, Sorpresa
Note: AU, Otherverse, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
- Questa storia fa parte della serie 'Derail'
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La città respirava un velo di nubi congestionate da un piovasco in arrivo. Basso, disteso sopra l’orizzonte, l’apice di un’onda in corsa verso la foce del fiume, su un vento umido che prometteva di far fumare l’asfalto sotto una cortina di gocce grosse come monete. L’unico refrigerio che portava era quello intenso che si alzava dalle piante assetate. Non – come la maggioranza degli umani credeva – per il peso dell’ozono, ma sprigionato dallo stesso polmone verde di Central Park.  Un bisbiglio di foglie che si distendevano alla ricerca di una sola goccia d’acqua, prima di tornare ad assopirsi. Una preghiera.

Di giorno non era così male. Vero, le strade erano sovraffollate di turisti e il traffico pulsava di un battito lento, in preda al torpore di giugno – e vero, il mini che aveva affittato era in cima all’ultima rampa di scale del condominio, esposto al sole senza misericordia. Dieci ore dieci e una finestra a riflettergli addosso una lama di luce tagliente, arroventata, ad angolazioni diverse. Perennemente. L’aria condizionata andava a sbuffi, minacciando di congelare qualunque cosa rimanesse troppo tempo sotto al bocchetto d’areazione. Tuttavia, al caldo era abituato. Era un amico di vecchia data, a volte uno scocciatore, mai un nemico. Dov’era nato il termometro toccava i 45 gradi a maggio: i trenta di New York a inizio estate impallidivano, a confronto, e i trucchi per sopravvivere senza sciogliersi li conosceva tutti.


Erano le notti, il problema.

Notti insonni.

Notti inquiete.


Notti senza Risveglio.













*

This town is only gonna get worse

 |  Get out! And get gone  |


  Derail

. t o   k i l l   a   k i n g .

|  Get out! And get gone  |

This town is only gonna eat you



*





| What you want to do tonight? |
I got wounds to lick in life
Oh so many bills to pay
|   No this debt won't go away  |


Non era il locale più bello del mondo.

La musica, diffusa da altoparlanti camuffati con scarso impegno, aveva una qualità graffiata che parlava più di cd rovinati che dello scratch di un buon dj. L’aria era blu di nebbiolina artificiale e satura del dolciastro, permanente sentore di cocktail alla frutta. L’acustica, quella era passabile, quando non si faceva troppo caso alle distorsioni delle casse. Il pavimento tremava con il rombo del basso come se un’intera band fosse intrappolata sotto le lastre lucide, seppellita viva e condannata a suonare ad oltranza dall’inferno. Il ritmo scandito dal reactable, alla postazione d’onore sul panorama della folla notturna, si arrampicava vertiginosamente di tono in tono.

Un calderone ribollente di opportunità, ecco cos’era – magico per alcuni, squallido per altri. La speranza di un minimo di refrigerio si fermava alla soglia della porta: giù per le scale, verso la calca, non c’era posto nemmeno per un respiro.

Se il ballo era quanto di più simile alla lotta, per i newyorkesi delle ore piccole, la pista da ballo era una scena del crimine. Un mare affannato di mani alzate a carpire le luci viola dei faretti. La gente parlava, urlava, cantava, e le loro voci non erano che un brusio indistinto, eccitato dall’approssimarsi del culmine del beat. Insignificanti, nella loro singolarità come in coro. La musica staccava pezzi di conversazione da un punto all'altro dell'alveare ronzante, facendole a brani e ingoiando malintesi.

Le discoteche non erano la sua passione, ma Chandresh riusciva a capire l’attrattiva che il Cauldron poteva esercitare su un ragazzo desideroso solo di spegnere la testa. A stento riusciva a sentire i suoi stessi pensieri – i nostri pensieri, si corresse, accarezzando una spirula d’ombra che gli scivolò lungo il braccio e gli si avvolse attorno, aprendo un paio di occhietti lucidi e neri sulla selva di gambe che si muovevano attorno a loro. Alla lunga le preoccupazioni, le ansie, i progetti e le paure diventavano un’accozzaglia sfinita e priva di senso, un ritornello che rimbalzava innocuo tra le orecchie. Un rimpianto per il giorno successivo, al più. Se non ti lasciavi rapire dall’atmosfera era lei ad entrarti dentro, scavando fino a ricavare una camera di risonanza tra le tue costole. Il resto era conseguenza. Il resto era istinto trascinante, bisogno cieco di dimenticare, festa, pandemonio. Un bel sogno, all'indomani, svaporato nel beato vuoto dello stordimento.

Non basta ancora? C'è sempre la droga. C’era sempre, la droga, e non solo quella sintetica o il mix diluito di alcol e sciroppi. Tanto per dirne una, fare overdose di presenze che occupavano tutto il locale era perfettamente legale.

Presenze umane. Tutte quante.

A chiudere gli occhi le avvertiva intorno a sé con nitida chiarezza. Gli sguardi. I corpi. I battiti cardiaci, sincronizzati su un’empatia per mezzo del solo potere della musica. Gli odori, non sempre gradevoli ma naturali, organici: niente a che vedere con il lezzo stantio di sangue che accompagnava i Rasetsu in ogni dove.

Nessun diavolo in pista, stanotte.

Ce n’erano ancora a piede libero nella città, ovvio – non tutti erano scoppiati insieme al NEST. Per i gusti di Chandresh già quelli erano troppi, mostri sciolti e affamati che ogni tanto comparivano nella cronaca cittadina, prima di essere sommersi dalle nuove ondate di notizie. Guidati e resi folli da una voracità mai sazia.

Senza scopo. Senza motivo d'essere, se non ingozzarsi. Disgustosi.

Nel suo tempo libero ne aveva stanati a bizzeffe, lasciando solo cumuli di cenere dietro di sé, e per quanto riguardava la stampa... oh, beh. Qualcuno della Corte dei Miracoli doveva avere gli agganci giusti, per impedire che qualche spettrale foto delle furie bianche girasse le prime pagine dei giornali.

In ogni caso, Hijikata e i suoi avrebbero fatto bene a restare e aiutare a ripulire New York, considerò il demone, spostandosi lungo il margine della pista. Il bancone era da qualche parte oltre la curva di gente che ballava all’unisono. In onore dei vecchi tempi nella Shinsengumi. Perlomeno avrebbero disteso un po’ i nervi.

Niente di meglio di una caccia al mostro per risolvere vecchie diatribe. D'altra parte, era piuttosto sicuro che i loro problemi non si sarebbero risolti con tanta semplicità. In ogni caso, a quanto pare stanotte era l'unico essere  sovrannaturale a calcare la scena. Una faccia fra tante per la maggior parte dei clienti, forse appena un guizzo d’ombra per quelli che avevano alzato troppo il gomito. Certi umani erano più sensibili di altri, nel cogliere dettagli fuori posto.

Come quella ragazzina. Taneda. E non solo lei.

Un quarantenne con vestiti che supplicavano di essere restituiti all’Hot Topic da cui erano usciti gli sbarrò la strada, senza vederlo davvero. Chandresh prese nota dei dettagli, meccanicamente. Una nota di colonia a coprire malamente l’esalazione di sudore e una puntina di lingua ad umettare il labbro superiore, impolverato di zucchero di canna. Muscoli costruiti con integratori. Occhi castani, fissi sul gruppetto di ragazze in abitini di lycra e micro shorts, ignaro, che ballava ad appena uno sguardo di distanza.

Senza disturbarsi a rallentare, Chanda si infilò tra le sue spalle e il muro e si attardò a serrargli una mano alla nuca. Lo sentì risucchiare un brusco sussulto ancora prima che il bicchiere mezzo vuoto sfuggisse dalle dita pallide, al solo contatto con la sua pelle fredda. Strinse. Una pressione minima per lui. Per l’uomo era l’equivalente di una pressa meccanica.

«Checcazzo?! Ma che cazzo sta — lasciami! Che ti dice il cervello?! Sicurezza! »

Chandresh si abbassò sulla sua spalla, trovando il profilo altrui con un respiro.

«Hai una pastiglia in tasca e più le guardi, più farla scivolare nel drink che offrirai ad una di loro ti sembra una buona idea. Vogliamo dire questo, alla sicurezza?», chiese, affondando pigramente le unghie con una torsione del polso. Al piagnucolio sconvolto che ottenne di ritorno, lo scrollò. «Immaginavo. Mettiamola così: se ti vedo girare attorno a loro, se te ne porti una in macchina, lo verrò a sapere. E allora ti scopriranno in un cassonetto, strozzato su qualcosa che, a quel punto, non ti mancherà per niente.»

Lasciò la presa, allontanandolo con una spallata. L’uomo barcollò e si tastò la nuca, goffo, il volto una maschera di sudore – lo sguardo reso vitreo dalla confusione, non per la minaccia. La sua mano libera strisciò alla tasca dei jeans. Tastando. Cercando di nascondere il profilo della bustina di plastica che ne sporgeva.

Chandresh ne seguì il tragitto con gli occhi, li rialzò e glieli piantò in faccia, lasciandogli un millisecondo per imprimersi nella mente tutto – le pupille a fessura stagliate sul viola delle iridi, le ombre troppo nette che strisciarono giù dal muro a coprirgli le spalle e tutte le promesse di violenza celate nel loro rutilare.

«Lo saprò,» ribadì, la voce densa di un sibilo, mentre l’oltraggio gonfio d’alcol si dileguava da volto del suo interlocutore.

Il tempo di un respiro e l’uomo gli aveva già voltato le spalle, tagliandosi una strada a spinte tra i suoi simili, il corpo irrigidito dalla paura. Non si voltò indietro neanche una volta.

Chandresh si strinse nelle spalle e ritornò al suo obiettivo, pestando i cocci del bicchiere. Qualcuno sarebbe venuto a pulire le briciole, prima o poi.

Rafael avrebbe chiesto se ne fosse valsa la pena, a questo punto, pur sapendo benissimo la risposta: Certo che ne valeva la pena. Sprecava il mio ossigeno.

Il pensiero rese più acuta la mancanza del fratello alle sue spalle. Si immaginò la sua risata, il modo in cui avrebbe scosso la testa al suo tono svagato. ‘Eccolo di nuovo a svuotare l’oceano con un cucchiaio bucato’, avrebbe detto, allargando le braccia.

Dei, avrebbe voluto averlo vicino…

Non è qui. Dacci un taglio con questi pensieri, non aiutano. Scacciò la nostalgia. Forse un maniaco in meno non avrebbe fatto la differenza, ma almeno non si sarebbe spazientito nel notarlo con la coda dell’occhio, ancora e ancora. E comunque all’ambiente del locale non poteva far male, un po’ di pulizia.

Chissà se il suo bersaglio aveva realizzato di non aver scelto a caso il proprio nascondiglio, a proposito. Chissà se si era reso conto quanto, in realtà, il Cauldron si avvicinasse al tipo di luogo da cui Serizawa Kamo aveva selezionato i candidati per la sua armata sotterranea di Rasetsu. Troppo altolocato per la gentaglia e non abbastanza chic per chiudere fuori i corrieri della Corte, il loro estro avventuroso, la loro continua lotta per attestare il proprio posto in città. Aveva il sospetto che a Miki Mayfar quel paragone sarebbe volato dritto sopra la testa — ma si sarebbe divertita a ingaggiare la folla con tutta la panache di una californiana trapiantata dall’altro lato del Paese, memore di feste in spiaggia e Malibu, per nulla spaventata dal muoversi continuo della folla.

In effetti si sarebbe divertita un po’ troppo, per accorgersi che come ogni buon limen, anche il Cauldron nascondeva mostri.

Bastava cercare un po’, e occasionalmente guardarsi allo specchio.

Raggiunse il bancone con il drop della musica, accolto da una salva di acclamazioni. La bartender era una ragazza con un pixie cut di uno sfavillante biondo ghiaccio, palesemente tinto. Un elaborato orecchino le intrecciava un viticcio di turchesi attorno al padiglione sinistro, un gioiello da elfo urbano. Gli scoccò un’occhiata di apprezzamento, vedendolo appoggiarsi al bancone, fosse anche solo perché Chandresh si guardò bene da sprofondare gli occhi nel décolleté a spacco del suo top nero.

«Ti stai perdendo il meglio, honey,» lo avvertì, buttando un paio di cubetti di ghiaccio nel tumbler di metallo. «Sicuro che non vuoi tornare in pista? Ti tengo il posto per una canzone, se vuoi.»

«No, grazie. Fa troppo caldo, là dentro, e poi non amo ballare. Lascio volentieri il posto a chi se la cava meglio di me.»

«Posso tentarti con qualcosa di fresco, allora? Un Tequila Cooler? O magari un Daiquiri, se non sei uno di quelli che si fanno spaventare da un girly drink

Chandresh ammorbidì un sorriso solo per lei, incrociando le braccia. Per un paio di istanti si concesse il lusso di rimirarla – di osservarla davvero, passando dalla struttura gentile del viso alle sclere arrossate per gli effluvi continui di fumo, fino al rossetto trasformato in una sfumatura cupa da un capriccio di luce. Il Khol nero e l’ombretto non bastavano a celare occhiaie profonde e un pallore affaticato. La ragazza era esausta. Particolarmente abile a mantenere la sua facciata accattivante, sì, ma sempre esausta.

Sii gentile, si ammonì. Digerisce fin troppe stranezze su base quotidiana, per non parlare dei clienti stronzi. Un pizzico di cortesia fa molta strada.

Si schiarì la voce e prese fiato. La musica scelse quell’esatto momento per scendere in picchiata verso una bolla di sospensione.

« Vorrei Ibuki Ryuunosuke, per favore. Va bene anche senza bicchiere da cocktail.»


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| It's too late to say you're sorry |
say you're sorry still
I set out with heavy heart
|   to bail you out again  |

Un mese, due settimana e dieci ore dopo essere stato assunto, Ibuki Ryuunosuke stava scoprendo che non aveva poi accumulato tutta la robaccia che credeva. La sua scarna esperienza lavorativa occupava uno scatolone di dimensioni modeste. E nemmeno fino all’orlo: una scossa ben assestata avrebbe spianato il contenuto fino a ridurre l’ingombro della metà, stravolgendo il tetris di spazi vuoti ed effetti personali.

Una ben misera liquidazione, esattamente come la busta che il proprietario gli aveva ficcato tra le mani, prima di dargli il ben servito.

« ‘Stai lontano dal mio locale, non m’interessa in che banca vai a riscuoterli’», l’imitazione gli grattò la gola, acre di sarcasmo. Gli diede sui nervi anche così, ridotto ad un banale, strafottente falsetto – un fastidio che Ryuu sfogò sul cassonetto più vicino con un calcio. Il contraccolpo gli intorpidì la gamba e gli strappò una smorfia. «E chi cazzo ce l’ha, una banca di riferimento, brutto stronzo di merda?»

Oh, l’idea di ficcare nel water l’assegno con il suo ultimo, magro compenso gli era venuta eccome. Così come quella di lasciarlo sulla scrivania, sotto gli occhi arcigni del manager, per incassare invece la soddisfazione di suggerirgli dove infilarsi quel pezzo di carta. Non lo avrebbe ripagato di tutte le notti insonni passate a sgocciare birre, pulire i tavoli e sciacquare il vomito dai cessi, ma sarebbe stata una bella rivincita in cui affondare le zanne. Altro che uno stupido francobollo che gli dava diritto a udite, udite!  una piccola fortuna di ben 150 dollari e 73 centesimi.

Certo, poi sarebbe morto di fame per strada, dal momento che l’orgoglio ritrovato non lo avrebbe sfamato a lungo.

Si era preparato alla scottatura, ma quel pensiero sfrecciò tra una crepa e l’altra della sua armatura e lo colse alla sprovvista, bruciandosi una strada attraverso il malessere che gli serrava la gola.

Ryuunosuke deglutì e sollevò lo sguardo al cielo, obbligandosi a respirare a fondo.

È il terzo che mi butta fuori, porca puttana. Il terzo. La terza occasione sprecata, la terza opportunità di un inizio pulito andata in malora.

C’era stato un tempo in cui lo spettro della disoccupazione non lo avrebbe disturbato così profondamente. La sua incapacità di tenersi stretto un impiego era pressoché matematica, conseguenza di un caratteraccio e di scarsa gratitudine verso i buoni samaritani che decidevano di dargli una chance — ma allora era diverso. La sua posizione era diversa. Lo erano le sue preoccupazioni…

Come facevo? Come facevo a prevedere che sarebbe successo di nuovo? Io non… cazzo. Non è stata colpa mia.

Non potevo fare niente per controllarlo.

Il malessere salì a coagularglisi dietro la fronte. Non era la prima né l’ultima emicrania che avrebbe patito, scatenata dal ritmo sincopato della musica e dal volume troppo alto, ma il licenziamento si era portata via le ultime briciole della sua capacità di sopportazione. Tutto quello che gli venne in mente fu che non aveva alcuna voglia di trascinarsi nel suo microscopico monolocale, né di rintanarsi sotto le coperte aspettando lo sfratto. Non aveva alcuna voglia di essere forte, o ragionevole, o paziente. L’unica idea che gli sembrò accettabile era buttare a terra la sua roba e urlare.

E fu quello che fece.

Il saettare di un tuono sopra la città si portò via lo sfogo rauco  della sua voce. Il resto lo rubò il vento, e per tutta risposta Ryou gettò la testa indietro, alzò il tono e si spremette il fiato dai polmoni fino a sentirsi ardere il petto. Intenso dapprima, stridulo e rauco sul finire, come un volo di corvi. Nessuno l’avrebbe sentito all’interno del Cauldron, e anche fosse stato, che mai avrebbero potuto pensare? Che era arrabbiato? Pericoloso?

Che sono pazzo lo sanno già.

Avrebbe riso, se il sangue non avesse preso a martellargli tra le tempie. Il traffico, il rimbombo ottuso della musica del Cauldron — tutto si ridusse ad un ronzio indistinto. Rimanere in piedi d’improvviso era insopportabile. Ryuunosuke si lasciò trascinare sui talloni, alla ricerca del fiato perso, quindi in ginocchio. Ora gli occhi gli pizzicavano, e non aveva niente a che fare con la fitta che gli attraversava il capo dalla nuca alla fronte. Si prese la testa tra le mani, stringendola per tenerla tutta d’un pezzo, preso dall’infantile timore che potesse frantumarsi da un momento all’altro.

Almeno Serizawa aveva delle risposte.

Avrebbe dovuto fargli molto più male, quella considerazione; invece eccola, accovacciata a tendergli un agguato sotto allo sfinimento e all’amarezza. Traditrice. Melliflua, pronta a fargli scordare tutto ciò che aveva subito per mano di quel bastardo, in cambio della promessa di uno scopo. Una soluzione ai mal di testa sempre più frequenti, e al codice a barre che gli ardeva sulla pelle, decretando una serie di brividi che nemmeno il caldo riusciva a stornargli di dosso.

Serizawa avrebbe saputo dirgli da dove diamine venissero, i black – out, i tremiti, gli improvvisi vuoti allo stomaco e i rami d’insonnia che lo frustravano una notte dopo l’altra, mentre le lenzuola gli gelavano addosso, fradicie di sudore. Avrebbe riso di lui, l’avrebbe minacciato, spinto a rivelare i suoi punti deboli solo per colpirli con più forza del solito, ma se avesse voluto tenersi il suo maledetto Re avrebbe dovuto dirgli che cosa stava succedendo al suo corpo.

Dei, si era quasi tirato addosso il pentolino d’acqua calda, l’ultima volta che aveva perso i sensi. A svegliarlo era stato il dolore pulsante delle vesciche, e aveva dovuto passare cinque ore alla reception del pronto soccorso, aspettando cure che non erano mai arrivate. Si era rintanato a letto a leccarsi le ferite, in egual misura arrabbiato con se stesso e spaventato a morte, nemmeno Kita… Okita Souji… fosse venuto a suonargli il campanello in persona.

Era stata la prima volta che, la terra bruciata che la Corte dei Miracoli gli aveva creato intorno, si era fatta strada nel suo animo. Solo. Era completamente solo, aveva realizzato, e del tutto in balia di quegli attacchi. Se fosse caduto di faccia sul fornello, o annegato in vasca da bagno, nessuno sarebbe venuto a salvarlo.

A nessuno sarebbe importato.

Un prezzo accettabile per essere lasciato in vita, non era così che ti dicevi? Se questa si può chiamare ‘vita’…

Basta. Crogiolarsi nel vicolo sul retro del locale che l’aveva appena sbattuto fuori non aveva alcun senso, e non avrebbe risolto i suoi problemi. Ce l’aveva fatta fino ad ora. Si sarebbe inventato qualcosa per tirare avanti. Forse era ora di spostarsi dalla città, una volta per tutte. Con i soldi avrebbe potuto comprarsi giusto giusto un biglietto per uno dei tanti satelliti suburbani che orbitavano attorno a New York, correndo il rischio continuo di essere travolte ed inglobate nello sprawl metropolitano, e da lì... chissà. Si sarebbe fatto bastare qualsiasi lavoretto di bassa lega. Anche l’elemosina, almeno non avrebbe più dovuto preoccuparsi di finire sul radar della Corte, di essere allontanato dal territorio reclamato con la battaglia del NEST.

È una fortuna che non sia schizzinoso. La solitudine era un boccone amaro da digerire — aveva imparato a masticare di peggio. Si mise carponi e prese a raccogliere i ticket della metro a manciate, ficcandoseli in tasca senza guardare le date. E comunque ultimamente ho sempre la nausea. Almeno non butterò soldi in cibo, magari così riuscirò a risparmiare abbastanza per spostarmi ancora.

Fece un rapido punto della situazione, chino sul suo povero bagaglio. Non gli importava granché della cassetta di latta capovolta sul cemento, né del portafogli sgualcito per il modo brusco con cui il manager l'aveva maneggiato, sfilandone il pass del locale. Li raccolse lo stesso, meccanicamente, ponderando l’idea di abbandonarli nel cassonetto più vicino. Non gli servivano, erano solo un ingombro — e allo stesso tempo, lasciarli alimentava il malanimo di dover ricominciare da zero. La felpa dello staff, ecco: quella poteva tenersela, gliel’avevano praticamente tirata dietro. Sarebbe stato grato di poter contare su uno strato più, una volta tornato l’inverno…

E questo?

C’era un occhio, in mezzo ai biglietti.

Ryuunosuke esitò, spiando il pezzo di carta tra i tanti con le braccia ingombrate di cianfrusaglie. No, non si era sbagliato: c’era davvero un occhio. Il disegno di un occhio, perlomeno, e un accenno di linea che suggeriva il profilo di un viso.

Come c’è finito, tra le mie cose? Si lambiccò il cervello, cercando di ricordare se qualcuno dello staff avesse un minimo di senso artistico — e se si fosse mai preso la briga di parlarne con lui. Mise da parte felpa, scatola e portafogli, lasciandoli cadere nello scatolone.

Perché sono sicuro di non averlo fatto io.

Almeno… credo.

Lo raccolse. Una fitta di delusione gli fece stringere le labbra: il bozzetto non si estendeva oltre quei pochi segni a matita. A qualunque viso appartenesse quello sguardo, si dissolveva in niente di fatto. Per di più, a forza di sfregare con i bordi sgualciti dei ticket, la grafite si era diffusa in brutte sfumature che parevano aloni di sporco, rovinando l’effetto generale. Era un fantasma, una brutta copia, né più né meno come lui. Incomprensibile e… e…

Azzurro.

Il formicolio cominciò a salire. Quando era iniziato? Non avrebbe saputo dirlo. All’improvviso ne era acutamente consapevole; lo sentì arrampicarsi dalla bocca dello stomaco al petto, e diramarsi alle spalle, le dita, portandosi dietro una certezza. Azzurro. Era sicuro che l’unico iride stagliato sulla carta fosse azzurro, terso e limpido come un cielo sgombro. Come il ghiaccio in controluce...

Come una lama.

«Ti conosco?», soffiò, lisciando una piega nella carta. «Ti ho già visto?»

Dov’è che ti ho visto, soprattutto? E perché salti fuori solo ora?

Sarebbe rimasto a fissare quello scampolo per un tempo interminabile — anche questa consapevolezza se la sentiva addosso, sprofondata sotto il mal di testa e le gambe che pulsavano per la posa contratta. Fu la porta, il suono del maniglione che veniva schiacciato dall’interno per aprirla, a strapparlo dalla spirale discendente dei suoi pensieri.

Ryuunosuke scattò in piedi come una molla, barcollando appena per il capogiro che gli saettò lungo la schiena, minacciando di sottrargli l’appoggio. Lo scatolone rimase a terra dove l’aveva lasciato. Era pronto a correre via con il disegno stretto nel pugno, e nient’altro.

«Me ne sto andando!», sbottò, arretrando di qualche passo. «Che c’è, mi è proibito restare perfino nel retro, adesso? Volete sguinzagliarmi dietro il buttafuori?»

«Spero proprio di no,» rispose una voce maschile. Aveva un’intonazione lievemente musicale, di velluto, a solleticare le sillabe. «Vorrebbe dire che ho fatto una pessima impressione sulla bartender.»

Un campanello di allarme prese a squillare nelle orecchie di Ryuu. Stagliato sotto la luce spiovente dei lampioni, il nuovo arrivato era una sagoma nera ritagliata sul tessuto stesso della notte, come se la sua stessa presenza bastasse a far concentrare le ombre in un unico punto cieco. Ricci neri scomposti da un refolo di vento umido di pioggia, mani infilate nelle tasche dei jeans, la schiena dritta a mantenere alto il capo.

Occhi di un soffice viola pervinca lo scrutavano, seri.

Ryuunosuke si umettò le labbra, ogni nervo invaso dalla tensione.      

«Shiranui?», chiese, pur sapendo che era la supposizione sbagliata. Shiranui Kyou si vestiva di strafottenza e aggressività. Era mercurio e frenesia. L’uomo davanti a lui, a confronto, non aveva paura di rimanere fermo. C’era un che di altero nella sua postura, un controllo che gli fece immediatamente pensare alla silenziosa immobilità di un serpente: distaccato dal mondo solo in apparenza.  Il sorriso che gli curvò le labbra gli contagiò lo sguardo di un baluginio divertito.

«Andiamo, Ibuki. Ti sembro giapponese?»

È l’altro.

Oh, li aveva visti più di una volta alla Corte, prima che il manipolo di senzatetto e vagabondi che la abitava diventasse un esercito. Andavano e venivano a piacimento, senza fermarsi per più di qualche ora, e qualunque tentativo di fermarli e interrogarli si era risolto in un nulla di fatto. Le guardie non facevano in tempo a mobilitarsi che erano già spariti. Lui e l’altro, l’uomo con i capelli rossi e le scintille sulla punta della lingua. L’Ombra e il Fuoco. I Dioscuri, li aveva ribattezzati Ruth, quando era ancora viva. Lei e la sua dannata passione per la mitologia. Per loro, Ryuunosuke aveva trovato tutt’altro nome, dopo averli visti combattere contro i Rasetsu del NEST.

Mostri.

«C – credevo che tu e quell’altro ve ne foste andati.»

Ombra non disse niente, limitandosi ad avvicinarsi. Fece girare un’occhiata sullo scatolone e il suo povero contenuto, quindi sui biglietti che venivano portati a spasso dal vento. Le prime gocce di pioggia cominciarono a rimbalzare sulle grondaie, pesanti, esasperate dall'attesa tra le nubi.

Ryuunosuke ripassò mentalmente le sue possibilità. Lo sbocco sulla strada principale era oltre il demone, quindi impraticabile. La escluse. I cassonetti alle sue spalle, per contro, offrivano l’appoggio perfetto per guadagnare in altezza e svignarsela sul tetto, o rientrare nel Cauldron da una finestra. Avrebbe potuto seminarlo tra la folla prima che riuscisse a prenderlo. Si aggrappò al pensiero, senza riuscire a trarne davvero una rassicurazione.

«Ti mandano quelli?», incalzò, serrando i pugni. Lo scricchiolio della carta stropicciata gli fece saltare un battito nel petto. Non voleva rovinare il disegno, ma tra quello e difendersi, la priorità era chiara. «La Corte? Che c’è, hanno cambiato idea e hanno deciso che vado meglio morto?»

«Non vedo la Regina e i suoi accoliti da un paio di mesi, proprio come te.»

«La Shinsengumi, allora.»

Di nuovo, gli occhi di Ombra presero quel riflesso di luna. Ilarità minima.

«Hijikata - san è un demone, è vero,» mormorò, fermandosi ad un paio di passi da lui. «Ma non basta la sua nomea, a farmi prendere ordini da lui. Ha ucciso con le sue mani innumerevoli uomini: se volesse eliminarti, penso che non si farebbe molti scrupoli a venirti a cercare di persona. Non è uno che la manda a dire, ti pare?»

Ryuunosuke tacque, a corto di supposizioni e preso in contropiede dal tono serafico dell’altro. La paura di farsi attirare in un falso senso di tranquillità continuava a tallonarlo, azzannandogli la nuca. Aveva il sospetto che avrebbe dovuto mettersi a correre già da un pezzo — e ora quella finestra d’opportunità era persa, svanita.

Ombra osservò l’angolo di carta che sbucava tra le sue nocche e rialzò gli occhi verso di lui. Solo gli occhi, per qualche secondo. Osservando. Leggendogli addosso la diffidenza, la stanchezza, la confusione. Il silenzio tra loro si raddensò, scomodo, scevro di appigli.

«Sto per partire,» disse il demone, quando ormai Ryuunosuke si era convinto che sarebbe morto così, spogliato strato dopo strato di tutti i suoi livelli di protezione e abraso dall’attenzione esagerata che lo avvolgeva. «La città può guarire anche senza bisogno che pattugli le strade, alla ricerca di Rasetsu da abbattere. Non ho niente da offrirle, e lei non ha nulla da darmi in cambio. Così come non ha più riserve per te, Ryuu.»

«Ibuki. Non chiamarmi Ryuu. Non ti conosco nemmeno, non permetterti di prenderti la confidenza di  »

«Ibuki, va bene. Vuoi venire?»

Ryuunosuke sgranò gli occhi, interdetto. La sua bocca ricalcò senza voce la domanda, un paio di volte, prima che riuscisse a strappare un minimo di fiato alla sorpresa.

«I  io? Con te?»

Un singolo battito di palpebre, paziente.

«Perché io? Perché — senti. Senti, stai scherzando, vero? Mi prendi per il culo.»

«Mai stato così serio.»

«Io. Venire con te.»

«Ti farebbe bene. Un cambio di prospettiva, un po’ di aria fresca…» Ombra si strinse nelle spalle, ogni traccia di sottile divertimento svaporata dai suoi lineamenti fini. «Forse riusciresti perfino a capire perché, da un po’ di tempo a questa parte, ti senti morire ogni volta che ti guardi allo specchio. Perché ti svegli con la memoria a brandelli e la sensazione di aver perso qualcosa per strada, senza riuscire davvero ad identificare cosa sia.»

Un passo avanti, poi due. Mentre il demone chiudeva lo spazio tra loro, Ryuu pensò confusamente che ecco, quello era il momento in cui l’avrebbe colpito — perché ucciderlo, l’aveva già ucciso a parole. Il suo corpo si tese indietro, spontaneo, irrigidendosi nel prevenire l’impatto. Serizawa l’aveva sferzato così tante volte che i suoi muscoli avevano dimenticato il tempo in cui non erano stati perennemente improntati alla fuga.

Ombra gli torreggiò sopra. Era più alto di lui di tutta la testa, affatto imponente - di fianco ad Amagiri o all’ex capo della Corona Boreale sarebbe sembrato ben poco possente. Snello e asciutto, come se l’esperienza gli avesse levigato di dosso le asperità, come se gli avesse scavato dentro un ricettacolo per le ombre. Era come lui, e al tempo stesso differente. Un vessillo, un mutaforma, una lezione in fluidità. Gli prese la mano. Se avesse impresso forza, nella stretta, Ryuunosuke si sarebbe ribellato all’istante  ma la pressione delle dita altrui gli lasciava il margine della scelta. Fece diventare sua la decisione di alzare il braccio, polso in su. Sua, la decisione di aprire le dita attorno al disegno. Impugnare le proprie azioni era intollerabile. Abbassò lo sguardo, incapace di sostenere gli occhi viola del demone.

Ombra lo lasciò andare, facendo un passo indietro. Rimasero così, a distanza di un soffio, con quel profilo di carta e matita frapposto tra loro.

Dal palmo della sua mano, l’occhio disegnato li fissava di rimando, studiando ogni loro mossa.

Ti conosco? Ti ho già visto?

Ryuunosuke premette le labbra.

«Dove andiamo?», si sentì chiedere. Intuì il sorriso del demone senza vederlo.


«Chissà.»

 
| Heart is beating heavily |
there's blood in your ear though
Blood on your shirt

|   Get out, get gone |
this town is only gonna get worse
Get out, get gone
this town is only gonna eat you




TKAK1


[tbc]


Note d'autore:

Un aereo? Un miraggio? No, è la Kei che fa slalom per non studiare, same old, same old. Ebbene sì, sono qui. EFP si è riempita di pubblicità a pop - up che non mi entusiasmano per niente, fa caldo e spotify mi dà suggerimenti per i prossimi capitoli. Madò, giusto per dire che niente cambia, mhn?
Brutte battute a parte, salve, salvino, sì, sono tornata - pressappoco. Nell'avviso di conclusione di Derail I - Afterdark. Rebirth, nonché in diverse risposte alle recensioni (a proposito, ancora grazie, siete dei tesori <3 ogni tanto apro la pagina e mi ritrovo nuovi commenti e un po' mi commuovo), avevo detto che non avrei proseguito la serie. Chiudere la long che mi ha accompagnata per tutto il periodo trascorso nel fandom doveva servire a dare un senso di wrap - up. Per legare i fili sciolti e dare uno scopo (ahah) a quattrocento pagine che, altrimenti, sarebbero rimaste a fermentare nel mio hard disk. Derail I preventivava un sequel, io un po' meno. Non mi sembrava un'idea fattibile, mi sentivo distaccata dai personaggi, non ero soddisfatta di un numero di buchi di trama, eccetra eccetra.
Ebbene, come potete notare dall'imperfetto, ho cambiato idea. Più o meno. Sono stati parecchi a chiedermi se prima o poi avrei portato avanti un sequel, e l'idea ha lentamente preso consistenza. Mi è tornata la voglia di provarci, e vedere un po' che ne esce fuori  — per divertimento, per soddisfazione personale, per completismo, e chi più ne ha più ne metta. E giusto per rimettermi in carreggiata, ho pensato di portarvi questa mini long (programmo massimo 2 - 3 capitoli) che vede come protagonista un personaggio su cui, nel finale scorso, è rimasto un gigantesco punto di domanda. Il caro cagnolino rissoso, sì. L'ho abbandonato a se stesso, dunque perché non affiancargli un'altra faccia piuttosto enigmatica?
Come si può notare la voce narrante non è quella di Miki Mayfair, non ancora, e la Shinsengumi non è in scena di per sé. Aspettano all'orizzonte, ma non vi dirò di più. Non vorrei spoilerare l'inusuale road - trip che Ryuunosuke si appresta ad affrontare in compagnia di Chandresh. Che dire? Non ho la più pallida idea di quando aggiornerò - spero a breve, complice la facilità con cui ho steso il capitolo e la finestra post - sessione di luglio. Colgo l'occasione per ringraziare tutti coloro che, nel bene e nel male, mi sono rimasti accanto e anche a distanza di cinque (!!) anni dalla primissima stesura di questa serie, da quando Derail era una modesta bozza in quello scatolotto del pc fisso. Se D. è tornata è anche grazie a voi. Sono ansiosa di sapere il vostro parere - sulla premessa, sui personaggi, sullo stile che spero sia perlomeno maturato un pochino. 
Alla prossima <3



   
 
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