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Autore: Daphne93    18/06/2017    5 recensioni
[Dal testo] "Mio dolcissimo Daryl", continuò piano, l'amato nome di suo figlio riecheggiante nella sua cassa toracica, " Ci sono legami che tengono unite le persone per sempre, anche quando ci sembra di essercene dimenticati o quando siamo lontani gli uni dagli altri o quando...si muore"
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Carol Peletier, Daryl Dixon
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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"Mamma!...Mamma!"
La voce di una piccola figura si levò nell’oscurità di un’angusta camera da letto.
Vi riposava una donna, gli occhi azzurri dalla forma allungata, le labbra sottili leggermente socchiuse e tese a rivolgere un sorriso a quella stessa figura che era rimasta immobile e silenziosa.
"Ehi! Che ci fai sveglio a quest’ora?", domandò la donna mentre, con la mano ossuta e dalla pelle troppo rovinata per un’età di soli trentacinque anni, cercava nel buio l’interruttore dell’abat jour posizionata su di un comodino accanto al letto.
"Non...non riesco a dormire...", rispose piano la voce sottile nell’istante esatto in cui la donna premeva sull’interruttore e la luce che lentamente si irradiava nella stanza attribuiva finalmente un volto alla medesima voce: si trattava di un bambino di sei anni, gli stessi occhi marini della donna, le medesime espressioni del volto.
"Oh, vieni qui! Andiamo!", esclamò lei invitando il piccolo a raggiungerla nel letto.                                                           Del resto, Lana Finch e il suo secondogenito avevano sempre amato trascorrere le notti abbracciati l’uno all’altra, sempre intenti, madre e figlio, a scrutare i rispettivi lineamenti tanto delicati e tanto simili. Da quando Lana si era ammalata, poi, da quando le sue ciocche di capelli biondo cenere avevano cominciato a cadere una ad una e il suo corpo sempre più emaciato ad appassire inesorabilmente, da allora la connessione con suo figlio, unica ed indescrivibile fin da quando egli era stato concepito, era divenuta ancor più salda, speciale.
"Mamma?", domandò il bambino dopo essersi sistemato accanto alla donna e dopo aver nascosto nel cuscino parte del volto paffuto. "Mamma?", ripeté, questa volta quasi in un mormorio.
Lana non rispose e piuttosto spense l’abat jour, avvolgendo con un gesto ampio e lento del corpo suo figlio in un caldo abbraccio.
Conosceva tutto di lui: ogni neo, ogni cicatrice, ogni gusto, ogni abitudine e ancor di più quel suo modo di chiamarla come per chiederle qualcosa, per poi invece rimanere in silenzio, perché era il solo esclamare "mamma" a farlo sentire al sicuro. A farlo sentire bene.
"Sono qui...", la sola cosa che si limitò a sussurrargli dopo qualche minuto di silenzio posandogli quindi un lieve bacio sulla guancia che non era sprofondata nel cuscino; fu solo allora che la donna si accorse di come questa fosse stata umida, rigata di recenti lacrime.
Chiuse gli occhi e sentì un peso montarle nel petto: odiava sapere suo figlio triste. I bambini, pensava, avrebbero dovuto sempre avere la gioia nel cuore e il sorriso sul volto.
Sospirò e si mise lentamente seduta sul letto, le mani dirette nuovamente verso l'interruttore.
"Cosa c’è che non va, Daryl?", chiese, attenta a mostrarsi tranquilla e pacata, seguendo la "zen-mode", filosofia di vita che aveva appreso da ragazza e che aveva insegnato ai suoi figli.
"Daryl…sai che puoi dire alla mamma qualsiasi cosa!", lo incoraggiò, decisa a far parlare il bambino che invece era rimasto fermo ed in silenzio, quasi come se non avesse voluto farsi notare più di tanto, lui, che, d'altro canto, fin da piccolissimo non aveva mai amato essere al centro dell’attenzione, preferendo di gran lunga osservare ed ascoltare, ma sempre nella penombra. 
"Il marmocchio è strano", era solito dire Will Dixon, troppo ottuso per capire che quel lato caratteriale Daryl lo aveva ereditato proprio da lui, suo padre. Lana, al contrario, era sempre stata quasi incantata dai silenzi del bambino, dal suo essere schivo nonostante la giovane età; amava questo lato di Daryl proprio perché era una delle poche cose in cui erano differenti, un aspetto della sua personalità che lo rendeva ancor più speciale e dolce.
"Merle…lui dice che ci lascerai...che andrai via per sempre...",cominciò piano ad un tratto Daryl rizzandosi lentamente a sedere e asciugandosi con il dorso della sua piccola mano gli occhi ancora umidi che si erano ridotti a due fessure, come gli succedeva spesso quando era emotivamente scosso, nel bene e nel male.
Lana rimase in silenzio a osservarlo e per un po’ fu come se ognuno riversasse il proprio azzurro negli occhi dell’altro, poi la donna prese un profondo respiro e "Mmm...tuo fratello ha ragione a metà", parlò senza meravigliarsi dell’espressione confusa che si faceva spazio sul volto del figlio.
"Vedi, io non andrò mai via da te e da Merle, mai!...Il mio corpo vi lascerà, sì, ma io sarò sempre con voi, Daryl...", spiegò con voce ferma ma delicata, quasi come fossero le note di una ninna nanna a venirle fuori dalla bocca.
Daryl aggrottò le sopracciglia, una piccola ruga sulla fronte a esprimere tutta la sua perplessità. "Se il tuo corpo non ci sarà, allora noi non potremo vederti, mamma!?", chiese ansioso di una risposta che in fondo già conosceva.
Lana sospirò e abbassò lo sguardo. Le spezzava il cuore dover spiegare a suo figlio, un bambino di soli sei anni, delle realtà così dolorose e così dure da accettare. Con Merle, il suo primogenito, non c’era stato bisogno di dire nulla: il ragazzino aveva capito subito ed era stato con la ribellione, con l’irrequietezza che aveva cercato di gestire quella situazione tanto più grande di lui. Merle aveva trasformato il dolore in rabbia, la rabbia in anestetico al dolore e proprio per questo aveva preso a maltrattare il piccolo Daryl: quanto più brusco fosse stato con lui, tanto più lo avrebbe protetto dal mondo nel quale a breve non ci sarebbe stato più posto per la loro madre. 
"No, caro…”, riprese a parlare Lana, “…non mi potrete vedere, ma…mi potrete sentire chiaramente! E non di certo con le orecchie!", esclamò lanciandosi con uno scatto a mordicchiare un orecchio di Daryl, strappandogli finalmente qualche genuina risata e beandosi della sua spensieratezza dell’infanzia che sapeva, a malincuore, sia lui che Merle avrebbero perso prima del previsto.
"No, non con le orecchie, Daryl...ma con questo...".
Daryl spostò gli occhi in basso, verso il proprio petto: era in un punto preciso che Lana gli aveva posato l’indice, lo stesso punto che sentiva battere all’impazzata mentre l’oceano negli occhi incavati di sua madre gli sembrava diventare di un blu sempre più intenso.
"Ci sono dei legami, Daryl, che non possono essere spezzati mai”, la voce della donna rotta dall'emozione, dall'amore che solo una madre poteva provare. “Sai, un po’ come quando tuo padre ti fa i nodi alle scarpe così stretti che non si riesce a scioglierli!", proseguì sorridendo, lottando però con il groppo che le si andava formando alla gola sempre di più: lei stava morendo e i suoi figli, da cui non si sarebbe mai voluta separare, sarebbero rimasti da soli, affidati unicamente alle cure di Will, non un uomo cattivo, ma di certo nemmeno un buon padre, nonostante lei avesse sempre cercato di dipingerlo ai suoi figli come tale.
"Mio dolcissimo Daryl”, continuò piano, l'amato nome di suo figlio riecheggiante nella sua cassa toracica, “Ci sono legami che tengono unite le persone per sempre, anche quando ci sembra di essercene dimenticati o quando siamo lontani gli uni dagli altri o quando…si muore", prese il volto del bambino tra le mani senza preoccuparsi di una lacrima solitaria che le correva su una guancia. "La tua vita, la tua essenza si intrecceranno indissolubilmente alla vita e all’essenza di altre persone che faranno sempre parte di te, Daryl, proprio come tu e tuo fratello fate parte di me e di vostro padre e noi di voi", si interruppe, un’altra lacrima. 
"Io...io non capisco, mamma...", balbettò Daryl un attimo prima che Lana, con ogni briciolo di energia che le era rimasta, lo stringesse forte a sé, come faceva con il suo aquilone quando da ragazza andava a giocare sul tetto di casa sua, nelle giornate di vento.
"Capirai, piccolo mio, capirai…", gli sussurrò posandogli il viso sul collo e bagnandolo delle lacrime che ora le prorompevano dagli occhi. "Abbi cura di tuo fratello, proteggetevi a vicenda e siate sempre buoni e gentili con gli altri, d’accordo?...Ti voglio bene, Daryl".
Fu un istante e Lana scomparve.
Le braccia di Daryl, pochi attimi prima strette intorno al corpo della donna, gli ricaddero in grembo, come se fino a quel momento avesse tentato di abbracciare una nuvola.
"Mamma! Mamma! Dove sei!?Mamma!"


"Mamma!!"
Un soffitto grigio e sei faretti led, tutto ciò che si presentava allo sguardo di Daryl Dixon, gli occhi spalancati fissi verso l’alto, il fiato corto, i capelli lunghi scompigliati sulla fronte imperlata di sudore.
"Cazzo!", mormorò tra sè e sè mentre, supino, vedeva il torace che ancora gli si sollevava ed abbassava a ritmo sostenuto, come quello del suo cuore.
Di nuovo quel sogno, di nuovo sua madre e una delle ultime conversazioni avute con lei prima che morisse. Aveva sempre visto come una grande beffa del destino, la prima di tante, il fatto che a portarsela via alla fine fosse stato l’incendio che era scoppiato nella loro casa e non il male che la stava divorando.
"Dannazione!", sussurrò sbuffando mentre lentamente cercava di trascinarsi fuori dal letto senza fare troppo rumore.
Non ci riuscì. Non ci riusciva mai, non era mai stato molto leggiadro nei movimenti e, nonostante la corporatura muscolosa, non aveva un portamento atletico.
"Amore...buongiorno!", una donna minuta, la voce sinuosa come il modo in cui si stava stiracchiando, fece capolino da sotto le lenzuola.
"Ehi...mi dispiace, ti ho svegliata...", le rispose Daryl provando un senso di disagio al pensiero di una domanda che non tardò ad arrivare. "Ti ho sentito chiamare tua madre...si tratta ancora di quel...?", "Vado a farmi una doccia!", la interruppe prontamente, restio a qualsiasi tipo di spiegazione che avesse avuto a che fare con il suo passato.
"Daryl...stiamo insieme da due anni, puoi fidarti di me!", esclamò la donna portando il suo corpo nudo completamente fuori dalle coperte e posando la sua cascata di capelli neri sulle spalle di Daryl seduto sul bordo del letto.
"Insomma, mi piacerebbe conoscere più a fondo l’uomo che ho davanti, l’uomo che amo...", proseguì baciandogli il collo e la schiena.
Era facile lasciarsi andare alle carezze di Janine, questo Daryl lo aveva capito fin dal loro primo incontro, ma ancor di più aveva capito come fosse stato facile abbandonarvisi ogni qual volta si arrivava a trattare di argomenti che a lui erano scomodi ed il sesso diventava allora automaticamente una specie di scappatoia da un vicolo cieco. 
"Vieni qui...", gli sussurrò più melensa la donna, accarezzandogli e arruffandogli i capelli, ma Daryl, le labbra sottili già alla ricerca delle di lei forme contenute e sode, per quanto fosse stato ancora una volta tentato di imboccare quella via di fuga, quel dolce espediente per non mostrare il proprio autentico ego, si trattenne: la realtà gli si andava delineando sempre più chiara.
"Vado a farmi una doccia…", disse di nuovo in un soffio a Janine posandole un rapido bacio sulla fronte e scostandosi da lei; quindi, si sforzò di ignorare l’aria delusa della donna e senza indugiare oltre si diresse verso il bagno, trovando un po’ di sollievo per la sua anima tormentata non appena l’acqua calda della doccia gli cadde sul viso e sul resto del corpo.
Trascorse nel bagno parecchi minuti, come se il vapore che si era creato nella stanza gli avesse creato un involucro protettivo e fu solo quando gettò gli occhi sull’orologio della radio che si trovava sopra un piccolo mobile bianco poco distante dal lavandino, che si decise ad uscire per andare a vestirsi e iniziare la giornata.
"Sono le nove, il panificio non ha sfornato da molto tempo…vado a prenderti la colazione...", parlò distrattamente mentre indossava una felpa grigia ed un paio di jeans scuri, il tutto sotto gli occhi cupi di Janine, rassegnata sempre di più alle distanze che l’uomo aveva di fatto sempre messo tra di loro.
Una sferzata di vento piuttosto freddo per il mese di ottobre schiaffeggiò il viso di Daryl, una volta che fu sceso in strada, e lo indusse a guardarsi intorno con rinnovato interesse: case, macchine, negozi, strumenti elettronici, scuole, chiese. A tre anni e mezzo dalla fine dell’epidemia il mondo sembrava aver ripreso la veste e il ritmo di sempre.
Tutto era successo in un giorno qualsiasi, quando, dopo anni di guerre, morte, dolore e devastazione, i vaganti avevano semplicemente iniziato a morire e senza un perché, senza preavviso, uno ad uno, in ogni parte del mondo, avevano cominciato a decimarsi fino a che di loro non era rimasta che una terribile, inguaribile cicatrice sulla faccia della terra. 
Lentamente l’uomo era tornato ad essere uomo, a riappropriarsi della propria civiltà bandendo lotte sanguinarie fra gruppi per il dominio del territorio; gli esseri come Negan avevano trovato la redenzione oppure erano stati uccisi e ogni cosa, giorno dopo giorno, mese dopo mese, era tornata sommariamente al suo posto. Daryl, invece, dal canto suo non si sentiva così fortunato: l’esperienza dei vaganti era stata oggettivamente spaventosa e tragica ogni oltre immaginazione, ma lui, forse perchè nella sua vita già aveva conosciuto la quinta essenza della violenza, a quel mondo marcio e putrido si era adattato, in esso aveva combattuto e alla fine era sopravvissuto. Non si era mai sentito, pertanto, in armonia con il processo di rinascita e di ricivilizzazione; non era mai riuscito ad ambientarsi davvero nel nuovo mondo, a liberarsi della malsana idea che vivendo in pace e tranquillità avrebbe fatto un torto a tutti quelli che durante l’apocalisse non ce l'avevano fatta, che sarebbe venuto meno al suo riscatto, al suo sentirsi in debito con la vita, al guadagnarsi, con la propria sofferenza, l’espiazione e la libertà dai demoni interiori. 
"Fanculo, Daryl!", imprecò a bassa voce contro sè stesso e contro tutta la gamma di pensieri che gli si accalcavano nella testa mentre attraversava un viale costeggiato da aiuole e svoltava a destra verso la sua destinazione. 
Impiegò poco più di venti minuti ad arrivare davanti alla Cisco’s Bakery, uno dei migliori panifici del quartiere, e una volta che fu davanti all’entrata, il gustoso profumo del pane caldo, della pizza e delle più svariate tipologie di biscotti lo inebriò restituendogli un po’ di buonumore.
"Buongiorno Daryl, come posso esserti utile, tesoro?". 
La signora Liv, proprietaria del panificio, settanta anni da poco compiuti, era una delle prime persone del "nuovo mondo" che Daryl aveva conosciuto e una delle persone più squisite che avesse mai incontrato in vita sua, nonché uno dei rarissimi individui a cui aveva permesso di avvicinarglisi a tal punto che l’arzilla signora lo trattava quasi come un figlio.
"Buongiorno Liv...i tuoi biscotti alla vaniglia e cannella andranno bene!", sorrise Daryl alla donna, colorandosi leggermente di rosso quando lei cominciò, come faceva sempre, a lodarlo di fronte a tutti gli altri clienti per il suo aspetto fisico e la profonda gentilezza.
"Ecco qui i tuoi biscotti, tesoro!", esclamò poi la donna una volta che ebbe impacchettato tutto ed ebbe restituito il resto a Daryl. "Nell’altra bustina, invece, ti ho messo due fette di pizza con il pomodoro, mangiale a pranzo!", aggiunse con una strizzatina d’occhio alla quale Daryl rispose con un lieve, sincero sorriso. Sorriso che con molta probabilità sarebbe durato per qualche minuto ancora se l’anziana donna non avesse fermato Daryl a due passi dall’uscita con un "Oh, caro? Se domani verrai troverai anche i cookies al cioccolato! Finalmente Samuel ha messo a punto la ricetta!".
Così gli aveva detto la signora Liv innocentemente, del tutto ignara di quello che però si sarebbe scatenato nell’animo di Daryl alla semplice parola "cookies".
"Si...", si era limitato a risponderle lui in un soffio prima di avviarsi a grandi falcate verso casa, nel disperato tentativo di liberare ogni fibra del suo essere da un volto che gli provocava una fitta al petto e da un nome di cui il solo suono gli faceva rizzare la pelle: Carol. 
In un attimo gli erano tornate alla mente Alexandria e l'immagine di una figura dal sorriso inimitabile, addosso un pullover celeste e una camicia a fiori rosa portati con estrema grazia. Gli erano tornati alla mente un vassoio di biscotti, di cookies, un paio di mani affusolate a prepararli ed infornarli e ancora gli era risuonato nella testa un “Sei ridicola”.
Ricordava precisamente il giorno in cui aveva detto a Carol quelle parole: si trovavano in veranda, lui stava sistemando la sua balestra e lei lo aveva invitato a farsi una doccia. 
“Sei ridicola”, ripeté piano tra sé mentre chiudeva le palpebre, come per tornare indietro nel tempo, su quella veranda , con Carol, colei a cui quel giorno, come tanti altri, avrebbe voluto dire molto di più che quelle due sciocche parole. Se c’era stato qualcuno ad essere stato ridicolo, quello era lui.
"Carol...Carol...", sussurrò senza nemmeno rendersene conto, in totale balia dei ricordi, assaporando ogni lettera di quel nome, lasciandosi trapassare dalle emozioni che a quello stesso nome erano legate e ognuna di esse gli arrivava al cuore come una pugnalata e come una carezza, come un veleno e come il suo antidoto.
"Carol...Carol...", disse di nuovo, le gambe in movimento senza la guida della mente troppo intenta a proiettare preziose memorie: una rosa Cherokee, un paio d’occhi cristallini, una ferita sulla fronte e un bacio a lenirla, una bambina divenuta vagante, un abbraccio, un camino acceso, una cena e di nuovo una rosa.
Poi, all'improvviso, negli occhi l'immagine di Rick e di tutti gli altri. Un pugno alla bocca dello stomaco tanto forte da togliergli il fiato. 
Perché li aveva lasciati? Perché aveva rinunciato alle uniche persone che avesse mai amato sul serio? 
“Devo lasciarmi alle spalle il passato…per me è troppo difficile farlo se ho voi con me”, aveva detto ad ognuno di loro quando, un anno dopo la fine dell'invasione dei vaganti, Rick e il resto della loro grande famiglia avevano deciso di iniziare una nuova vita tutti insieme nel Regno, rimanendo fianco a fianco, come avevano sempre fatto.
Ma lui no. Lui aveva avuto paura, era scappato.
Non aveva mai saputo spiegarsi perché lo avesse fatto, perché avesse cercato una nuova quotidianità a chilometri di distanza da loro, con una donna, Janine, che non era riuscito mai ad amare davvero, o almeno non quanto lo amava lei. 
Era scappato. Ed ora si ritrovava intrappolato in una vita che non gli apparteneva, passivo spettatore di tutto ciò che gli accadeva intorno, incapace di dimenticare, come per due anni si era obbligato a fare, gli affetti che aveva lasciato indietro, a cominciare dall’unica donna per la quale il suo cuore avesse mai battuto così forte da scoppiargli dentro.
“Se li lascio, se non sto insieme a loro, non dovrò mai dire addio”, si era ripetuto ogni giorno da quando era andato via, ma si era raccontato una menzogna e quella mattina, gli era bastato sentir parlare di biscotti perché la verità gli affiorasse nella coscienza con la forza di una tempesta.
Quando arrivò davanti casa, gli sembrò di aver camminato per ore, di aver pensato per ore.
“Sono così stanco...”, disse tra sé e sé espirando lentamente mentre saliva le scale e, arrivato al primo piano della piccola palazzina dove abitava, inseriva le chiavi nella serratura della porta.
Janine era rimasta a letto, dove Daryl l’aveva lasciata, ma ora indossava una vestaglia di seta verde e il suo sguardo era quasi completamente spento. Lei sapeva.
Le era bastato guardare Daryl negli occhi, quella mattina, per capire.
Anche Daryl sapeva.  
Passo dopo passo, la raggiunse fino ai piedi del letto, le porse la busta con i biscotti e la pizza e si fermò. Non una parola, non una carezza. Sarebbe stato troppo difficile, poi, lasciarla andare. 
Si guardarono dritti negli occhi per qualche istante, poi fu Janine a parlare. “Sii felice, Daryl…trova il tuo posto nel mondo!”

Sulla strada verso il Regno, il vento che colpiva il volto di Daryl era diverso. Sapeva di rinascita, di speranza. Anche Daryl si sentiva diverso e non potè fare a meno di domandarsi se fosse stato così che le persone si sentivano quando erano davvero libere.   
Ripensò al sogno che aveva fatto quella notte e alle parole di sua madre. Gli sembravano così vere ed autentiche ora e quasi ebbero il sapore di una profezia quando finalmente si ritrovò nelle braccia di Rick, Michonne, Aaron, Maggie e tutti gli altri. 
Lui era scappato, non aveva più dato alcuna notizia di sé né aveva voluto averne di loro, eppure in quel momento si trovava con ognuno di essi, accolto tra lacrime e sorrisi senza riserva alcuna. 
“La tua vita, la tua essenza si intrecceranno indissolubilmente alla vita e all’essenza di altre persone che faranno sempre parte di te”, gli aveva detto sua madre e così era successo: i suoi amici, quelli che ormai da anni erano la sua famiglia, tutto ciò che di buono c’era in lui a lui erano stretti da una corda senza forma e colore, una corda tanto potente da superare i confini del tempo e dello spazio.
D'altro canto, allo stesso modo anche il passato, Merle, il loro padre, gli abusi, Negan, i vaganti erano e sarebbero sempre stati indistricabilmente connessi al suo essere, a formare un legame indissolubile, anche se doloroso. Perché alle volte si poteva essere legati anche a ciò che ferisce e distrugge, a ciò che usura, anche se sua madre questo non glielo aveva detto, lasciando piuttosto che fosse la vita a insegnarglielo.  
“Oh mio Dio…”, un improvviso sussurro alle spalle di Daryl, ancora stretto nell'abbraccio incredulo e commosso di tutti i presenti, lo fece voltare di scatto.
E lo vide.
Più nitido che mai, gli si presentava davanti agli occhi l’altro grande legame di cui sua madre non gli aveva mai parlato o che lui, bambino, non aveva capito. Il legame con l'altra metà di sé. 
“Carol…”, disse in un impercettibile filo di voce, incerto se avesse parlato davvero o se, invece, quel nome fosse rimasto unicamente nella sua testa.
“Sono tornato…”, aggiunse dopo qualche istante in un bisbiglio simile ad un ringhio; gli occhi, due fessure abbastanza aperte perché colei che aveva davanti ne scorgesse l'infinità che vi si nascondeva dietro. Nessuno sapeva guardarlo fuori e dentro come lei sapeva fare.
“Non…non sei mai andato via, Daryl…”, mormorò Carol, la voce tremula, le mani affusolate ad accarezzargli, impazienti e delicate allo stesso tempo, ogni centimetro del volto.

"Mio dolcissimo Daryl, ci sono legami che tengono unite le persone per sempre, anche quando ci sembra di essercene dimenticati o quando siamo lontani gli uni dagli altri o quando…si muore".
Così gli aveva detto sua madre.
E lui, finalmente, aveva capito.
  


 
   


One Shot scritta per il "CARYL FANFICTION FEST - SECONDA EDIZIONE" della pagina Facebook CARYL ITALIA. Prompt: Legàmi
   
 
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