Serie TV > Sherlock (BBC)
Segui la storia  |       
Autore: Koa__    22/06/2017    8 recensioni
John Watson, un medico reduce di guerra finito nelle Indie Occidentali, cerca di sopravvivere a una vita di solitudine e senza un briciolo di avventura. Un giorno, John fa però un incontro straordinario e del tutto inaspettato. Nella sua monotona esistenza, entrano così Sherlock Holmes, pirata della peggior specie, e la sua stramba ciurma.
Genere: Angst, Avventura, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes, Victor Trevor
Note: AU, Lemon, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Let's Pirate!'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Le cascate di Reichenbach





Dopo aver remato in direzione dell’isola ed essersi tenuti sulla destra della baia (dove non si erano addentrati a causa della nebbia fitta), avevano lasciato la scialuppa su una piccola spiaggia ben nascosta da un gruppetto di scogli. L’organizzazione non aveva richiesto troppa fatica, era bastato assicurare la barca a secco e recuperare le bisacce contenenti vivande e quel rum che naturalmente s’erano portati. John si ritrovò ammirato dalla maniera in cui l’equipaggio si muoveva, tutti sapevano con certezza ciò che dovevano fare e non c’era affatto bisogno che il capitano desse ordini, dicendo loro come muoversi. Era come se ognuno fosse la piccola goccia di colore di un unico, grande disegno. Li aveva osservati lavorare con attenzione, seppur con amarezza crescente e nel contempo non aveva fatto che domandarsi se mai, un giorno, sarebbe stato davvero parte di tutto quello. Sarebbe riuscito a interagire con tutte quelle persone come se le conoscesse da sempre? Gli era già capitato, in passato, di sentirsi membro importante di un qualcosa. Prima nella sua casa d’infanzia, forse più simile a un nucleo disorganizzato di persone che un focolare unito, e poi nell’esercito che probabilmente a tutt’oggi rimaneva la famiglia più affettuosa e partecipe che avesse mai avuto. Ecco cos’erano, quegli uomini. Persone abituate a stare insieme e che si conoscevano tanto bene, da poter considerare l’altro al pari di un fratello. E non importava non ci fossero legami di sangue. Si sarebbe mai fidato tanto? Se sino a pochi giorni prima gli avessero posto quella stessa domanda, avrebbe certamente risposto che col tempo si sarebbe abituato alla vita in mare e ad avere a che fare con la ciurma. A oggi, però, non sapeva proprio dire che cosa ne sarebbe stato del suo futuro a bordo. Con Moriarty in circolazione e pronto a tutto, che gli sarebbe successo se Sherlock fosse morto? Era una problema da nulla e alquanto sciocco, e lo sapeva. Tuttavia non poté non pensarci. Inquietato com’era dal silenzio nel quale il capitano era caduto da ore, infastidito dal broncio di Victor o dai grugni che di tanto in tanto Fortebraccio emetteva, John non riusciva a rimaner sereno. Stava seriamente per crollare in più approfondite riflessioni quando, per sua fortuna, una prepotente spallata da parte di dita di ferro, lo ridestò.
«Andiamo, dottore» mormorò Angelo, ovvero il cuoco più pesantemente armato che avesse mai visto in tutta la vita. Poi, questi sparì nella foresta seguito dagli altri.

I marinai avevano la tendenza a cantare. Aveva notato che lo facevano piuttosto spesso mentre erano in mare e operavano sulle sartie, ma anche quando dovevano svolgere mansioni di mantenimento come pulire il ponte. Stando alle spiegazioni di Mastro Stamford, oltre che a essere un ottimo passatempo, cantare li rassicurava. Dava loro un ritmo e il ritmo influenzava il lavoro, rendendolo più omogeneo. Quasi agissero meglio unicamente per un paio di strofe intonate. Stranamente, gli uomini de la Norbury cantavano anche quando non erano in navigazione. Era stato dita di ferro, a cominciare. Una volta inoltratisi nella fitta boscaglia, ogni pirata aveva seguito il cuoco in un coro mormorato a bassa voce, da alcuni soltanto accennato come fosse una preghiera. Proprio come faceva Sherlock, il quale si limitava canticchiare tenendo serrate le labbra, distrattamente partecipe. Era un coro che, doveva vergognosamente ammetterlo, John aveva seguito a stento. Per la durata dell’intero tragitto dalla spiaggia a quello che sarebbe stato il luogo in cui trascorrere la notte, non aveva fatto altro che studiare le espressioni e i movimenti del capitano. Sherlock appariva piuttosto sicuro di sé, forse persino troppo. Nessuno aveva azzardato a domandargli come facesse a conoscere la strada da fare, dato che la mappa era molto imprecisa a riguardo o come potesse dirsi sicuro del fatto che Moriarty non li avrebbe sorpresi in un’imboscata, tradendo l’appuntamento dato per la sera del giorno successivo. Si era limitato a dar loro poche e imprecise informazioni, quasi dando per scontato che tutti lo avrebbero seguito senza batter ciglio. Cosa che era avvenuta, in effetti e come spesso accadeva: era molto raro che uno di loro si azzardasse a ribattere. Persino lui, sebbene di malavoglia, aveva abbassato la testa e si era messo a camminare dietro a Victor, facendosi largo tra la fitta vegetazione e mordendosi le labbra a forza per non porre domande stupide. Erano andati avanti a quel modo per molto tempo, procedendo a rilento perché ostacolati da rami e foglie. Fino a che, del tutto inaspettatamente, il capitano si era fermato. Aveva letteralmente bloccato il proprio passo nervoso, prima di voltarsi con uno scatto violento e puntare proprio in sua direzione. Per lunghi e spaventosi attimi lo aveva fissato, studiandolo con occhi piccoli e affilati in un’espressione rabbiosa e nel contempo le labbra gli si erano strette in un ghigno spaventoso. “Smettila di pensare così rumorosamente” aveva gridato mentre in John nasceva il dubbio di essersi lasciato scappare una qualche parola senza volerlo. Come si poteva fare rumore pensando? Si chiese, prima che gli occhi di tutti si posassero su di lui e questi prendessero a fissarlo con fare interrogativo. Che fosse il solo a farsi venire certi dubbi? O ad avere paura che Sherlock si stesse sbagliando? Che stessero andando incontro alla morte? Che Victor e tutti quanti si fidassero così tanto del proprio capitano da non mettere in ballo simili questioni unicamente per rispetto? E se, in questo senso, poteva accettare il disinteresse di Angelo e della ciurma, colui che comprendeva meno di tutti era Victor. Quante volte il prete gli aveva detto di amare il capitano? Che Sherlock era la persona più importante della sua vita, e ciononostante permetteva che rischiasse la vita a quel modo? Non lo poteva davvero accettare e avrebbe preso a pugni tutti quanti pur di farli rinsavire, e far capire loro quanto pericolo fosse giocare con la morte. Queste erano cose che già si era chiesto nel corso delle ultime settimane, ma sempre si era ripetuto che il rapporto che legava quelle persone a capitan Holmes era invidiabile e speciale perché tanta fede riposta in un unico uomo, era incredibile. Ora, però, con la paura di James Moriarty e di un atto scellerato e suicida a terrorizzarlo, John iniziò a domandarsi se non fosse giunta l’ora di ribellarsi. Se non fosse necessario imporsi sul capitano, per evitare che si facesse del male. Anche se aveva promesso che lo avrebbe lasciato procedere come desiderava, obbedendogli incondizionatamente e anche se sapeva di dover onorare la parola data, sentiva di dover render maggiore giustizia al proprio cuore.

In risposta a tutti quei dubbi e quasi gli avesse letto dentro nella mente, il pirata bianco indurì appena le espressioni e dopo essersi drizzato meglio su se stesso, prese a parlare.
«La tua mappa è fastidiosamente imprecisa» esordì mentre impugnava la sciabola, con la quale aveva tagliato la vegetazione che lo intralciava e la conficcava nel terreno. «La X indica il punto dove scavare, ma molto approssimativamente. Considerati i picchi e gli avvallamenti, oltre alle caverne che scendono in profondità, questo tesoro potrebbe trovarsi ovunque. Sulla spiaggia così come sulla montagna più alta.»
«E quindi dove diavolo stiamo andando?»
«Al fortino, mi pare ovvio. Credo sia il posto migliore da cui cominciare, anche perché è vicino al segno sulla carta.»
«Fortino?» replicò, aggrottando le sopracciglia. Sapeva per certo che non c’era la civiltà in quel posto sperduto di Dio. Se così fosse stato, tempo addietro non sarebbe stato costretto a remare sino a largo, rischiando di morire di sete, nella speranza di trovare una nave che lo prendesse a bordo. L’aveva battuta palmo a palmo, quella dannata giungla e non c’era niente di niente, tanto meno delle costruzioni europee.
«Un fortino spagnolo di più un secolo fa, venne assaltato dai francesi che in seguito lo occuparono. Fu poi raso al suolo dal Corsaro Nero un paio di anni fa e a esser sinceri non ne ho mai compreso la ragione. Mi son sempre chiesto per quale assurdo motivo avesse rischiato la nave e l’equipaggio per conquistare un forte su un’isola deserta, ma poi sei spuntato fuori tu e tutto è diventato più chiaro» disse indicando un John che non si preoccupava affatto di non dar di sé l’idea di esser confuso. «Ammetto di averci messo un po’ a collegare tutte le parti, ma quando ho capito... Ah! Questo mistero, Watson, grazie. Grazie davvero» concluse, esultando e saltando al pari di un fanciullo.
«Sherlock, amore mio» intervenne a quel punto Victor, facendosi più vicino al capitano e tanto da carezzargli appena il dorso di una mano, che prese quindi tra le proprie, forse in un tentativo di calmarlo. Geloso? No, non era affatto geloso. Quei due erano come fratelli, non aveva motivo di esser astioso o di nutrire sentimenti di possesso tanto profondi, e poi era il momento peggiore per pensare a certe cose. No, non era geloso. Proprio no.
«Caro, parla la nostra lingua perché nessuno ci ha capito niente del tuo discorso» aggiunse il prete con un fare accondiscendente che, al contrario di quanto sperava, riuscì a far irritar ancora di più Sherlock. Per quanto da settimane gli ripetessero che il capitano aveva un carattere bizzarro e particolare, John non lo aveva mai visto così tanto nervoso. Teso e imbarazzato sì, probabilmente anche agitato e maldestro, ma non tanto di cattivo umore. Per un istante si convinse che sarebbe esploso dalla rabbia o che avrebbe ucciso qualcuno. Non successe, per fortuna questi si limitò a prendere il cappello tra le mani e a ravvivarsi la zazzera di ricci, prima di prendere a parlare. Era un gesto che gli aveva visto fare spesso, era come se lo aiutasse a racimolare le idee o a placare l’animo. E infatti, poco dopo, prese a spiegare con inaspettata pacatezza e con una tranquillità che nessuno si sarebbe mai aspettato.

«Ad Antigua» esordì, annuendo appena «una delle prime cose che il dottore mi ha detto è che l’uomo da cui ha… avuto la mappa» proseguì gesticolando vistosamente, dopo aver indugiando appena. Non era propriamente andata a quel modo, ma doveva esser stato indeciso sui termini da usare, credette John. In parte era anche vero, sorrise. La mappa l’aveva “avuta” dal vecchio, anche se in un modo molto poco convenzionale. «Insomma, la persona che lo ha trascinato in tutto questo era un certo Joe, che in passato aveva servito per il Corsaro Nero. Egli diceva che Morgan era ossessionato dalla ricerca di un famigerato tesoro e che, dopo mille peripezie, era riuscito a venire in possesso di una mappa. * Questa mappa» proseguì, agitando davanti al naso del prete un foglio di carta arrotolato. «Io credo che il Corsaro Nero ricordasse come fare per trovare questo posto, ma che non avesse idea di dove fosse stato sepolto l’oro, dato che Joe si era già ammutinato. Per questo è venuto qui, ha assaltato il forte, lo ha raso al suolo e dopo aver cacciato i francesi, si è messo a cercare.»
«Questo vuol dire che dovremo vedercela anche con lui oltre che con Moran e Moriarty?» grugnì invece Fortebraccio, brandendo la lama che teneva tra le mani e che prese ad agitare con maggior vigore. Come se non desiderasse altro che menare le mani.
«Affatto, Morgan è lontano da qui e non credo tornerà mai su quest’isola.»
«Per quale ragione ha rinunciato? Insomma, non è da lui. Sempre che non l’abbia già trovato, in questo caso sarebbe sensata la sua ritirata» sbottò invece Victor, meditabondo.
«Sono sicuro che il Corsaro Nero non abbia trovato un bel niente. Se lo avesse fatto, Moriarty non sarebbe qui oggi, così come non sarebbe stato qui nemmeno la notte in cui è morto Joe. Ma non è questo il momento di perderci in chiacchiere, andiamo! Dobbiamo accamparci prima che faccia buio.» Detto questo e senza preoccuparsi di fornire una qualche spiegazione a riguardo, Sherlock Holmes recuperò la sciabola e riprese il cammino. Senza più avanzare domande o dubbi, uno a uno tutti quanti gli si accodarono pazientemente. Al calar del sole già avevano trovato un buon posto.


 
oOoOo


 
Durante i giorni di navigazione che avevano portato i pirati de la Norbury sino all’isola del tesoro, John Watson non si era impegnato poi molto per colmare il vuoto perenne del proprio “niente da fare”. Sebbene si fosse ritrovato più volte con le mani che prudevano per l’impazienza, a lungo andare aveva instaurato una sorta di quotidianità a cui si era affezionato. Le sue giornate si districavano piuttosto pigramente in un groviglio di ben poche occupazioni e con decisamente troppe cose alle quali pensare. Purtroppo il tempo che gli era possibile trascorrere con Sherlock era alquanto risicato. Dato che questi era il capitano, se ne stava per gran parte della giornata sul cassero mentre, per le ore restanti, si rinchiudeva in cabina a studiare carte o più semplicemente a suonare il violino. Lo aiutava a pensare, diceva. In un modo che John trovava piacevolmente sentimentale, ma che nonostante gli sforzi non era mai riuscito del tutto a comprendere. Ad ogni modo era assai raro che potessero stare assieme da mattina a sera, di solito erano le notti che dividevano. Per l’arco dell’intera giornata, invece era libero di fare quel che voleva e di andare come gli pareva. Una volta consumato il rancio aiutava Angelo con qualche faccenda, poi dava ad Archie una o due lezioni di scienza oppure si intratteneva con Lestrade e Mastro Stamford, i quali erano però sempre troppo impegnati per dargli retta. Capitava che passasse delle ore con Victor, ecco, quella era una delle poche attività piacevoli a bordo (oltre all’amoreggiare col capitano, ovviamente). Padre Trevor era un astuto giocatore di carte, abile a barare così come nella dialettica e le loro conversazioni erano straordinariamente affascinanti, oltre che piuttosto irritanti. Però lo stare con lui era addirittura divertente. Poi c’erano quei momenti in cui gli capitava di dover fare qualche visita medica. Sembrava che tutti quei pirati avessero uno o due acciacchi da far vedere a un occhio competente; non si trattava di mai niente di serio, ferite e tutti quei malanni che una vita in mare porta ad avere. Almeno era un buon modo per non annoiarsi troppo. Ah e sì, aveva iniziato a studiare. Mike e Greg erano ottimi insegnanti e gli davano una mano a comprendere il linguaggio marinaro o quale fosse il reale funzionamento di ancore, vele e sartie. Tuttavia era decisamente troppo presto per poter parlare di una conoscenza approfondita o per poter effettivamente svolgere un qualche compito senza combinare disastri. Pertanto e per non dare troppo fastidio o rallentare i lavori della ciurma, il più delle volte si limitava a leggere. In questo, fortunatamente, erano molto forniti. Trovava un buon libro e si accucciava nella propria cabina o, se aveva troppo caldo, in un angolo non trafficato del ponte principale dove tirava un po’ d’aria. Lì, rimaneva in attesa che capitan Holmes si liberasse dai propri impegni e quando ciò accadeva, oh, trascorreva le ore più meravigliosamente appaganti della propria vita. Per essere totalmente sincero avrebbe dovuto prodigarsi in un lungo monologo su quanto stupendo fosse baciarlo, magari facendone un altro sulle sue labbra e un altro ancora sui gemiti che emetteva le volte in cui lo stringeva a sé. Sì, stare insieme era bellissimo e mai gli era capitato un amante capace di tirargli fuori tanta passione, ma per il semplice fatto che non esisteva un’altra persona in tutto il creato simile a Sherlock Holmes. Gesti da poco come un sorriso o un abbraccio, gli scaldavano un qualcosa all’altezza del cuore facendogli provare un’insana felicità. Ovviamente non si trattava non soltanto di una mera questione fisica, stargli vicino era anche molto stimolante per l’intelletto. Le cose che facevano insieme erano sempre interessanti. Oltre alla reciproca esplorazione corporea, in quelle che erano ormai le “loro notti”, rannicchiati uno sopra all’altro là a prua, non facevano che parlare. Senza celare una punta di pretesa e imponendosi anche con un qualche bacio di troppo, John gli ordinava di raccontare delle sue avventure passate. E, incredibilmente, questi obbediva senza batter ciglio. Delle leggende sul misterioso pirata bianco ne aveva sentite davvero molte e nonostante ciò non disdegnava d’ascoltarle per una seconda o una terza, e persino per una quarta volta. Oltretutto, era certo ci fossero tanti particolari che i pescatori di Antigua avevano omesso perché considerati troppo scabrosi. Fortunatamente e dal canto proprio, capitan Holmes non si esimeva dal mettersi in mostra, magari lasciandosi baciare più del dovuto in alcune occasioni. Principalmente gli raccontava di quella che era stata la sua vita, rifiutandosi soltanto di menzionare l’infanzia trascorsa in Inghilterra (argomento che aveva intuito lo turbasse più del necessario), aveva quasi il sentore che per il giovane capitano fosse un problema ricordare la famiglia. Eppure e nonostante gli interessasse, evitava d’indagare così come di pensarci troppo. Per ciò che riguardava invece tutto quanto il resto, si poteva facilmente sostenere che era praticamente impossibile zittirlo. Ogni notte, Sherlock intesseva lunghe e articolate chiacchiere, aiutandosi con una gestualità esuberante e movimenti spesso bruschi e improvvisi. Proprio malgrado, lui, ingenuo dottore, si ritrovava schiavo di quei racconti. Assolutamente rapito dall’intelligenza incredibile di un ragazzino che giocava a fare il pirata, oltre che dalla straordinaria passione che aveva nel raccontare di sé e delle proprie trovate geniali. In cambio e vergognandosi appena del non rendergli poi molto (era costretto ad ammettere di offrire ben poco), rispondeva alle domande che gli venivano poste oppure indugiava in questo o quel tocco. Sherlock sembrava sinceramente affascinato da molti aspetti della vita di un medico soldato. Chiedeva della guerra, dei compagni, dell’addestramento. Domandava di suo padre e insisteva per sapere quale fosse il suo secondo nome. Acuto com’era, aveva notato che si firmava con un “H” puntata prima del cognome, ma che non lo aveva menzionato quando si era presentato. Detestava davvero il proprio secondo nome, ma il capitano si rifiutava di cedere e per giorni aveva continuato a insistere. Anche se invano. I momenti che preferiva, però, erano quelli in cui John gli raccontava di antiche favole e miti perduti nel tempo. Era decisamente più rasserenante per l’animo, il narrare di sirene e capitani dispersi, di tesori perduti e galeoni maledetti. Retaggi delle tante storie che il vecchio Joe gli aveva raccontato tempo addietro che probabilmente mai avrebbe dimenticato. No, non gli sembrava mai un giusto compromesso, prendere tanto e offrire così poco? Nonostante ciò, a Sherlock stava bene così e questo aveva il potere di zittire taluni orribili pensieri.

Capitò esattamente in una di queste occasioni, per l’appunto, che Sherlock Holmes gli avesse parlato delle cascate di Reichenbach. Un luogo incantevole, a sua detta. Unico come una perla preziosa custodita in una conchiglia. Un gioiello incastonato tra le montagne della Svizzera, nel cuore pulsante del continente europeo. Al solito era stato alquanto impreciso nel proprio racconto, ma in effetti lo era sempre quando i fatti si riferivano alla vita precedente alla pirateria. In quel caso, però, aveva avuto la sensazione che ci fosse dell’altro e che un qualcosa di vergognoso lui e Victor, lo avessero davvero fatto in quel di Reichenbach. Dopo avergli descritto la meraviglia di quelle cascate con una puntigliosa precisione (tanto da parlargli della maniera in cui l’acqua si riversava di sotto e con tanto di esposizione a gesti), Sherlock non aveva aggiunto altro se non che era stata una visita interessante e che gli sarebbe piaciuto davvero il poter vedere di nuovo un luogo come quello. Non si era però addentrato nei fatti con altrettanta passione e, nonostante la curiosità, non aveva voluto insistere. Da allora mai più ci aveva pensato. Almeno fino a quel momento. Già perché successe esattamente dopo che ebbero raggiunto il luogo adatto dove accamparsi, che John si ritrovò a ricordare delle cascate di Reichenbach e a quanto Sherlock sperasse di trovare di nuovo un qualcosa di simile. Erano stati decisamente fortunati.

Il luogo che avevano trovato per trascorrere la notte era quanto di più incantevole ci fosse in quella dannata landa sperduta, la cui vegetazione sembrava nutrisse il sincero desidero di far ammattire tutti quanti loro. Tra strane ed enormi foglie, radici sospese a mezz’aria e insetti grossi come topi, man a mano che erano andati avanti, John aveva lentamente perso la voglia di vivere. Fino a che quel miracolo, voluto certamente da Dio in persona, non gli si parò davanti agli occhi. Una tale e stupefacente bellezza, mai l’aveva vista prima. Tanto che si ritrovò meravigliato e in estasi di fronte di quello che doveva esser certamente un paradiso in terra. Si trattava di una radura relativamente ampia, costellata da uno o due massi di grosse dimensioni. C’era erba verde e un prato soffice e rigoglioso con bei fiori colorati. Sul fondo della spianata e proprio a ridosso della montagna, una cascata che cadeva dal picco più alto dell’isola, andava a formare una pozza di acqua dolce. In un attimo, tanti e tanti pensieri, uniti a idee piuttosto sconce, gli si affollarono nella mente. Se fossero rimasti soli, lui e Sherlock avrebbero potuto fare il bagno assieme e magari farci anche l’amore, sotto quella cascata. Quando mai gli sarebbe capitata una simile occasione? Oh, sarebbe stato stupendo e un buon modo per scongiurare la paura. Anche se forse era troppo impraticabile una prospettiva del genere e quello che era un sogno, sarebbe certamente rimasto un sogno. John ci pensò sopra a lungo. Lì fermo dov’era rimasto, appena dentro il limitare della foresta, rifletté su come si potesse fare per rimaner da soli senza esser troppo notati. Anche dopo che la notte fu scesa, rabbuiando ogni cosa e nonostante gli inviti dei ragazzi della ciurma che gli chiedevano di prender posto, lui era rimasto immobile. Con particolare attenzione osservava gesti e movimenti che i pirati facevano per allestire il campo, ammirando segretamente la loro serenità d’animo. C’era chi si prodigava per accendere il fuoco e chi si stendeva sull’erba fresca e bagnata di poco, appisolandosi. Altri montavano la guardia, nascondendosi fra gli alberi. Angelo invece preparava un qualcosa da mangiare e Roux, il giovanotto francese, aveva preso a suonare un piffero che per tutto il tempo s’era tenuto nella tasca del panciotto. Nel trambusto di quell’andirivieni indaffarato, Victor Trevor pareva essere il solo a pensare per sé. Era ancora parzialmente imbronciato ed era chiaro che la preoccupazione non gli fosse del tutto passata, ma invece che crogiolarsi in se stesso aveva pensato bene di spogliarsi e gettarsi nell’acqua fresca. E ora, dopo averlo cercato con insistenza con lo sguardo, lo stava invitando a raggiungerlo. John fu tentato davvero di correr là e togliersi gli abiti, per poi buttarsi nel lago e nuotare sino a stancarsi. La buona occasione per lavarsi decentemente per la prima volta dopo tanto tempo, per togliersi di dosso sudore e preoccupazioni. E fece addirittura un qualche passo in avanti, accennando a un sorriso e forse anche a un assenso. Salvo poi fermarsi a metà del tragitto. Il suo sorriso scomparve nel momento in cui ricordò di avere un segreto da proteggere. Il tatuaggio. Quel dannato disegno che i selvaggi gli avevano fatto proprio su quella stessa isola, era stata la sua salvezza e al contempo la sua condanna. Grazie a quel disegno aveva conosciuto Sherlock e i pirati de la Norbury. Grazie a esso, non poteva mai lasciarsi andare come voleva. Non poteva permettere che qualcuno lo vedesse e ora più che mai doveva evitare che gli uomini dubitassero del proprio capitano. Pertanto, mestamente e a capo chino, John raggiunse Victor Trevor e si sedette a riva. Tutto ciò che concesse a se stesso fu di togliersi gli stivali, che lanciò da un lato senza troppa cura. In effetti e anche se era poca cosa, bastò il solletichio dell’erba sotto ai piedi e il vento fresco che faceva schizzare acqua dalla cascata sin sul suo viso, per rendere quel momento inaspettatamente piacevole. Forse non poteva fare il bagno, ma poteva godersi tutto quello nel migliore dei modi, pensò mentre si allentava il panciotto e liberava il collo dal giogo della camicia.
«Dolcezza, che ci fai lì? Spogliati ed entra» mormorò un Victor rilassato e sorridente. Bello era bello, pensò notando la pelle incredibilmente bianca, baciata dalla luce della luna e accarezzata appena dalle lingue del fuoco di una torcia che avevano lasciato lì, incastrata fra due rocce e che illuminava in parte i loro visi.
«Non mi va» mentì distogliendo gli occhi da lui, ma saggiando la freschezza dell’acqua con le punte delle dita.
«Che significa “non mi va”?» replicò lasciandosi andare a una grassa risata, quasi avesse sentito la più grossa delle sciocchezze. «Come diavolo fa a non andarti? Dopo due settimane in mare anche il più maleodorante degli uomini vorrebbe farsi un bagno, persino quel puzzone di Largo alito fetido, il cui tanfo dicono si senta a leghe di distanza, si tufferebbe qui e poi è così fresco e piacevole. Ti entra dappertutto.» **
«Ecco, magari più tardi» mormorò, arrossendo appena. «Angelo sta cucinando e…»
«Beh, come vuoi, ma non sai che ti perdi» gli disse prima di nuotare indietro verso il centro del laghetto. Proprio allora, il capitano li raggiunse. Se ne stava ancora in silenzio e, a loro, non aveva concesso altro se non una rapida e veloce occhiata. John si domandò se lo avesse offeso in qualche modo, perché gli pareva arrabbiato. Anche se non poteva dirsene sicuro dato che aveva addosso la consueta espressione indecifrabile che lo contraddistingueva. Si era spogliato del tutto e ora si tuffava nel piccolo lago come se niente fosse, quasi non stesse nudo come un verme davanti ad altre persone. Davanti a Victor che, altrettanto nudo, faceva il bagno con lui. No, anche di questo non fu geloso. Che stava facendo in fondo? Lavarsi. Come un essere umano. Al pari di un comune e rispettabile inglese. Anche se pirata, Sherlock Holmes aveva una propria innata nobiltà. Non c’era da dubitare di quello. Certamente non c’era nulla di malizioso in quell’atteggiamento. Doveva assolutamente pensare ad altro, si impose.
«Posso farti una domanda?» se ne uscì a un certo punto.
«Tutte quelle che vuoi, dolcezza.»
«Tempo fa, cosa è successo tra te e lui alle cascate di Reichenbach?» si decise a chiedergli, accennando alla figura del capitano che nuotava verso la cascata. Il prete tacque a fronte di quella domanda si limitò a osservarlo da dietro quei suoi occhi acuti e svelti. Nel contempo un sorrisino malizioso gli si dipingeva in viso, segno che non aveva buone intenzioni. In quale stupido errore era caduto? Accidenti, temeva di sapere dove sarebbe andato a parare.
«Te lo dico se mi dici cos’avete fatto la scorsa notte.»
«Sarebbero fatti privati» gli rispose, sbuffando vistosamente.
«Allora è come credo?» esultò, senza aspettare risposta «e come è andata? Ha avuto il suo piacere? Sai, per lui era la prima volta e ho cercato di spiegargli come avrebbe dovuto comportarsi, ma oltre a essere testardo, Sherly è anche molto timido in queste faccende. Spero che sia stato un buon amante. Era lascivo? Premuroso? Attento? Oh, questo lo è stato di certo! Da che ti ha conosciuto, è incredibilmente attento a te.»
«Tutto questo è piuttosto imbarazzante» ammise invece John, vergognandosi appena e distogliendo lo sguardo sino a rivolgerlo a terra. Avrebbe dovuto aspettarsi un discorso del genere da parte di Victor, d’altronde era come se fossero fratelli. Gelosia senza senso a parte, una profonda fratellanza era l’unico modo che aveva per descrivere il loro rapporto. Anche se con ogni probabilità, entrambi avrebbero detestato quella definizione. Da quello che aveva capito dovevano essere molti anni che Victor tentava di spingerlo in quella direzione, forse per timore che un giorno restasse solo. O magari semplicemente per qualche sua astrusa convinzione. Nei fatti e da quanto aveva capito, Sherlock era sempre stato bene anche da solo. John doveva essere realmente l’eccezione. L’unica e sola. Idea che gli scaldò il cuore e che gli fece correre un brivido giù lungo la schiena.
«Le cose» borbottò, dopo qualche attimo di silenzio. «Sono andate stupendamente» confessò prima di portare lo sguardo nuovamente sul pirata bianco. Stava ancora nuotando, lontano e senza quasi badare alla loro presenza. Meglio così perché non aveva idea di come avrebbe preso discorsi di quel genere. Male, con ogni probabilità.
«Comunque a Reichenbach non è successo niente di che. Ci siamo sfidati a vicenda. Sai eravamo giovani e stupidi, e ci siamo semplicemente tuffati. Prima che tu me lo chieda sì» annuì, senza da modo di porre le già troppe domande che gli vorticavano in testa, né tanto meno di indignarsi o spaventarsi o fare qualsiasi altra cosa idiota avesse in mente al solo sentire di una cosa tanto ridicola. E sconsiderata. E folle idea suicida. «Era alta più o meno quanto questa, ma non è successo nulla di particolare. Non ci siamo fatti del male, anche se credo che lui se ne vergogni perché sa che ha messo a rischio la mia vita ed è un argomento che non gli piace mai troppo toccare. Ma ora, caro mio, parliamo di cose serie.»
«C-che intendi?» balbettò mentre il prete si issava appena a riva, e lui si tirava indietro spaventato.
«Che hai l’aria di chi ha bisogno di un diversivo. Ho dei dadi, con me e delle carte e con un paio di bottiglie di rum, i ragazzi saranno fuori gioco prima di subito. Aspetta solo che si siano addormentati e poi potrete darvi da fare.» E una volta detto questo, Victor uscì dall’acqua e si allontanò verso i propri abiti che aveva ammonticchiato da una parte. Tutto ciò che fece, a parte far arrossire John fino alla radice dei capelli, fu di ammiccare appena in sua direzione. Ah, quel diavolo di uomo.
«Dio ti benedica» mormorò John Watson, parlando fra sé, prima di lasciarsi andare a una sonora risata.
 




Continua


 
 
*Qualsiasi citazione al Corsaro Nero non fa riferimento a nessuna opera letteraria o cinematografica inerente alla figura del personaggio o quella del realmente esistito Henry Morgan.
**John Largo (alito fetido), è un personaggio della serie animata “Jolanda la figlia del Corsaro Nero”, preso spesso in giro per via della puzza maleodorante.

Mi dispiace avrei voluto aggiornare prima e spero non ci siano troppi errori di distrazione e cose varie, ma quando fa così caldo io perdo un po’ la lucidità mentale. Questo perché lo soffro terribilmente. Finire questo capitolo è stato davvero difficile.
Grazie a tutti per le recensioni.
Koa
   
 
Leggi le 8 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Sherlock (BBC) / Vai alla pagina dell'autore: Koa__