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Autore: Warlock_Vampire    22/06/2017    0 recensioni
"Io, che ho conosciuto molto presto cosa fossero dolore e odio e che solo dopo molto tempo ho compreso l'amore; io, che ho imparato ad uccidere prima ancora di saper vivere; io, che ho vissuto per secoli nella profonda convinzione che ognuno può ottenere ciò che vuole, sempre e comunque, sacrificando tutto, se necessario; dopo così tanto ho davvero bisogno di mettere nero su bianco i fatti."
In queste memorie Katherine Pierce si racconta, dalla sua fragile umanità alla trasformazione in Vampiro, ripercorrendo tutte le tappe più significative della sua lunga esistenza.
AVVERTENZA: La lettura di questa storia è un contributo, una spin off, di The last challenge (il nostro crossover). Pertanto, consigliamo la lettura di The last challenge, anche se non è essenziale.
Inoltre, essendo la "nostra" Katherine, le vicende in cui è coinvolta sono frutto dell'immaginazione degli autori e nulla hanno a che vedere con la Katherine di The Vampire Diaries, pur ricalcandone l'aspetto e il carattere.
Precisato questo, buona lettura!
Genere: Azione, Sovrannaturale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Elijah, Katherine Pierce, Klaus, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Inghilterra, 1562
 
Io e Rose lasciammo Londra qualche settimana dopo e riprendemmo a vagare per l’Europa senza una meta precisa. Ci separammo nuovamente nei decenni che seguirono e nel 1560 decisi di ritornare da sola in Inghilterra.
Mi stabilii presso la corte reale e nel tempo divenni intima conoscente della regina Elisabetta I. Era una donna spettacolare, la cui presenza o assenza si notava subito, catturava la scena e l’inghiottiva in sé. Figlia di due personaggi che la Storia non avrebbe mai dimenticato, Enrico VIII e Anna Bolena, aveva ereditato una certa perspicacia e un’ottima capacità di governo.
Nel 1560 era al trono da appena un anno, ma era già intricata in difficili rapporti con la rivale, sua cugina, Maria Stuart. Contestavano la sua legittimità al trono, le sue politiche in fatto di religione e mille altre cose. Alla fine, proprio nel 1560 la filofrancese Maria Stuart siglò un accordo col quale rinunciò al trono di Inghilterra, accontentandosi di quello che già possedeva: la Scozia.
Quanto a me, riuscii a diventare una delle dame di compagnia di Elisabetta I. Era una donna interessante, carismatica, portava sempre un certo cipiglio severo che la faceva apparire altera e superiore a tutto e tutti. In verità credo fosse il sintomo più evidente della sua grande solitudine, un cataclisma che colpiva –e che sempre ha colpito e colpirà- chi vive una vita costantemente alla mercé dell’opinione pubblica. E lei, che aveva così tanto da dimostrare al mondo, subì tutte le conseguenze di quegli occhi costantemente puntati su di sé.
Iniziarono sin da subito a spingere perché si sposasse, perché garantisse un erede al trono, ma Elisabetta era insensibile a queste pressioni. Aveva visto così tante donne attorno a lei morire di parto, e così tanti erano i rischi del matrimonio (basti citare la decapitazione di sua madre, voluta proprio dal marito), che Elisabetta non volle mai saperne di sposarsi. O perlomeno, questo è ciò che si dice, perché in verità lei non chiarì mai le ragioni per cui non volesse un uomo al suo fianco.
Trascorsero così due anni, fino a quando Elisabetta si ammalò. Contrasse il vaiolo e quasi ne morì. Si trovava presso Richmond Palace, una delle residenze reali, e lì rimase per molto tempo durante la convalescenza, ma anche dopo. Io ero ancora al suo fianco all’epoca e la assistetti nella malattia, sopportando i discorsi di chi già la dava per morta e le cospirazioni su chi avrebbe preso il suo posto. Il palazzo era un andirivieni continuo di medici da ogni dove, consiglieri riuniti in circolo a parlottare e via vai di servette che si davano il cambio nell’assistenza della regina ammalata.
Io, be’, avevo messo gli occhi su un dottorino molto piacente. Riccioli biondi, occhi azzurri, venticinque anni o giù di lì, decisamente poco esperto del mondo anche se gli piaceva vantarsi della sua professione di medico. Era malleabile però. Potevo piegarlo al mio volere semplicemente con un sorriso, senza nemmeno soggiogarlo.
Passava le sue giornate alternando consultazioni con gli altri dottori a strapazzate nel mio letto, che erano anche ottime occasioni per tirargli fuori di bocca i pareri dei suoi colleghi. Ma niente, secondo la totalità dei dottori per Elisabetta non c’era speranza.
Un giorno particolarmente grigio e piovoso del 1562, Elisabetta chiese di vedermi. Io ero a letto con James, il dottore, e fui costretta a rivestirmi in tutta fretta e ad andare dalla regina coi capelli sciolti e in disordine. Confidai nel fatto che fosse malata e che non avrebbe ritenuto il mio aspetto trasandato di importanza rilevante.
Attraversai le stanze fino ai suoi alloggi e superai i paggi davanti ai portoni della sua camera da letto. Quando entrai, percepii subito il tremendo odore di chiuso e il caldo opprimente della stanza. Le tende alle finestre erano tirate, il fuoco nel camino scoppiettava allegro attizzato da una serva, ed Elisabetta era trionfalmente adagiata sul letto a baldacchino, sostenuta da numerosi cuscini e tenuta al caldo da strati di coperte di lana.
Il volto era scarno, imperlato di sudore e pustole. Nel pallore mortale del suo incarnato scorsi l’ombra della morte, che mi impedì di fare un ulteriore passo avanti nella stanza. Gli occhi della malata erano socchiusi, tremendamente stanchi e sofferenti, eppure li sentii fissi su di me.
«Volevate vedermi, mia regina?» dissi.
Elisabetta tirò un greve sospiro e tentò di parlare, ma non vi riuscì subito.
«Volevo vedere qualcuno che non fosse un prete, un dottore o un leccapiedi che vuole rubarmi il trono» fu quello che uscì dalle sue labbra dopo molte fatiche, sospiri e colpi di tosse.
Le sorrisi, divertita.
«Raccontatemi una storia» mormorò.
Era qualcosa che facevo spesso, le parlavo dei miei viaggi intorno al mondo, di ciò che avevo vissuto con Rose e Nikolaj, senza ovviamente rivelare a Elisabetta che la protagonista delle storie, che tanto la divertivano e appassionavano, ero proprio io. Lei, del resto, grande donna incatenata ad una vita di dominio pubblico e di estrema solitudine, apprezzava i miei racconti di donne libere dal giogo maschile e dalle convenienze sociali, che si spostavano da una città all’altra e che facevano un viaggio rocambolesco nel Nuovo Mondo solo per vedere gli Aztechi coi loro occhi. 
Le raccontai proprio degli Aztechi, di quel che avevo visto di loro e di molte cose che inventai solo per allungare il racconto. Quando la storia terminò, Elisabetta si addormentò, proprio come una bambina a cui si racconta una fiaba prima della buonanotte.
Rimasi ancora nella sua camera, fissandola e pensando. Avrei potuto curarla? Era una domanda che mi assillava sin da quando Elisabetta aveva contratto la malattia. Se l’avessi salvata, avrei cambiato il corso della Storia. Una parte di me avrebbe voluto farlo, ma dall’altro lato temevo che il vaiolo fosse come la peste di Rose e che Elisabetta avrebbe ingurgitato il mio sangue per poi rigettarlo, senza trarre da esso il benché minimo beneficio duraturo.
Che fare? La guardai ancora, lì semisdraiata sul letto, morente e sola, e mi decisi. Soggiogai per prima cosa la serva che curava il fuoco, affinché non ricordasse nulla di quanto sarebbe successo, poi mi avvicinai al letto della regina. Se l’avessi uccisa avrei posto fine per sempre alle sue sofferenze e nessuno mi avrebbe ritenuta responsabile del fatto; se l’avessi salvata avrei garantito all’Inghilterra prosperità sotto la guida di una regina più che degna del suo titolo.
Mi morsi il polso e lasciai che qualche goccia di sangue cadesse tra le labbra semiaperte di Elisabetta. Il cuore mi palpitava nel petto, ma lei non dava segni né di miglioramento, né di peggioramento. Accostai la ferita ancora aperta alla sua bocca, di modo che fosse maggiore la quantità di sangue che dal mio corpo fluiva nel suo, e solo allora potei notare il rimarginarsi, appena visibile ad un occhio attento, delle sue pustole più superficiali.
Non rigurgitò il mio sangue; semplicemente gliene sarebbe servita una grande, grandissima quantità per guarire completamente. 
Elisabetta riaprì gli occhi spossati dalla sofferenza, ma io ero già volata fuori dalla stanza, lontano da lei e da quello che avrebbe rammentato del mio gesto estremo.
 
I giorni seguenti passai molto tempo in compagnia della regina. A volte era lei a chiamarmi, altre ero io ad andare nelle sue stanze. Vigilavo sui suoi miglioramenti, le davo il mio sangue e la soggiogavo affinché non lo ricordasse. Poi lasciavo la sua camera e raggiungevo i miei alloggi, mi divertivo con James, pranzavo o cenavo a seconda che fosse mattino o pomeriggio, e poi tornavo da Elisabetta oppure mi chiudevo di nuovo in camera con James.
Oltre a essere spassoso, era la mia sacca di sangue ambulante, il povero caro dottor James Qualcosa.
Il giorno in cui dovetti lasciare la corte reale britannica, era iniziato come tutti gli altri giorni: passai la mattina da Elisabetta e quando feci ritorno nelle mie stanze per cambiarmi d’abito, vi trovai James, assorto a guardare fuori dalla finestra.
«Che ci fai qui?» gli chiesi, sorpresa. Di solito era impegnato con le visite ai pazienti o con le riunioni con gli altri dottori della regina per discutere della terapia, e raggiungeva i miei alloggi sempre dopo di me.
«Ti aspettavo» rispose, «eri dalla regina?».
Annuii. Era vestito a modo e i riccioli biondi erano impeccabili. Avrei voluto mordergli il collo e nutrirmi del suo sangue, poi guarirlo e scaraventarlo a velocità vampiro sul letto, e poi divertirmi con lui fino a quando le cameriere sarebbero venute a chiamarci per il pranzo.
«Non è sorprendente il suo recupero? La terapia funziona» disse poi, sorridendo compiaciuto al suo riflesso sullo specchio della toeletta in un angolo della stanza.
«Dopotutto ha ottimi dottori al suo servizio» miagolai, avvicinandomi cautamente a lui per attuare il mio piano. Mi sentivo decisamente nel mio elemento di predatrice: così, camminando piano verso di lui, come si avvicina un ghepardo alla sua preda e poi compiendo lo scatto finale e cogliendola di sorpresa.
Poggiai le mani sulle spalle di James e gli depositai un bacio all’angolo della bocca. Sentivo il suo cuore palpitare nel petto, il sangue scorrere nelle sue vene, il mio desiderio di avventarmi sul suo collo sempre più impellente.
«Andiamo da lei» propose James, «voglio mostrarti la nuova cura che voglio sperimentare».
«Proprio adesso?» mormorai, le labbra a pochi millimetri dalla pelle chiara dell’incavo del suo collo. Avevo già estratto i canini e le vene scure intorno agli occhi erano in bella mostra, gli occhi iniettati di sangue.
«Sì, adesso» replicò, staccandosi da me e avviandosi alla porta.
Avrei voluto farlo a pezzi in quell’istante, ma mi trattenni. Ritrassi i canini, mi imposi un certo contegno e lo seguii diligentemente fino alla stanza della regina.
Quando entrammo, Elisabetta non era sola. Nella camera c’erano il prete, due consiglieri e un paio di paggetti. Tuttavia percepii chiaramente la presenza di qualcun altro nella stanza, qualcuno che restava nell’ombra senza mostrarsi.
Elisabetta era seduta sul suo letto come sempre, sorretta dai numerosi cuscini d’oca e coperta da molte coperte di lana. Il volto pallido era segnato dalle cicatrici delle pustole ormai rimarginate, cicatrici che sarebbero rimaste a imperitura memoria della malattia mortale a cui era scampata.
«Lady Katerina» esordì uno dei consiglieri, «anche oggi avete trascorso molto tempo in compagnia di sua Maestà la regina, mi dicono».
«Sono una delle sue dame di compagnia. È mio compito, quello di tenerle compagnia» ribattei. Qualcosa non andava, lo capii subito.
«E che ne pensate del suo recupero miracoloso?».
«Lo trovo straordinario» risposi.
Il consigliere piegò le labbra in un ghigno di sfida, «pensate un po’, milady, poco fa sua Maestà Elisabetta I si è confessata con un prete e ha raccontato una singolare storia. La regina afferma che voi abbiate compiuto un qualche rito satanico su di lei e che l’abbiate poi plagiata affinché non se ne ricordasse».
C’era un solo modo in cui Elisabetta potesse aver detto tutto questo: prendeva la Verbena e io non me ne ero accorta. La guardai, ma lei rimase crudelmente impassibile.
«Rito satanico?» esclamai scettica, nel tentativo di prendere tempo.
«Siete una Strega!» tuonò il consigliere puntandomi contro il suo indice ossuto, «vivete da due anni presso la corte di Inghilterra, siete una straniera, avete fatto in modo di entrare nelle grazie di sua Maestà per poi ripagare la sua generosità in questo modo abominevole! Chissà da quanto plagiate la sua mente e la piegate ai vostri sporchi voleri… prendetela!».
Dall’ombra emersero tre soldati, quel qualcosa che avevo percepito sin da subito senza però riuscire a vederli, e mi si avvicinarono. Due mi presero per le braccia e uno rimase dietro di me, pronto a bloccare ogni mia mossa.
Mi venne da ridere.
«Permettetemi di dire la mia» esordii per nulla intimidita, «per prima cosa, ci tengo a precisare che trovo estremamente offensivo che mi si dia della Strega. Lo sanno tutti che le Streghe non sono neanche lontanamente paragonabili ai Vampiri e io, modestamente, sono un Vampiro di quasi cento cinquant’anni.
Seconda cosa: io non plagio la regina e non ho compiuto riti satanici su di lei. Suppongo che le venga somministrata la Verbena…».
«…è una regina, ovviamente vengono prese tutte le misure necessarie per proteggerla dal Male» mi interruppe il consigliere.
«Già, be’. Mio errore» convenni. «In ogni caso, le ho dato il mio sangue affinché potesse guarire dal vaiolo. Immagino che sappiate delle proprietà curative del sangue di Vampiro. Ora, lo vedreste da voi, che ho solo aiutato sua Maestà a guarire e nulla di più».
«Voi avete compiuto atti sacrileghi sulla regina» si infiammò il consigliere, «avete fatto uso delle vostre arti magiche oscure su di lei, l’avete oltraggiata oltre ogni dire. Voi siete colpevole di tradimento e per questo verrete giustiziata, Lady Katerina».
«Che sciocchezza» esclamai, «credete davvero che tre stupidi soldatini possano fermarmi? Sono sopravvissuta a cose ben peggiori di questa».
«Siete voi la protagonista delle vostre storie?» mormorò Elisabetta, parlando per la prima volta.
«E’ naturale» le risposi, «ho visto la Storia, le guerre, gli accordi, i sovrani, gli anni di carestia e quelli di prosperità. Ora possiamo smetterla con questa sceneggiata?».
«Voi verrete imprigionata e giustiziata, Lady Katerina» ripeté James, lo stupido infido dottorino James Qualcosa, che aveva osato cospirare contro di me con quei fanatici da quattro soldi.
«Oh, caro» gli dissi, con voce melliflua, «dopo che mi sarò liberata di questi soldatini, sarai tu la mia prima vittima. Avanti! Credete davvero che io abbia cento cinquant’anni solo per farmi incastrare da una banda di poveri umani come voi? Potrei uccidervi tutti, uno dopo l’altro, e poi scappare gettandomi dalla finestra e sparire in pochissimo tempo senza farmi nemmeno un graffio… tra l’altro, il precipitare dal balcone è la mia specialità».
Nessuno parlò più, e così restammo in silenzio per qualche minuto, finché mi decisi ad agire. Con un movimento preciso spezzai le braccia dei due soldati che mi tenevano ferma e mi occupai un istante dopo di quello che stava ritto dietro di me. Non ebbe nemmeno il tempo di realizzarlo, che gli assestai una gomitata sotto il mento che lo mandò a sbattere contro la parete alle nostre spalle.
Come promesso, mi avventai sul dottorino James, la cui testa volò letteralmente all’altro lato della stanza e finì tra le fiamme del caminetto tra le urla di panico dei presenti. Prima però succhiai fino all’ultima goccia di sangue che aveva nelle vene.
Mi avvicinai al consigliere, canini in vista, volto sporco del sangue di James. Mi passai la lingua sulle labbra, pronta a colpire di nuovo, ma qualcuno alle mie spalle mi iniettò una siringa di Verbena nella schiena.
«Ah!» gemetti. Quando mi voltai, vidi il prete fissarmi con sgomento. 
«E così mi colpite alle spalle con un po’ di Verbena e credete di mettermi fuori gioco?» la sentivo bruciarmi nelle vene, ma avrei retto il suo potere. Grazie a Nikolaj e al suo oltraggioso comportamento sulla questione del Diamante, non mi ero mai separata dalla Verbena, da quel lontano 1522, e continuavo a prenderne ogni giorno. Rallentava di certo i miei movimenti, ma non aveva più la capacità di sottomettermi. Potevo ancora essere letale.
Li uccisi tutti: i due paggetti insignificanti, il prete e i due consiglieri. Alla fine rimase solo Elisabetta, sgomenta, seduta sul letto e madida di sudore.
«Come vedete, mia regina, se avessi voluto uccidervi lo avrei fatto molto tempo fa. Siete una donna intelligente, certamente non bella, ma intelligente. Vi auguro di regnare ancora per lungo».
«E adesso cosa dovrei fare?» mormorò, quando io già mi stavo avviando alla porta per andarmene.
«Dovreste ricordare che siete la donna più potente d’Inghilterra e che potete fare quello che volete. Non siete poi così in catene come vi piace credere. Intendo dire che potreste prendervi certe libertà e che non siete costretta a fare sempre quello che ci si aspetterebbe da voi».
La guardai a lungo e lei ricambiò il mio sguardo senza dire una parola.
«Mi avete salvata?».
«Sì».
«Perché?».
«Perché la Storia ha bisogno di voi».
Mi voltai e lasciai la camera, diretta alla mia.
Tornata nei miei alloggi, feci un bagno per pulirmi del sangue versato dei miei nemici e preparai i bagagli. Tre ore dopo la strage nella stanza della regina, lasciai Richmond Palace per sempre. Dove mi sarei diretta ancora non lo sapevo, ma mi accontentai per il momento di prendere una carrozza e allontanarmi dal caos della città.




Finn Jones nei panni del caro dottorino James Qualcosa

  
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