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Autore: Snow_Elk    23/06/2017    1 recensioni
L'amore. Un sentimento profondo, capriccioso, instabile. Un'emozione oscura, qualcosa che tutti cerchiamo. Anche Alan, uno studente universitario, lo sa bene. Pensava di averlo finalmente trovato, ma si sbagliava, tutto ciò a cui teneva è svanito, l'ennesima relazione "andata a puttane" come direbbe Phil, il suo coinquilino. Eppure, mesi dopo, Alan è ancora tormentato da strane visioni, da ricordi vividi e da lei, da quella stessa ragazza a cui aveva dato il proprio cuore. Perché l'amore può trasformarsi in odio, l'odio in consapevolezza e quest'ultima ci aiuta a crescere, a capire. Perché anche se un cuore è andato in frantumi può ancora battere, riecheggiando nel silenzio.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Universitario
Capitoli:
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Fragments of a Silent Heart



Frammento III – Una lunga pausa caffè.

Note dell'autore: Uhm, mi ero dimenticato di specificare una piccola cosa a riguardo di questa storia. E' tutta improvvisata, nel senso che a differenza degli altri racconti questo è scritto sul momento, si evolve nel preciso istante in cui lo scrivo. Spero vi piaccia e che continuerete a seguirla. Grazie a tutti e buona lettura!

- L’hai vista anche... – sto per chiedere a Jane se l’ha vista anche lei, ma qualcosa mi trattiene, conosco già la risposta.
- Come scusa? – si gira verso di me, fermandosi in mezzo alle scale e mi osserva con i suoi occhi verdi.
- No, niente, lascia perdere – mi fissa perplessa – Muoviamoci o perderemo i posti e Mark si incazzerà come al solito suo – mi sembra quasi di balbettare quella risposta.
- Hai ragione, andiamo! – continua a trascinarmi per il braccio, per poco l’ombrello non mi vola via mentre tento di chiuderlo sotto lo sguardo incredulo degli altri studenti.
Mi viene quasi da ridere: in facoltà ne succede una diversa ogni giorno, c’è sempre qualcosa di nuovo e mi sta bene così, mi aiuta a non pensare, a svagare.
Il corridoio al primo piano è semivuoto, c’è solo qualche ritardatario che si guarda intorno sconfortato o ancora assonato e i classici “che faccio, entro?” che fanno avanti e indietro alla porta dell’aula. Due volte su tre tornano a casa, vai a capire perché.
Jane si ferma davanti alla porta della nostra aula, la sette, e guarda dentro per cercare gli altri mentre io rimango alle sue spalle in attesa, mi fermo un attimo a guardare la pioggia fuori dalle grandi finestre. E’ ipnotica.
- Al – Jane mi guarda, è ancora sul ciglio della porta.
- Non dovremmo entrare? – le chiedo, distogliendo lo sguardo da quella scena che si ripete all’infinito, secondo per secondo.
- Come stai? Ti vedo un po'… assente, ecco – la sua preoccupazione è sincera, lei è sempre stata l’infermiera del gruppo, quella che si preoccupa per tutti.
- Sto bene, ho solo bisogno di un altro caffè, sto ancora dormendo – accenno un mezzo sorriso e qualcosa di vagamente simile ad uno sbadiglio.
Jane continua a fissarmi, forse non si è bevuta la storia del sonno, ma poi mi sorride a sua volta e mi fa cenno di entrare in aula, ormai le nove sono passate da un pezzo, ma del professore non c’è traccia.
Ironico che alla fine sia stato proprio lui a fare ritardo. L’aula è piena, non c’è un solo posto libero, fatta eccezione per i due che Mark ci ha tenuto al sicuro con tanta premura.
C’è un frastuono assordante, un brusio di voci che si accavallano una sull’altra, ognuno ha qualcosa da raccontare, ognuno vuole essere ascoltato, ma con quel casino ben pochi capiscono davvero chi sta dicendo cosa.
Superiamo le prime file e raggiungiamo la metà dell’uomo, dove il gruppo e il buon Mark si sono accampati come sempre, di questo passo mi aspetto che ci dedicheranno le targhette ufficiali con i nomi, o ce le faremo noi da soli per andare sul sicuro.
- Buongiorno! – esclama Jane lanciandosi contro Steve ed Helen.
- Giorno! – mi accodo anch’io, apparendo alle sue spalle, salutando tutti.
Ci sediamo, lasciando i giubbotti appesi e gli ombrelli ancora gocciolanti accanto, in mezzo alla selva creata dagli altri studenti. Guardo i ragazzi del gruppo, nonostante la giornata “grigia” a causa della pioggia sembrano tutti felici, riesco quasi a percepire quella sensazione, forse dovrei lasciarmi andare e farmi catturare anch’io.
- Ehi cazzone, alla fine ce l’hai fatta – Mark mi dà un mezzo spintone e sfoggia il suo sorriso migliore, quello da “faccia da schiaffi” che si tira dietro ogni volta.
- Avevi dubbi? – ricambio lo spintone – Ci ha pensato Phil a tirarmi giù dal letto. Ho sempre un asso nella manica – inizio a tirar fuori il classico quaderno degli appunti, scarabocchiato e consumato da un utilizzo indiscriminato, ma ormai mi ci sono affezionato.
- Non posso sempre tenerti il posto, principessa, di questo passo ti chiederò di pagarmi – osserva Mark, sfilando il suo fidato taccuino e la penna mordicchiata.
­- Continua a sperarci – i suoi occhi chiari mi fulminano trasmettendo un diretto “Fottiti” senza mezzi termini e in quel momento il professore entra.
Il brusio diminuisce, ognuno prende il suo posto e qualcuno inizia già a sospirare, consapevole che quelle due ore non passeranno mai.
Helen e Steve sono tornati a confabulare tra di loro, sembrano davvero una coppia, ma continuano a negare categoricamente di stare insieme o anche solo di piacersi. Che idioti.
Jane si sta stiracchiando accanto a me, ignorando tutto ciò che la circonda, finché non torna di colpo a calcolarmi: - Sei pronto per le due ore più pallose della settimana? – annuisco, scoppiando a ridere insieme a lei, con Mark che ci osserva come se fossimo dei pazzi. Sono questi i momenti che ti fanno davvero spegnere il cervello e li adoro, non riuscirei a farne a meno.
La lezione prosegue, sembra infinita, saranno passati neanche 45 minuti e già non ne posso più, non riesco a concentrarmi per prendere appunti, la mia mente sta viaggiando altrove, mentre gli altri sembrano riuscirci, tutti tranne Mark: lui è passato dal prendere appunti al mordicchiare il tappo della penna fissando fuori. Starà viaggiando anche lui, proprio come me, e probabilmente è per questo che è il mio migliore amico. E per molti altri motivi.
- Pausa caffè? – sussurra Mark abbassando la testa per sfuggire allo sguardo da sentinella del professore.
- Pausa caffè – confermo io e a ruota anche gli altri rispondono al suo appello.
Cerchiamo di sgattaiolare via dall’aula senza dare troppo nell’occhio, uno alla volta, così da non destare sospetti e ci ritroviamo tutti davanti alla macchinetta del caffè al piano terra, il nostro piccolo rifugio: una posizione tattica, accanto ad una delle uscite che conduce nell’immenso cortile in parte coperto dalle tettoie.
- Stavo iniziando a preoccuparmi, Mark, pensavo che oggi non avresti proposto la pausa caffè – esordisce Steve, ordinando il suo amato cappuccino con chili e chili di zucchero. Tutti ci chiediamo come faccia a non avere già il diabete.
- Ce la saremmo presi lo stesso, non è che deve per forza proporla lui – risponde Helen sorseggiando il suo espresso. I suoi occhi scuri viaggiano da un volto all’altro.
- Io questo corso davvero non lo reggo, mi uccide i neuroni – osservo mentre ordino un caffè macchiato.
- Non che ci voglia molto per ucciderli – Jane mi lancia una frecciatina e gli altri scoppiano a ridere.
- Vale lo stesso per te – contrattacco e le risate si intensificano. Sono battute stupide, alcune riciclate all’inverosimile, ma riescono sempre a strapparci un sorriso e una risata.
Ognuno finisce la propria bevanda, chiacchierando del più e del meno, sotto la tettoia del cortile, per il momento ha smesso di piovere ma le nuvole sembrano sussurrare che presto il tintinnio riprenderà.
Come al solito ci fumeremo una sigaretta e torneremo in aula, cercando di seguire, o almeno provarci, nessuno vuole ammettere che veniamo a questo corso più per vederci che per seguirlo. “Andrà meglio col prossimo, ormai il semestre è finito” ci ripetiamo ogni volta.
- Che cosa vogliamo fare stasera? Bowling? Cinema? - chiede Steve, con già la sigaretta accesa che gli si consuma tra le labbra.
- Bowling, bowling! E’ da troppo tempo che non ci andiamo – risponde Helen quasi euforica.
- Ma se andassimo a farci una birra a quel nuovo pub che hanno inaugurato settimana scorsa? Sembra carino – propone Jane mentre cerca l’accendino.
Sto per dire la mia a riguardo quando Mark si avvicina:
- Stai ancora pensando a lei, vero? – con i capelli castani chiari increspati dall’umidità sembra quasi uscito da una pubblicità per lo shampoo e sto per scoppiare a ridere, ma il suo sguardo è serio.
- Ogni tanto – faccio un tiro e rimango in silenzio.
- Sii sincero, non dire cazzate –
- Spesso, più di quanto vorrei, e quelle cazzo di visioni continuano a perseguitarmi –
- Un bel casino – osserva Mark lasciando scivolare la cenere a terra, gli altri non ci stanno calcolando, troppo presi a decidere i piani per la serata.
- Già, un bel casino. Ne ho parlato anche con Phil e secondo lui dovrei chiamarla, insomma parlarci, magari faccia a faccia.  Secondo lui così le visioni finiranno –
- Ascolta – Mark si avvicina e mi prende sotto braccio – Fa passare la giornata, stasera andiamo a divertirci come si deve e domani penseremo al da farsi, che ne dici? –
- D’accordo – mi limito a rispondere, non è una cattiva idea e quando Mark si mette in testa qualcosa è difficile smuoverlo.
- Avanti ragazzi rientriamo, o rischiamo di passare l’intera lezione qui – propone Jane incamminandosi verso le scale e gli altri la seguono. Non ho neanche capito se hanno deciso o meno cosa fare stasera, pazienza.
- Finisco di fumare e vi raggiungo – rispondo e sento un flebile “va bene” da parte di Mark mentre raggiunge gli altri che sono tornati a discutere animatamente in mezzo alle scale. Mi ritrovo da solo a riflettere sulle parole di Phil, sulla proposta di Mark, su cosa penso io stesso. “È un bel casino”
Un ultimo tiro e mi lascio alle spalle il cortile bagnato e il mozzicone a terra che si spegne lentamente. Penso rimarrò altri cinque minuti fuori, meno ascolto quel professore e meglio è.
Sono fermo davanti alle scale quando qualcuno mi urta alle spalle e sento cadere dei libri. Per poco non cadevo anche io.
- Ehi, guarda dove cammini, mi hai fatto male! – esclamo, leggermente nervoso, chiedendomi come sia possibile che non mi abbia visto.
A terra c’è una ragazza: cappelli corvini, occhi dello stesso colore del caffè. Mi fissa e non dice nulla. Sospiro, massaggiandomi un attimo la schiena nel punto in cui mi ha colpito e mi piego per aiutarla a raccogliere i libri sparsi sul pavimento.
- Tutto bene? – le chiedo, ma non ottengo alcuna risposta. La vedo scarabocchiare qualcosa su un foglio per poi passarmelo.
“Scusami” c’è scritto “Ero di fretta e non ti ho visto”
- Ma perché… - la fisso perplesso e prima ancora che possa finire la frase mi passa un altro foglietto con una frase scritta a matita.
“Mi dispiace, non posso sentirti… sono sorda”.
   
 
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