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Autore: DarkYuna    23/06/2017    1 recensioni
"Inarca le sopracciglia, livida in viso, sta per dare sfogo alla furia e il malcapitato è il sottoscritto. Se è in fase premestruale posso iniziare a scrivere il mio necrologio. Migé avrebbe potuto cantare al funerale o magari Linde, un’Ave Maria Heavy Metal, con chitarre distorte e voci roboanti."
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti, Ville Valo
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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18.
 
*L'ultimo ballo con la morte *








 
Il corridoio dell’ospedale è un via vai di gente di fretta e silenziosa, mi passano davanti come se fossi trasparente, a volte ricevo occhiate sconcertate, qualche infermiera mi ha chiesto se sto bene.
Il sangue di Amelia è sulle mani, asciutto sulla stoffa della maglietta, secco sul viso pallido. Ho la faccia di uno che è uscito vivo da un incidente mortale, ma non credo di essere veramente vivo, probabilmente solo nelle funzioni basilari del termine… è come se qualcuno mi avesse strappato il cuore, però non muoio. C’è una forte sensazione funesta ed oppressiva, che grava al centro del petto e so che presto la percezione, diverrà una straziante realtà.
 
 
Francesca è in un mare di lacrime, Leo non riesce ad arrestare la tempesta. È bastato uno sguardo per giungere alla conclusione più ovvia: stiamo attendendo entrambe la notizia peggiore.
Lui dovrà dare sollievo al dolore della sua amata.
Io dovrò sopravvivere al mio di dolore e nessuno potrà dare sollievo a questo.
 
 
Seduto su una scomoda e fredda panchina di metallo, di un terribile verde acido, ho gli avambracci poggiati sulle ginocchia e le mani imbrattate di bordeaux, tremano visibilmente. Sono svuotato, niente forze, non riesco a muovere un solo muscolo, la schiena è curvata, nemmeno portassi un peso ponderoso su di essa. Fisso le mattonelle bianche, vedo disegni onirici che non esistono, forse sono delle visioni, magari sono sotto shock e non me ne rendo conto.   
Non lo so come sto.
Come sta, uno che ha visto la propria donna rovesciare un secchio di sangue dalla bocca e poi non mostrare più segni di vita? Come posso stare? Come cazzo posso stare?
 
 
Schiudo la bocca, inspiro profondamente e l’ossigeno invade un corpo scosso, non riesco a riprendermi e non sapere come lei stia, mi uccide lentamente e profondamente.
Non ho il coraggio di chiamare nessuno, né mia madre o mio padre o Jesse, non so se voglio affrontare questa situazione da solo. Sì, ci sono Francesca e Leo, ma nessuno dei due ha il coraggio di dirmi alcunché, parlano in italiano tra di loro e sono tagliato fuori. Ho capito che Leo ha telefonato a degli amici che stanno arrivando, così intuisco che, l’unica persona che vorrei fosse qui in questo frangente drammatico è il migliore amico che ha condiviso con me bei momenti e attimi di merda.
Non abbiamo avuto modo di chiarirci, eppure non credo che solleverà pretesti se, adesso, gli chiedo un briciolo d’aiuto.
 
 
Fatico a tenere il cellulare in mano, senza che ci sia pericolo di farlo fracassare al suolo. Il numero è salvato in rubrica, basta premere il bottone verde e lo porto all’orecchio.
Mi allontano di qualche passo da Francesca e Leo, non perché ci sia pericolo che capiscano ciò che dica, ma perché sto cercando un posto per crollare.
 
 
Due squilli, poi la voce incolore e fredda del mio migliore amico, è come un’àncora di salvataggio in un mare di atrocità.
<< Sì? >>.
 
 
<< Migé… >>, la voce esce in un debole sussurro, non sono in grado di parlare, di spiegare, di chiedere aiuto. Gravo il corpo contro un muro e poi mi lascio scivolare sul pavimento freddo, la testa abbandonata sulla parete.
 
 
<< Ville, che succede? >>, chiede lui, ha intuito che c’è qualcosa che non va ed arriva immantinente alla soluzione più ovvia che potesse esserci. << Lei è…? >>. Non riesce a dirlo, la domanda insicura si spezza.
 
 
<< Sono in ospedale. Ti chiedo solo di venire, non so quanto le resti… non sono in grado di affrontare tutto questo da solo… è stato orribile. >>, confesso in uno sbuffo distrutto. << Ho bisogno d’aiuto. >>. È la prima volta che formulo chiaramente una richiesta simile, non l’ho fatto neppure quando ero io ad essere ad un passo dalla morte.
 
 
<< Sarò lì in cinque minuti, Ville. >>, promette e poi il silenzio opprimente conferma che ha riattaccato per sbrigarsi a raggiungermi.
 
 
Infilo il cellulare nella tasca dei jeans, allungo le gambe, chiudo gli occhi e mi rilasso, totalmente sfinito. Perdo la cognizione del tempo, scivolo in un dormiveglia angoscioso, i minuti mi passano addosso come un carro armato dai cingoli chiodati, che si diverte a fare avanti e indietro su di me.    
 
 
Qualcuno si schiarisce la gola, impacciato.
Un anziano dottore in camice bianco, mi sosta davanti.
Di Francesca e Leo non vi sono tracce, nel corridoio. Migé ancora non è arrivato.
 
 
<< Signor Valo? >>, domanda il dottore. Non ha tirato ad indovinare, è certo che sia io.
 
 
Balzo in pieni con non poche difficoltà, ho gli arti inferiori intorpiditi, è come se avessi trascorso una vita a dormire in una posizione scomoda. Ho un tuffo dolorosissimo al cuore.
<< Come sta Amelia? >>.
 
 
Il dottore deglutisce, aggiusta nervoso un paio di occhialetti tondi e gratta più volte la nuca, poi la sentenza di morte: scuote la testa dispiaciuto.
<< Purtroppo non supererà la notte. >>.
 
 
Ed io perdo la ragione.
Tiro un pugno devastante contro la parete, mi agito come un indemoniato, il dolore dell’anima è l’unica cosa che riesco a sentire. Pronuncio numerosi “no” senza senso, il cervello si spegne, esplodo in tutto il dispiacere che ho represso nelle settimane precedenti.
Aveva detto che avrebbe combattuto per restare con me, invece la malattia se la sta portando via prima del tempo.
 
 
<< Voglio vederla. >>, grido veemente. Non me ne frega un cazzo se è contro il regolamento, se il dottore inventerà qualsiasi altro pretesto per impedirmi di starle vicino, non mi fermeranno neppure con i lacrimogeni!
L’uomo è paziente, calmo, anche troppo per i miei gusti. È abituato a persone che muoiono tutti i giorni, ma io no, non l’accetto la morte, la detesto, benché io abbia danzato con lei a lungo. Adesso ha deciso di danzare con la donna che amo.
 
 
Annuisce.
<< Sono venuto proprio per questo: ha chiesto di vederla. >>.
Il dottore mi fa strada attraverso il reparto, conducendomi al terzo piano. Non c’è conversazione, cos’altro può dirmi, dopo avermi rivelato che Amelia sta morendo?
Indica la penultima porta, all’interno di un reparto che sa di decesso e crisantemi: come nel mio sogno.
Non fa raccomandazioni, non dice di fare attenzione, di non farla stancare, non ce n'è più bisogno. Non si perde in inutili convenevoli o frasi di circostanza, è chiuso in un desolante silenzio.
 
 
Amelia è distesa in un letto, sommersa da numerosi tubicini, flebo che le iniettano medicinali del tutto inutili, macchinari collegati al corpo magro. Sembra così piccola ed indifesa e la visione d’insieme mi frantuma definitivamente.
Piango, ma forse stavo già piangendo da prima e me ne accorgo solamente ora.
È sveglia, i suoi occhi trovano in fretta i miei e a fatica si toglie il respiratore dalla bocca cerea. Prova a sussurrare qualcosa, ma la voce non collabora.
 
 
Mi inginocchio impetuoso accanto a lei, le prendo la mano e ne bacio la pelle fredda. Il mio aspetto l’ha spaventata, ho ancora il suo sangue addosso.   
<< Non sforzarti, Amelia. Resta con me il più possibile. >>, prego prostrato. << Devi guarire. Devi tornare a casa con me. Voglio ancora litigare con te, voglio svegliarmi con te al mio fianco. Ti voglio per casa, ad aggiustarmi la vita. Ti voglio con me, per sempre. >>, mormoro affranto, non penso con lucidità, farfuglio cose senza senso. Sapevo che questo momento sarebbe giunto, ma non si è mai pronti a perdere la persona che si ama.
 
 
<< Suona bene. >>, bisbiglia mantenendo quel guizzo divertente, non articola bene le parole, la voce è roca, bassa. Deglutisce spesso e stringe gli occhi: parlare le provoca sofferenza. << Promettimi, che continuerai a… vivere, Ville… per me. Promettimi che… dopo di me… tu non smetterai, di proseguire. Promettimi che, farai… tutto ciò che… non abbiamo fatto insieme. >>.
 
 
Scuoto la testa, cercando di zittirla. Le forza che impiega per esprimersi, le sottraggono minuti preziosi.
<< Shhh, ti prego, non dire niente. >>. Sono un misto di lacrime, singhiozzi e gemiti involontari.
 
 
Stringe debolmente la mia mano, fa’ sul serio.
<< Promettilo, Ville. Promettimi che stanotte s-arò solo io… a morire. Voglio che tu viva. Devi farlo! >>.
 
 
Increspo le sopracciglia e gravo la testa nell’incavo del suo collo, attento a non intaccare i tubicini o a farle male.
<< Te lo prometto, Amelia. Ti prometto che continuerò a vivere, che non smetterò di proseguire, che farò tutto ciò che non abbiamo fatto insieme. Prometto. >>. Ma non posso promettere che, stanotte, sarà solo lei a morire, perché morirò con lei. Le scosto una ciocca spettinata di capelli, portandogliela dietro l’orecchio.
 
 
<< Ci si vede sulle stelle o da quelle parti là. >>, farfuglia con un sorriso di autentica serenità, di come qualcuno che ha smesso finalmente di soffrire e sta assaporando la pace.
E con mio sommo orrore, assimilo che è l’ultima volta che le posso parlare, poiché trascorrerò il resto dei miei giorni senza di lei. Metto da parte l’incapacità di non essere in grado di assemblare due parole decenti in fila, è la mia ultima occasione.
 
 
<< Voglio che tu sappia una cosa, Amelia. Niente di ciò che c’è stato tra di noi è stato dettato dalla pietà, niente di ciò che ho vissuto era fasullo, niente di ciò che ci siamo detti era una bugia. Ogni istante vissuto insieme è stato l’istante più bello della mia vita. Io non potrò mai e poi mai dimenticarti, perché io ti amo. >>. E finalmente lo dico. La amo, come non sono mai stato in grado di amare una persona, la amo più di me stesso e nel mentre dico di amarla, sono sul punto d’impazzire, perché sta per lasciarmi.
 
 
Non mi sono accorto il momento preciso, durante il discorso, in cui la presa sulla mia mano si è allentata.
Batto le palpebre e un supplizio penetrante si lacera al centro del petto, seguito da un suono continuo proveniente dal macchinario che misura i battiti cardiaci.
Alzo spaesato il viso, la testa gira come una trottola, vado sotto shock.
Gli occhi vitrei di Amelia fissano un punto indefinito sul soffitto, lacrime calde sono scivolate sul viso immobile, le labbra sono socchiuse e in un angolo un rivolo di sangue sta ancora scorrendo.
 
 
Un urlo disumano scoppia distrutto dalla bocca, cado a terra e ripeto parole inconsulte, il suo nome si spezza in gola e vado totalmente alla deriva. Il dolore mi schiaccia sotto un peso incalcolabile, sono un concentrato di disperazione, colpe imperdonabili, dolcezze mancate e tempo prezioso che ho lasciato fluire via.
Non ha sentito il “ti amo” che tanto anelava e che non sono stato in grado di rivelargli prima. Le promesse che mi ha chiesto, le hanno prosciugato le ultime forze e l’hanno uccisa.
 
 
In una lesta processione, uno dopo l’altro, dottori ed infermieri irrompono nella stanza satura di alcool etilico, si accaniscono sul corpo senza vita della persona che amo. Provano a rianimarla, iniettano liquidi inefficaci, il suo cuore non riparte, ha smesso di combattere definitivamente.
Lei non è più qui.
 
 
Delle mani mi afferrano per le spalle, inducono via di forza, non riesco a ribellarmi, sono come un’onda che viene trascinata via dalla potenza del mare. Mi ritrovo dietro al vetro che dà nella camera, fisso sconcertato una scena che fatico ad assimilare, niente appare reale, sembra di assistere ad un film a rallentatore, dove la protagonista è appena morta e colui che la ama, resta solo, in un covo di tormento: niente lieto fine per noi.  
 
 
In una circostanza così feroce, violenta e brutale, ritorna alla mente scompaginata le parole della canzone che, io ed Amelia, avevamo ascoltato la mattina dopo il mio tentato suicidio, in quel bar: Yhtenä iltana, dei Sara. La canzone che a lei piaceva tanto.           
In una notte può accadere qualsiasi cosa.
In una notte ho incontrato colei che è diventata il mio cuore.
In una notte ho capito di amarla più di me stesso.
In una notte ho scoperto che l’avrei persa per sempre.
In una notte l’ho persa.
 
 
Addio amore mio. 









Note: 
Beh, ehm, siccome lo scorso capitolo non era stato abbastanza strappalacrime, ho la netta sensazione che questo sia stato anche peggio. Lo so, sono un pochetto infame (ma proprio poco xD), però, volevo che questo capitolo fosse incentrato sull'esatto momento in cui Amelia sarebbe morta, per me, in un certo senso, era importante descriverlo. Dopo tante storie con i "ti amo" che volano a raffica, qui, invece è accaduto che lei è deceduta senza sentire Ville che glielo confessava. 
Tutto quel tempo e Ville si è ridotto all'ultimo a dirle che l'ama ed Amelia non l'ha neppure sentito. (La smetto di girare il coltello nella piaga). 
I lieto fine, comunque, non fanno per me, si era capito, no? 

Vi comunico che, il prossimo capitolo, sarà definitivamente l'ultimo e quindi siamo giunti all'epilogo di questo lungo e doloroso viaggio. 

Non so il perché, questa storia mi ha ricordato una delle prime ff che lessi in questa sezione nel lontano 2008, dove la protagonista si suicidava dopo la morte della madre (se l'autrice si riconosce, mi farebbe piacere rileggerla, grazie). Credo che poi sia stata cancellata, ma ha lasciato una grande impronta dentro di me. Molte delle ff dedicate a Ville e, che sono state di seguito cancellate, mi hanno portata ad amare maggiormente Ville e gli HIM. (Non ve ne frega nulla, lo so xD). 

 
Ringrazio come sempre chi legge, chi commenta e chi fa il fantasmino. 


La storia può presentare errori ortografici.

Un abbraccio.
DarkYuna   
 

 
 
  
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