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Autore: Roscoe24    24/06/2017    4 recensioni
"Con Magnus era stato diverso. Era come se, puntandogli l’indice contro lo avesse messo sotto ad un cono di luce mostrando ai presenti che c’era anche qualcun altro oltre a Jace. Per la prima volta, non era stato nell’ombra, ma, al contrario, era stato evidenziato come si potrebbe fare con la frase di un libro che ci colpisce particolarmente e non vogliamo dimenticarci."
Genere: Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Alec Lightwood, Jace Wayland, Magnus Bane, Nuovo personaggio
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Alec era in piedi davanti alla dispensa completamente vuota di Magnus. Gli sportelli spalancati mostravano al loro interno un vuoto paragonabile a quello cosmico: nemmeno la polvere era depositata in quel mobile. Il giovane Cacciatore pensò che fosse una cosa da Sommo Stregone: niente cibo, ma nemmeno niente polvere. Sbuffò, mentre sentiva il suo piano sfumare nell’aria come un demone che viene trafitto da una spada angelica e rispedito nella sua dimensione infernale. Si premette il medio e il pollice della mano destra contro le tempie, massaggiandole. Aveva un mal di testa così intenso che aveva l’impressione di sentire il cervello premere contro la scatola cranica con la stessa costanza fastidiosa di un trapano che buca un muro. Chiuse gli occhi, cercando un modo per calmare il dolore. Sapeva che era inutile. Sapeva che avrebbe dovuto fare qualcosa di più concreto, come passare lo stilo sulla runa guaritrice, ma contro ogni logica rimase immobile esattamente dove si trovava: al centro della cucina vuota di Magnus, davanti alla sua dispensa, con alle spalle un ripiano di marmo nero e rosa e con la luce del sole che lo riscaldava di lato, entrando dalla finestra che si trovava alla sua sinistra.
Sospirò e poi sentì una porta dietro di lui aprirsi con una delicatezza controllata, come a non voler fare nessun tipo di rumore. Si voltò e notò che era la porta della camera di Jace, ma, con sua grande sorpresa, da quella stanza non uscì suo fratello, bensì Esme. La ragazza si avvicinò a lui con passi felpati, leggeri, quasi impercettibili. Aveva i piedi nudi e indossava – oltre alle mutandine – solo una maglietta larga nera che le copriva solo i seni, lasciando la pancia piatta scoperta, e da cui fuoriusciva una spalla. La guardò passarsi una mano tra i lunghi capelli castani come l’ebano e mettersi al suo fianco.
“Buongiorno, Alec.”
“Sei uscita dalla camera di Jace.” le disse, indicando con il pollice la porta in questione alle loro spalle.
“E tu sei in piedi a fissare il nulla.”
Alec sgranò gli occhi e alzò entrambe le sopracciglia in un’espressione confusa e spaesata.
Esme sorrise: “Non fare quella faccia, sembri un cucciolo smarrito.” Si sedette sul ripiano di marmo, con le gambe che penzolavano nel vuoto, “Pensavo ci stessimo dicendo cose ovvie. Avrei potuto dirti anche e tu sei un maschio, oppure e tu sei a torso nudo.
Alec guardò improvvisamente verso il basso, rendendosi conto che Esme aveva ragione e lui si era completamente dimenticato che non indossava niente sopra ai pantaloni. Le sue guance si colorarono immediatamente di rosso.
“Rilassati, Alec. Per quanto mi piacerebbe fare un giro su questa giostra,” con lo sguardo attraversò il corpo del ragazzo, soffermandosi un poco sulle rune che lo decoravano, “So di non essere esattamente il tuo tipo.” Rise, ma senza un accenno di derisione nei suoi confronti. E Alec, che prima sotto lo sguardo felino di Esme si era sentito più nudo di quanto non fosse, adesso si stava rilassando per davvero. La ragazza, comunque, schioccò le dita e fece apparire una maglietta viola scuro a maniche corte tra le mani di Alec. Il ragazzo la infilò e si trovò a pensare che il rapporto che si era instaurato tra lui ed Esme gli piaceva: l’aveva conosciuta nel loft di Magnus, quella volta in cui avevano deciso di evocare il demone che custodiva i ricordi di Clary. Ricorda quel giorno per due ragioni, in particolare. La prima: Magnus l’aveva definito un bel ragazzo, facendogli provare un’emozione che non aveva mai provato: l’essere notato. Di norma, le persone notavano sempre prima Jace, con la sua mascella perfettamente squadrata, gli occhi lucenti di un leone inarrestabile e l’ego smisurato di chi sa di essere irresistibile, di piacere oltre ogni misura a tutte le persone che lo incontrano. Con Magnus era stato diverso. Era come se, puntandogli l’indice contro (Non stavo parlando con te, aveva detto a Jace, che aveva dato per scontato che il bel ragazzo nella stanza fosse lui, stavo parlando con te e aveva proprio indicato Alec) lo avesse messo sotto ad un cono di luce mostrando ai presenti che c’era anche qualcun altro oltre a Jace. Per la prima volta, non era stato nell’ombra,  ma, al contrario, era stato evidenziato come si potrebbe fare con la frase di un libro che ci colpisce particolarmente e non vogliamo dimenticarci.
Magnus gli aveva fatto battere il cuore come non succedeva da tempo. Gli aveva fatto capire cosa si potrebbe provare ad essere amati e ad amare qualcuno che ricambia i tuoi stessi sentimenti.
Ma c’era anche un’altra ragione per cui ricordava quel giorno: il demone gli aveva mostrato Jace quando aveva chiesto che gli venisse dato un ricordo legato alla persona che amavano di più. La cosa l’aveva parecchio turbato. Non era sicuro di amare Jace, ma non era sicuro nemmeno di non amarlo. Era suo fratello, il suo parabatai, ma forse la cosa andava al di là di tutto questo. Forse il forte legame che sentiva verso di lui usciva da quello di parabatai ed entrava in qualcosa simile all’amore.
Lo pensava davvero finché non smise di pensare che provare qualcosa per Magnus fosse in qualche modo sbagliato e aprì il suo cuore allo Stregone. In quel momento esatto si era reso conto che magari Jace poteva possedere una parte della sua anima, ma il suo cuore, tutto il suo cuore, apparteneva a Magnus Bane.
Esme, in tutta quella scenetta, aveva ridacchiato parecchio quando aveva notato lo sguardo interrogativo di Jace, come se ritenesse un affronto non essere considerato bello da qualcuno. Gli era piaciuta fin da subito, in realtà. Lei se n’era stata in disparte, discreta come il battito d’ali di una farfalla, sebbene il suo aspetto la rendesse impossibile da non notare, e aveva lasciato che Magnus procedesse nel rituale, aiutandolo con i suoi poteri non appena lui gliel’aveva chiesto.
Anche Esme era una strega e nonostante non fosse somma era parecchio potente.
“Alec, ci sei?” La strega gli stava sventolando una mano davanti al viso. Con un battito di ciglia, il cacciatore tornò a prestarle attenzione. La guardò, trovandosi a ricordare la prima impressione che aveva avuto di lei, costatando che non era cambiata di molto. La riteneva ancora bella, come la prima volta che l’aveva vista. Non provava quel genere di interesse per lei,  ma negare quanto la trovasse bella sarebbe stato come negare lo splendore del Colosseo Romano, del Grand Canyon, o dei teatri greci, che con la loro imponente resistenza erano perdurati lungo i secoli, rimanendo affascinanti come la prima volta che vennero costruiti. Esme, con i capelli colore dell’ebano che le arrivavano a metà schiena scendendo in piccole onde e gli occhi grigi come l’acqua che riflette un cielo plumbeo, possedeva una bellezza monumentale, fiera e, a tratti, pericolosa come i suoi poteri. Era sinuosa come una vipera che si insidia nelle menti altrui, conoscendo il modo perfetto per persuaderli. Era come un oceano in tempesta: indomabile, spaventoso, ma che non puoi fare a meno di guardare, tanto che vieni rapito dalla sua irruente potenza.
“Sono qui.” Balbettò rendendosi conto che era rimasto a fissarla senza dire una parola.
“Non sembrerebbe. Allora, mi dici che stavi facendo in piedi in cucina?”
“Se tu mi dici cosa stavi facendo nella camera di Jace.”
Gli occhi dal taglio felino della ragazza vennero invasi da un lampo di estrema malizia: “La stessa cosa che facevi tu nella camera di Magnus.”
Alec arrossì di nuovo, ma non distolse lo sguardo, anche se una parte di lui avrebbe voluto farlo.
“Oh, chiaro. Non voglio conoscere i dettagli.”
“Ne sei sicuro? Magari potresti imparare qualcosa!”
“Esme, smettila!”
La ragazza rise di nuovo, tirando la testa all’indietro. “Va bene, Alexander, come preferisci.”
La strega schioccò nuovamente le dita e fece apparire una ciambella, che addentò immediatamente, e una tazza di caffè nero e fumante. L’odore pervase la stanza ed entrò nelle narici di Alec, che si passò la lingua sulle labbra. La voglia di caffeina si fece sentire prepotente, complice anche il mal di testa che non gli dava tregua: non sapeva per quale oscuro motivo, ma il caffè aveva un effetto positivo sulle sue emicranie. Quanto meno, le affievoliva.
“Gesti del genere, fatti da uno con la tua bellezza e quella bocca, dovrebbero essere considerati illegali.”
Alec distolse la sua attenzione dalla tazza di caffè per portarla su Esme.
“Sai che queste cose mi mettono a disagio, vero?”
“Cosa, ricevere complimenti?”
“Sì..”
“Ti da fastidio solo perché sono io a farteli. Non lo farò più, d’accordo? Mi limiterò ad apprezzarti in silenzio.”
Sotto molti aspetti, Esme gli ricordava Magnus. L’assenza di filtri li accomunava parecchio e Alec riteneva che derivasse dalla loro eterna permanenza sulla terra. Sentimenti come la timidezza, o l’insicurezza, diventavano cose futili, conoscendo la corta durata della vita umana. Non avevano nessun tipo di remore a dimostrare di provare interesse per qualcuno perché sapevano che se avessero aspettato troppo, poi sarebbe potuto essere troppo tardi. Le occasioni andavano colte e questo comportava la sincerità e la schiettezza più sfacciate possibili. Avevano entrambi una sicurezza ferrea, che il giovane invidiava a tutti e due, nel mostrarsi per come erano e per ciò che volevano.
“Grazie.”
“Prego, pasticcino. “ gli sorrise, tenendo la lingua tra i denti. “Adesso, tornando alla domanda basilare: cosa ci facevi impalato davanti alla dispensa di Magnus?”
Il cacciatore rimase in silenzio, non sapendo bene come rispondere e sentendo una punta di imbarazzo crescere in se.
“Se cercavi del cibo ti informo che il nostro caro Sommo si procaccia da mangiare come ho appena fatto io.”
“N-no, io…” Alec si grattò la nuca e si guardò i piedi nudi. Esme si sporse in avanti per fare in modo che il suo viso entrasse nel campo visivo del ragazzo che le stava accanto.
“Tu… pensavi di preparare qualcosa a Magnus?” suggerì con una dolcezza nella voce che Alec non le aveva mai sentito. Fu strano, ma allo stesso tempo piacevole. Aveva pensato che confessare una cosa del genere sarebbe stata percepita come infantile, o addirittura ridicola, ma nel tono della voce di Esme aveva percepito solo comprensione.
“Come fai a saperlo?” Il ragazzo portò i suoi grandi occhi verdi su di lei. Le ciglia lunghe e scure li circondavano come a voler proteggere due abbaglianti pietre preziose.
“Conoscevo una persona, molto tempo fa, che aveva l’abitudine di fare la stessa cosa.”
Con grande sorpresa di Alec, Esme abbassò lo sguardo sulle mani che abbracciavano la tazza, ormai piena di caffè solo a metà. Fu un gesto così estraneo alla sua personalità esuberante, come se si stesse chiudendo in se stessa ergendo una muraglia di spine per proteggersi e non essere ferita.
“Va tutto bene?” le chiese, riconoscendosi fin troppo in quel comportamento.
Esme portò i suoi occhi colore dell’argento liquido su di lui. Alec sentì il respiro mozzarsi, come se fosse stato colto in flagrante a fare qualcosa di estremamente proibito e adesso avesse paura delle conseguenze.
“Sì…” si sforzò di aprirsi in un sorriso che risultasse convincente, “..sì, Alec. Stai tranquillo.” Il ragazzo la guardò deglutire con forza, come se improvvisamente le si fosse formato un sasso in gola, grosso quanto una pesca, che le impedisse di respirare.
“Dobbiamo,” si schiarì ancora la gola, “Dobbiamo preparare qualcosa per Magnus. Come vuoi farlo?”
Alec avrebbe voluto dirle che se in qualche modo c’era qualcosa che le stava facendo rivivere ricordi spiacevoli, poteva benissimo lasciare perdere. Avrebbe voluto spingerla a tirare fuori ciò che la tormentava – nonostante non fosse bravo in queste cose. Perché vedere Esme, che di norma sprizzava luce da ogni poro del suo corpo, essere sopraffatta da una tenebra così oscura lo faceva stare male. Alla fine, anche se non l’avrebbe mai ammesso ad alta voce, le voleva bene. Avrebbe voluto trovare il modo giusto per confortarla, ma alla fine disse soltanto:
“Cosa intendi?”
Lei, nonostante tutto, sembrò apprezzare il fatto che non volesse approfondire la questione.
“Vuoi farlo con la magia o con le tue manine??”
Quell’ombra che l’aveva appena circondata sembrò svanire un poco, sebbene Alec continuasse a percepirla.
“No, niente magia.”
“Bene, ma ci servirà comunque per procurarci gli ingredienti. Non esiste al mondo che mi vesta alle sette e mezza del mattino per uscire a fare la spesa.”
“Come se non avessi la faccia di uscire in queste condizioni.” La squadrò da capo a piedi e lei rise con quella sua risata cristallina. Alec alzò gli angoli della bocca e la guardò con occhi ridenti.
“Hai ragione: lo farei. Ma non ne ho nessuna voglia.” Scese con uno movimento fluido giù dal ripiano e si strofinò le mani una contro l’altra: “Se mi dici cosa hai intenzione di preparare posso procedere con l’apriti sesamo.
“Quello funziona solo per le porte, non per trasportare roba da mangiare.”
“Metafora, Alec. Era una metafora.”
Il ragazzo si sentì un po’ stupido, ma decise di lasciare da parte quella sensazione e procedere. Si ricordò di una volta in particolare, quando stava ispezionando un territorio per una missione. Era tardo pomeriggio, la sera sarebbe giunta dopo poco, e una coppia stava seduta ad un tavolo, uno di fronte all’altro: erano due ragazzi, poco più grandi di lui, che manifestavano il loro amore alla luce del sole, tendendosi per mano e scambiandosi un bacio ogni tanto, tra le chiacchere. Ricorda di averli invidiati moltissimo: loro potevano fare qualcosa che a lui era sempre stato proibito dalle severe leggi del Conclave; loro potevano mostrarsi esattamente per ciò che erano senza esserne derisi, o penalizzati. Ricordò che entrambi sorseggiavano caffè e piluccavano muffin dall’aspetto soffice che gli avevano dato l’idea di essere deliziosi.
“Muffin. Vorrei preparare dei muffin.”
Esme batté le mani e cominciò a muovere le dita. Aveva le mani piccole, delicate e affusolate. Sembrava strano che da qualcosa di così grazioso potesse uscire qualcosa di estremamente potente come la magia che era capace di gestire. Alec osservò i lampi di energia verde che uscivano dalle sue dita come tanti piccoli serpenti ammaestrati e vide gli ingredienti materializzarsi sul piano cottura, che si trovava proprio sotto alla dispensa. Comparvero latte, uova, zucchero, farina, lievito e delle mele. Il Cacciatore piegò la testa di lato e aggrottò le sopracciglia, confuso, non riuscendo a trovare uno scopo alla frutta.
“Ci metteremo dei piccoli pezzetti di mele,” spiegò Esme prima di far comparire anche la cannella.
“Mele?”
“Non ti piacciono?”
“Sì.. solo non ci avevo pensato.”
Alec spostò lo sguardo dagli ingredienti alla ragazza. Esme aveva mostrato i suoi occhi, i suoi veri occhi, quelli da strega. Il Marchio del demone, che testimoniava la sua appartenenza al Mondo Invisibile e, di conseguenza, la sua natura da Nascosta. Era marchiata esattamente come lo era lui: Esme aveva i suoi occhi viola da drago, le pupille ridotte ad una sottilissima linea nera che partiva dalla parte alta dell’iride e arrivava fino a metà, come un segmento incompleto, mentre Alec aveva le sue rune, che gli erano state impresse nella pelle a fuoco caldo. Ma, se i suoi segni distintivi, le sue cicatrici, erano motivo di vanto e di orgoglio, nella sua cultura, quelli di Esme erano sinonimo di vergogna, di mancata purezza, di inferiorità, di discriminazione.
Iniziava a credere che fosse una cosa ingiusta. Nessuno di loro aveva scelto di nascere con metà sangue di demone, era capitato e basta. Ma ciò non li rendeva necessariamente malvagi. Venivano puniti per azioni che non avevano commesso. Venivano puniti per un pregiudizio.
Alec guardava gli occhi di Esme, quelli che avrebbero dovuto fargli pensare di avere davanti un mostro, un ibrido indegno e demoniaco, ma altro non vedeva che una persona disposta ad aiutarlo a fare una cosa per la persona che lui amava. Vedeva un’amica, non una minaccia.
“Sai come si fa o vuoi che ti spieghi il procedimento?”
“Vorrei che mi spiegassi,” fece una pausa e notò che gli occhi di Esme erano tornati grigi, “Non l’ho mai fatto prima di adesso…”
Lei gli sorrise con dolcezza: “Va bene, allora. Procediamo.”

Esme si rivelò un’insegnate piuttosto meticolosa. Era precisa e perfezionista. Alec non avrebbe mai pensato che ci volesse così tanto metodo nel preparare qualcosa da mangiare.
Esme gli aveva detto di pesare la farina e lo zucchero, metterli in una ciotola insieme al lievito e di rompere una determinata quantità di uova in quello stesso contenitore e poi di cominciare a mescolare. Lui l’aveva fatto, ma il suo impasto aveva ancora dei grumi che non lo rendevano molto piacevole da guardare.
“Devi continuare a mescolare finché i grumi di farina non sono completamente sciolti.” Gli disse, mentre tagliava con una precisione maniacale dei quadretti di mela. Ne aveva già tagliate due, Alec le aveva contate.
Il ragazzo continuava a mescolare, sapendo che prima o poi i grumi si sarebbero sciolti e avrebbe ottenuto un impasto liscio. Osservò Esme, intenta a tagliuzzare le mele: le riduceva a piccoli cubetti che sistemava in un piatto paro cosparso di polvere di cannella, facendoli aromatizzare. Si chiese perché non lo facesse con la magia: avrebbe fatto prima e avrebbe sprecato meno energie. Alla fine, quello che voleva fare le cose con le proprie mani – in maniera normale ­– era lui, lei non era obbligata a farlo.
Guardò la mano di Esme che teneva fermo il coltello calare sul frutto sbucciato con precisione chirurgica, quasi come se conoscesse una tecnica particolare per affettare perfettamente senza rischiare di tagliarsi. Gli ricordò uno dei programmi di cucina che Izzy guardava nel tempo libero, cercando – invano – di imparare qualcosa.
“Dove hai imparato a farlo?” le chiese. Esme alzò gli occhi su di lui nel momento esatto in cui la lama calava sul corpo succoso della mela. Alec era convinto che si sarebbe tagliata non guardando quello che faceva, ma non fu così. La fetta si staccò dalla mela e cadde di lato, come un piccolo corpo morto.
“Durante il mio primo lavoro.”
Primo. Quanto può essere lontano nel tempo il primo lavoro di una strega immortale?
“Quanti anni sono passati?”
Esme gli lanciò un’occhiata che Alec non seppe interpretare, gli occhi ridotti a due fessure.
“Non si chiede l’età ad una donna, Alexander.”
Ogni volta che Esme pronunciava il suo nome per intero, emetteva un suono che gli ricordava le fusa di un gatto pigro che pretende di essere coccolato.
“Tecnicamente non l’ho fatto.”
Tecnicamente faresti due conti e ci arriveresti.” Gli rivolse un mezzo sorriso, alzando solo un angolo della bocca e poi tornò alle sue mele.
Alec, però, nonostante la sua mano fosse impegnata nel meccanico movimento di mescolare, rimase focalizzato su di lei, sulla sua figura misteriosa. Non sapeva niente del passato di Esme. Non sapendo quanti anni avesse non riusciva nemmeno a catalogarla in una determinata epoca storica. Sapeva solo che era amica di Magnus e che, adesso, viveva con lui a Brooklyn. Questo, normalmente, gli sarebbe bastato, ma adesso… adesso vedendola in condizioni differenti rispetto a quelle in cui la vedeva di solito era come se si fosse reso conto che Esme non era solo quello che lui vedeva, non era solo la persona con cui aveva simpatizzato con una facilità estrema – cosa da definirsi quasi stupefacente per lui, visto il suo carattere chiuso e la sua tendenza a non fidarsi mai troppo di nessuno – ma era qualcuno che aveva camminato nei secoli, vivendo chissà che vite e adesso era arrivata fino lì. Era un iceberg di eventi che teneva ben nascosti sotto la superficie di un oceano freddo e mostrava solo ciò che voleva mostrare.
“Se non guardi l’impasto non saprai mai se la farina si è sciolta, Alec.” Pronunciò il suo nome come faceva sua madre quando da bambino lo rimproverava per aver fatto qualcosa di sbagliato. In quel momento, gli sembrò più vecchia di quanto il suo giovane e bell’aspetto mostrasse. Il suo corpo era un contenitore grazioso dentro al quale si trovava un’anima vissuta, forse in un certo senso anche consumata dal tempo e dalle esperienze.
“Come fai a conoscere Magnus?”
Esme posò il coltello e appoggiò le mani al piano di marmo su cui poco prima, invece, era seduta. Sospirò, un sospiro profondo e pesante, e voltando completamente il suo corpo, si appoggiò con la schiena al bordo di marmo, guardando Alec, che si trovava vicino a lei, dritto negli occhi. Ad Alec mancò di nuovo il respiro, come era successo poco prima quando Esme si era rabbuiata e lui aveva avuto l’impressione di aver fatto qualcosa di proibito. Adesso, però, l’aria gli mancava perché Esme sembrava… alterata. I suoi occhi saettavano frenetici e in fondo all’iride Alec poteva scorgere una chiazza viola, come se i suoi poteri volessero affiorare, ma lei li tenesse a bada sotto la superficie di normalità che il suo aspetto doveva avere. Stava soffocando l’impulso di lasciarsi andare, di far uscire la strega. Che fosse un meccanismo di difesa? Che avesse toccato dei tasti che non doveva neppure sfiorare? Rimase in silenzio, continuando a guardare la lotta interiore che Esme stava combattendo, come se un tornado di emozioni si fosse scatenato dentro di lei e non sapesse a quale dare ascolto. Poi tutto cambiò: la sfumatura viola si ritrasse, lasciando spazio solo al grigio; i suoi occhi smisero di saettare, tornando a guardarlo nel modo in cui lo guardavano sempre – in questo modo, Alec tornò a respirare normalmente e solo quando lo fece si rese conto di aver trattenuto il respiro fino a quel momento.
La ragazza rimase in silenzio e così fece Alec. Era paralizzato, non sapeva cosa fare, o dire, o in che modo comportarsi. Ma poi Esme parlò e la sua voce non suonò per nulla minacciosa o alterata, ma solo… triste.
“Avevo otto anni quando l’ho conosciuto.” Suonava roca e distante, come se ripercorresse un ricordo doloroso. “Sono passati così tanti anni, ma riesco ancora a vederlo avvicinarsi a me come se fosse passato solo un giorno.” Fece una pausa. Con un gesto istintivo, si afferrò i capelli e li portò sulla spalla sinistra.
“Ero solo una neonata quando mi portarono alle porte di un orfanotrofio cristiano. Chiunque mi abbia portata fin lì, mi infilò dentro alla ruota che era incastrata nel muro e la girò, per far in modo che entrassi in quella specie di monastero.”
Alec ricordò di aver letto da qualche parte che gli antichi orfanotrofi, per impedire che i neonati morissero congelati alle porte degli edifici, avevano impiantato nelle mura delle ruote che giravano dall’esterno verso l’interno, in un solo senso, di modo che il bambino, una volta lasciato, non venisse più ripreso. Non c’era possibilità di ripensamento per una madre, o un padre, che decideva di abbandonare il proprio bambino.
“Mi trattavano bene, finché non scoprirono cosa ero. Avevo tre anni e per i successivi cinque mi torturarono: per le suore e vari preti che passavano dal monastero, ovviamente, non erano torture, ma un modo per purificarmi, per togliermi il diavolo dal corpo… ho rischiato di affogare così tante volte, immersa nell’acqua santa, che ho perso il conto. Avevo costantemente la gola gonfia e irritata per l’acqua che mi entrava nella trachea quando, con la testa sommersa, gridavo come una forsennata.  La notte non riuscivo a dormire, terrorizzata dall’idea che, per cogliere Lucifero di sorpresa,” disegnò in aria delle virgolette con le dita, come se volesse citare le parole pronunciate dai monaci, “venissero nella mia stanza con nuove torture, o come piaceva dire a loro, nuovi metodi di purificazione.” Si fermò, facendo un’altra pausa e Alec non poté fare a meno di immaginarsi la piccola Esme rannicchiata in una celletta, fredda e spoglia, che teme per la propria vita e sanità mentale. Si immaginò grandi mani su di lei, che la forzavano a fare qualcosa che rischiava di ucciderla ogni volta. Riuscì quasi a sentire le sue grida di dolore, di supplica, mentre veniva esorcizzata con metodi rudimentali e violenti. Improvvisamente, si pentì di averle fatto tante domande, di aver insistito per scavare a fondo nella sua personalità e nel suo passato. Si rese conto che, se certe cose vengono sepolte nella profondità della nostra anima, un motivo c’è. Si sentì terribilmente in colpa per come si era comportato e provò a dirle di smettere, che non era necessario rivivesse una tale brutalità, ma la sua gola era chiusa. La sua voce non voleva uscire, mentre quella di Esme stava nuovamente riempiendo la stanza.
“Il giorno che Magnus entrò nella mia celletta, vestito da monaco, ricordo di essermi scagliata contro di lui. Volevo fargli del male come loro l’avevano fatto a me. Ero stanca di essere maltrattata e torturata. Ma lui mi afferrò per le braccia e mi parlò con dolcezza. Era un tono che non sentivo da così tanto tempo che mi ipnotizzò subito, come se lui fosse stato un incantatore e io un serpente. «Non devi avere paura di me, piccola Esme.» mi disse e io gli credetti. C’era qualcosa nel suo sguardo che mi tranquillizzò immediatamente, poi continuò dicendomi che era esattamente come me e mi mostrò i suoi occhi da gatto, gialli come fanali che illuminavano il buio della mia stanzetta. Gli saltai in braccio senza pensarci troppo,” Alec la vide abbozzare un sorriso timido, “mi portò via con se e non mi lasciò mai più.” Si toccava la punta dei capelli, attorcigliandoli intorno alle dita, “Era già così quando l’ho conosciuto,” disse, alludendo all’aspetto fisico dello stregone.
Alec era senza parole, la gola arida e gli occhi che pungevano, come se fosse sul punto di piangere.
“M-mi dispiace, Esme…” le disse, avvicinandosi. Sembrava così piccola, adesso. Alec fece per allungare una mano verso di lei, come se volesse mettergliela dietro la nuca per tirarla a se e stringerla in un abbraccio. Ma non lo fece. Non sapeva gestire queste cose, non sapeva gestire le emozioni. Gli avevano sempre insegnato a sopprimerle perché sono fonte di distrazione. Ma come si faceva ad ignorare il disagio che provava dentro? Come poteva soffocare la marea di sofferenza che quel racconto gli provocava?
“Non devi dispiacerti. Mica è colpa tua.” Esme tornò ad affettare le sue mele come se ciò che aveva appena finito di raccontare non ne avesse del racconto dell’orrore.
Alec le si avvicinò ancora, la sua altezza svettava su Esme, che ebbe l’impressione di essere coperta dal tronco di una quercia e alzò il suo viso su di lui. La donna guardò gli occhi verdi del ragazzo farsi scuri e cupi.
“Non avrei dovuto insistere.”
“Non hai insistito. Sono io che ho voluto raccontarti la storia di come ho conosciuto l’uomo che ami. È diverso. Tu non hai colpe.”
L’uomo che ami. Quelle parole lo colpirono come un pugno in pieno stomaco, una cannonata gettata alla massima potenza su di lui. Si sentì a disagio, inizialmente, ma non se la sentì di negare ciò che Esme aveva detto. Anche se non l’aveva ancora elaborato a pieno, o studiato, aveva capito che l’unico modo per spiegarsi i sentimenti che provava per Magnus era definirli amore. Quella sensazione travolgente di desiderarlo accanto a se appena aveva un attimo libero, le mani sudate e il cuore che scalpitava selvaggio e impazzito ogni volta che erano insieme, il respiro che gli si mozzava ogni volta che Magnus lo guardava con i suoi occhi scuri e profondi. Tutto questo altro non poteva essere che amore.
“Io..”
“Basta, Alec.” Esme tornò risoluta,  come se quella bambina che il cacciatore credeva di aver visto e avuto davanti per qualche istante, quel piccolo esserino fragile e abusato, fosse stato spazzato via dall’imponenza della donna che Esme era diventata, forte e determinata come il vento.
“Scusa.”
“Chiedi un po’ troppo scusa. Non sembra una cosa da Shadowhunters..”
“Il fatto che non mi scusi spesso non vuol dire che non sappia quando farlo.”
“Lo so.” Lo guardò e Alec ricambiò, osservando il viso giovane di Esme che fungeva da maschera per coprire tutte le cose vissute, tutti gli orrori visti e provati. La sua bellezza il prezzo di un’immortalità crudele, passata a subire ingiustizie. “E questo l’hai imparato stando con Magnus, non è vero??”
“Cosa, scusarmi? Puoi giurarci.”
Esme sorrise, gli occhi colmi di tenerezza: “Mi ha detto che sei piuttosto bravo a farlo, quando vuoi farti perdonare.”
Alec ricordò Magnus in piedi sulla terrazza del loft mezzo nudo – era un particolare difficile da dimenticare, quello – che si esercitava con magie nuove, mentre lui provava a chiedergli scusa per il suo comportamento poco ragionevole. Ricorda di aver cominciato dicendo non sono bravo con le scuse, ma poi Magnus aveva detto il contrario. Era tutto così nuovo, per Alec. L’amore, le scuse, le liti, il rapporto con una persona che non fosse qualcuno della sua famiglia, il battito cardiaco a mille ogni volta che lo aveva vicino, i baci. Ma voleva imparare a gestire tutto, per Magnus.
“Lo ami sul serio, non è vero?”
“Non gliel’ho ancora detto.”
Esme lo guardò con la comprensione di una mamma, o di qualcuno che ha già vissuto una situazione simile e conosce il piacevole tormento che può provocare la consapevolezza di amare qualcuno, ma avere ancora paura a confessarglielo.
“Glielo dirai al momento opportuno.”
“E tu?” Alec non si rese conto di aver parlato fino a quando la sua voce non risuonò nelle sue orecchie. Malgrado il pentimento che aveva provato ad aver scavato a fondo nel passato di Esme e aver toccato tasti sensibili, la curiosità di sapere qualcosa di più su di lei aveva preso il sopravvento su qualsiasi altra cosa, come se ne fosse stato posseduto in maniera irrazionale e frenetica.
“Vuoi sapere se ho mai amato Magnus?”
Alec annuì.
“No,” scosse la testa, “Almeno, non come lo ami tu. L’ho amato in molti modi: come un padre quando mi ha cresciuta, come un fratello quando sono diventata grande e ho smesso di invecchiare. Mi ha insegnato a non avere paura delle mie capacità e ad usarle nel migliore dei modi; mi ha insegnato ad amarmi esattamente per quello che ero, senza provare alcun tipo di vergogna per il sangue che scorre nelle mie vene. Ma si riduce tutto a questo.”
“Non userei si riduce. È comunque un sentimento importante.” E istintivamente pensò a sua sorella Izzy, Max e Jace – i suoi fratelli – che amava incondizionatamente e di un amore che gli faceva vibrare l’anima. Ciò che legava Esme e Magnus andava al di la del tempo e dei confini dettati dai limiti umani.
“Certo, io..” Esme guardò altrove, fuori dalla finestra. Non che ci fosse chissà quale grande spettacolo, dal momento che il loft dava sulla strada – da cui cominciavano a provenire i rumori delle macchine dei mondani che cominciavano la loro giornata – ma sembrava che Esme riuscisse ad usare quella finestra come uno specchio attraverso il quale rivedere, e in qualche modo rivivere, i suoi ricordi. “Io non sarei più qui se non fosse per lui.”
“Che vuoi dire?” In qualche modo aveva l’impressione che quell’affermazione andasse al di là del salvataggio all’orfanotrofio.
Lei tornò a guardarlo: “È come se tu avessi aperto il vaso di Pandora, Alexander.” Sospirò e improvvisamente apparve stanca e… anziana – come se in un istante il peso di tutti i suoi anni le gravasse sulle spalle come un enorme, gigantesco, macigno di roccia dura. 
“Vuoi sapere tante cose, ed è giusto, anche se non capisco perché tu sia così curioso di conoscere tante cose su di me.
Alec rimase in silenzio un attimo, pensando a come diamine erano arrivati ad avere una conversazione simile: prima discutevano di muffin e adesso del passato di Esme, un vaso la cui apertura era severamente proibita e che era stato sigillato per anni fino a che un ragazzino curioso  non aveva tanto insistito per aprirlo. L’ultima volta che qualcuno era stato così avventato da aprire un vaso così pericoloso, aveva condannato l’umanità ad ogni tipo di male.
“Perché io per te sembro un libro aperto,” decise di correre il rischio e di provare ad aprirlo, ma, riteneva, se non avesse spiegato prima lui le sue ragioni, se anche lui non avesse aperto il vaso di Alec, dubitava fortemente che Esme avrebbe aperto il suo. “Mi conosci da pochissimo, ma mi capisci meglio di tanta gente che ha vissuto con me. Vorrei che la cosa fosse… alla pari, reciproca. Vorrei poterti guardare e capirti senza che tu dica una parola, proprio come tu fai con me.”
“Alec, io lo so fare perché sono più vecchia di te. Non è una cosa che si impara a fare da un giorno all’altro.”
“Lo so, ma perché non lasci che qualcuno ti guardi dentro, Esme?”
“C’è già Magnus che lo fa. E credimi, lui sa guardarmi dentro in una maniera che a volte mi fa paura.”
Alec la guardò mettersi sulla difensiva. Sembrava non avesse nessuna intenzione di aprirsi con lui e un po’ se lo doveva aspettare. Esme era estroversa, un’esplosione di energia e risate. Starle accanto significava venire illuminati dalla sua aura brillante di entusiasmo e allegria. Ma non permetteva mai a nessuno di scavare troppo a fondo nel suo animo. Quella era una parte di se stessa che – tranne a Magnus, probabilmente – non aveva donato a nessuno. E mai l’avrebbe fatto. Esme si apparteneva e non regalava pezzi di se a nessuna condizione.
Alec abbassò gli occhi, come se si fosse arreso all’idea di essere incapace di sfondare quel muro di cemento e mattoni dietro al quale Esme teneva rinchiuso il suo cuore e tornò ad occuparsi del suo impasto, che aveva malamente abbandonato. Il cucchiaio che aveva usato per girare l’impasto era stato fagocitato completamente ed era annegato nella ciotola. Il giovane ci infilò con cautela le dita dentro e lo estrasse. Lasciò colare l’impasto in eccesso per non sporcare e poi portò la spatola di legno sotto al rubinetto per lavarla e riutilizzarla. Quando si voltò per tornare verso il piano di marmo, vide che Esme aveva fatto comparire una teglia con otto buchi. La osservò mentre imburrava con cautela ogni cavità, mentre la sua mente vagava altrove. Lo sapeva che il suo corpo era lì, ma la sua mente stava vagando. Lo vedeva nel modo in cui fissava davanti a se, lo sguardo vacuo e pensieroso. Stava ponderando l’idea di fare, o non fare, qualcosa. Stava soppesando ogni eventualità, ogni pro e contro di qualsiasi cosa fosse l’idea che le stava frullando in testa. Alec non la disturbò e schiacciò con la spatola pulita gli ultimi residui di farina, che come piccoli guerrieri ostili cercavano di minacciare l’omogeneità di un impasto che altrimenti sarebbe stato perfetto. Alec si ritenne soddisfatto nel vedere che, tolti di mezzo gli ultimi guerrieri caparbi, la miscela era liscia. Guardò i pezzettini di mele rimasti ad aromatizzare nella cannella e, afferrato il piatto su cui giacevano, li buttò dentro la miscela e mescolò per fare in modo che venissero cosparsi bene al suo interno.
Esme lo notò e gli passò la teglia imburrata, senza dire una parola. I suoi silenzi, pensò Alec, erano criptici ed indecifrabili e la rendevano un po’ spaventosa – come una mina antiuomo inesplosa, ma che può farlo da un momento all’altro.
“Versa un po’ di impasto in ogni cavità.”
Lui obbedì senza dire niente.
Esme si voltò verso il forno che si trovava alle loro spalle, appena sotto il piano cottura, e lo accese. Alec la guardava con la coda dell’occhio: aveva le spalle tese come corde di violino. Stava per dirle qualcosa – qualsiasi cosa pur di non sentire ancora quel silenzio pesante e assordante – quando lei, ancora voltata, parlò.
“Magnus mi ha salvata due volte.” La voce le tremò, facendo vibrare anche le fibre del corpo di Alec. “La prima, ovviamente, all’orfanotrofio. La seconda dopo la morte di Tommy.” Si voltò verso di lui e prendendogli la teglia dalle mani, la mise dentro al forno. Poi fece partire il timer. Tornò a guardarlo. Alec era appoggiato al ripiano di marmo, mentre Esme stava accanto al forno. Erano uno di fronte all’altra, separati dalla distanza di un braccio.
“Tommy era…” si guardava le mani tremanti, piccole e dalla pelle chiara, rese appiccicose dal succo di mela. Alec le si avvicinò e senza alcuna logica gliele afferrò per fermarle, come se volesse vederla tornare stabile. Esme non si ritrasse.
“..era l’amore della mia esistenza.” Un sorriso doloroso le tagliò il viso, mentre lacrime silenziose erano uscite, senza che lei se ne accorgesse, dai suoi condotti lacrimali e le scavavano due viottoli salati sulle guance.
“Esme..”
“No, è giusto che tu sappia.”
Il vaso, dunque, era stato aperto. L’unica cosa che adesso Alec poteva sperare è che non facesse più danni di quanti non ne avrebbe fatti rimanendo chiuso. In quel caso, avrebbe dovuto solo incolpare se stesso e la sua testardaggine.
“Tra me e Magnus ci sono diciassette anni di differenza. Ne aveva venticinque quando mi ha salvata, sebbene il suo aspetto si fosse già fermato ai diciannove. Quando smisi anche io di crescere, intorno ai diciassette, decidemmo che era arrivato il momento di trasferirci, o la gente avrebbe notato che c’era qualcosa di diverso in noi. Decidemmo di andare a Venezia, era il 1760. Aprimmo un portale e lo attraversammo. Ci trovammo immediatamente in Italia. Era la prima volta che ci mettevo piede ed ero euforica come non mai. Magnus mi aveva detto che aveva delle conoscenze, a Venezia, così ci addentrammo nei vicoletti e attraversammo moltissimi ponticelli che venivano attraversati da canali. La luce giocava con l’acqua come un’amante dispettosa e desiderosa di attenzioni e creava piccoli specchi su tutta la superficie. Era così bella che l’avrei guardata per ore.” Si fermò, la voce si era stabilizzata un poco, abbandonando sempre di più il tremito. Alec, però, non voleva ancora lasciarle le mani. “Quel giorno conobbi l’uomo che avrei amato per il resto dei miei giorni: Thomas Cole.” Esme alzò lo sguardo su di lui. La sclera era arrossata, ma il grigio dell’iride era luminoso, quasi luccicante, e Alec si rese conto che non erano le lacrime a dare quell’effetto. Ebbe più l’impressione che quel brillio fosse una fiamma accesa all’improvviso da un amore dormiente, ma mai dimenticato. Un amore vivo e pulsante.
“Ti sarebbe piaciuto, Alec. Era bello come un sogno, anche se non era eccessivamente alto. Aveva una fisicità massiccia, muscolosa, e gli occhi azzurri come due zaffiri. Ricordo che la prima volta che li posò su di me, mi mancò il respiro.”
“Non riesco ad immaginarti rimanere senza fiato per qualcuno.” Alec sussurrò, la voce resa roca dal troppo tempo passato in silenzio.
Lei gli rivolse un sorriso che non assomigliava a nessuno di quelli che le aveva visto fare da quando la conosceva: era accecante, come un bagliore di perfetta luce bianca in grado di illuminare anche la più oscura e tetra delle notti. La accendeva come una stella e la faceva sembrare, se possibile, ancora più bella. Era radiosa. È così che rende l’amore, evidentemente.
“Lui era speciale.”
“Non ne dubito.”
“La cosa che mi sorprese, fu che ricambiò il mio interesse. Avevo diciannove anni, sebbene ne mostrassi diciassette, e il mio mare di insicurezze mi impediva di credere che qualcuno come lui potesse provare interesse per una come me.”
“Ma lo fece..”
Esme annuì. “Chiese il permesso a Magnus di poter uscire con me. All’epoca usava così. Magnus acconsentì perché sapeva benissimo cosa provavo per Tommy. Mi portò a vedere San Marco, ne rimasi così colpita che mi promise l’avrebbe comprata e rinominata in mio onore. Ovviamente, sapevo che non poteva farlo, dato che era una proprietà sacra ed entrambi eravamo Nascosti, ma apprezzai il gesto.”
“Era uno stregone anche lui?”
Esme annuì di nuovo. “La sua lingua biforcuta faceva si che venisse chiamato il Demonio.”
“Perché?”
“Il Diavolo, secondo la Bibbia, si manifestò ad Adamo ed Eva sotto forma di serpente, nell’Eden, e tentò quest’ultima con una mela. Lo stesso, quando provò a tentare la Madonna, viene scritto che lei calpestò la sua testa di serpente. Dato che Tommy, come i serpenti, aveva la lingua biforcuta lo chiamavano in quel modo. Alcuni credevano che discendesse da Lucifero in persona e non da un semplice demone.”
“Ed era così?” Esme percepì una nota affascinata nella voce del ragazzo, una sincera curiosità scolastica. Era anche la sua mitologia, dopo tutto.
“No. Ricordati, Alec, che Lucifero era una angelo. Se Tommy fosse stato suo figlio sarebbe stato un Nephilim.”
“Lucifero era un rinnegato. Dannato, per giunta.”
“Ma pur sempre un angelo.”
Alec non ribatté.
“La verità è che era solo bravo a fare il suo lavoro: era un mercante che sapeva come prendere i suoi clienti, arrivando a stipulare accordi più che ragionevoli e vantaggiosi per entrambe le parti. Ma siccome tutti ottenevano ciò che volevano, si era sparsa la voce che fare affari con Thomas Cole era come stringere patti con il Diavolo.”
“Perché è impossibile avere ciò che si vuole senza sputare sangue per ottenerlo.”
“Sei perspicace.”
“Cosa è successo, poi?” domandò con il tono che potrebbe avere un bambino rapito dalla storia raccontata dalla madre, ipnotizzato dalla sua voce.
“Ci siamo sposati. Ci siamo trasferiti. Abbiamo viaggiato per il mondo, cambiato moltissimi lavori. C’era stato un periodo dove Tommy faceva il pugile. Era piuttosto bravo.” Fece una nuova pausa, abbassando gli occhi sulle mani di Alec che coprivano le sue con facilità. “Ero convinta che l’avrei avuto al mio fianco per sempre. Tommy mi chiamava la sua eternità ed io ero credevo fermamente che lui fosse la mia. Lo guardavo e mi veniva voglia di essere una persona migliore. Lo guardavo e ci immaginavo attraversare il tempo, mutare con le epoche, e assistere ai cambiamenti del mondo. Ma poi… poi cominciarono le feroci persecuzioni alla nostra gente. Gli Shadowhunters divennero ancora più crudeli e cominciarono ad ucciderci per divertimento, esibendo i nostri cadaveri mutilati come trofei di caccia. Iniziarono persecuzioni violente, senza senso. Venivamo uccisi solo perché a loro andava di farlo. E l’avvento delle Grandi Guerre non aiutò di certo. Riuscimmo a cavarcela durante la Prima, ma la Seconda…” si fermò, deglutendo con fatica, come a voler mandare giù una palla di cartavetra. Alec vide le guance bagnate dalle lacrime, che scorrevano a due a due come a volersi rincorrere. Erano silenziose, rispettose, ma estremamente fluide e copiose. Gli venne in mente ciò che Esme aveva detto poco prima, quando aveva cambiato umore: conoscevo una persona molto tempo fa che aveva l’abitudine di fare la stessa cosa. E la sua mente vagò ad una Venezia immaginaria – perché lui non l’aveva mai vista – aggiungendo allo scenario le foto che aveva visto sui libri di storia dell’arte: San Marco e il suo leone, la cupola imponente, la piazza che si apre sotto la maestosità di una chiesa senza tempo. Vide Esme con i vestiti d’epoca, i capelli raccolti e gli occhi avidi che guardavano la città per imprimere ogni dettaglio di essa nel suo cervello immortale. Al suo fianco, Thomas, che sicuramente l’avrà guardata come la più preziosa delle sete. Ed Esme meritava di essere guardata in quel modo, di essere amata incondizionatamente da qualcuno che altro non voleva nella sua intera esistenza che donarle il proprio cuore e renderla felice. Qualcuno che le preparava la colazione perché voleva prendersi cura di lei con piccoli gesti. Immaginò i due nella loro quotidianità: ovunque essa fosse, a loro non importava. Sicuramente, l’unica cosa che contava era che fossero insieme, che nella vastità di questo contorto universo si fossero trovati e amati. Immaginò l’amore che doveva pompare nel cuore di Esme riempiendole ogni cellula del suo corpo. Immaginò la sensazione che si prova a passare così tanti anni con la stessa persona e sentirla entrare dentro il proprio essere ogni giorno che passa, facendola diventare sempre più parte di noi stessi. Immaginò quanto dovesse essere stato lacerante per Esme il dolore di una perdita simile, la sensazione di qualcosa di importante per la sua sopravvivenza che le veniva strappato via, come se qualcuno le avesse infilato a forza le dita dentro al petto e scavando con le unghie, simili ad artigli, le avesse strappato via il cuore, lasciando un buco sanguinante nel torace. Gli mancò l’aria.
“Nel 1944 Tommy fu rapito da alcuni Nephilim che si fingevano funzionari nazisti e lo spacciarono per una spia. Ovviamente gli altri soldati non dissero niente. Le spie erano mal viste e non avevano bisogno di prove. Non so dove lo portarono, i Nephilim avevano una base protetta da rune potentissime che mi impedirono il rintracciamento, così, nonostante lo cercai senza sosta, non lo trovai mai. Lo torturarono: sapevano chi fosse e volevano che li portasse ad altri Nascosti. Ma lui aveva una volontà ferrea e una lealtà ancora più irremovibile. Non avrebbe mai tradito la sua gente. Non avrebbe mai tradito me. Lo dissanguarono dopo settimane di tortura. Ritrovai il suo cadavere in una fossa comune, gettato a terra come immondizia, il corpo martoriato e dilaniato, la gola tagliata da parte a parte.”
Deglutì di nuovo. A vuoto.
“Quel giorno sono morta anche io.”
Alec con gli occhi che pungevano e la gola che faceva male per il pianto trattenuto, sollevò una delle mani e la sistemò dietro la nuca di Esme, poi la tirò a se – proprio come avrebbe voluto fare qualche istante prima, impedito da chissà quale forza. L’abbracciò non sapendo che altro fare. Le parole sono inutili, persino ridicole, di fronte ad un racconto tanto raccapricciante. Si vergognò della sua gente, della brutalità che erano riusciti a toccare. Sentì Esme piangere contro il suo petto, le spalle scosse da forti tremiti. Le avvolse un braccio intorno alla schiena, sfiorando la sua pelle nuda e perlacea, avendo quasi paura di romperla, tanto che gli sembrava fragile in quel momento. Gli ricordò una bambola di porcellana, di quelle tenute dentro alla scatola per evitare che il mondo esterno possa rovinarle, o scheggiarle. Ma Esme era già scheggiata, ricordò a se stesso. Era stata frantumata e lasciata a raccogliere i propri cocci.
“Ho cercato di uccidermi il giorno dopo il ritrovamento del suo cadavere. Magnus me l’ha impedito.” Esme si rivide in quel bagno di tanti anni prima, rivide la lama di un coltellino che premeva sulla sua carne partendo dalle vene dei polsi e tagliando gli avambracci in tutta la loro verticale lunghezza. Ricordò il bruciore lancinante, le grida soffocate per non attirare l’attenzione. Rivide il mondo girare e farsi scuro per via della mancanza di sangue. Rivide Magnus che si chinava su di lei – ormai sdraiata sul pavimento con entrambe le braccia sanguinanti e in procinto di perdere i sensi – e l’attirava a se, stringendola in un abbraccio disperato, prima di applicare la sua magia curativa su di lei. “Non si comportava da padre ormai da molto tempo, ma in quel periodo lo fece. Mi rimase accanto come non aveva mai fatto e mi aiutò a capire che non ero sola, che avevo e avrei sempre avuto lui. «Promettimi che non proverai mai più a farti del male, biscottino.» mi implorò e io glielo promisi. Come vedi, devo la mia intera esistenza a Magnus Bane, che si è occupato di me da quando mi ha trasportata in braccio fuori da un gelido orfanotrofio.”
Aveva parlato con il viso appoggiato ad Alec, la testa voltata verso destra in modo che la voce non venisse ovattata dal suo petto, le braccia stringevano il ragazzo come se volesse aggrapparsi per non annegare. Alec strinse la presa su di lei ed Esme fu sopraffatta da una strana sensazione di protezione, come se le braccia del giovane fossero una gabbia d’oro che la isolavano dal dolore. Ma Esme il dolore lo aveva dentro, era il suo coinquilino, un mostro enorme che adorava nutrirsi di lei. Nonostante questo, la presenza di Alec le faceva bene e si rese conto che, sebbene il cacciatore le avesse fatto rivivere ricordi spiacevoli, l’aveva fatto solo per poter essere per lei un porto sicuro, così come lei era per lui. È facile proteggere qualcuno se conosci tutta la sua storia. E Alexander aveva voluto conoscere quella di Esme solo per poter essere un faro nella sua oscurità, un’ancora nel mare viscoso che tentava ancora di affogarla. Lo strinse forte ed Alec emise un sospiro sorpreso.
“Lo capisco se sei arrabbiata con me.”
Esme sciolse l’abbraccio e fece un passo indietro per guardare Alec in viso.
“Non lo sono.”
“Nemmeno dopo averti costretta ad aprire il vaso di Esme?”
la strega alzò un angolo della bocca in un sorriso storto. “No. Avevi buone intenzioni, Alec. E se ho deciso di raccontarti la mia storia è perché so di potermi fidare di te.”
“Grazie. So quanto ti è costato.”
In quell’esatto momento, il timer suonò, informandoli che i dolcetti erano pronti. Fu un suono diverso dal solito perché ebbero entrambi la sensazione che segnasse la fine di una dimensione ultraterrena in cui erano finiti soltanto loro due per percorrere a ritroso le tappe di Esme, come se fossero stati fino a quel momento rinchiusi in una bolla fluttuante nelle epoche. Ma con il suono di quel campanello, la bolla era scoppiata e li aveva catapultati di nuovo nel presente.
“Sono pronti.” Disse Esme, aprendo il forno e usando la magia per far uscire la teglia. I dolcetti svettavano gonfi e dorati, come pulcini smorfiosi, ed emanavano un profumo delizioso.
“Attento a non bruciarti,” lo ammonì Esme mentre faceva fluttuare la teglia dal forno al piano di marmo.
Alec li guardava dall’alto: “Dici che gli piaceranno?”
“Li hai fatti tu, Alec. Qualsiasi cosa che proviene da te, Magnus la trova di proprio gradimento.”
Alec sentì un leggero rossore colorargli le guance.
“Aspetta che si freddano, poi li sistemiamo in un vassoio, così puoi portarglieli.”
Esme si sedette nuovamente su ripiano, le gambe lasciate ciondolare nel vuoto. Alec ebbe l’impressione di essere tornato indietro nel tempo, a un’ora prima, quando l’atmosfera era leggera. La guardava con occhi diversi, adesso. Riusciva a percepire tutta la sua profondità, della quale prima di quel racconto, aveva solo avuto una vaga idea. Esme era una sopravvissuta. La sua forza, non derivava solo dalla sua indole, ma dalle sue esperienze. Era piena di sfaccettature: era forte come la più solida delle montagne, ma anche fragile come il vetro. Era gioiosa come il sole e tenebrosa come la tempesta. Era un miscuglio di colori, di luce e ombre che la rendevano speciale.
“Mi stai fissando, Alexander.” Di nuovo il suo tono, quello da gatto pigro – quello che suonava come le fusa. Era tornato tutto come un’ora prima, sebbene fosse cambiata ogni cosa.
“La tua accecante bellezza non mi permette altrimenti.”
Lei sgranò gli occhi ed esplose in una risata sincera. “Una battuta, da te? Sono una donna fortunata!” 
Alec si allargò in un enorme sorriso che gli faceva brillare anche gli occhi, felice di non vedere più l’alone di tenebra intorno ad Esme. Sapeva che era nascosto da qualche parte, intorno al suo cuore, ma sapeva anche che la ragazza sapeva controllarlo. L’unico demone che viveva in lei, per come la vedeva Alec, era il dolore di una perdita che non si sarebbe mai cicatrizzato, ma con il quale aveva imparato a convivere.

“Si può sapere cosa vi fa tanto ridere alle otto e mezza di domenica mattina?”

Si erano abituati così tanto all’idea di essere solo loro due che la voce di Jace, tremendamente familiare, che si intromise tra di loro, li colse di sorpresa. Alec sgranò gli occhi e lanciò un’occhiata terrorizzata alla teglia. Esme non sapeva se l’aveva fatto per paura di essere preso in giro da Jace o perché temeva che il suo parabatai trangugiasse tutti gli otto muffin, fatto sta che con un gesto fulmineo della mano, come se volesse mimare la chiusura di uno sportello immaginario, nascose i dolcetti con un incantesimo. Persino Alec li vide sparire e le rivolse un’occhiata interrogativa – la testa piegata di lato e le sopracciglia aggrottate lo facevano assomigliare ad un gufo confuso. Esme dovette trattenersi non poco per non ridere. Quando gli rispose facendogli l’occhiolino, Alec si rilassò, intuendo cosa era appena successo. Le mimò un grazie con le labbra a cui lei rispose con un cenno della testa. Jace sembrò non accorgersi di nulla.
“E si può sapere cosa ti rende così suscettibile a quest’ora?” gli domandò Esme guardandolo avvicinarsi a loro. Aveva gli occhi assonnati e i capelli arruffati, che il ragazzo si aggiustò, facendoci passare attraverso una mano. Indossava un paio di pantaloni scuri e una maglietta bianca da cui si intravedevano le rune nere.
“Non trovarti accanto a me al mio risveglio, ad esempio.” Si infilò tra le sue gambe, le mani appoggiate alle sue cosce, e la baciò. Alec roteò gli occhi al cielo pensando che Jace sapeva essere un tale cliché vivente quando si impegnava. Esme gli circondò il collo con le braccia e ricambiò il bacio. Sembrava di assistere ad un combattimento, più che ad uno scambio affettuoso. Alec notò che la presa di Jace sulle gambe della ragazza divenne più salda, tanto che vide comparire cinque piccoli buchi tondeggianti sulle cosce, come piccoli crateri. Esme sorrise a quel contatto e spinse il proprio bacino vicino a quello di Jace. Lo stava provocando. Alec trovò la cosa persino divertente. Tremendamente imbarazzante, dal momento che si era schiarito la gola senza ottenere nessun risultato, ma divertente. In qualche modo.
Jace rispose a quella provocazione mordendole il labbro inferiore ed Esme reagì afferrandolo per i capelli e tirandogli la testa indietro. Jace ringhiò – un suono gutturale e cavernoso – e un evidente disapprovazione gli infiammò gli occhi, mentre la sua gola rimaneva esposta.
“Attento, splendore.” La voce di Esme era roca, bassa. Alec rabbrividì. Notò che anche le braccia di Jace erano attraversate da brividi, ma era più che sicuro che quella reazione fosse dovuta ad un altro motivo. Esme era pericolosa e Jace trovava il pericolo eccitante da quando aveva dieci anni. Alec lo aveva sempre associato ad un leone, feroce ed indomabile, il re di una savana nella quale non aveva pari. Aveva sempre dominato in ogni situazione, ma con Esme era come se si uscisse dalla savana e si entrasse in una giungla, dove la strega regnava come la più fiera delle tigri, una regina caparbia e feroce, dominante sotto ogni aspetto. Era una lotta da cui Jace non sarebbe uscito vincitore: i leoni non sanno come si combatte nella giungla. Per la prima volta, Alec lo guardava e associava alla sua figura quella di un gattino che, credendosi un leone, aveva deciso di sfidare una tigre, ritenendola una lotta alla pari. Era un ingenuo, pensò Alec, se credeva che in qualche modo Esme non avrebbe trovato il modo di domare la bestia selvaggia ed istintiva che abitava nel cuore di Jace. Era un ingenuo se pensava di poterla battere ad un gioco a cui lei giocava da secoli e di cui conosceva non solo tutte le regole, ma persino ogni trucco per barare.
Esme mollò la presa e Jace tornò in posizione eretta, le mani ancora strette sulle sue cosce, adesso, stringevano ancora di più, tanto che le falangi del cacciatore divennero bianche. Gli occhi di Jace erano accesi di un bruciante, impellente desiderio, che li faceva luccicare come tizzoni ardenti. Esme gli lanciò un’occhiata famelica, come se avesse voluto mangiarselo, e si passò la lingua sulle labbra. Cominciò a passargli una mano sotto la maglietta, facendola scorrere molto lentamente dal basso verso l’alto, finché basso non divenne decisamente troppo basso. Jace trattenne il respiro, mentre Alec – superata la soglia della sopportazione e ormai colmo di imbarazzo fino alla punta dei capelli – decise di intervenire.
“Vi prego, andate in un’altra stanza. È imbarazzante.” Sbottò.
Jace non staccò gli occhi da Esme, come se l’avesse ammaliato, rapito.
Imbarazzante non è esattamente la parola che userei.”
Lei gli sorrise furba e maliziosa come un’incantatrice e scese con un movimento lento dal marmo, assicurandosi che il suo corpo aderisse ad ogni centimetro di quello di Jace. Si morse il  labbro inferiore prima di afferrare la mano del cacciatore e trascinarlo via dalla cucina. Jace non oppose resistenza, ovviamente. Era un gioco a cui gli andava di giocare, anche se aveva la vaga sensazione che lei lo tenesse in pugno. Alec li guardò dirigersi entrambi verso la camera di Jace e, prima di chiudersi la porta alle spalle, vide Esme rivolgergli un altro occhiolino e indicargli il piano cottura. Quando si voltò, trovò i muffin, un vassoio, una brocca di caffè e due tazze. Le ultime cose, pensò Alec, le aveva fatte apparire Esme chissà quando. Si girò nuovamente verso la porta per ringraziarla, ma la trovò chiusa. Ovviamente. Gli venne da sorridere, pensando a Jace in quelle condizioni, con lo sguardo imbambolato fisso su Esme, mentre sistemava in un lato del vassoio i muffin a formare una piccola piramide. Non era sicuro sarebbero rimasti in equilibrio, ma tanto valeva tentare. Prese la caraffa di caffè e le tazze e le sistemò nella parte rimasta vuota del vassoio. Guardò la sua composizione improvvisata e priva di fantasia e si sentì un completo idiota. Voleva fare qualcosa di speciale, ma quel risultato di speciale non aveva niente. Cominciava a sentire le mani sudate dal nervosismo e improvvisamente desiderò che Jace non si fosse svegliato così presto e avesse deciso di farsi strapazzare da Esme ancora un po’. Se lei fosse stata lì le avrebbe chiesto un consiglio su come comporre il tutto. Ma Esme non c’era.
Ispirò e sospirò.
Sentì di nuovo il mal di testa pulsare. Con tutto ciò che era successo, si era persino dimenticato di averlo. Afferrò lo stilo dalla tasca dei pantaloni e lo passò sulla runa guaritrice. Almeno senza quel martello che gli fracassava il cervello avrebbe trovato un po’ di tranquillità. La runa bruciò, dandogli la sensazione di un familiare pizzicotto.
Sospirò di nuovo per scaricare l’ansia. Perché mai avrebbe dovuto provarla, poi? Stava per andare da Magnus, non da un boia che aveva intenzione di tagliargli la testa.
Qualsiasi cosa che proviene da te, Magnus la trova di proprio gradimento.
Pregò che Esme avesse ragione e, afferrato il suo vassoio, si diresse verso la camera di Magnus.

Lo stregone dormiva. Le tende tirate alle finestre impedivano che la luce filtrasse totalmente, quindi la stanza era immersa in una semi-oscurità azzurra. Alec, con passi felpati e il cuore che batteva impazzito – riusciva a sentirlo in ogni parte del suo corpo, persino pulsare nei polpastrelli e nelle tempie, si avviò verso il letto. Magnus dormiva a pancia in su ed era coperto fino a metà. Alec non si sentì di svegliarlo, quindi appoggiò la colazione sul comodino e si sdraiò sulla parte destra del letto, che ormai definiva la sua. Fece molta attenzione a non far piegare troppo il materasso sotto al suo peso e si sdraiò in costa, un braccio sotto al cuscino e il viso rivolto verso Magnus.
Osservò il suo profilo, i tratti marcati, ma non invasivi. Si concentrò sulla curva che formavano le sue labbra e, improvvisamente, sentì il loro sapore dolce in bocca. Continuò la sua ispezione – o studio di ciò che potrebbe tranquillamente essere definito arte – facendo scendere lo sguardo sul mento e sul collo, fino a raggiungere la linea sinuosa che formavano le clavicole. La pelle, tra il collo e le piccole ossa gemelle, formava una cavità che Alec aveva baciato spesso.  Il suo sguardo scivolò ancora verso il basso, arrivando al petto, che si abbassava e alzava con la regolarità rilassata del sonno. Provò l’impulso di appoggiare un dito sulla linea che divideva i pettorali e seguirla, con un movimento delicato, fino a raggiungere gli addominali. Magnus era una sinfonia di perfezione che gli faceva mancare l’aria e gli faceva venire voglia di toccarlo per sentire sotto le dita il calore emanato dal suo corpo. Solo in quel modo si sarebbe reso conto che l’uomo al suo fianco era effettivamente reale e non un sogno, o una proiezione creata dalla sua mente a seconda di ciò che lui trovava bellissimo. Si chiese se anche lui, in quel momento, avesse la stessa espressione imbambolata che aveva visto poco prima stampata sul viso di Jace e si rispose che sì, probabilmente l’aveva. E non se ne vergognò nemmeno un po’.
“Non sapevo mi guardassi dormire, Alexander.”
Alec sussultò. Un po’ per la sorpresa, un po’ perché Magnus aveva quel modo seducente di pronunciare il suo nome per intero che lo faceva tremare dentro, come un violento terremoto.
“Se ti sei accorto che ti sto guardando, vuol dire che non stavi dormendo.”
“Touché.” Magnus aprì gli occhi e si sistemò in costa. Il suo viso così vicino a quello di Alec che il più giovane riusciva a sentire il respiro dello stregone su di se.
“Mi piace guardarti. Indipendentemente dal fatto che tu stia dormendo o meno.” Gli confessò. Si avvicinò ancora un po’, i nasi che si sfioravano.
“E a me piace essere guardato.” Magnus sorrise e lo baciò. Le labbra morbide e il sapore familiare che aveva la bocca di Magnus, inondarono Alec di un mare di emozioni piacevolmente incontrollabili. Come se un’esplosione di luci e colori avessero deciso di prendere la residenza intorno al suo cuore scalpitante. Il cacciatore, per quanto quella posizione glielo permettesse, afferrò il viso di Magnus tra le mani e lo avvicinò ancora di più a se, senza smettere di baciarlo.
“Se il buongiorno si vede dal mattino,” cominciò Magnus, “questa giornata sarà favolosa.”
Alec rise, un suono sereno e spensierato che usciva solo quando era con Magnus. Notò che lo stregone aveva residui del trucco della sera prima: la matita era colata sotto agli occhi e i glitter dell’ombretto gli illuminavano gli zigomi come tante piccole stelle.
“Aspetta,” disse alzandosi e mettendosi a sedere sui talloni.
“Che c’è? Non hai apprezzato la mia dichiarazione d’amore?” Magnus si portò una mano al petto con teatralità. L’espressione fintamente ferita.
“Quella non era una dichiarazione d’amore, Magnus.” Fece Alec, passandogli i pollici sotto agli occhi per rimuovere la matita colata. Li tenne fermi sugli zigomi, nella parte vicina alle tempie, facendoli poi scorrere su entrambe le guance, per arrivare a sfiorare le labbra.
Magnus lo lasciò fare, trovando piacevole il tocco di Alec sulla pelle.
“E quale sarebbe una dichiarazione d’amore appropriata, Alexander?”
“Beh…” Alec si sdraiò di nuovo al suo fianco. Erano occhi negli occhi. Alec si rese conto di quanto non potesse più farne a meno. Non poteva più fare a meno di perdersi nel colore scuro che avevano gli occhi a mandorla di Magnus. Non poteva più fare a meno dell’elettricità che scorreva nelle sue vene ogni volta che lo sfiorava, o dell’inebriante felicità che gli esplodeva in corpo ogni volta che erano insieme. Non poteva più fare a meno di lui. E improvvisamente, gli balenò in mente l’immagine di Esme morente, dopo aver tentato di togliersi la vita, l’atto disperato di qualcuno che si rende conto di non poter più vivere senza la persona amata. In un certo senso si sentiva così. Sentiva che Magnus gli era entrato nella parte più profonda del suo cuore e avrebbe voluto tenerlo lì per sempre. Sentiva che non la voleva una vita senza Magnus. E, non appena quel pensiero invase la sua mente, realizzò che quello era il momento giusto. Il momento di cui aveva parlato Esme.
“Ad esempio, dirti che una vita senza te non riesco più a immaginarmela. Dirti che sentire la tua voce che pronuncia il mio nome è uno dei suoni migliori che mai abbia udito. O dirti che impegnarmi per renderti felice, nonostante io sia una frana in queste cose, è una delle cose che più mi piace fare. O ancora: che l’idea che possa anche solo lontanamente succederti qualcosa, mi fa provare una paura paralizzante, una paura che per me stesso non ho mai provato. Una dichiarazione d’amore, Magnus, è dirti che ti amo e che passerò la mia vita a farlo.”
Magnus rimase in silenzio qualche istante. Gli occhi lucidi dall’emozione fissavano Alec con orgoglio. Sentirlo parlare così lo riempiva di una felicità smisurata, un sentimento che non provava da anni, ormai.
“Questa, Alexander, è una delle cose più belle che abbia mai sentito.” Si avvicinò per baciarlo di nuovo. Poi appoggiò la propria fronte contro la sua. “Ti amo anche io.” Gli sussurrò. 
Alec si allargò in un sorriso beato che accelerò il battito cardiaco di Magnus in maniera spropositata. In quel momento, gli ricordò un angelo – come se la parte di sangue angelico che scorreva nelle vene di quel ragazzo avesse voluto manifestarsi attraverso i lineamenti del suo viso e avesse voluto prendersi il merito di quel risultato mozzafiato. Alec possedeva una bellezza rara, un misto di sensualità e dolcezza, che lo rendevano irresistibile. Distogliere lo sguardo dai suoi lineamenti, era un’impresa  impossibile. La cosa strana era che lui non si rendeva minimamente conto dell’effetto che provocava.
“Ora sei tu che fissi me.” Alec stava tracciando con l’indice dei piccoli cerchi sull’avambraccio di Magnus.
“Lo so.”
Rimasero in silenzio per qualche istante, gli guardi allacciati, colmi di significato. Poi Alec venne colto dalla consapevolezza che era entrato in quella stanza per un motivo preciso, prima di perdersi nella contemplazione di Magnus dormiente.
Ridacchiò lievemente pensando che Magnus dormiente sarebbe potuto essere il titolo di un quadro.
“Ti ho portato una cosa.” Alec si alzò dal letto e gli diede la schiena.
 Magnus si sistemò, appoggiandosi alla testata del letto: “Vuoi dire qualcosa oltre alla tua magnifica presenza?” Allungò il collo, sbirciando la schiena di Alec in tutta la sua lunghezza. Notò che si stava piegando leggermente, come se stesse raccogliendo qualcosa e ne approfittò per dare una sbirciatina anche al suo sedere.
Quando Alec si voltò, Magnus non si impegnò nemmeno un po’ a nascondere la direzione del suo sguardo. Alec se ne accorse e scosse la testa, divertito, poi tornò a sedersi sul letto, con cautela, facendo attenzione a non versare il caffè sulle lenzuola di Magnus.
Lo stregone gettò uno sguardo al vassoio e poi uno ad Alec.
“Mi… mi hai preparato la colazione?” una nota di infantile stupore piegava la sua voce. Era strano associare qualcosa che potesse suonare infantile alla figura di Magnus, che aveva visto e vissuto qualsiasi cosa, ma Alec non poté farne a meno. Sembrava piacevolmente sorpreso, come se non avesse mai provato un’emozione simile in tutta la sua pluricentenaria esistenza. Che mai nessuno avesse fatto un gesto del genere per lui?
“Sì. Ho pensato… ho pensato che fosse un modo carino per prendermi un po’ cura di te.”  Gli passò un muffin. Si sorprese nel vedere ferma la sua mano. Inizialmente pensava che avrebbe tremato come la prima volta che, da bambino, aveva impugnato l’arco, ma si rese conto che percepire la soddisfazione di Magnus rendeva tutto così naturale che provava la stessa sicurezza che aveva adesso, da adulto, ogni volta che incoccava una freccia.
Magnus afferrò il dolcetto: “E lo è. Nessuno mi aveva mai preparato la colazione.”
Nessuno?” Alec pensò alle diciassettemila persone che erano state con Magnus e trovò strano che nessuno, proprio nessuno, avesse provato il desiderio di fare un gesto simile. Forse, pensò, l’idea di portare la colazione a letto alla persona che si ama è una romanticheria sviluppata di recente.
“Solo Alexander Lightwood ha fatto un gesto simile per me.” Addentò il dolcetto e Alec, sentendo quelle parole che gli risuonavano nelle orecchie, provò una punta di orgoglio. Era riuscito a fare qualcosa di speciale, di veramente speciale. Era riuscito a sorprendere un uomo che aveva vissuto secoli con un gesto semplice, ma carico di significato. Era abbastanza soddisfatto di quel risultato. Anzi, se doveva proprio essere sincero, dentro di se stava gongolando.  
“È delizioso. Non sapevo sapessi cucinare.”
Alec si grattò la nuca e confessò: “Non è tutto merito mio, in realtà. Esme mi ha dato istruzioni.”
Magnus ridacchiò, una briciolina era rimasta intrappolata in un angolo della sua bocca, ma prima che Alec potesse toglierla, la leccò via.
“Esme è un’ottima insegnante.”
“Sì.” Il giovane afferrò uno dei dolci e lo addentò, curioso di sapere quale fosse il risultato dell’ora passata in cucina con la strega. Magnus aveva ragione: erano davvero deliziosi. I pezzettini di mela speziati rendevano tutto più saporito.
“Dov’è, adesso?”
Alec pensò al viso di Esme che gli strizzava l’occhio e poi spariva dietro la porta della camera di Jace.
“A distruggere Jace.”
Magnus aggrottò la fronte, come se un grosso punto interrogativo avesse accartocciato i suoi lineamenti.
“Nel senso che intendo?”
“Nel senso che intendi.” Confermò., addentando un altro boccone.
“Oh,” Magnus non sembrava scioccato, ma nemmeno euforico. Era come se Alec gli avesse comunicato un’informazione formale, neutra.
Alec piluccò il muffin con le dita e, sovrappensiero, aggiunse: “Penso lo facciano entrambi per distrarsi,” rivide il modo in cui si stuzzicavano, un gioco divertente ma solo fine a se stesso, senza altri significati nascosti. Nulla di più profondo di semplice e puro piacere fisico. “Sì, insomma… Jace vuole dimenticare Clary ed Esme…” gli si formò un nodo alla gola, come se il suo corpo, ricordando il dispiacere che aveva provato durante il racconto della ragazza, reagisse involontariamente, facendogli riprovare quella sensazione, “Esme amerà sempre e solo Thomas.”  
Magnus per un pelo non si strozzò. Strabuzzò gli occhi, guardando Alec con incredulità.
“Che hai detto??” lo stregone era convinto di aver sentito male, sebbene il suo udito fosse impeccabile. Ma per come la vedeva lui, era più probabile che fosse diventato sordo nel giro di un minuto, piuttosto che aver sentito qualcuno – che non fosse lui stesso od Esme – pronunciare quel nome.
Alec lo guardò, allarmato: “Che Jace sta cercando di diment-”
Magnus fece un gesto della mano, come se volesse scacciare una mosca, “Non quello, dopo.”
Il cacciatore non capiva, temeva quasi che Magnus fosse impazzito.
“Che Esme amerà sempre e solo Thomas?” gli domandò incerto, soppesando le parole.
“Pensavo di aver sentito male.” Si giustificò Magnus, poi sospirò. “Te ne ha parlato, quindi.” Alec si sorprese nel percepire una sorta di serenità nella sua voce.
“Sì. Non voleva farlo, all’inizio. Ma poi…”
“Le piaci più di quanto pensassi, Alexander.” Magnus gli rivolse un sorriso, “Non ha mai raccontato la storia di Tommy a nessuno. Penso che se non l’avessi vissuta insieme a lei non l’avrebbe raccontata nemmeno a me.”
“Di questo ne dubito fortemente.”
“Esme è… molto restia a parlare di quella storia. E la capisco. Credimi, la capisco davvero. Ma se lei ne parlasse di più, riuscirebbe ad esorcizzare quel dolore che si porta dentro da decenni.”
“Non deve essere facile dimenticare un amore del genere.” E Alec pensò che una settantina d’anni non bastano a cancellarne più di centottanta.
“Io non vorrei lo dimenticasse, non fraintendermi, vorrei solo che smettesse di opprimerla. Ma mi rendo conto che è impossibile. Thomas ed Esme erano anime gemelle. Aver perso lui significa aver perso anche la sua capacità di innamorarsi. Quando abbiamo sepolto Thomas, in una tomba decente, abbiamo seppellito anche il cuore di Esme.”
Alec si chiuse in un rispettoso silenzio, incapace di immaginare un dolore simile.
“Il fatto che te ne abbia parlato significa molto.”
“Lo apprezzo tantissimo, infatti.”
Magnus gli sorrise e gli appoggiò una mano sulla guancia. Alec chiuse gli occhi, assaporando quel contatto.  Avrebbe voluto che quel momento non finisse mai. Egoisticamente parlando, avrebbe voluto spendere la sua intera vita in quel modo: accanto a Magnus, lontano dai problemi che la loro vita portava. Avrebbe voluto volare lontano dai pregiudizi e dalla rigidità di regole antiche e, sotto molti punti di vista, senza senso.
Aprì gli occhi, trovando quelli di Magnus già fissi su di lui. Gli afferrò il polso e lo tirò a se. Magnus emise un sospiro sorpreso, quando Alec gli portò la mano libera dietro la nuca e lo baciò con impeto. Era un desiderio impellente di sentirlo vicino a se, quello che gli bruciava dentro. Voleva sentire i loro corpi che aderivano e andavano ad incastrarsi come due pezzi di un puzzle perfetto. E Alec amava la figura che usciva quando loro due si mischiavano, due anime e due corpi affini e compatibili.
“Non finisci mai di sorprendermi, Alexander.”
Lo amava. Per l’Angelo, se lo amava. Non avrebbe mai smesso di farlo. Mai.
“In positivo, spero.”
Magnus rise e gli sfilò la maglietta, gettandola malamente sul pavimento.
Loro due e ciò che li legava erano tutto ciò che contava. Il resto era solo polvere che sarebbe stata portata via dal vento, destinata ad essere dimenticata.



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Ciao a tutti! 

È la prima volta che scrivo qualcosa su questa serie tv e onestamente sono un po' nervosa! Non so bene da dove mi sia venuta l'idea, mi è solo balenata nella mente e l'ho buttata giù, spero che non sia uscita proprio una schifezza e mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate :)
L'avvertimento OOC è per il personaggio di Alec perché, nonostante mi sia sforzata di renderlo il più simile possibile alla serie, in certi comportamenti è troppo espansivo - tipo la sua dichiarazione un po' troppo dettagliata, però non ho resistito, perdonatemi!
Ringrazio chiunque abbia deciso di leggere la storia e di essere arrivati fino in fondo (grazie, grazie, grazie - grazie periodico!). 
Alla prossima!! :D 

 
   
 
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