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Autore: Elena Ungini    25/06/2017    0 recensioni
Le indagini di Steve e Livienne si fanno sempre più intricate, così come i sentimenti che provano l'uno per l'altra. Gli intrighi governativi si intrecciano con nuovi misteri e vecchie conoscenze ricompaiono a scombussolare i pezzi del puzzle. Buona lettura.
Genere: Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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WORMHOLE
 
 
29 gennaio 2001, Filadelfia, ore 8:02, sede dell’FBI, primo piano.
 
Il telefono squillò perentorio nell’ufficio dell’agente speciale Steve Rowling, addetto al progetto A.I.R.E.S.S. (Alien Intelligence Research (and) Events Supernatural Studies), progetto che avanzava la pretesa di provare l’esistenza di vita intelligente extraterrestre e cercava di spiegare ogni sorta di fatti misteriosi che capitavano nel mondo. Da circa tre anni Steve si arrabattava tra casi di presunte streghe, vampiri, UFO, animali venuti da dimensioni parallele e altre stranezze di vario tipo, dando la caccia di quando in quando anche a pericolosi serial killer.
Da un anno a quella parte la seducente giornalista Livienne Parrish era entrata puramente per caso nella sua vita e spesso lo aiutava nell’ardua impresa di spiegare il perché degli strani fenomeni cui assistevano di volta in volta.
Steve alzò la cornetta e la voce tonante del suo capo Donald Kerk gli ordinò di raggiungerlo nel suo ufficio. Quando arrivò fu sorpreso di trovare anche l’agente Rudolf Spell, della sezione omicidi, e la sua collega Sheyla Ritter.
L’agente speciale Sheyla Ritter, in codice Angel, aveva affiancato Steve per un certo periodo, l’anno prima. Durante questo affiancamento, che le era stato imposto dall’alto, la ragazza aveva ufficialmente il compito di aiutare Steve a risolvere i casi, ma doveva anche spiarlo di nascosto, per scoprire a cosa stesse lavorando e, soprattutto, dove aveva nascosto un dischetto, sottratto in un ospedale, che provava l’esistenza di ibridi umano alieni. Purtroppo la ragazza, nel corso di un’indagine, era rimasta gravemente ferita e, convinta di essere in punto di morte, aveva rivelato a Steve il suo doppio ruolo. Poi era sprofondata in un coma profondo, dal quale era uscita misteriosamente solo alcuni mesi più tardi, risvegliata dai poteri telecinetici di ibridi umano alieni conosciuti per caso da Steve sulla vetta di una montagna.
Solo da poco Sheyla era tornata al lavoro, non al fianco di Steve, bensì nella sezione omicidi, come compagna dell’agente Rudolf Spell.
“Conosci già Rudolf, non è vero?”, cominciò Donald, rivolgendosi a Steve.
“Lo conosco solo di fama. Non abbiamo mai lavorato insieme”, rispose lui, stringendo la mano all’altro agente.
“Ha bisogno del tuo aiuto. Ti spiegherà lui tutto quanto”.
“Seguimi”, lo invitò Rudolf senza por tempo in mezzo. Gli fece strada fino al laboratorio dove venivano svolte le autopsie. Sheyla li seguì.
“Angel mi ha parlato molto bene di te”,  continuò Rudolf.
“Mi fa piacere”. Steve sorrise alla ragazza: non provava alcun rancore verso di lei per quanto era accaduto l’anno prima.
Rudolf tolse dalla cella frigorifera il corpo di una ragazza giovane e molto carina e lo mostrò a Steve.
“Si chiamava Rachel Nesbit e faceva la prostituta sulla trentesima strada. È stata uccisa con una coltellata dritta al cuore”, spiegò l’agente, mostrando il foro di entrata del coltello.
“Poi è stata gettata in un canalone”, concluse.
“Qualche sospetto?”, chiese Steve.
“Non ancora, ma c’è una cosa che devo mostrarti”. Rudolf voltò il corpo: sulla schiena della vittima l'assassino aveva impresso a fuoco una specie di marchio, a forma di L maiuscola.
“È post mortem”, spiegò.
“È come se avesse voluto marchiarla, per farla sua per sempre. Un comportamento del genere è tipico di un assassino seriale”, commentò Steve.
“Infatti”, confermò Rudolf riponendo la ragazza nella cella. Accompagnò Steve nel suo ufficio, dove gli mostrò delle foto inserite nel computer.
“Sono altre tre ragazze, tutte prostitute, uccise nel corso degli ultimi due anni, tutte con lo stesso modus operandi, con lo stesso coltello, e tutte presentano lo stesso marchio”.
“Quindi non è la prima volta che colpisce. Ci sono indizi per trovare l’assassino?”, chiese Steve.
“Nulla. Solo un capello ritrovato sul corpo della prima vittima. Potrebbe essere di un qualsiasi conoscente o cliente della donna. Il peggio è che l’assassino di queste tre ragazze lo abbiamo già preso tre mesi fa”.
“Vuoi dire che questo nuovo omicidio è stato commesso da un emulatore, uno che si spaccia per il vero serial killer?”
“Credo proprio di sì. La cosa strana è che la notizia della morte delle tre ragazze, e soprattutto della presenza di un serial killer, non è mai stata di dominio pubblico. Abbiamo fatto salti mortali per tenere i giornalisti lontano da questa storia, gli anni scorsi. Se questo tizio sta emulando il killer, probabilmente era a conoscenza degli omicidi già per conto suo e quindi è un probabile complice dell’assassino”.
“Di solito i serial killer agiscono da soli...”, pronunciò dubbioso Steve, parlando più a se stesso che non a Rudolf.
“Ma la presenza del capello, il cui DNA non coincide con quello dell’assassino, ci fa pensare che potrebbe davvero esserci un complice”, intervenne Angel.
“Devi darmi un po’ di tempo per studiare il caso”.
“Certo. Qui c’è tutta la documentazione. Puoi trovare i reperti riguardanti questo caso e i precedenti nel magazzino della sezione omicidi”.
“Ti ringrazio. Ti chiamo non appena avrò finito di studiarmi tutta questa roba, se scopro qualcosa di nuovo”.
Steve imbracciò il pesante fascicolo e tornò nel suo ufficio, dove passò la mattinata a leggere i resoconti dei tre omicidi precedenti. Scoprì così che l’assassino, un certo Tomas Leper, era stato catturato sul luogo del terzo delitto, in assoluto stato confusionale, con le mani ancora imbrattate del sangue della vittima. L’uomo, che si era sempre dichiarato innocente, era stato rinchiuso in un carcere di massima sicurezza, ed era già stato processato e condannato alla sedia elettrica. La condanna sarebbe stata eseguita di lì a qualche tempo, in data ancora da destinarsi.
Tomas, che aveva sempre vissuto come barbone nei bassi fondi della città, interrogato dalla polizia dopo essere stato catturato, aveva raccontato una stranissima storia, secondo la quale sarebbe venuto dal passato e si sarebbe trovato nel luogo dell’omicidio per puro caso, trasportato lì da una improbabile macchina del tempo, costruita da uno scienziato. In realtà, lo scienziato in questione era morto da quasi un anno e Leper non aveva alibi per nessuno dei tre omicidi.
Steve scoprì anche che l’unico omicidio di cui aveva parlato la stampa era il secondo, ma senza far riferimento alcuno a un assassino seriale. Il giornale sul quale era riportato l’articolo era il City Journal del 23 aprile 1999. L’articolo era di Cris, collega di Livienne. Avrebbe potuto chiedere all’amica se sapeva qualcosa di quella faccenda.
Nel pomeriggio, Steve si recò prima di tutto al magazzino della sezione omicidi, dove visionò le prove dei reati: gli abiti sporchi di sangue di Leper, il capello del quale aveva parlato Rudolf, con un DNA diverso da quello di Leper e non ancora identificato, le foto delle impronte delle scarpe di Leper nel sangue della vittima, le sue impronte digitali sulla morta e una strana sfera argentata, anch’essa con le impronte di Leper, trovata accanto alla porta del capannone dove era stata uccisa la vittima. Steve osservò a lungo la sfera, senza riuscire a capire di che cosa si trattasse. Sembrava una comunissima biglia di acciaio. Forse la sfera era della vittima e Leper l’aveva prelevata come feticcio, da portare via con sé.
Dell’arma del delitto e dell’oggetto utilizzato per marchiare la vittima, però, non c’era traccia alcuna.
Come era riuscito l’omicida a disfarsi di questi oggetti? Perché se ne era andato per gettare l’arma e il marchio, o per riporli da qualche parte, e poi era tornato dalla vittima? Forse aveva dimenticato qualcosa? Forse non aveva prelevato un feticcio, qualcosa che gli “ricordasse” la quarta vittima, per esempio la sfera trovata per terra?
“Strano”, pensò Steve.
“Perché uno che era stato così attento a non lasciare tracce durante i primi due omicidi, nel terzo si fa addirittura trovare sulla scena del crimine, a ore di distanza dalla morte della vittima, dopo aver lasciato impronte da tutte le parti?”, si chiese.
Era vero che Leper si trovava in stato confusionale, ma la faccenda non quadrava. E se Leper fosse stato il complice e non l’assassino?
Forse il vero aggressore l’aveva lasciato lì per farlo incriminare al suo posto, magari dopo averlo drogato o stordito. Ma non c’erano segni di percosse sul corpo di Leper, dopo l’arresto, e le sue analisi dimostravano che non aveva assunto droghe, anche se alcuni valori risultavano sballati. Stranamente quei valori, che Steve aveva già notato altre volte in altri soggetti, si potevano riscontrare dopo un lungo viaggio nello spazio.
Steve fece un sopralluogo in periferia, nel luogo dov’era avvenuto il terzo omicidio. Il capannone era chiaramente disabitato da un po’. Le ragnatele ciondolavano dal soffitto e la polvere si annidava sul pavimento in cemento. Le vetrate, molto alte, erano state infrante dall’esterno, molto probabilmente a sassate. Più o meno al centro dello stanzone si notava ancora la chiazza di sangue secco che nessuno si era preso la briga di togliere. Il capannone era completamente vuoto. I passi di Steve rimbombavano, mentre lo percorreva in lungo e in largo, alla ricerca di qualche altro indizio sfuggito ai colleghi. Ma non trovò nulla.
Decise quindi di andare a trovare il carcerato per poterlo interrogare. Telefonò a Kerk e chiese la sua autorizzazione. In pochi minuti Donald fece le telefonate del caso e ottenne il permesso.
Steve raggiunse la prigione in circa mezz’ora. Accompagnato da un secondino venne portato nella saletta dei visitatori, dove prese posto su una seggiola un po’ sgangherata. Pochi minuti dopo, un uomo sulla cinquantina, dalla barba incolta e dai radi capelli, lo raggiunse e si sedette di fronte a lui. Solo uno spesso vetro li separava.
“Tu sei Tomas Leper?”
“Sì”. L’uomo abbassò gli occhi, nel rispondere.
“Sei accusato di ben tre omicidi. Che hai da dire a tua discolpa?”
Dopo un lungo istante di silenzio, l’uomo rispose, senza mai alzare lo sguardo:
“Non sono stato io”. La sua voce era stanca, sfinita, come se non avesse fatto altro che ripetere quelle parole.
“Non hai un alibi per nessuno dei tre omicidi. Ti basterebbe dimostrare che non eri presente ad almeno uno dei primi due, e probabilmente ti scagionerebbero anche di quell’altro”.
“Non sono stato io”, ripeté sistematicamente lui.
“Io ti credo”.
Per la prima volta, l’uomo lo guardò dritto negli occhi, sorpreso.
“Come sarebbe a dire?”, chiese, confuso.
“Sarebbe a dire che vorrei sapere come sono andate le cose; veramente. Qualcuno ti ha costretto a fargli da complice, forse?”
“No. Non è andata così”.
“E allora com’è andata? Dimmelo, e forse posso tirarti fuori. Raccontami tutta la verità”.
“Non servirà a niente!”
L’uomo balzò in piedi, picchiando il pugno sul tavolo.
“Mi direte solo che sono pazzo!”
“Non io”, cercò di tranquillizzarlo Steve.
“Io ti starò a sentire, e ti giuro che cercherò di crederti e di aiutarti. Sono abituato alle strane storie...”
L’uomo, incoraggiato, tornò a sedersi e incominciò il suo racconto:
“Era il 25 marzo 1999. A quell’epoca vivevo come barbone nei sobborghi della città, mangiando alla mensa comune o rubacchiando qua e là. Un uomo ben vestito mi venne vicino e mi disse di essere uno scienziato. Si chiamava Leonard Colby. Mi promise fior di soldi se avessi accettato di sottopormi a un esperimento. Aveva costruito una macchina del tempo. Diceva che questa macchina mi avrebbe catapultato in avanti di un anno e mezzo, più o meno. Io non credevo a una sola parola. Pensavo che fosse pazzo, ma non importava: contavano solo i soldi che mi aveva già messo in mano. Naturalmente accettai. Mi bendò e mi portò in macchina in un luogo poco lontano, non so esattamente dove. Quando mi tolse la benda mi ritrovai in un capannone, dove una strana macchina piena di luci faceva un antipatico ronzio. Mi diede in mano una piccola sfera di acciaio: il catalizzatore. Diceva che senza quella non sarei andato da nessuna parte. Mi avvicinai alla macchina, seguendo le sue istruzioni e, all’improvviso, un foro enorme mi si presentò dinnanzi. Era tutto buio. Spaventato, mollai per terra la sfera e il foro scomparve. Leonard mi disse di raccogliere di nuovo il catalizzatore e di tenerlo in mano, ben stretto. Lo feci e il foro riapparve. Mi ordinò di passarci attraverso. Ricordo che mi sentii poco bene, all’interno di quel buio. Ero confuso. Non vedevo niente. C’era odore di polvere. Camminai a tentoni e inciampai in qualcosa di morbido, steso per terra. Caddi e persi il catalizzatore, che rotolò lontano. Mi ritrovai a terra con le mani bagnate. Non sapevo su che cosa avevo inciampato e neppure dove mi trovassi. Non sapevo che quella strana sostanza che avevo sulle mani fosse il sangue della vittima. Mi rialzai, pulendomi le mani nei vestiti, ma ero molto confuso. Mi sembrava di essere ancora nel medesimo posto, nello stesso capannone di prima, ma era chiaro che fosse notte, mentre qualche secondo prima era primo pomeriggio. La macchina non c’era più, e neppure Leonard. Cercai a tentoni il catalizzatore. Il piano dello scienziato era chiaro: dovevo andare nel futuro, portare una prova del tempo in cui mi trovavo, per esempio un giornale con la data, e poi dovevo tornare indietro. Quindi la cosa più importante era ritrovare la sfera, o non sarei più tornato nel mio tempo. Cercai a lungo, ma non la trovai. C’era troppo buio. Decisi di aspettare la mattina, per cercare con la luce, e con più calma. Invece, prima del mattino, la polizia di Filadelfia mi aveva già trovato, messo le manette ai polsi e trascinato via. Capii così che la cosa in cui avevo inciampato era il cadavere di una donna. Una donna che non avevo di sicuro ucciso io. Scoprii, una volta arrivato in carcere, che era il primo di novembre del 2000. La macchina aveva funzionato perfettamente”.
“C’è qualcun altro, oltre a Leonard, che può confermare la tua storia?”
“No. Era un esperimento segreto e Leonard lo aveva condotto da solo”.
“Leonard è morto l’anno scorso. Purtroppo lui non ti può più scagionare”.
“Lo so. Me lo hanno detto”.
“C’è un altro modo per dimostrare la tua innocenza: stando a quello che mi hai raccontato, se mi avvicino al luogo dove tu sei arrivato con il catalizzatore in mano, dovrebbe aprirsi il varco spazio-temporale!”
“Così almeno mi disse Leonard. Ma non so dove sia il catalizzatore. Inoltre il varco potrebbe essersi richiuso, in tutto questo tempo”.
“Non preoccuparti per questo: lasciami solo fare qualche altra indagine, poi tornerò da te, te lo prometto. Farò il possibile per tirarti fuori di qui”.
“Grazie”, disse solo lui, riconoscente forse più del fatto che Steve l’avesse ascoltato senza fare commenti e gli avesse creduto. Probabilmente era la prima persona che gli credeva veramente da quando era rinchiuso lì dentro.
Steve cercò tramite computer notizie di Leonard Colby. La moglie viveva ancora in città. Decise di andare a trovarla, ma prima pensò che fosse meglio fare una sosta a casa di Livienne: a quell’ora, circa le diciannove e trenta, la ragazza doveva essere ormai rientrata dal lavoro e forse le interessava il caso.
Raggiunse con la sua automobile la palazzina dove abitava Livienne, parcheggiò di fronte allo stabile ed entrò, fece un cenno alla portinaia, che però dormiva della grossa nella sua guardina, e si infilò dritto su per le scale, accompagnato dal russare ritmico della donna. Giunto di fronte all'appartamento 7 suonò il campanello e rimase in attesa. Livienne venne ad aprire subito dopo.
“Oh… sei tu!”, esclamò sorridendogli. Steve la squadrò da capo a piedi: i lunghi capelli biondi leggermente mossi e sciolti, una camicetta di pizzo che le lasciava scoperte le spalle, calze a rete nere, tacchi a spillo e una vertiginosa minigonna di pelle nera. Steve era abituato a vedere Livienne con la minigonna, ma quella sera lei toglieva proprio il respiro: era uno schianto.
“Hai deciso di restare lì impalato a guardarmi per tutta la sera?”, lo stuzzicò, sorridendo maliziosamente e risvegliandolo dai suoi pensieri.
“Posso entrare?”
“Certo!”
“Sto lavorando a un caso piuttosto interessante e mi chiedevo se ti andasse di accompagnarmi”. Erano diversi giorni che lui e Livienne non si vedevano, troppo presi dal reciproco lavoro, e Livienne avrebbe proprio avuto voglia di uscire con lui, ma c'era qualcosa che ancora non riusciva a dimenticare: Steve abbracciato a Nicoletta, una ragazza che lui aveva conosciuto molto intimamente circa un mese prima. Livienne sapeva che i due si erano lasciati, ma portava ancora rancore a Steve per quell'avventura fuori programma, così si limitò a dirgli:
“Veramente, avrei un appuntamento”.
“Con chi?”, domandò, sorpreso.
“Non sono affari tuoi”.
Steve sentì la collera salirgli alle labbra, ma si contenne.
“Spero non si tratti di un altro serial killer”, si limitò a insinuare, ricordando che l'anno prima Livienne aveva avuto un appuntamento con un pericoloso assassino, che aveva tentato di farla fuori.
“Non dire sciocchezze, Steve. Lo conosco da sempre”, liquidò lei.
Quindi era davvero un uomo, quello con cui Livienne usciva. Forse era Dan, un loro grande amico.
“D'accordo. Allora suppongo che tu non abbia tempo di venire con me”, bofonchiò Steve, decisamente contrariato.
“Mi dispiace, Steve. Questa sera proprio non posso”.
Steve girò i tacchi e uscì dalla stanza, andandosene piuttosto scocciato. Gli seccava ammetterlo, ma non gli piaceva affatto che lei uscisse con un altro uomo. Si rese conto di essere geloso. Geloso e preoccupato. Avrebbe potuto seguirla: lo aveva già fatto una volta, dopotutto Livienne aveva la pericolosa tendenza a cacciarsi sempre nei guai, ma sapeva che questa volta si sarebbe arrabbiata davvero se lo avesse fatto. Dopotutto, fra di loro non c'era niente di più che una calorosa amicizia. Un'amicizia che però si stava trasformando in un sentimento strano, fatto di gelosie, di rancori, di batticuori. Ogni volta che la guardava Steve si sentiva strano, e moriva dalla voglia di risentire sulle sue le labbra di Livienne. L'aveva già baciata un paio di volte, prendendo i pretesti più disparati, ma lei si rifiutava di impostare un rapporto serio con lui: evidentemente aveva paura di sbagliare di nuovo, dopo aver avuto due esperienze disastrose con Jack e Carey, i suoi due ex, che Steve aveva conosciuto l'anno precedente, ma era anche convinto che ci fosse dell'altro, qualcosa che Livienne non voleva rivelargli. Già, perché ultimamente anche Livienne aveva dato segno di cedimenti: dopo quasi un anno passato insieme a risolvere casi anche lei aveva cominciato a fissare il compagno in maniera inequivocabile. Steve era certo che si stesse innamorando, complice anche il fatto che l'aveva vista tremare di paura e di rabbia, quando le aveva presentato Nicoletta. L'aveva vista piangere per quell'unione, ed era certo che quella sera Livi uscisse con un altro uomo solo per fargliela pagare. Ma allora perché non accettava di mettersi con lui? Che cosa c'era che la tratteneva ancora? Impossibile pensare che non si fidasse di lui: gli aveva affidato la sua vita diverse volte, e gli aveva dato le chiavi del suo appartamento… eppure, qualcosa la tratteneva ancora e Steve non riusciva a capire di cosa si trattasse.
Nell'uscire, lanciò un'occhiataccia di traverso al tipo ben vestito che entrava con un mazzo di fiori in mano. Gli venne quasi voglia di prenderlo a pugni. Ricordò di averlo già visto un’altra volta, più o meno un anno prima, per il compleanno di Livienne. Anche allora era venuto a trovarla, e le aveva portato dei fiori.
Dunque era quello il tipo con cui Livienne voleva uscire. Era il suo "tipo ideale". Un manichino con giacca, cravatta, con i fiori e tutto il resto. Chissà… forse se anche lui si fosse presentato alla sua porta con i fiori in mano e la avesse invitata a cena, Livienne avrebbe accettato finalmente di uscire con lui. Si sedette in macchina e sbatté rumorosamente la portiera. Dopotutto se l'era cercato: anche lui era uscito con Nicoletta e aveva avuto la malaugurata idea di farla conoscere a Livienne. C'era da aspettarselo che lei, vendicativa com'era, non gliel’avrebbe fatta passare liscia.
Ma ora doveva concentrarsi sul caso. Cercò di scacciare il pensiero di Livienne fuori a cena con quel tipo e fissò lo sguardo sul foglietto dove aveva segnato l’indirizzo della moglie di Colby. Doveva attraversare l’intera città.
Si fermò davanti a una villetta in periferia, con un giardino molto ben curato. Suonò il campanello e un’anziana signora uscì subito dopo chiedendo:
“Chi è?”
“La signora Colby?”
“Sono io”.
“Devo parlare con lei di suo marito”, disse, mostrando il distintivo.
“Purtroppo è morto un anno fa”.
“Lo so. È stato investito, non è vero?”
“Già. Una grossa Volvo nera con a bordo una donna, che non si è neppure fermata a soccorrerlo. Non è mai stata identificata”, disse la donna, aprendo il cancello e facendolo entrare.
“Faceva lo scienziato, vero?”
“Lavorava all’università di scienza e tecnica, come docente”.
“Non le ha mai parlato di una macchina del tempo che stava costruendo?”, chiese Steve, prendendo posto in veranda, su una poltroncina.
“Ho sentito parlare di una macchina, ma non ha mai specificato di cosa si trattasse. È sempre stato piuttosto misterioso, nel suo lavoro. Ricordo però che gli ultimi tempi era molto nervoso e non faceva altro che scattare come una molla. Continuava a dire che era tutta colpa di quella macchina e che la voleva distruggere. Penso che lo abbia fatto”.
“Ha idea di dove la tenesse?”
“Non in casa, questo è certo. So che aveva acquistato un capannone qui vicino e ci andava molto spesso a lavorare. Probabilmente la teneva lì, ma credo che sia davvero andata distrutta”.
“Quanto tempo fa, più o meno?”
“Circa un mese prima di morire, una sera, mi disse che lo aveva fatto, che l’aveva distrutta. Non capivo che importanza potesse avere, ma per lui evidentemente ne aveva molta”.
“Posso sapere dove si trova il capannone?”
“Certo. Ho l’atto di vendita. Mi aspetti qui, torno subito”.
La donna entrò in casa e ne uscì poco dopo con l’incartamento relativo all’acquisto del capannone.
Come Steve aveva già immaginato, si trattava dello stesso capannone in cui Leper era stato trovato e dove era stata uccisa la terza vittima.
“La ringrazio, signora. Mi è stata di grande aiuto”. Steve le ridiede gli incartamenti, la salutò e si diresse verso la sua abitazione: era buio, ormai, e non era il caso di continuare le indagini. La mattina seguente si sarebbe recato al capannone, portando con sé il catalizzatore. Se era fortunato, poteva riaprire il varco e dimostrare l’innocenza di Leper. Decise che prima sarebbe passato da Livienne e le avrebbe chiesto di nuovo se le andava di accompagnarlo in quell’impresa. Dopodiché se ne andò a dormire, piuttosto stanco.
Erano le sei del mattino quando Steve suonò il campanello dell’appartamento di Livienne. Avrebbe potuto aprire con le chiavi che la ragazza gli aveva dato, ma non voleva spaventarla. Poco dopo, una  Livienne in camicia da notte, con i cappelli arruffati e gli occhi assonnati gli si parò davanti, piuttosto stupita. Steve non le chiese neppure se poteva entrare; si precipitò dentro e le disse:
“Vestiti! Mi serve immediatamente il tuo aiuto”.
“Per cosa?”
“Ricordi il caso di cui ti ho parlato? Ci sono degli sviluppi interessanti. Devi venire subito con me”.
“Beh, io…”, cominciò lei, ma non riuscì a finire il discorso: dal bagno uscì il tizio alto e biondo che  Steve aveva notato la sera prima, solo che ora non era più ben vestito: era scalzo e a torso nudo, e squadrò Steve da capo a piedi prima di chiedergli:
“Chi è lei? Cosa vuole da Livienne?”
Steve dapprima si sentì sprofondare, poi gli venne una gran voglia di rifilare un pugno a quella faccia tosta che aveva il coraggio di chiedergli chi era. Notando che Steve stava per reagire male, Livienne si mise in mezzo.
“Lui è Steve. Lavoriamo spesso insieme”, spiegò, imbarazzata.
“Steve, lui è Michael”, lo presentò all'amico.
Michael tese la mano a Steve in segno di saluto ma sul suo volto l'espressione rimase piuttosto dura. Steve afferrò la mano e quasi gliela stritolò, poi disse, asciutto:
“Sarà meglio che vada. Ci vediamo, Livienne”.
“Aspetta!”, urlò lei, ma Steve stava già uscendo dalla porta.
“Steve!”, chiamò ancora, parandosi davanti a lui, con aria contrariata.
“Senti! Mi tiri giù dal letto alle sei del mattino, ti precipiti in casa mia come una furia chiedendomi di aiutarti, e ora te ne vai senza neppure spiegare?”
“Visto che sei troppo occupata per aiutarmi…”, ringhiò lui.
“Non sono troppo occupata! Michael se ne stava andando! Non è vero, Mike?”
“Certo! Io devo andare”, farfugliò lui, capendo che la situazione non era delle più semplici.
“Se mi dai un secondo mi cambio e vengo con te”, disse ancora lei, rivolta a Steve.
“Sbrigati. Ti aspetto in macchina”.
Steve scese le scale a precipizio, rifugiandosi nella sua vettura. Non riusciva a credere che Livienne avesse passato la notte con quel tizio. Mille pensieri gli passarono per la testa: sapeva che non era la prima volta che quei due si vedevano: forse quello era il ragazzo di Livienne e lei non gliene aveva mai parlato. Possibile che ci avesse passato la notte solo per fargli rabbia? Livienne aprì la portiera e salì in macchina. Steve non la guardò nemmeno: era sconvolto e arrabbiato.
“Allora, di che si tratta?”, s'informò lei.
Per un lungo istante, Steve non rispose, poi le chiese a bruciapelo:
“Che cosa c'è che non va in me, Livienne?”
“Cosa?”
Lo fissò stupita.
“Sono mesi che ci conosciamo, e tutto ciò che ho ottenuto con te è stato darti qualche bacio di sfuggita. Ora scopro che te ne vai a letto col primo che capita! È così che avrei dovuto fare? Chiederti di venire a letto con me la prima volta che ti ho vista?”, esplose Steve, ma non poté dire altro, perché un potente ceffone lo colpì in pieno viso. Livienne scese dalla macchina, indignata, e tornò di corsa nel suo appartamento, dove scoppiò in lacrime.
Poco dopo il campanello suonò più volte, ma Livienne non andò ad aprire. Steve usò le chiavi che lei gli aveva dato solo qualche mese prima e aprì la porta.
“Che cosa vuoi?”, singhiozzò, disperata, dalla camera da letto. Steve la raggiunse.
“Scusami. Non volevo”, sussurrò, avvicinandosi a lei.
“Se lo vuoi proprio sapere, Michael è un amico di mio fratello. Lo conosco da sempre. E ieri sera ha perso l'aereo per colpa del traffico. Non sapeva dove andare a dormire, così gli ho proposto di restare qui. Ha dormito sul divano: io ero nella mia stanza, con la porta chiusa a chiave e la pistola sotto il cuscino”.
Steve la fissava, incredulo. Era stato tutto un maledetto malinteso. Ora si sentiva veramente un idiota. Livienne tirò su col naso e lui le porse un fazzoletto.
“Mi dispiace Livienne. Anche se tu fossi andata con lui io non avevo nessun diritto di arrabbiarmi”, farfugliò Steve, imbarazzato. Livienne si soffiò rumorosamente il naso e si asciugò gli occhi, fissandolo risentita.
“Almeno ora sai come ci si sente a vedere con un altro la persona che…” Si fermò, senza ultimare la frase.
“La persona che si ama?”, concluse Steve, asciugandole le lacrime e carezzandole il volto. Lei lo fissava, i grandi occhi verdi ancora lucidi di pianto. Era inutile negare ancora. Le labbra di Steve si posarono sulle sue e la baciò appassionatamente. Ma Livienne si ritrasse quasi subito da quell'abbraccio.
“Perché?”, chiese, disperato.
“Non voglio, Steve. Non ancora. Ci sono cose…”. Non sapeva come andare avanti.
“Cose che tu ancora non sai di me, e che potrebbero cambiare troppo il corso della nostra vita”, aggiunse finalmente.
“Parlamene, allora!”
“No. Non ne ho il coraggio. Ho sbagliato troppo. Devi darmi tempo, Steve”.
Lui annuì, in silenzio.
“Forza, il lavoro ci attende”, sussurrò, ancora scosso.
Steve passò alla sezione omicidi, dove prese la sfera d’acciaio e se la mise in tasca, sperando che nessuno lo incolpasse di essersi appropriato di una prova. Risalito in macchina, dove Livienne lo stava aspettando, si rivolse alla ragazza, raccontandole tutto quello che aveva scoperto il giorno precedente.
“Davvero uno strano caso. Tu pensi che Leper sia veramente venuto dal passato?”, domandò lei, dopo aver ascoltato il suo racconto.
“Può darsi. Se siamo fortunati lo scopriremo presto: sto andando al capannone e ho con me il catalizzatore. Se, nel passato, Leonard non ha ancora distrutto la macchina, dovrebbe ricrearsi il passaggio”.
“E se invece si trattasse solo di una storia inventata da Tomas per coprire qualcun altro? A me sembra molto più plausibile la tua teoria dell’assassino che coinvolge Leper e lo abbandona sul luogo del delitto per farlo incriminare”.
“Anche questa non è un’idea da scartare. Sai niente del secondo omicidio? Il City Journal lo aveva riportato, circa due anni fa. Eri già impiegata al giornale, in quel periodo. L’articolo era di Cris”.
“Non mi pare di averne sentito parlare. Quando è successo?”
“L’omicidio è avvenuto la notte tra il 22 e il 23 aprile 1999. L’articolo è uscito la mattina del 23”.
Per un lungo istante, Livienne non disse assolutamente nulla. Poi sussurrò, con una strana voce:
“Non ero al lavoro, quel giorno. E non ho neppure letto il giornale”.
“Come fai a ricordare così bene quello che...” Steve si voltò verso di lei, ma le parole gli morirono in gola quando notò l’espressione della ragazza, diventata all’improvviso pallidissima, con gli occhi colmi di lacrime che cercava inutilmente di ricacciare indietro.
“Che ti succede?”, chiese, preoccupato.
“Niente. Un calo di zuccheri”. Livienne prese dalla borsetta una caramella e se la mise in bocca, poi si soffiò il naso e si asciugò gli occhi.
Steve non le chiese altro. Si limitò a parcheggiare davanti al capannone che aveva già visitato il giorno prima. Lui e Livienne entrarono. Con la sfera in mano, Steve si avvicinò a una delle pareti dello stabile. D’improvviso, un foro buio apparve di fronte a loro, come uno squarcio nell’aria, immobile e nerissimo. Livienne trasalì.
“Ora io attraverserò questo squarcio spazio-temporale e controllerò che cosa c’è al di là. Devo scoprire se veramente mi riporta indietro nel tempo. Poi tornerò qui”.
“Non pensarci nemmeno. Se tu attraversi quel buco nero, io verrò con te”.
“Non dire sciocchezze, Livienne. Tu devi restare qui, e avvertire i rinforzi se non torno entro dieci minuti”.
“Io vengo con te”.
“C’è un catalizzatore solo”.
“Allora vorrà dire che ti abbraccerò”, continuò lei, avvinghiandosi a Steve.
“Non so se funzionerà”.
“Possiamo sempre provare, ma non ti azzardare a lasciarmi qui. Se davvero è possibile tornare indietro, a due anni fa, allora voglio esserci anch’io”.
“D’accordo”, si arrese Steve, che sapeva quanto fosse inutile tentare di convincere Livienne. La strinse tra le braccia e insieme si tuffarono all’interno del foro buio. Qualche secondo più tardi Steve aprì gli occhi, un po’ allucinato. Si sentiva stordito, strano. Fissò Livienne, ancora abbracciata a lui. La ragazza aveva la sua stessa espressione stralunata. Si trovavano ancora nel capannone, ma l’ambiente era decisamente diverso: le finestre erano integre, erano scomparse le ragnatele e un grosso macchinario campeggiava appoggiato a una delle pareti. Parecchie luci si accendevano e spegnevano in rapida successione.
“Credi che siamo riusciti a tornare indietro nel tempo?”, chiese Livienne in un sussurro.
“Sembrerebbe di sì”.
Steve cominciò a muoversi per la stanza. Tutto era pulito e in ordine. Si avvicinò alla porta. Era chiusa a chiave.
“Siamo chiusi dentro”. Fissò le alte pareti, poi si guardò subito intorno, per cercare qualcosa sufficientemente alto da poter utilizzare per raggiungere le finestre.
“Non c’è niente che possiamo usare per uscire di qui”, constatò, cercando di scacciare il senso di angoscia che lo assaliva ogni volta che si ritrovava in un ambiente chiuso.
“Questa volta, perlomeno, non c’è una bomba pronta a esplodere!”, sentenziò Livienne, ricordando l’ultima volta che si erano trovati chiusi in un hangar, con un conto alla rovescia in atto e la prospettiva di saltare in aria da un momento all’altro.
“Questo significa che stavolta non ho una scusa per baciarti”, scherzò Steve.
“Vieni a vedere”, la chiamò. Appeso alla parete c’era un calendario, aperto alla pagina di aprile, nel 1999.
Il rumore di una macchina che si fermava davanti al capannone attirò la loro attenzione. In silenzio, Steve si avvicinò a Livienne e restarono in attesa. Qualcuno girò la chiave nella toppa e il portone del capannone si spalancò. Un uomo alto, asciutto, dai capelli grigi e dai lunghi baffi bianchi, molto distinto, con un gessato blu e un lungo bastone da passeggio fece il suo ingresso, fissandoli più che stupito.
“Voi chi siete?”, domandò. “Come avete fatto a entrare qui?” Il suo tono suonava minaccioso, ma era chiaro che era spaventato.
“Agente Steve Rowling, dell’FBI. Questa è la mia amica Livienne”, spiegò, mostrando il distintivo.
L’uomo sembrò rilassarsi leggermente.
“Immagino che lei sia Leonard Colby”, continuò Steve.
“Sì. Sono io”.
“È lei che ha costruito questa macchina del tempo?”
L’uomo lo fissò ancora stupito.
“Come fa a sapere di cosa si tratta?”
“Ho parlato con Tomas Leper. Vede, io vengo dal futuro. Sono arrivato qui passando per il foro spazio-temporale”.
“Il wormhole”, specificò lo scienziato. “Lei ha parlato davvero con Leper?”
“Sì”.
“E come sta? Dov’è adesso?”
“Nel nostro tempo. Sta bene, ma è in prigione per un delitto che quasi sicuramente non ha commesso. Si è trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato. Lo hanno accusato di numerosi omicidi e se non riuscirò a scagionarlo finirà sulla sedia elettrica”.
“È tutta colpa mia! Solo colpa mia e di quella maledetta macchina!”
In un impeto di rabbia, Leonard alzò il bastone e si diresse verso la macchina. Steve lo bloccò.
“Stia calmo. Vedrà, troveremo una soluzione. Lo rimanderemo indietro, ma ci serve un aiuto”.
L’uomo si calmò, poi chiese:
“Raccontatemi tutto”.
Steve riassunse brevemente quello che era capitato a Leper una volta giunto nel loro tempo. Quando smise di parlare Leonard rimase a lungo in silenzio, poi sentenziò:
“Vi basterebbe cercare me nel vostro tempo: io potrei scagionarlo!”
“Purtroppo non è possibile”.
“Per quale motivo?”
Steve non sapeva come dirglielo.
“Ho capito. Non ci sarò più, vero?”
Steve annuì.
“Allora dobbiamo trovare un’altra soluzione”.
“Aspettate”, li interruppe Livienne.
“Se noi facciamo qualcosa in questo tempo, ciò cambierà il futuro, e per quanto ne so è pericoloso cambiare il futuro”.
“So di che cosa parli: è il principio di casualità. Esso vuole che a una causa consegua un effetto, che deve essere posteriore alla causa e per nessuna ragione può precederlo. Ma attraverso i miei calcoli ho capito che questo principio non è valido attraverso i Wormhole: il passato modificato è quello di un universo diverso da quello da cui provenite. I due universi seguiranno strade diverse, da questo momento”.
“Insomma potremmo cambiare la storia del passato senza modificare il presente perché si tratta in realtà di due universi differenti?”, chiese Livienne, che stentava a capire.
“È esattamente così”.
“Bene. Allora che possiamo fare?”
“Se non sbaglio, dovremmo essere tornati indietro solo di un paio di anni”, incominciò Steve.
“Che giorno è oggi?”, s'informò.
“Il 22 aprile 1999”. A quelle parole, Livienne sbiancò di nuovo in volto, ma Steve era troppo eccitato per rendersene conto.
“Fantastico!”, esclamò Steve.
“Questa sera il vero serial killer ucciderà la sua seconda vittima. Conosco il luogo, la modalità e pressappoco l’ora. Ci basterà appostarci per cogliere di nascosto il vero assassino, e questo scagionerebbe Leper”.
“Ma non nel tuo universo!”
“Non importa: una volta scoperto di chi si tratta, potrò arrestarlo anche nel mio mondo. Ci servirà l’aiuto della polizia”.
“No. La polizia non deve sapere di questa macchina. Ho già deciso di distruggerla e voglio farlo: è troppo pericolosa. Se cade nelle mani sbagliate…”
“Non si preoccupi: le prometto che la cosa resterà tra lei… e noi”. E Steve strizzò l’occhio a Livienne, che aveva già capito cosa aveva intenzione di fare.
Steve prese il cellulare e digitò il numero del suo ufficio, all’FBI di Filadelfia.
Qualcuno, all’altro capo, rispose:
“Agente speciale Steve Rowling. Chi parla?”
“Ho bisogno del tuo aiuto per risolvere uno strano caso. Raggiungi il bar dove ti fermi a volte a bere il caffè al mattino, subito”.
“Ma chi è?”
“Un amico”. Steve chiuse la comunicazione.
“Ma verrà?”, chiese Leonard.
“Certo che verrà. È troppo curioso per resistere”, rispose Livienne.
Raggiunsero il locale dove Steve aveva appuntamento con se stesso. Quando l’agente speciale raggiunse il bar, Steve gli andò incontro, invitandolo a sedersi con loro.
L’altro Steve lo fissò decisamente stupito. Ne aveva viste di cose strane, ma questa le batteva tutte.
“Chi sei? Un mio sosia, forse?”
“Forse non mi crederai, ma io sono te stesso e vengo dal futuro, da una dimensione parallela”.
L’altro non disse nulla. Si limitò a fissarlo, sorpreso, ma interessato.
Steve iniziò a raccontargli come stavano le cose, e il perché si trovassero lì.
“Quindi lui è lo scienziato che ha inventato la macchina del tempo?”, chiese alla fine l’altro Steve.
“Sì”.
“E lei chi è?”, chiese ancora, ammiccando a Livienne.
“Si chiama Livienne ed è una giornalista. Viene dal mio tempo”.
“Una giornalista? Non voglio avere niente a che fare con lei! Credevo che ci somigliassimo, tu e io!”, sbottò, piuttosto contrariato.
“Mi sa tanto che dovrai cambiare idea sui giornalisti, prima o poi”, rise Steve.
“Comunque non la voglio tra i piedi. Accetto di aiutarvi e stasera sarò con voi all’appuntamento. Ma lei dovrà starsene fuori e non dovrà scrivere una riga su quanto accadrà. Non nella mia dimensione, perlomeno”.
“Non è qui per scrivere un articolo”, la difese Steve.
“Non importa, Steve. Non verrò con voi, stasera. C’è una cosa che devo fare”, intervenne Livienne.
“Di che stai parlando?”
“Non posso dirtelo. È una cosa che devo fare da sola”.
“È pericoloso! Qui non siamo nella nostra dimensione!”
“È la mia città, Steve! Conosco Filadelfia! Che può succedermi? Prenderò un taxi. Stai tranquillo, andrà tutto bene”.
Steve la fissò preoccupato, poi sussurrò:
“Promettimi che starai attenta”.
“Te lo prometto”.
“Ci vediamo questa sera, alle nove, in questo stesso posto”, disse Steve, rivolto all’altro agente.
Lui annuì e si salutarono.
“Venite, vi porto a casa mia”, annunciò Leonard, aprendo la portiera a Livienne. Salirono ancora sulla sua macchina e l’uomo prese a svoltare per i vicoli e le strade di Filadelfia, dirigendosi verso casa, mentre era ormai pomeriggio inoltrato.
Raggiunsero la villetta fuori mano dove Steve era già stato la sera prima e l’uomo parcheggiò nel viale, poco lontano da una grossa vettura nera. Entrarono in casa, dove la signora Colby stava preparando la cena. 
“Cara, abbiamo ospiti. Si fermeranno da noi a cena, e probabilmente anche per la notte”.
“Avresti potuto avvertirmi! Ho preparato solo per due!”, bofonchiò a bassa voce la donna, salutando il marito.
“Non preoccuparti: per strada ho già ordinato alcune pizze. Ce le porteranno tra poco”, la tranquillizzò.
“C’è di nuovo quella Volvo nera, lì fuori. La vicina mi ha detto che sono giorni che la vede, e che non è di nessuno degli abitanti in zona. Nessuno sembra sapere di chi sia”.
L’uomo parve preoccupato, ma non lo disse alla moglie. Anche Steve, che comunque aveva già notato la vettura, ascoltò con attenzione.
“Vado a preparare la stanza per gli ospiti”, disse lei.
Quando la donna se ne fu andata, Leonard confidò a Steve di essere stato seguito alcune volte dalla macchina nera.
“Sono riuscito a seminarla, cambiando strada. Ora ci sto molto attento e prendo spesso strade diverse, soprattutto per andare al capannone. Non voglio che qualcuno scopra la macchina”.
“Se la stanno seguendo è probabile che abbiano già scoperto a cosa sta lavorando”, disse Steve.
“L’unica cosa che so è che è guidata da una donna, mora e molto carina”.
“Posso fare una telefonata?”
“Certo. Il telefono è lì nell’angolo”.
Steve spense il proprio cellulare, poi, utilizzando il telefono fisso di Leonard, fece il numero di cellulare di Steve Rowling, che rispose subito.
“Ciao, sono Steve. Ho bisogno di sapere a chi appartiene una Volvo nera targata 523 HPL”.
“Aspetta un attimo”. L’altro Steve si diede da fare, poi rispose:
“È stata noleggiata in un garage. Il nominativo lasciato dalla donna è Sara Grinwich”.
“Cosa?”
“La conosci?”
“Sara Grinwich, alias Tania Drayfus. È una spia del governo che ti darà probabilmente del filo da torcere, in futuro”.
“Grazie per la dritta, fratello”.
“A dire il vero non so se le cose andranno veramente così: gli avvenimenti che stiamo cambiando porteranno sicuramente questo universo a un futuro diverso da quello del posto dove vengo io. Quindi potresti anche non avere mai a che fare con lei”.
“Terrò presente lo stesso il soggetto. Meglio non lasciare niente al caso...”.
Steve lo salutò, poi si rivolse a Leonard:
“Stai molto attento. Quella donna non deve conoscere il segreto della tua macchina. È molto pericolosa e in mano a lei quel macchinario potrebbe causare danni enormi”.
“Distruggerò la macchina non appena Leper sarà tornato nel mio tempo, te lo prometto”.
“Non è soltanto questo. Lei potrebbe essere la causa della tua morte: nel mio tempo, verrai investito da una Volvo nera guidata da una donna e morirai”.
L’uomo fece segno a Steve che la moglie stava tornando e i due cambiarono argomento.
Livienne, che da quando era entrata in casa non aveva proferito una sola parola, prese il proprio cellulare e chiamò un taxi.
“Non ti fermi a cena con noi?”, chiese Steve, stupito.
“No. Ti ho detto che ho altro da fare”, rispose, evasiva.
“Non vorrai dirmi che salti la pizza?”, chiese, sarcastico.
“Non ho fame”. Steve trovò la cosa molto strana.
Poco dopo arrivarono le pizze ordinate da Leonard e il taxi. Livienne vi salì e disse all’autista di portarla al suo appartamento, in città.
“Mi aspetti qui fuori, per cortesia”, lo avvisò scendendo dal taxi, una volta giunta davanti alla palazzina dove viveva.
“Faccia presto, o si troverà un conto gigantesco”, le gridò dietro il tassista.
Livienne suonò il campanello del citofono, dove campeggiava il suo nome scritto in elegante corsivo.
“Chi è ?”, proferì la sua stessa voce.
“Aprimi. Devo parlare con te di James”. Dopo qualche istante di silenzio, il portoncino d'ingresso si aprì e Livienne salì le scale per raggiungere l’appartamento numero 7.
La porta si aprì e una Livienne di un paio di anni più giovane la fissò, stupita.
“Chi sei?”, sussurrò, sgomenta.
“Sono te stessa, venuta dal futuro per metterti in guardia”.
“Cosa? Ma tu sei pazza!”
La ragazza fece per chiudere la porta, ma Livienne la fermò.
“Aspetta, ti prego. C’è una cosa che devo dirti. È molto importante: questa sera James verrà qui e ti chiederà per l’ennesima volta di andare a vivere con lui. Non dirgli di no, Livienne. Se gli risponderai di no, lui si arrabbierà e se ne andrà via in moto. Non lasciarlo andare, ti prego. Non lasciare che lui esca stasera. Per nessuna ragione al mondo”.
A quelle parole, l’altra Livienne rimase sconcertata.
“Come fai a sapere tutto questo? Come sai di me e di James?”
“Non ha importanza! L’unica cosa che conta è che devi impedirgli di uscire”. Il tono di urgenza di Livienne fu quello che forse colpì di più la ragazza, che chiese:
“Se lui esce, che cosa succederà?”
Gli occhi di Livienne si riempirono di lacrime.
“Se lui esce soffrirai in un modo inimmaginabile, Livienne. Non lasciarlo andare, ti prego”.
Forse furono le sue parole a farle capire la gravità della situazione, forse il tono della sua voce, o forse, semplicemente, l’altra Livienne lesse negli occhi della donna che le stava di fronte la disperazione più nera. Fatto sta che, nonostante tutto, la sua voce tremante sussurrò:
“D’accordo”.
“Me lo prometti?”, chiese ancora Livienne, mossa dalla forza della disperazione.
“Te lo prometto”. Le parole dell’altra Livienne suonarono sincere, sicure.
“Grazie”, riuscì solo a sussurrare Livienne, prima di voltarsi e andarsene, prima di lasciare per sempre quel momento per lei così doloroso. Mai avrebbe pensato di dover rivivere quei momenti, i momenti che avevano anteceduto uno dei giorni più orribili della sua vita. Mai avrebbe pensato di poter cambiare il corso delle cose, cancellare il passato per dare un nuovo futuro a un’altra se stessa.
Se ne andò via piangendo, quasi di corsa, senza voltarsi indietro. Consegnava la vita di James a un’altra. Sì, certo, era sempre lei, ma al tempo stesso non era lei. Era come lasciare il suo James fra le braccia di un’altra donna. Era dura accettare questa soluzione, ma sapeva che solo così gli avrebbe salvato la vita.
Raggiunse in fretta la casa di Leonard e si infilò a letto senza neppure cenare. Il cuore le batteva forte e non riusciva a non pensare a quel 22 aprile 1999. Quel 22 aprile che lei aveva vissuto. Quello che aveva cambiato la sua vita di punto in bianco. Rivedeva la moto per terra e il corpo senza vita di James, disteso poco lontano, mentre un agente della polizia la costringeva ad allontanarsi. Risentiva il dolore straziante di quei momenti. Non voleva più sentire quel dolore. Lo sentiva da troppo tempo. Quel dolore le impediva di amare, le impediva di vivere la sua vita con Steve, le impediva di provare ancora felicità nel rapporto con un uomo. Ora aveva appianato uno scoglio. Aveva pagato un prezzo forse troppo alto, ma aveva vinto la morte e anche il suo destino, ora, poteva cambiare. Pianse a lungo, di un pianto liberatorio, sereno. Poi fu il buio, ora, come due anni prima.
Steve e Leonard, intanto, stavano raggiungendo il bar dove avevano appuntamento con l’altro Steve. Quando arrivarono lo trovarono già ad aspettarli, che sorseggiava lentamente un caffè.
“Vedo che hai lasciato a casa la tua amichetta...”, commentò.
“Non mi hai lasciato scelta! E poi Livienne doveva uscire, non so per quale motivo”.
“Sei preoccupato per lei?”
“Lei ha la tremenda abitudine di andare sempre a cacciarsi nei guai”.
“Come l’hai conosciuta?”
“Durante un’indagine, qui, a Filadelfia”.
“E così, un giorno o l’altro, può darsi che mi trovi a incontrare una giovane giornalista, molto carina, che mi aiuterà nel lavoro e della quale mi innamorerò perdutamente”, rise l'altro Steve.
“Più o meno...”
Steve finì il caffè e raggiunsero il luogo dove sarebbe avvenuto l’omicidio. Dopo essersi armati si trovarono un nascondiglio e attesero a lungo. Le ore passarono lentamente e Steve cominciava a chiedersi se per caso il corso delle cose non avesse già cominciato a cambiare, portando l’assassino in un altro luogo o facendolo colpire in un altro momento. Invece, di lì a poco, udirono dei passi nel vicolo isolato. Una giovane donna, che Steve riconobbe essere la vittima del secondo omicidio, si avvicinava al luogo dove erano nascosti. D’improvviso, un uomo robusto e alto uscì da un vicolo trasversale e si parò dinanzi alla donna, che urlò, spaventata. L’uomo teneva fra le mani un coltello.
La ragazza cercò di sfuggirgli, ma lui la bloccò. Stava per colpire quando intervennero i due Steve, puntandogli contro le pistole.
“Fermo dove sei! Lasciala andare, sporco assassino”.
L’uomo non si fece intimorire:
“Lasciatemi andare o la faccio fuori”.
Da dietro di lui, con un grosso bastone in mano, si avvicinò lentamente Leonard.
“Posate le pistole o la uccido!”, esclamò ancora l’uomo.
I due Steve finsero di stare al gioco, mentre Leonard era ormai alle spalle dell’uomo. Colpì fulmineo sulla testa del malvivente, che finì al suolo, tramortito.
“Bel colpo!”
Uno dei due Steve si occupò della ragazza, sorreggendola, poiché non si sentiva bene, mentre l’altro teneva sotto tiro l’assassino, ancora privo di sensi.
Leonard ritornò a casa con la sua vettura, mentre i due Steve portarono l’assassino alla sede dell’FBI, dove rinvenne e fu interrogato a lungo. Si chiamava Lionel Last e lavorava come scaricatore di porto. Ammise il primo omicidio e raccontò loro dove cercare, nel suo appartamento, la prova di quel crimine efferato. I due Steve si recarono a casa sua, dove trovarono un fiocco per capelli appartenuto alla prima vittima. Addosso a Lionel avevano già trovato il coltello, compatibile con l’arma del delitto del primo omicidio, e un sigillo d’ottone, di quelli per timbri di ceralacca, che veniva opportunamente scaldato con un accendino, per poi “marchiare” a fuoco le sue vittime una volta uccise. Ora Steve aveva il nome del suo assassino.
“Non mi resta che tornare nel mio universo, scagionare Leper e liberarlo. Lui tornerà qui e Leonard distruggerà la macchina. Fino a quel momento, confido che tu ti occupi del professore, tenendo lontana Tania”, disse Steve, rivolto all'altro se stesso.
“Stai tranquillo: ho già messo qualcuno alle calcagna della ragazza e non appena farà un passo falso, la rinchiuderemo in gattabuia”.
“Perfetto. Ora ti devo proprio salutare. È stato bello lavorare con te!”, scherzò Steve, stringendo la mano alla sua controparte.
“Salutami Livienne. Dopotutto, se ti sei innamorato di lei, non dev’essere così male...”
Si salutarono e Steve raggiunse con un taxi l’abitazione dello scienziato. Livienne dormiva profondamente quando entrò nella stanza e stette un istante a guardarla, sollevato dal fatto che non le fosse accaduto nulla di male.
La mattina seguente Livienne si svegliò molto presto. Chiamò Steve e gli chiese com’era andata la sera prima.
“Tutto bene. Abbiamo catturato l’assassino. Almeno in questa dimensione non ucciderà più. So come si chiama e dove abita, e so anche dove trovare tracce del primo delitto. Dovremmo riuscire a incriminarlo anche nella nostra dimensione e a scagionare Leper”.
“Benissimo”.
“E a te com’è andata?”, si azzardò a chiedere Steve, troppo curioso per riuscire a tacere.
“Ancora non lo so”.
Qualcuno bussò alla porta e Steve disse:
“Avanti”.
Leonard entrò con un vassoio per la colazione.
“Possiamo già tornare nella nostra dimensione?”, s'informò Livienne, addentando nervosamente un croissant.
“Certo! Non appena avrete finito di fare colazione”.
“Una volta tornati, prenderemo il serial killer e libereremo Leper. Lo faremo tornare qui e lei distruggerà la macchina”.
“È possibile passare davanti alla sede del City Journal, prima di partire?”, chiese Livienne.
“Sì. Certo!”.
Infatti, una volta saliti in macchina, Leonard si diresse verso la sede del giornale dove Livienne lavorava.
“Accosti qui, per favore”, disse Livienne.
“Ma siamo in sosta vietata”.
“Si tratta solo di qualche minuto e non ci sarà bisogno di scendere dalla macchina”.
Attesero seduti nella vettura, in silenzio. I due uomini si chiedevano che cosa Livienne stesse aspettando.
Il classico rumore di una motocicletta attirò l’attenzione della ragazza. Steve vide una moto sfrecciare veloce sulla strada, con a bordo due giovani. Si avvicinava sempre più, fino a che si fermò davanti alla sede del giornale. I due ragazzi scesero e si tolsero il casco. Una cascata di capelli biondi rivelò una Livienne un po’ più giovane, molto carina e sorridente. Il ragazzo che l’aveva accompagnata si chinò a baciarla a lungo, poi si salutarono e lui risalì sulla moto, mentre Livienne raggiungeva l’entrata del giornale.
Steve si voltò a guardare Livienne, ancora seduta in macchina, sul sedile posteriore. La ragazza sorrideva, ma le sue guance erano rigate da calde lacrime.
“Possiamo andare ora!”, annunciò solamente.
Raggiunsero il capannone e qui attraversarono il wormhole, ritornando nel loro universo. Steve fece il numero di telefono di Rudolf.
“Raggiungimi con una scorta, al più presto”. Gli diede l’indirizzo.
“Per quale motivo?”, chiese Rudolf, dopo aver preso appunti.
“Fallo e basta. Fidati di me, per favore”.
“D’accordo”.
Si incontrarono davanti all’abitazione di Lionel Last e irruppero nel suo appartamento, dove trovarono le prove di tutti e quattro gli omicidi. Vennero ritrovati l’arma dei delitti e il marchio d’ottone con la sua iniziale. L’uomo venne catturato poco dopo sul posto di lavoro. Il suo DNA, confrontato con quello del capello ritrovato sul corpo della prima vittima, diede esito positivo.
“Come hai fatto a sapere che era lui?”, chiese stupito Rudolf.
“Mettiamola così: ho avuto una soffiata. Non chiedermi altro, credimi: è meglio”.
“Angel mi aveva detto che eri strano, ma non credevo fino a questo punto”, scherzò il collega.
“Grazie per l’aiuto”, aggiunse, stringendo la mano a Steve.
“Farò rilasciare Leper oggi stesso”, continuò, “A patto che tu garantisca per lui, naturalmente. Siamo certi che non ha niente a che fare con tutta questa faccenda?”
“Puoi esserne sicuro. Ti prometto che non sentirai più parlare di lui”, lo rassicurò Steve.
Quella sera stessa lui e Livienne accompagnarono Leper al capannone, dove sparì per sempre all’interno del wormhole, per fare ritorno nel suo universo. Il foro si richiuse e Steve si augurò che Leonard mantenesse fede alla parola data, e distruggesse la macchina del tempo.
“Sembra che anche questa avventura sia finita...”, commentò Livienne.
“C’è ancora una cosa che non mi è chiara in tutta questa faccenda...”, incominciò Steve.
“Che cosa?”
“Chi era quel ragazzo con te sulla moto?”
Lei sorrise dolcemente, poi rispose:
“Non ha importanza. Quello che conta è che ora so che lui e Livienne vivranno per sempre felici e contenti”.
“E Livienne e Steve, quando potranno vivere per sempre felici e contenti?”, chiese ancora lui.
“Non lo so. Ma ora tutto mi sembra più possibile”.
Steve sorrise, le passò un braccio intorno alle spalle e l’accompagnò fuori.
 
   
 
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