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Autore: HistoryFreak_91    25/06/2017    3 recensioni
L’obiettivo di questo racconto è quello di ripercorrere (a linee più o meno grandi) l’intera storia dell’Ungheria, dalla fondazione nell’anno 1000 ad oggi, attraverso la sua trasformazione nella narrazione della vita di una normale donna (non una nazione): Elizabeta Hederváry.
A fine capitolo verranno offerti dei cenni storici, linguistici od a personaggi per aiutare maggiormente la comprensione del testo.
L’insistenza sul rapporto con Prussia, trattato in modo storicamente inesatto, viene inserita come tributo ad Himaruya Hidezak e, specialmente, al fandom di Hetalia.
Ricordo infine che questa è una rivisitazione della storia reale d'Ungheria e necessiterà dell'utilizzo di personaggi e fatti non canonici al manga/anime. Cercheranno di essere rispettate tutte le canonicità riguardo aspetto fisico e personalità dei personaggi presentati.
Genere: Drammatico, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Austria/Roderich Edelstein, Prussia/Gilbert Beilschmidt, Turchia/Sadiq Adnan, Ungheria/Elizabeta Héderváry
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Non-con, Tematiche delicate
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Elizabeta Hederváry era una bambina, ma non una bambina come tante altre. Figlia del buon Stefano e della alquanto bizzarra Attilia, era cresciuta nella ricchezza senza ostentarne alcuna parvenza. Il padre, appartenente ad un’antica famiglia nobiliare, come identificato dalla –y in fine del nome di famiglia, era un possidente terriero amante dell’agricoltura: sfoggiava una lunga ma curata barba bruna che copriva il viso severo ma dallo sguardo dolce, quasi carezzevole quando accompagnato da quel sorriso bonario che spesso concedeva alla propria pargoletta. Stefano era un uomo pio, ligio al dovere ed a volte burbero quando notava della pigrizia nel suo personale o nei suoi soci d’affari. Aveva pochi amici dato il suo carattere piuttosto riservato, propenso a concentrarsi maggiormente sul proprio nucleo familiare, ma trovava in uomini più anziani di lui degli ammiratori della sua pacatezza e della sua giustizia anche nel torbido mondo degli affari.
 
La madre di Elizabeta aveva, invece, un carattere molto più irruente: amante dell’aria aperta, aveva trascorso la sua giovinezza girando per tutta Europa, creando scompiglio ovunque mettesse piede con il suo fare diretto e, a volte, quasi volgare. Nonostante ciò, la sua fama aveva ben presto cominciato a precederla, tanto che ovunque andasse spesso si ritrovò accolta a braccia aperte dagli abitanti dei villaggi che visitava, pur di non cadere vittime della sua ira, portata al colmo dalla leggenda (o almeno così lei la definiva quando raccontava la sua storia alla bambina) dell’incendio che ella aveva causato a diverse abitazioni che avevano osato rifiutarsi di ospitarla.

Attilia era stata una nomade mendicante per gran parte della sua vita e per molti il suo matrimonio con il buon Stefano rimaneva un gran mistero. La verità era molto più semplice di qualunque diceria le donnette e gli omuncoli pettegoli avevano osato proferire e divulgare con le loro lingue malevole: Attilia era una bella donna e sapeva come farsi rispettare, cosa che Stefano aveva amato da subito. Il comportamento di Attilia con i coltivatori che lavoravano per Stefano aveva presto fatto notevolmente aumentare la produzione delle varie terre e, congiunta alle gratificazioni offerte dal proprietario per il buon ricavato annuale, avevano reso casa Hederváry incredibilmente ricca nel giro di pochi anni.  Da capo della produzione, lavoro offerto da Stefano alla donna per cercare di strapparla alla sua condizione povera, Attilia era dunque divenuta la moglie del signor Hederváry ed il suo carattere si era mano a mano placato, smussando gli angoli più crudi e feroci della donna grazie alla calma e comprensione sfoggiati dal nobile marito.

Da due elementi così contrastanti non poteva che nascere una creatura altrettanto particolare: Elizabeta era vivace, instancabile e spesso un po’ arrogante, ma allo stesso tempo portava in petto un forte senso di giustizia, compassione per i più deboli ed un’aria nobiliare che riusciva a smussare i suoi comportamenti più estremi. Dal padre aveva inoltre ereditato la capigliatura, su di lei slavata a causa della continua esposizione al sole, mentre della madre aveva i grandi occhi verdi dalla luce curiosa e vibrante. Come quest’ultima ai suoi tempi, Elizabeta trascorreva la maggior parte del suo tempo all’esterno, spesso nei confini della grande tenuta paterna: numerosi ettari di una foresta circondavano l’antico casolare di famiglia, raggiungibile unicamente attraverso un selciato che si snodava fra gli alberi di acacie che si dipingevano di bianco durante la fioritura, accompagnando il passaggio con il pungente dolce profumo dei fiori da miele tanto amati dalla famiglia. Poi la foresta si diradava e la vista dei fitti alberi veniva presto sostituita da quella dei campi coltivati: girasoli e grano erano i protagonisti delle grandi distese pianeggianti che si perdevano all’orizzonte, delimitate solo da lontanissime case isolate e da sparuti alberi che si stagliavano contro il cielo infinito. Nei giorni più sereni, sui campi si stagliavano le grandi ombre delle coloratissime mongolfiere che planavano cautamente a mezz’aria dinanzi agli occhi affascinati di Elizabeta che, arrampicatasi su una delle acacie più alte, riusciva a porgere il suo sguardo oltre la foresta ed al lontano orizzonte.

Elizabeta era cresciuta principalmente da sola ed alquanto riparata dal mondo esterno, ma le storie della madre avevano scolpito la sua personalità più di ogni altra cosa: malata da tempo, Attilia, già in età adulta avanzata, aveva dato alla luce la bambina rimanendone pesantemente provata fino ad essere costretta a letto per quasi l’interezza delle sue giornate ed aveva trovato sollievo solamente nella narrazione della sua vita alla sua adorata pargoletta. Così Elizabeta aveva imparato che ciò che contava fosse essere forti e caparbi, affrontare ciò di cui più si aveva paura e soprattutto non cedere dinanzi agli altri uomini. Ma chi erano questi altri uomini? Elizabeta conosceva ben poche persone ed ancor meno ne ricordava. La mamma a chi si riferiva?

“Tu sei come loro.” Le disse quest’ultima una volta mentre, accoccolata con la piccola al petto, guardava fuori dalla finestra verso lo bianco spicchio di luna che brillava sulla nera distesa del cielo.

“Come loro?” Chiese la bambina, alzando gli occhi ma non incrociando lo sguardo della madre.

“Tu lo sei, ma migliore.” Attilia sorrise, quasi un ghigno beffardo che le increspava le labbra sottili. “O almeno, puoi esserlo…”

“Io voglio esserlo!” Elizabeta saltò a mettersi sulle ginocchia, il torpore della notte svanito mentre la fioca luce della candela le illuminava le iridi, infiammandole. Attilia sorrise.

“Ed allora fallo.” Le prese il mento e l’alzò verso di sé, sfoggiando questa volta un sorriso più tenue nonostante gli occhi brillassero ancora di malizia. “Sii migliore di loro.”

Poco tempo dopo la condizione della madre sembrò peggiorare: Stefano cercava di diventare sordo dinanzi ai rapporti del medico sempre più allarmato, sempre più presente nelle loro vite. Attilia non stava solo peggiorando dal punto di vista fisico ma la sua mente, avvizzita dalla clausura e dalla continua ripetizione del passato, aveva cominciato a dare orribili segni di cedimento, tanto che ad Elizabeta non venne più permesso di visitarla da sola: un adulto doveva supervisionare i loro incontri in ogni istante. Stefano, anch’egli fortemente provato, cercava di fare del suo meglio per tenere sotto controllo l’umore della bambina, permettendole di trascorrere sempre più tempo all’esterno e di praticare i suoi giochi.
“Cos’hai fatto oggi, mia cara?” Le chiedeva spesso quando la piccola, ripulitasi dalla giornata all’aperto, si apprestava al tavolo per la cena.
“Ho combattuto un drago, padre!” Esclamava lei con un gran sorriso che scaldava il cuore affranto del povero Stefano, dandogli sollievo dal costante pensiero dell’adorata moglie malata.

“Oh povera creatura!” Scherzava l’uomo, offrendo alla piccola affamata il pane. “Cosa ti ha mai fatto di così brutto?”

“Ha rapito la principessa, ovviamente.” Elizabeta strizzava l’occhio. “E solo un eroe come me poteva salvarla!” Stefano sorrideva: da quando le bambine salvavano le principesse? Ma che importanza aveva?

“Il mio piccolo guerriero.” Stefano le prendeva giocosamente la guancia mentre la piccola rideva.

Il mio piccolo guerriero divenne l’appellativo con il quale Stefano cominciò a rivolgersi alla piccola più frequentemente; ed ad Elizabeta piaceva, la faceva sentire grande, forte e le faceva desiderare di passare ancora più tempo fuori, a combattere i draghi, a salvare le principesse ed anche a dare la caccia ai banditi, ad acciuffare i ladri e recuperare i tesori perduti: gli alberi erano i suoi nemici, i sassi i suoi tesori. Elizabeta portava a casa una numerosa quantità di ciottoli e li catalogava in base al colore: quelli più scuri valevano poco, quelli bianchi erano come il diamante. Li portava spesso dalla madre, durante le sue visite accompagnate, ma più il tempo passava più Attilia sembrava immune al loro fascino; fino a quando smise completamente di voltarsi verso le mani tese della figlia. Attilia guardava fuori dalla finestra, a volte fissava direttamente il sole ed i dottori dovevano costringerla a voltarsi altrove. Il suo temperamento burrascoso in quei momenti riappariva sotto forma di attacchi isterici e ci volevano ore perché la donna si ristabilizzasse. Quanto dolore provava Stefano alla vista della sua adorata scomparire così, giorno dopo giorno, in un’oscurità soffocante che gettava la sua ombra anche su di lui. Il buon uomo non era più lo stesso: il suo sorriso, il suo sguardo non sfoggiavano più il vigore di una volta e più il tempo passava più l’uomo si disinteressava dei suoi affari, consumato com’era dal lutto imminente che si apprestava a sconvolgere casa Hederváry per sempre.
 
 
 
 





 
 
Note dell’Autore:
  • Stefano: modellato su Re Stefano I d’Ungheria, il primo re della famiglia degli Arpadi e l’iniziatore del Regno d’Ungheria.
  • Attilia: femminilizzazione di Attila, Re degli Unni, da cui vengono ripresi i caratteri violenti e la grinta dei primi popoli magiari.
  • In ungherese gli attributi e gli aggettivi non hanno genere: il “mia cara” (kedvesem) ed “il mio piccolo guerriero” (én kis harcosom) dovrebbero essere interpretati di genere neutro. Per dare il senso di come Ungheria recepisca il secondo appellativo ho preferito tradurlo al maschile.
   
 
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