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Autore: _Frame_    25/06/2017    3 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
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[On going: dicembre 1941]
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[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
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131. Riunioni di famiglia e Scambi di razioni

 

 

9 aprile 1941,

XL Panzerkorps, Nona Divisione Corazzata,

Pressi del Lago d’Ocrida, Albania

 

Una vampata di vento che odorava di terra, polvere di roccia frantumata, ferro e carburante, soffiò addosso al corpo di Prussia eretto in cima alla torretta del Panzer II, gli agitò i lembi della giacca lasciata aperta, scompigliò le ciocche di capelli tinte di arancio e di rosso dai raggi dell’alba che stava sorgendo dietro la curva d’orizzonte, e gli fischiò nelle orecchie unendosi al costante rombo dei carri in movimento che macinavano lo sterrato snodato lungo la superficie della pianura.

Prussia sollevò il binocolo dal volto. L’immagine ingrandita del battaglione di motociclisti che apriva la fila della divisione svanì e lasciò posto alla parte posteriore di uno dei tre Panzer I che procedevano davanti al loro carro, sommersi in un nuvolone di polvere scura attraversata da lame di luce rossa e sanguigna, lucide come vetro. I raggi dello spicchio di sole appena tramontato batterono contro le superfici dei carri, scivolarono sulle corazze e brillarono sulla vernice bianca e nera che formava la croce della Wehrmacht tatuata sui fianchi. Prussia si stropicciò la faccia facendo frizione attorno alle palpebre, dove la sensazione di avere le lenti del binocolo premute sulle orbite era ancora tiepida e umidiccia, e fece correre una mano fra i capelli scossi dal vento, li tenne lontani dagli occhi che bruciavano come quell’alba che si stava alzando a scaldare il territorio albanese.

Prussia tornò a concentrare lo sguardo sulla traiettoria da seguire, e arricciò le labbra. “Destra, destra.” Spostò il peso sul piede destro che poggiava sulla spalla di Austria, e gli diede due leggeri colpetti con la punta dello stivale. “Occhio al dosso, dai un’accelerata e cambia marcia.”

Austria soppresse una smorfia di disapprovazione. Diede un colpetto alla caviglia destra di Prussia, ma Prussia fece dondolare il piede e tornò a rimetterglielo sulla spalla. Austria scosse il capo, strinse le dita facendo pressione sulla leva di manovra destra, si inclinò di lato per sbirciare la strada attraverso gli spioncini del posto di guida, spinse il peso di un piede sulla tavoletta dell’acceleratore e l’altro su quella della frizione. Salì di marcia. Il rombo gorgogliato dal Panzer aumentò, vibrazioni metalliche si spansero attraverso la corazza, e grumi di terra e sassi finirono frantumati dai cingoli che si agganciavano al terreno come artigli. Austria fece una piccola pressione anche sulla leva sinistra di manovra, il Panzer girò il muso e passò con i cingoli attorno a un dosso che rialzava lo sterrato attorno alla radice di uno degli alberi che crescevano ai bordi della strada.

Prussia gli diede un piccolo colpetto con il piede sinistro, inclinò la suola e gli batté il tallone sulla scapola. “Ora un po’ più a sinistra, mettiti proprio in mezzo allo sterrato.” Austria staccò una mano dalla leva per ripulirsi la giacca dove Prussia l’aveva impolverata con lo stivale, ma eseguì. Prussia annuì di rimando, le palpebre sottili a proteggersi dalla luce del sole, e la carezza di vento a scuotergli i capelli sulla fronte. “Così, bene.” Piegò il gomito contro l’orlo della torretta, ruotò il busto, e sbracciò verso il resto della divisione che proseguiva la marcia dietro di loro. “In fila per due, lì dietro, fate avanzare quelli con i mezzi!” Calò il braccio, si appese alla maniglia del portello, si infilò dentro la torretta, e sigillò l’entrata sopra la sua testa. Nell’abitacolo del carro calò il buio, si addensò il fitto odore di ferro, di cuoio e di carburante. Il rombo del motore creò un eco più basso e cavernoso, le vibrazioni penetravano attraverso i muscoli arrivando a scuotere le ossa e a far tremare anche lo stomaco. Prussia si buttò a sedere sul sedile rialzato rispetto a quello di Austria, accavallò le gambe sul suo schienale sfiorandogli la nuca con le punte dei piedi, ed emise un profondo sospiro liberatorio, riempiendosi dell’aria tiepida e stagnante che regnava all’interno del carro. “Tutto dritto, Prinzessin.” Si sfilò il binocolo dalla testa, raccolse l’archetto delle cuffie, indossandolo attorno al collo, e si stropicciò le nocche sulle palpebre per sciogliere la tensione e la stanchezza che bruciavano sugli occhi. “Il secondo battaglione di motociclisti ci precederà e ci manderà un fischio se dovessero esserci imboscate. Possiamo starcene rilassati.”

Austria annuì, sbatté le palpebre e gli occhi rimasero socchiusi, appesantiti più di quelli di Prussia. “D’accordo.” Si infilò una nocca sotto la lente che rifletteva la luce verde dei comandi, e si stropicciò l’occhio. Scosse il capo, riagguantò entrambe le leve di comando, e prese un profondo respiro che gli rischiarì la mente appannata dal sonno.

Prussia inclinò una spalla e gli scoccò un’occhiata di sbieco, si soffermò sui fitti cerchi neri che si infossavano attorno alle sue palpebre, sul colore smorto delle iridi, ingrigite come le pupille ristrette, e sulle labbra bianche e disidratate. Tornò a schiena dritta, rilassò i muscoli sull’imbottitura del sedile, e gli diede un altro piccolo colpetto con il piede in mezzo alle scapole. “Vuoi il cambio?”

Austria sbuffò, tornò a togliersi il piede di Prussia dalla schiena, si spolverò la giacca, e riprese in mano i comandi. Una ruga di biasimo gli increspò la fronte, una scintilla di austerità gli attraversò gli occhi scavati dal sonno. “Credevo che il capocarro non guidasse.” Spinse la punta del piede sull’acceleratore, schiacciò le punte delle dita sulla leva di destra e si allineò con il Panzer che proseguiva davanti a lui. “Non hai fatto altro che lamentarti durante tutto il tragitto che non ti saresti mosso dal tuo ruolo di capocarro.”

“Infatti non stavo parlando di me.” Prussia si girò aggrappandosi allo schienale del sedile e tese il braccio libero verso la figura rannicchiata contro la parete dove erano disposti i nastri di caricamento per la mitragliatrice, l’estintore, e gli attrezzi per la manutenzione del cannone. “Ehi.” Allungò l’indice e punzecchiò la guancia di Ungheria. I capelli sciolti le celavano gli occhi addormentati, scivolavano lungo le guance e sfioravano le labbra socchiuse. Le braccia raccolte sul grembo toccavano le ginocchia rannicchiate che non riusciva a stendere fra una parete e l’altra. “Ehi, cannoniere-barra-operatore radio,” Prussia le sollevò una ciocca di capelli e diede un piccolo strattoncino, “apri gli occhietti e sostituisci la principessa pilota.”

Ungheria arricciò la bocca, mosse la punta del naso, e stropicciò gli occhi nascosti dai capelli sciolti e disordinati che le coprivano la faccia. “Uhmf.” Sciolse una mano dal ventre, sollevò il braccio con un movimento lento e molle, colpì il polso di Prussia, e gli diede le spalle premendo la tempia sulla cassa di legno. Stese una gamba e il piede sbatté sull’estintore. Uno squillo simile a quello di una piccola campana attraversò le pareti del Panzer.

Austria si girò staccando la mano da una leva di comando e afferrò il polso di Prussia. Aggrottò la fronte, lo guardò con occhi duri. “Lasciala dormire.”

Prussia scosse le spalle e sbuffò, tornando indietro con il braccio. “Colpa sua che non ha voluto dormire durante il viaggio di partenza da Sofia.”

Austria tornò a guardare davanti a sé e si spremette le tempie, alleviando la pressione dell’emicrania. “No, non è stato quello. È che dopo la prima resistenza di Skoplje...” Scosse il capo e sospirò. “Mi sembrano passati secoli dall’ultima volta in cui ho affrontato un vero combattimento.”

“Appena arriviamo a Ocrida ci facciamo tutti e tre una bella dormita,” rispose Prussia. “Sperando che i fratellini non siano già in qualche guaio da cui bisognerà tirarli fuori.”

Una voce impastata di sonno sbiascicò alle loro spalle, mescolandosi alle vibrazioni del Panzer. “Chi è nei guai?” Ungheria schiuse le palpebre, gli occhi ancora lucidi si spostarono sul soffitto di metallo, seguendo i riflessi delle luci dei pannelli, le ciglia sbatterono un paio di volte e una ciocca di capelli le scivolò dalla fronte. Si scollò altri due fili di capelli dalle labbra, impastò la lingua sul palato, e fece scivolare giù i piedi dalla parete. Cleng! Sbatterono di nuovo contro il becco dell’estintore.

Prussia voltò una guancia e la sbirciò con la coda dell’occhio. “Guten Morgen.”

Ungheria rotolò sul fianco, spingendo il peso sul gomito e sulla spalla, e si strofinò la nuca spostando i capelli da sotto l’arco delle cuffie che le ciondolavano dal collo. “Dove siamo?” Sollevò il viso verso il filo di luce che coronava lo sportello chiuso della torretta. “Che giorno è?”

“Nove aprile,” rispose Prussia, “e stiamo per raggiungere Ocrida.”

“O-Ocrida?” Ungheria si appese a una rientranza metallica della pancia del Panzer e si tirò su a sedere, raccolse le gambe incrociandole in grembo e si tolse i capelli rimasti incollati agli angoli delle labbra e alle palpebre. Si stropicciò gli occhi, la sua testa oscillò di lato, ancora pesante di sonno come una palla di piombo. “Devo essermi addormentata dopo Monastir.” Portò la mano davanti alla bocca e sbadigliò. “Gli altri sono già a Florina?”

Prussia scosse il capo. “Non è ancora arrivato nessun bollettino o rapporto.”

“Mhf.” Ungheria si passò una mano sulla faccia, come per sfilarsi di dosso la maschera di stanchezza. “Potevate svegliarmi prima.”

Austria scosse il capo. “No. Tu hai combattuto e avevi bisogno di riposo.”

Prussia chiocciò una risata simile a quelle di Francia. “Oh oh oh.” Tornò a girarsi e le rivolse un sorrisetto ammiccante. “E dov’è finita la sbruffona che voleva scaldare i muscoli?”

Ungheria arricciò un broncio che le fece tornare un po’ di colorito sulle guance. “Non ricordavo che caricare un cannone fosse così faticoso.” Si strinse la spalla più indolenzita, quella su cui aveva dormito scaricando tutto il peso sull’osso, e fece roteare il braccio massaggiandosi il muscolo. Strizzò una smorfia di dolore. “Poi è colpa del Panzer, è troppo stretto, e mi fanno male tutte le ossa.”

Prussia fece roteare lo sguardo. “Se ti fanno male le ossa...” Piegò il braccio sullo schienale del sedile e si girò a buttarle uno sguardo coronato da un acido ghigno di scherno. “È perché ti sei rammollita, quindi non dare la colpa al Pan –” Austria gli diede un calcio alla caviglia. Prussia sbuffò, tornò a mettersi composto, e fece sventolare una mano. “Vedi, hai persino bisogno che Austria ti difenda al posto tuo.”

Ungheria aggrottò un’espressione di minaccia increspata dalle ombre verdognole cosparse nell’abitacolo del Panzer, annodò le braccia al petto e allontanò lo sguardo lasciandosi scivolare una ciocca di capelli davanti agli occhi.

Prussia si sporse, posò entrambi i palmi sulla superficie metallica del carro, e lo carezzò accostandovi le labbra sopra. “Povero piccolo Panzer II.” Gli fece un’altra carezza e posò la guancia sul metallo. “Cosa ti dice mai quella brutta strega? No, no, ssh, non darle ascolto.”

Austria scosse il capo. Abbassò la marcia, buttò uno sguardo fuori dallo spioncino e rallentò per aspettare il resto della fila. Il rombo del motore diminuì, rese la sua voce più limpida. “Non ti preoccupare,” disse, rivolto a Ungheria. “Una volta giunti a Ocrida e una volta che ci saremo uniti a Italia e a Romano, saremo in cinque,” sollevò il braccio tenendo il gomito piegato e toccò il soffitto della sua postazione appiattendo il palmo, “e allora potremo anche spostarci e combattere con un carro più grande e spazioso.”

Ungheria si massaggiò le spalle e il collo irrigidito, scosse di dolore le punsero la schiena, formicolando lungo la spina dorsale. “Avremmo potuto prenderci due ufficiali e partire subito con un Panzer IV.”

“No.” Prussia scosse la testa e puntò l’indice al soffitto, premendo sull’aria ripetute volte. “È appena iniziato lo sfondamento, io ho bisogno di un posto in prima fila per dirigere meglio lo spostamento delle divisioni, e un Panzer II era la scelta migliore.” Si sporse in avanti, poggiò i gomiti sulle spalle di Austria, e gli strinse le guance fra indici e pollici. Gliele spremette come a un pupazzetto, tornando a esibire il ghigno da pallone gonfiato. “Poi davanti ai miei uomini non avrei potuto stuzzicare Austria come mi pare e piace.”

Il viso di Austria si incendiò, fiamme di rabbia splendettero sulle lenti degli occhiali, le mani serrate attorno alle leve di comando tremarono come le sue labbra ristrette. Austria cacciò via le dita di Prussia dalla sua faccia e gli rivolse un’occhiataccia di traverso. “Sei proprio...”

Il segnale radio si accese. Una delle lancette protette dai quadranti a mezza luna si impennò e raggiunse l’area colorata di rosso. Ungheria si voltò per prima, raccolse i capelli che le erano scivolati davanti agli occhi, e il suo sguardo si fece più vivo e sveglio, come se avesse ricevuto una schizzata d’acqua in faccia. “Oh, fermi.” Strisciò con le ginocchia fino alla radio, si rinfilò le cuffie attorno alle orecchie, facendole aderire ai padiglioni, attivò una levetta, girò una manopola, e raccolse il ricevitore accostandolo alle labbra. “Qui Unità Panzer II. Vi riceviamo, passo.”

Anche Prussia e Austria si infilarono le cuffie, i loro sguardi di nuovo seri e freddi nella penombra dell’abitacolo.

La voce di un ufficiale li raggiunse dall’altro capo della linea. “I motociclisti sono appena rientrati dalla ricognizione, signora. La città è aperta, raggiungeremo le sponde del lago entro le ore uno-sei-tre-zero, e il Quattordicesimo Corpo d’Armata italiano è già stato messo in allerta.”

Ungheria annuì e sorrise, anche se l’uomo non poteva vederla. “Ricevuto.” Si mise a gambe incrociate, fece passare il cavo delle cuffie dietro la spalla per non impigliarsi, estrasse taccuino e penna, e appuntò tutto sulla prima pagina vuota. “Date ordine al plotone di motociclisti di occupare la città e di raggiungere le divisioni italiane. Avanti tutta senza interruzioni.”

“Sissignora, ricevuto,” rispose l’ufficiale. “Passo e chiudo.”

“Passo e chiudo.” Come a sottolineare quelle parole, Ungheria richiuse il taccuino. Lo rinfilò nella tasca della giacca ed estrasse le dita intrecciate a un elastico per capelli. “Be’, che stiamo aspettando?” Raccolse i capelli dietro la nuca, annodò una coda di cavallo che poi acconciò in uno chignon. Tre ciocche ribelli le ricaddero sulle guance, le sfiorarono il sorriso agguerrito esibito con orgoglio. “Andiamo a prendere Ita.”

 

.

 

Italia stropicciò un angolino della giacca fra le dita, incastrò le unghie sotto un bottone e lo rigirò nell’asola picchiettandoci sopra con il pollice per scaricare la tensione che bruciava attraverso il sangue e attraverso i muscoli. Camminò avanti e indietro, nuvolette di polvere sbriciolata sulla strada sterrata galleggiarono attorno ai suoi piedi, e la sua ombra sfilò dietro di lui sulla parete esterna della tenda dei telegrafisti che si erano appostati fra le case della città. Li aveva già consultati cinque volte, quella giornata.

Italia guardò lontano, oltre le pareti degli edifici. Salì sulle punte dei piedi, portò la mano davanti alla fronte per ripararsi dal sole, e compì un paio di passi stando in quella posizione. L’orizzonte vuoto, la strada che imboccava le porte della città deserta, il sole bianco e galleggiante fra due nastri di nuvole che tingevano il cielo di uno smorto color cenere, i rami degli alberi che si scuotevano sotto il vento, e gli stormi di uccellini disposti a V che volavano lungo la campagna facendo ritorno dal sud.

Un gonfio sentimento di delusione e avvilimento gli trafisse il cuore. Italia scese dalle punte dei piedi, chinò il capo e sospirò, sfilò le dita dalla stoffa della giacca e si rosicchiò le unghie dell’indice e del medio. Continuò ad andare su e giù, e un suo piede urtò un sasso che rimbalzò fino al ciglio della strada, svanì fra l’erba. I muscoli delle gambe fremevano di impazienza, un nodo stagnante gli teneva la pancia ingarbugliata, un vago senso di nausea gli pesava sul petto, e i pensieri vorticavano attorno alla testa come un anello di ferro sempre più stretto e stridente. Italia si girò, cambiò senso di marcia, e sfilò di fronte a Romano che se ne stava appollaiato sul muretto. “Perché ci mettono tanto?” gli domandò.

Romano sollevò una gamba ciondolate, la piegò sopra il muretto stringendosi la caviglia, e lasciò dondolare quell’altra, il piede a sfiorare un ciuffo di erba selvatica. Scosse le spalle con aria indifferente. “Non lo so.” Prese un ciottolo di quelli che aveva disposto accanto a lui, lo fece rimbalzare sul palmo e lo lanciò sulla stradina.

Tre motociclette del plotone italiano sgasarono uscendo da uno dei vicoli incastrati fra gli edifici, si unirono a due autocarri occupati da cinque soldati ciascuno, e proseguirono verso il centro della città lasciandosi dietro l’odore di carburante bruciato. Romano sventolò via il rigetto di fumo e lanciò un altro ciottolo in mezzo allo sterrato. I passi di Italia urtarono il sassolino e lo spedirono fuori dalla strada.

Italia tornò a guardare l’orizzonte, si passò una mano fra i capelli e si strofinò la nuca. “E se gli fosse successo qualcosa?” Gli occhi luccicarono di preoccupazione.

Romano sbuffò, prese in mano un altro sasso, lo fece di nuovo rimbalzare, “Non lo so”, e lanciò anche quello.

“E se avessero trovato un’imboscata?” Italia continuò a marciare avanti e indietro nello stesso punto che era diventato un ovale più scuro e profondo in mezzo alla terra color ocra. “E se stessero aspettando un nostro aiuto?” Indicò la porzione di strada che proseguiva lungo la pianura e che era illuminata dai raggi annebbiati di quel pigro sole primaverile. “Dici che dovremmo andare a controllare? Che dovremmo andargli incontro?”

Romano fece rimbalzare un altro sassolino sul palmo e alzò lo sguardo al cielo. “Non lo so.” Tirò il braccio fin dietro la testa e scagliò il ciottolo fino a farlo diventare un puntino nero in lontananza. Italia ricominciò a camminare avanti e indietro, il suono dei passi scricchiolava contro la terra – crunch, crunch, crunch! – e rimbombava nella testa di Romano come la punta di un piccone che picchia sulle pareti del cranio. Romano strinse i denti, soppresse un ringhio. “E datti una calmata. Sei snervante.”

Italia inspirò e sospirò a fondo, riprese fiato. “Scusa.” Si fermò accanto a Romano, si scostò la frangia dietro l’orecchio, e un soffio di vento gli agitò i capelli ancora intrecciati alle dita. Sulle sue labbra si dipinse un piccolo sorriso malinconico. “Se penso che...” Un peso al cuore placò i tremori di ansia che gli scuotevano il corpo. Italia guardò lontano, contro la luce del sole, e i raggi gli tinsero le iridi di un luminoso color ambra. “Che con l’arrivo di Germania potrebbe davvero finire tutto. Potremmo davvero essere di nuovo a casa in meno di un mese. Se ci penso...” Si toccò la croce di ferro che pendeva sul suo petto, e soffiò una piccola e spontanea risata che gli spolverò le guance di rosa. “Forse un po’ mi mancherà stare qua, anche se con quello che otterremo dalle conquiste potremo tornarci quando vogliamo. È una terra che era tanto cara anche al nonno, dopotutto.” Un soffio di vento rispose al posto di Romano con un brontolio. Italia si girò, aprì la mano di fianco al viso per ripararsi dai raggi solari, e cercò il volto di suo fratello. “Romano?”

Romano sospirò lasciando ciondolare il capo in mezzo alle spalle, buttò un ciottolo per terra e fece dondolare il piede contro il muretto. “Che cosa vuoi?”

Italia inclinò la testa di lato. “Non mi sembri molto contento.”

Romano sbuffò un grugnito, strinse le braccia al petto, allontanò lo sguardo e le ombre dei raggi solari gli scurirono il volto. “Perché dovrei esserlo?”

Anche il volto di Italia divenne più marcato dall’ombra, i tratti più duri e seri. “Perché Germania sta correndo ad aiutarci.” Rigirò la croce di ferro fra le dita come aveva fatto prima con i bottoni della giacca, vi picchiettò l’unghia sopra, affrontò quel familiare e sgradevole sentimento di vergogna che aveva già provato al Brennero, quando aveva camminato a testa bassa davanti ai soldati tedeschi in piedi sulla piattaforma del treno. “E perché lui è riuscito a fare di più in questi pochi giorni che noi in tutti questi mesi.”

Romano fece dondolare la gamba più velocemente, assalito anche lui dallo stesso senso di umiliazione che gli faceva bruciare lo stomaco e fremere le labbra. Schiacciò le dita contro l’ultimo ciottolo, inghiottendolo nel pugno, e le unghie graffiarono la pietra. “Ma che bravo.” Tirò di nuovo il braccio all’indietro e scagliò via il sasso.

“Lo sta facendo per noi, Romano,” lo rimproverò Italia. “Non è carino trattarlo male dopo tutto questo.”

Romano inarcò un sopracciglio. Lo sta facendo per noi? Abbassò il braccio che aveva lanciato il ciottolo, portò la mano davanti allo sguardo, distese bene le dita fino a vedere i segni rossi lasciati dalla pressione del sasso che aveva schiacciato contro il palmo, e un reflusso di rabbia e gelosia gli infiammò lo stomaco. No, lo sta facendo per te, Veneziano. È diverso.

“Signori!” Un ufficiale arrivò correndo alle spalle di Romano, passò affianco al muretto, e si fermò davanti a Italia rivolgendogli il saluto. Aveva ancora il fiato pesante e le guance rosse per la corsa. “Abbiamo appena stabilito i contatti con il corpo d’armata tedesco in arrivo, signori! Sono alle porte della città, ci prepariamo ad accoglierli.”

Italia trasse un sospiro di sorpresa e meraviglia, il suo cuore fece una capriola, il nodo di tensione allo stomaco si sciolse infondendogli un piacevole tepore attraverso la pancia. “Sono arrivati.” Il battito accelerò, le sue labbra si inarcarono in un sorriso splendente che gli fece fiorire gocce di lacrime fra le palpebre. “Sono arrivati!” Superò l’ufficiale, agguantò la manica di Romano, e lo fece saltare giù dal muretto, portandoselo dietro. “Vieni!”

Romano rimbalzò inciampando due volte sui suoi stessi piedi, si aggrappò anche lui al braccio di Italia, e accelerò per stargli dietro. “Fermo, dobbiamo aspettarli qua, non possiamo correre in mezzo ai Panzer!”

Italia già non lo ascoltava più. Correva trattenendo il fiato, godendosi il vento sulla faccia e fra i capelli, il tocco tiepido del sole che gli rischiariva gli occhi illuminati di una gioia profonda e palpitante. Germania è qui. È arrivato!

Romano inciampò su un sasso, saltò per non cadere, rimase appeso alla mano di Italia, e inferocì il tono di voce. “Fermati, o questi ti schiacciano! Torniamo in città, non puoi...” Le dita di Italia si sfilarono dalla sua manica, lo lasciarono andare come sbarazzandosi di un peso morto.

Italia continuò a correre verso l’orizzonte.

Romano invece rallentò, fece quattro saltelli di seguito, fino a fermarsi del tutto, e si piegò con le mani sulle ginocchia per riprendere fiato. Si spostò i capelli dalla fronte, boccheggiò seguendo Italia con gli occhi, sempre più piccolo e sempre più lontano, e ingoiò un boccone di amarezza che gli rimase incastrato in gola. Gettò il capo in mezzo alle spalle, schiacciato dallo sconforto e dal senso di inferiorità. E così ci risiamo. Buttò l’occhio dietro di sé, squadrando la figura nera che si estendeva a partire dai suoi piedi. La sua ombra non gli era mai apparsa così piccola. Ecco che torno a essere il Numero Due della situazione.

Sospirò a fondo, raddrizzò la schiena, si diede una strofinata ai capelli, e non poté fare altro che inseguirlo.

 

.

 

Il rigetto del gas di scarico travolse Italia inghiottendolo in una nuvola color piombo, il Panzer emise un ruggito feroce, accelerò, piantò i cingoli nella terra per superare un piccolo avvallamento della strada, e proseguì la marcia dietro il resto della fila di carri che avanzavano verso la città di Ocrida. Italia corse fuori dal fumo trattenendo il respiro, agitò un braccio per dissolvere la foschia, e tossì tre volte. L’odore pungente del carburante bruciato gli graffiò le narici e la gola, bruciò agli angoli delle palpebre, lo fece tossire di nuovo con una mano premuta alla bocca e l’altra stretta alla pancia. Altri carri gli sfilarono davanti agli occhi, scossero il terreno sotto i suoi piedi, sassi si ribaltarono sul ciglio della strada, l’aria si infittì in una nebbia grigia che otturava la vista del sole e che risucchiava il profumo della campagna.

Italia fece un salto all’indietro per non finire con i piedi schiacciati sotto i cingoli, sollevò lo sguardo tirando il capo all’indietro, seguì con gli occhi la sfilata della Wehrmacht, e sul suo volto tornò a brillare quella scintilla di speranza mascherata dalla tensione. Si mise a correre accanto ai carri, portò le mani a coppa attorno alla bocca, si riempì i polmoni di quell’aria densa e pungente che gli faceva lacrimare gli occhi, e lanciò un grido al vento. “Germania!” Saltò oltre una fossa che tutti i Panzer stavano evitando, tornò a saltellare in mezzo al fumo, si spostò al centro della strada, e indirizzò il richiamo nella direzione opposta. “Germania, sei qui? Rispondi!”

Un’ombra si dilatò, strisciò lungo lo sterrato che tremava sotto il passaggio dei mezzi corazzati, e travolse Italia ingoiandolo in una macchia nera e fredda. Un rombo più basso e cavernoso lo sorprese alle sue spalle, come il ruggito di un animale feroce che schiude le fauci e che ti soffia il suo alito sul collo. Fece correre una scia di brividi lungo la schiena di Italia.

Italia si girò, sollevò il viso reclinando la testa, fece un passo all’indietro e tese la mano davanti alla fronte per resistere all’abbaglio di luce che si era schiantato sulla cima della torretta del Panzer II appena comparso. Sbarrò le palpebre, il cuore gli salì in gola, i rombi degli altri carri divennero un brusio lontano e soffuso, i raggi di luce si concentrarono solo sul Panzer II che si era fermato davanti a lui, lo coronarono di un riflesso color muschio. Italia schiuse le labbra, la sua voce venne trascinata via da un soffio di vento che gli scosse i capelli e i vestiti. “Germania?”

Il motore del Panzer si spense, il mezzo smise di vibrare e anche le scosse che serpeggiavano attraverso il terreno cessarono. Un gracchio metallico, uno schiocco secco, come di una serratura che si sgancia, e l’anta del portello superiore si aprì sospinta da un braccio appeso alla maniglia.

Il cuore di Italia accelerò per l’emozione e per il peso del fiato trattenuto nel petto, il flusso del sangue bruciò attraverso il corpo, gli tinse le guance di rosso, gli occhi luccicarono di speranza, di quella gioia che pareva scoppiargli dentro come un fuoco.

La sagoma nera si elevò sopra la torretta del Panzer, fece correre una mano fra i capelli e si sfilò le cuffie dalle orecchie, i raggi di sole incorniciarono il corpo in controluce e crearono un’aureola che lo fece somigliare a un’apparizione divina. La figura si piegò a poggiare il gomito sull’orlo della torretta, sollevò un ginocchio, e piegò un sorriso aguzzo e familiare dal quale uscì una voce altrettanto aguzza e familiare. “Qualcuno ha chiamato rinforzi?” Il vento gli scosse i capelli, fece scivolare via l’ombra dal suo corpo, e rivelò il viso ghignante di Prussia.

Italia sgranò le palpebre e si lasciò travolgere da quella fiammata di gioia. “Prussia!” Si appese con le mani al paraurti che proteggeva la parte anteriore del cingolo del carro, sollevò il ginocchio facendolo scivolare lungo la corazza e premette il piede davanti allo sbocco della mitragliatrice, si aggrappò con una mano all’anello di sollevamento di uno degli spioncini inferiori, spostò l’altra attorno alla bocca del cannone, e salì anche con l’altra gamba. “Prussia, Prussia, siete arrivati!”

Prussia si gonfiò il petto, tese il braccio davanti al busto come un cameriere, e affondò un nobile inchino. “Squadra Teutonica al Vostro servizio.” Raddrizzò le spalle e si chinò a porgergli la mano. Il suo sorriso aguzzo si ammorbidì. “Vieni qua, fatti abbracciare.”

Italia si aggrappò alla sua mano e si lasciò sollevare con uno slancio. Si appese alle spalle di Prussia fino a farlo aggrappare all’orlo della torretta per non cadere giù dal carro, fino a soffocargli il respiro. “Oh, mi siete mancati tantissimo! Non vi siete stancati durante il viaggio, vero?”

Prussia sciolse l’abbraccio e si cinse i fianchi, ravvivò il sorriso e si spolverò una spallina dell’uniforme. “Ah. Una scampagnata.”

Italia sospirò e si posò la mano sul petto. “Meno male.” Rivolse il pollice alle sue spalle. “Io e Romano eravamo preoccupatissimi, pensavamo che sareste arrivati ieri, e invece...”

Un’altra sagoma emerse da dietro la schiena di Prussia, gli spinse il gomito fra le scapole per farlo spostare e aprirsi uno spazio, e tese le braccia al cielo per sgranchirsi le spalle. “Fiuu.” Ungheria si massaggiò le spalle e prese una bella boccata d’aria, il vento frizzante le solleticò la punta del naso e le guance ancora impregnate dell’umidità dell’abitacolo. “Che bell’aria fresca.”

Italia sentì un’altra frecciata di gioia trapassargli il cuore e gonfiargli il petto di felicità. “Ungheria!”

Anche Ungheria sobbalzò dalla sorpresa come una ragazzina. “Oh, Ita!” Buttò Prussia in disparte, facendolo sgusciare fuori dalla torretta, e tese le braccia verso Italia, le spalancò per accoglierlo. “Ita, Ita, vieni qua, abbraccione!” Italia si tuffò nel suo abbraccio, Ungheria lo strinse ridendo di gioia, gli avvolse le mani attorno al viso e lo baciò fra i capelli, sulle guance, e sulla punta del naso. “Quanto mi sei mancato!”

Italia le strinse le mani, fece un piccolo saltello sulla corazza del carro. “Ci sei anche tu! Siete venuti tutti!” Trasse un sospiro di meraviglia notando i capelli di lei raccolti dietro la nuca e quelle tre ciocche ribelli cadute sul viso. “Stai benissimo con i capelli legati.”

Ungheria sollevò il mento, esibì il capo di profilo e si sistemò una ciocca dietro l’orecchio, percorrendo il profilo della nuca. “Ooh, grazie. Hai visto quanto sono alla moda?”

Una terza sagoma emerse dal foro sulla torretta, si aggrappò con un gomito, si strofinò i capelli rimasti scompigliati dalla pressione delle cuffie, e lanciò un’occhiata seccata e indispettita ai piedi del Panzer. “Quel barbaro esce senza nemmeno spegnere la radio.” Austria si girò facendosi aria al viso accaldato, aggrottò la fronte, e si riparò gli occhi dalla luce improvvisa che si era specchiata sulle lenti. “Prussia, la prossima volta sei pregato di...”

“Ah, Austria!” Italia saltò di gioia, si sfilò dall’abbraccio di Ungheria e si buttò a stringere le spalle di Austria. “Sei venuto ad aiutarci anche tu, eri preoccupato per me!” La sua voce allegra gli squillò accanto all’orecchio, il calore della sua guancia rossa di emozione si trasmise al viso di Austria, passandogli una scossetta di sollievo.

Austria si lasciò stringere restando con le braccia tese lungo i fianchi, arricciò gli angoli delle labbra in un’espressione contrariata, come quando era costretto a camminare con gli stivali nel fango fresco, ma nemmeno lui riuscì a ignorare quel soffio di conforto che sciolse tutta la preoccupazione che si era accumulata nel suo petto durante l’inverno in cui Italia era stato lontano da casa. Sospirò, gli posò una mano sulla spalla, e se lo staccò dal petto guardandolo con austerità. “Comportati educatamente, Italia. Sei davanti al tuo esercito, sei in guerra, non sei a casa.”

Ungheria rise e gli diede una soffice spallata. “Ooh, lascia che si sfoghi, poverino, è via da tanto tempo.” Si diede una spinta e uscì dalla torretta del Panzer, diede un’altra stiracchiata alle braccia e si massaggiò la spalla. “Chissà quanto si sarà sentito solo.”

Prussia sogghignò sotto i baffi e punzecchiò il fianco di Ungheria con tre gomitate. “E chissà quanto gli sarà mancato Austria, eh?”

Italia annuì con decisione e fece un altro saltello restando aggrappato alle sue spalle. “Sì, anche Austria mi è mancato tantissimo.”

Austria fece roteare lo sguardo, si aggiustò la montatura degli occhiali che era scivolata verso il basso dopo essersi sfilato le cuffie dalle orecchie, e non aggiunse altro.

Tre Panzer superarono il loro carro posteggiato sul ciglio della strada, alimentarono una nube di fumo grigio, i rombi dei loro motori proseguirono seguendo il tragitto del resto della divisione e dalla foschia di gas di scarico emerse un’ombra in corsa verso di loro. Romano sbucò fuori dalla nuvola, tossì, sventolò il braccio per squagliarsi di dosso il fumo, e saltò in disparte per non finire investito da un autocarro che seguiva la traiettoria dei Panzer. Fulminò il guidatore e proseguì camminando ai lati della strada.

Italia slacciò le braccia dalle spalle di Austria e le sventolò sopra la testa. “Oh, Romano, Romano, guarda! Guarda chi è arrivato! Vieni a salutare anche tu.”

Romano sollevò gli occhi e incontrò subito quelli degli altri che lo avevano visto arrivare in mezzo alla polvere e al fumo. Rallentò, strinse i pugni sui fianchi, un soffio di vento gli fece salire freddo su per la schiena, e un’espressione ostile si dipinse sul suo volto, facendolo esitare.

Ungheria gli rivolse un sorriso amichevole, sventolò la mano. “Ciao, Romano.”

Prussia aguzzò un sorriso da furbo, sollevò un sopracciglio e anche lui sventolò un saluto. “Ciao, Romano.”

I loro sguardi si congelarono l’uno sull’altro. Romano aggrottò la fronte, i pugni incollati ai fianchi tremarono, ingoiò un groppo di frustrazione che non poteva scaricare sulle mani per mettergliele addosso davanti a suo fratello e a tutto l’esercito. Digrignò i denti e gettò lo sguardo a terra. “Ciao,” sbiascicò con mandibola tremante. Sgranchì le dita e le falangi scricchiolarono.

Austria spostò l’attenzione da Romano a Prussia, al suo ghigno che nascondeva qualcosa che loro non sapevano, e fu il primo a rompere il silenzio. “Comunque, fa piacere notare che state bene entrambi.”

Romano sbuffò, si strofinò il braccio e si girò di profilo. “Già.”

Italia chinò il capo e intrecciò le dita, distraendosi dall’atmosfera di imbarazzo che gli si era appiccicata alla pelle come una pellicola di sporco. “Uhm.” Si rivolse a Ungheria con un sorriso di circostanza, a voce più bassa. “Romano è solo nervoso, sì, perché ieri abbiamo mangiato poco. C’era così tanto da fare, e...” Gli occhi gli caddero di nuovo sull’apertura della torretta del Panzer da dove Ungheria, Austria e Prussia erano sbucati fuori. Si sporse a guardare dentro, nel foro nero dove ancora brillavano le spie delle apparecchiature riflesse sui sedili e sulle pareti del mezzo. Vuoto. Tornò a spianare la strada sterrata con gli occhi, scrutò l’orizzonte da dove stavano risalendo gli ultimi carri, fece un passetto di lato restando aggrappato al cannone, e sbirciò anche fra le ombre dei mezzi corazzati che li stavano superando. Cercò a destra e a sinistra, ma ancora niente. Un profondo sentimento di sconforto prosciugò tutta la gioia che lo aveva illuminato quando era corso incontro a Prussia e agli altri. Un brutto presentimento gli crebbe in fondo al cuore, fece sbiadire il sorriso e donò ai suoi occhi una sfumatura triste e delusa. “Dov’è Germania?”

Ungheria si morse il labbro, gettò lo sguardo verso Prussia, in cerca di un suggerimento, e il viso di Austria fece altrettanto rivolgendosi a lui.

Prussia sospirò, incrociò le braccia al petto e si grattò dietro un ginocchio con la punta del piede opposto. “Al nord.” Indicò dietro di sé con un cenno del capo. “Sulla Linea Metaxas. I suoi corpi d’armata puntano Salonicco. Li sta guidando assieme a Romania e a Bulgaria. Ci siamo divisi apposta per facilitarci il lavoro.”

Italia strinse una mano sul petto e sussultò. “Oh, vi siete...” Chinò lo sguardo, sentendo il morale precipitare sotto i tacchi, tingergli la vista di grigio e circondarlo di una nebbiolina nera. Sospirò a fondo, il ciuffo arricciato si ammosciò dietro l’orecchio. “Germania allora ha preferito andare verso Salonicco.”

Ungheria fu assalita dalla stessa tristezza e non riuscì a fronteggiare gli occhi delusi di Italia, le fecero male al cuore. Romano sollevò un sopracciglio, tese l’orecchio tornando a guardare verso il Panzer, e un lampo di incredulità gli attraversò il viso imbronciato. Non c’è? Sul serio?

Prussia batté le mani per sdrammatizzare. “Che ne dite se ne discutiamo giù dal Panzer? Mi è venuto il sedere quadrato a forza di stare seduto nel ferro, poi...” Si premette il pollice sul petto e tornò a esibire un ghigno smagliante. “Muoio di fame, anch’io!”

 

.

 

Prussia trapassò la sua fetta di prosciutto con la lama del coltello a serramanico, la sollevò dalla gavetta facendo sgocciolare un grumo di gelatina che si era sciolta quando l’aveva tirata fuori dalla vaschetta di latta, e ne strappò un morso. Si sfilò la lama di coltello dalla bocca e lo puntò contro i presenti, passandoli uno a uno. “In pratica, il piano era questo,” disse masticando. Calò il coltello in mezzo a loro e conficcò la punta contro la cartina spiegata sulla cassa di legno fra le loro gambe, infilzando Salonicco. Vaschette di alluminio vuote e pacchetti scartati di gallette e carne secca sottovuoto giacevano sparsi sopra la mappa. Prussia ingoiò il boccone di prosciutto. “Ora West, Romania e Bulgaria sono andati giù fino alla Metaxas, e forse si trovano già nei pressi di Salonicco. Ammesso che siano riusciti a rompere le difese. Ma, conoscendo mio fratello, lo do praticamente per scontato.” Staccò il coltello dalla cartina, tagliò un’altra fetta di prosciutto graffiando il fondo della gavetta, e si ficcò il boccone fra le guance. Parlò continuando a masticare, la lama di coltello sporco di gelatina a ondeggiare davanti alla sua faccia come una bacchetta. “West ha pvefevito agive su quella divettrice pevché c’è più posshibilità di incontvave Gvecia, fuffo qui.”

Austria posò la sua forchetta pieghevole nella gavetta di alluminio riempita di tonno oleoso, e scivolò di lato squadrando Prussia con un’espressione raccapricciata che gli fece arricciare un angolo delle labbra. “Mastica con la bocca chiusa e abbi un po’ di decoro, per cortesia.”

Prussia sogghignò e gli mostrò la lingua ancora sporca di prosciutto masticato e grumi di gelatina giallognola.

Austria rabbrividì di disgusto e si allontanò ancora, accostando la sua spalla a quella di Ungheria e toccandole il piede accavallato sulla cassa con il ginocchio. Ungheria affettò un boccone di tonno dalla sua gavetta e lo rosicchiò gustandosi il sapore dell’olio un po’ troppo salato e dal retrogusto di metallo che sostituì quello delle fette di pane secche e pastose che mangiava da una settimana spalmandole di margarina. Annuì e si rivolse a Italia. “Prussia ha ragione, Ita. Non avercela a cuore, si è trattata solo di strategia.” Succhiò le ultime gocce di olio dai denti della forchetta, mostrò a Italia un sorriso dolce e rassicurante, e si sporse a battergli una mano sul ginocchio. “Di sicuro anche lui non vede l’ora di incontrarti.”

Italia abbassò gli occhi sulla sua tavoletta di cioccolata tedesca che aveva già rosicchiato, staccò un altro boccone e si consolò con il sapore del cacao che gli riempì le guance. Fece dondolare le gambe dalla cassa di legno su cui era seduto assieme a Romano, e annuì senza però riuscire a scacciare quella pesantezza dal cuore. “Okay.” Scartò un altro angolino dell’involucro color sabbia che proteggeva la tavoletta, avvicinò la cioccolata alle labbra e ne staccò un pezzettino fra gli incisivi. Lui e Romano avevano dato prosciutto, tonno, le ultime lattine di latte condensato, alcuni dadi da brodo e un pacchetto di caffè liofilizzato a Prussia, Austria e Ungheria, e loro in cambio avevano ricevuto carne essiccata, cioccolata, biscotti Bahlsen e tutti i tubetti di Vivil Mints che Austria non aveva mangiato. Italia si succhiò l’indice sporco di cioccolata fondente e si rosicchiò l’unghia, lo sguardo ancora incerto. “Ma questo...” Rivolse il viso a Prussia tenendo la punta del dito fra le labbra. “Questo vuol dire che Grecia ora potrebbe...” Si pizzicò la pelle, sollevò un sopracciglio che gli donò un’espressione preoccupata. “Potrebbe essere già stato sconfitto?”

Un pesante silenzio calò in mezzo a loro cinque, interrotto solo dalla forchetta di Ungheria che tintinnò sul fondo della gavetta di alluminio, da un piede di Romano che dondolò strusciando sulla strada, e dal rombo di una fila di autocarri che imboccò il vicolo accanto a quello deserto dove loro si erano seduti attorno alle casse delle munizioni e agli zaini rigonfi.

Romano estrasse un biscotto dalla confezione di cartone e lo divorò in due bocconi. “E di che ti preoccupi?” Si annaffiò la bocca con un sorso d’acqua risucchiato dalla borraccia e si strofinò la manica sulle labbra per asciugarsi la bocca. “Sconfiggere Grecia è il nostro obiettivo, lo hai dimenticato?”

“Uhm.” Italia incrociò le caviglie e fece dondolare le gambe picchiettando i talloni sulla cassa di legno. Si strinse nelle spalle, stropicciò un angolino dell’involucro della cioccolata. “È solo che...” Che se Germania e Grecia si fossero già incontrati, Grecia potrebbe già essere ferito, e Germania potrebbe... Strinse l’unghia del mignolo fra le labbra e la grattò fra i denti, punzecchiando quella fastidiosa sensazione che gli annodava lo stomaco. Potrebbe già aver perso il controllo.

Prussia affondò la punta del coltello nell’ultima fetta di prosciutto lasciata stagnare nella sua stessa gelatina sul fondo della gavetta, e rigirò la carne biancastra davanti agli occhi. “Non ti preoccupare,” diede un morso al prosciutto, parlò di nuovo con le guance piene, “non uccideremo Grecia,” affermò, come se gli avesse letto nel pensiero. Sia Austria che Ungheria lo fulminarono, lanciandogli addosso lo stesso pensiero appuntito. Che gran tatto. Ma Prussia li ignorò. Finì il suo boccone, posò la gavetta accanto al ginocchio, sopra la cassa di legno, e gettò la schiena a riposare contro la parete dell’edificio alle sue spalle. Il coltello ancora stretto fra le dita, la lama a oscillare e a emettere abbagli dalla punta. “Non è quello lo scopo di questa campagna.”

Una luce di sollievo rischiarì gli occhi di Italia. “Oh, davvero?” E il cuore si alleggerì di un peso, come se fosse stato soffiato via.

Prussia annuì. “Yup.” Accavallò le gambe e intrecciò le mani dietro la nuca, fece dondolare il piede. “Almeno, non prima di arrivare ad Atene e di fir –” La gomitata di Austria gli fece ingoiare le ultime parole. Prussia si massaggiò il costato e gli lanciò un’occhiataccia di sbieco, Ungheria fece un saltello per mettersi più vicina ad Austria, gli toccò il braccio con la mano e inviò a Prussia lo stesso sguardo di minaccia al posto suo.

Una fila di cinque autocarri tedeschi percorse la strada dove si erano fermati a mangiare. I mezzi sollevarono una leggera nebbia di terra e polvere, l’ultimo carro diede una sgasata per rimanere al passo con gli altri ed eruttò un fiotto di gas nero che si dilatò impregnando l’aria dell’acre e metallico odore di carburante.

Romano finì di rosicchiare il suo ultimo biscotto che sapeva di cartone, leccò le briciole agli angoli delle labbra, raccolse con il pollice quelle che gli avevano spolverato il mento, e si succhiò la punta del dito. Il tanfo di gas di scarico gli grattò le narici e la gola. Il sapore di cartone divenne sapore di ferro. “E invece immagino che disintegrare Belgrado fosse nei vostri piani sin dall’inizio.”

Tutti gli sguardi si spostarono su di lui. Italia sussultò, i suoi occhi addolorati si fecero più lucidi, la fine curva delle sopracciglia donò al suo sguardo un’espressione amareggiata e offesa. Ungheria distolse lo sguardo, strinse il labbro inferiore, Austria chinò gli occhi a sua volta, riponendo la forchetta nella gavetta con l’avanzo del tonno, e anche lui le toccò il polso, standole vicino. Prussia rimase impassibile.

Romano appallottolò la carta color sabbia – come quella della cioccolata – che era stata la confezione dei biscotti, e lanciò a Prussia uno sguardo di sfida. “Quello era invece lo scopo della campagna, allora?”

Italia aggrottò la fronte e gli posò una mano sul braccio, rimproverandolo. “Romano.”

Romano strappò via il gomito e non distolse gli occhi da quelli di Prussia, glieli premette addosso con la stessa ostilità della punta di un coltello che spinge sotto il mento facendo sgorgare una goccia di sangue.

Lo sguardo di Prussia non mutò, disteso e indifferente, solo leggermente appannato dalla nebbiolina color piombo scaricata dal passaggio degli autocarri. Richiuse la lama del coltello con uno scatto e rigirò l’arnese fra le dita ancora intrecciate fra la nuca e il muro. Scosse le spalle. “Lasciamo perdere Belgrado.” Sollevò la schiena dalla parete, fece saltare il coltello ripiegato da una mano all’altra, e lo rivolse ad Austria e a Ungheria. “Austria e Ungheria ci diranno tutto quello che c’è da sapere a proposito di quello quando faranno di persona una visitina in Jugoslavia.”

Italia ritirò la mano che aveva accostato a suo fratello e la portò davanti alla bocca. “Cosa?” Si sporse dalla cassa su cui era seduto e lanciò un’occhiata triste e incredula ai due. “Andrete a Belgrado?”

Ungheria sospirò e annuì. Strinse un pugno sulla coscia, intrecciò una ciocca all’altra mano e sfilacciò le punte dei capelli fra le dita. “Una volta stabiliti e conquistati gli obiettivi base qua in Grecia, e prima di proseguire con l’avanzata su Atene...” Sfilò le dita dai capelli e si posò la mano sul petto. “Io, Austria, Romania e Bulgaria andremo a Belgrado.”

Italia rimase a bocca socchiusa, senza riuscire a nascondere un’espressione di delusione.

Romano si sporse, infilò la mano nella tasca della giacca di Italia, e acchiappò uno dei tre tubetti di Vivil Mints che gli aveva dato Austria. Strappò un’estremità della carta verde, fece pressione con l’unghia del pollice fra le tavolette di menta, e ne fece scivolare due fra le labbra. Spaccò subito le mentine fra i molari e un’esplosione di freschezza gli invase la bocca. Fu come aver dato un morso a un cubetto di ghiaccio. “E quali sarebbero questi obiettivi base?” Succhiò i frammenti di mentina e ne ingoiò subito un’altra.

Prussia tornò a far roteare il coltello ripiegato fra le dita. “Uno è Salonicco, di sicuro.” Abbassò l’arma e batté il manico sulla città cerchiata che dava sul golfo. “Il Diciottesimo Corpo d’Armata è già all’opera, e oltre ad assalire la Linea Metaxas si stanno occupando anche di arrivare al Lago Dorjan, di interrompere le linee ferroviarie per impedire ai greci di svignarsela e di far arrivare rinforzi supplementari.” Sollevò il coltello e mostrò i palmi al cielo. “Ma questo è competenza di West, quindi non badiamoci troppo.”

Italia stropicciò l’involucro della cioccolata che aveva già finito, sminuzzò un angolino di carta e le dita presero a tremare. “E se...” Si morse il labbro inferiore, un nodo di tensione si aggrovigliò nella pancia, il battito del cuore si appesantì, e il sorriso incurvato sulle sue labbra tremò di insicurezza. “E se li raggiungessimo anche noi?”

Romano diede un altro morso secco alla Vivil Mint – crack! – e rimase a guancia gonfia, il sopracciglio inarcato in un’espressione scettica, e il sapore di menta fresca a sciogliersi fra i denti. Anche Prussia e gli altri gli rivolsero occhiate interrogative.

Italia puntò un indice verso la strada dove stavano passando due file parallele di soldati in uniforme tedesca – gli elmetti calati sulla fronte e i fucili sottobraccio. “Potremmo aiutarli a conquistare Salonicco, e così sarebbe più facile per tutti, no?”

Prussia posò gli occhi sulle ombre dei soldati che sfilarono lungo la via, fece rimbalzare due volte il manico del coltello sul ginocchio, tamburellò a terra la punta del piede, e scosse la testa. “No, sarebbe solo inutile.” Rivolse il pugnale pieghevole alla mappa che ancora giaceva sulla cassa di legno in mezzo a loro, sotto cartacce e lattine di conserva vuote. “West è capacissimo di farcela da solo e, in più, noi serviamo qui,” fece ondeggiare l’ombra del coltello sopra Vévi, “dove probabilmente ci sarà Inghilterra ad aspettarci e a tenderci un agguato.”

Austria inspirò a fondo, diede un colpetto alla montatura degli occhiali, e il suo volto si irrigidì. Ungheria serrò i pugni sulle cosce e dondolò avanti e indietro con le spalle, gli occhi premuti sulla città di Vévi che li aspettava dopo Florina.

Italia accartocciò l’involucro vuoto della cioccolata, e quello scricchiolio infranse la barriera di silenzio che era calata in mezzo a loro. “Quindi, prima di andare anche noi a Salonicco...” Deglutì. “Dovremo combattere?”

Prussia si strinse nelle spalle e si passò una mano fra i capelli. “Be’, tutto dipende da quanta resistenza troveremo a Vévi e a Florina.” Posò il manico del coltello sulla città di Vévi, lo fece scivolare fino a Kozani. Dopo Livadheron, la strada si divideva in una biforcazione e il tragitto di destra puntava le Termopili, dove si univa con la strada percorsa a partire da Salonicco. “Dobbiamo assolutamente aprirci un varco, scavare una strada che poi andrà a congiungersi con quella che sta percorrendo West. E in questo modo avere poi tutto l’esercito pronto a sfondare su Atene.”

“Oh.” Italia annuì, poco convinto. “Ca... capito.”

Prussia ritirò il manico del coltello che aveva usato come bacchetta e lo fece rimbalzare da una mano all’altra. “Non ti preoccupare.” Se lo posò sul petto, sotto la croce di ferro, e allargò un sorriso arrogante ma sincero. “Siamo qui noi ad aiutarvi, per di più Inghilterra sarà da solo, noi invece siamo in cinque, non c’è nulla da temere.”

Italia annuì, abbozzò un sorriso e anche i suoi occhi divennero più luminosi. “Sì.”

Romano finì di sgranocchiare le mentine e schiacciò le briciole zuccherose fra il palato e la lingua, sciogliendo gli ultimi frammenti. Nonostante il buon aroma di menta a invadergli la gola, la bocca rimase pregna di un saporaccio amaro che accompagnava quel brutto presentimento che gli ristagnava nel petto. Nulla da temere. Sfilò un’altra Vivil dal tubetto verde e la fece ruotare fra pollice e indice, macchiandosi i polpastrelli di bianco. Ora che ci sono anche loro, è ovvio che le nostre probabilità di vittoria si sono moltiplicate. È praticamente certo che vinceremo. Abbassò gli occhi, posò lo sguardo sulla mappa dove Prussia aveva già segnato i tragitti dell’esercito tedesco e aveva già sbarrato con delle croci le città conquistate. Però...

Il suo sguardo scivolò in basso, sulla città cerchiata tre volte e scritta in stampatello maiuscolo. ATENE. Romano si tuffò la caramella in bocca, la ruppe, e il sapore così forte e improvviso della menta gli fece venire le lacrime agli occhi.

Quanto potrà valere una vittoria che rimane comunque affogata nell’ombra dei tedeschi?

 

♦♦♦

 

9 aprile 1941, Passo di Vévi

 

L’ufficiale del battaglione genio strinse le mani inguantate attorno al manico del piccone, lo tirò sopra la testa, una folata di vento ghiacciato investì l’attrezzo rivestendolo di uno strato di neve e ghiaccio incrostato che scintillò sulla punta rivolta al cielo, e lo calò fra le rocce già scheggiate dai colpi precedenti. Il piccone si schiantò addosso a una pietra, frammenti di ghiaccio e roccia saltarono in aria, scintillarono finendo trasportate via dal vento. La punta metallica dello strumento scivolò via lasciando una striscia bianca: una graffiata in mezzo ai massi. Il vento ululò fra le pareti delle montagne, vortici di neve fischiarono sputando un gelo pungente sulla faccia già rossa dell’uomo, riparata dagli orli del cappuccio tirato fin sopra il naso. L’ufficiale strinse gli occhi per ripararsi dalle scaglie di ghiaccio che si erano cristallizzate fra le ciglia. Si diede una strofinata alla fronte e alle labbra, raddrizzò le spalle lasciando scivolare il piccone fra le rocce, le vertebre della schiena schioccarono, e quella frustata improvvisa di dolore lo fece gemere fra i denti, ingobbendolo di nuovo.

Altri tre ufficiali che lavoravano agli scavi passarono accanto al bordo della piccola trincea – assi di legno pesavano sulle spalle dei tre, un quarto uomo che trasportava teli di cerata e una cassa di esplosivo li seguiva a passo pesante –, e uno di loro indirizzò un cenno al compagno che lavorava al foro fra le rocce. L’ufficiale sollevò una mano, la sventolò tenendo il capo basso. Tutto bene. E si strofinò i capelli già spolverati di ghiaccio sotto il tessuto del cappuccio.

L’ufficiale prese un profondo respiro, il dolore si ritirò e gli tornarono le forze alle braccia e alle spalle. Tastò il fondo della trincea con la punta dello scarpone, scalfendo una delle croste di ghiaccio più superficiali, e diede un piccolo calcetto anche alla parete di neve che gli arrivava al ginocchio.

Una spazzata di vento tornò a investirlo, lo aggredì come tanti uncini di ferro agganciati alla pelle del viso, dietro le orecchie, sugli zigomi, fra le labbra e le palpebre. Trascinò altri strati di neve in mezzo alle sue gambe, seppellendolo fino alle caviglie. L’uomo fece forza sul muscolo del polpaccio, estrasse una gamba dal suolo resistendo alla scossa che gli morse il ginocchio, si sbilanciò in avanti crollando di spalle, e si aggrappò all’orlo della trincea con una mano sola. Il gelo gli risucchiò le energie dal corpo, gli irrigidì i muscoli, l’ululato che si perdeva fra le montagne circostanti risuonò come un basso latrato lanciato dalle sue stesse membra esauste.

Altri soldati si spostarono nel mezzo della bufera, gracchi metallici si mescolarono ai suoni delle loro marce e delle ruote delle artiglierie mobili trascinate fra i monti.

Pesanti passi scricchiolanti si avvicinarono all’ufficiale che lavorava alla trincea, frantumarono il terreno congelato. Due ombre si allungarono, divennero più alte e nere, e si fermarono davanti a lui. Australia e Nuova Zelanda si chinarono ad appoggiare le travi e le funi che avevano trasportato fino a lì.

Australia si piegò sulle ginocchia, accatastò le assi a quelle già accumulate sotto i teli protettivi, diede un piccolo colpetto alle travi per sistemare anche le estremità posate da Nuova Zelanda, e si rialzò strofinandosi le spalle. Brividi di gelo risalirono le gambe e la schiena, gli scossero il corpo in una morsa di freddo che gli ghiacciò il sangue e gli rese il viso rosso e screpolato, graffiato dalle spazzate di neve che continuavano a fischiare fra le montagne. Batté i denti. Non si sentiva più le labbra. “A-allora?” Due nubi di condensa soffiarono fuori dalla sua bocca e finirono trascinate via dal vento.

Nuova Zelanda si spolverò i guanti e anche lui si strofinò spalle e braccia, saltellò da un piede all’altro per tenere le gambe al caldo, e ogni volta sprofondava nella neve fino alla caviglia. “Siamo riusciti a scavare un po’ più a fondo?” Gli stivali che affondavano nella neve emisero scricchiolii pesanti e secchi – crunch, crunch, crunch!

L’ufficiale abbandonò il manico del piccone e lasciò l’attrezzo conficcato nel ghiaccio. Tirò su le spalle premendosi le mani sulla schiena indolenzita, strinse un’espressione di dolore che gli infossò una profonda ragnatela di rughe fra le palpebre, e scosse il capo. “Niente da fare, signori.” Tirò su un piede e scavalcò l’orlo della piccola trincea che aveva appena iniziato a scavare. Australia e Nuova Zelanda si sporsero e gli strinsero un braccio ciascuno, aiutandolo a uscire e a resistere alla raffica di vento che gli era arrivata addosso spingendolo all’indietro. L’ufficiale compì due passetti per tenersi in equilibrio, si staccò dalla presa dei due, e si strofinò i fianchi e le braccia con le mani inguantate. Batté i denti anche lui, alzò la voce arrochita per farsi sentire sopra il grido del vento. “Il terreno è troppo ghiacciato, non riusciamo a scavare delle trincee abbastanza profonde.” Si portò una mano davanti alla fronte, sollevò lo sguardo puntandolo verso la cima di una delle montagne nascoste dalla fitta foschia bianca che continuava a spurgare neve e vento. I soldati erano puntini neri nel bianco e nel grigio. Ombre senza volto che si spostavano fra le raffiche. L’uomo aggrottò la fronte in un’espressione contrariata e scosse la testa. “Per di più, con questa tempesta la visibilità è ridotta di molto, e tutti i reparti stanno subendo gravi rallentamenti.”

Sul volto di Australia comparve un’espressione amareggiata, e il senso di sconforto gli fece chinare il capo in mezzo alle spalle. “Oh, no.” Si tolse una mano dall’avambraccio che stava sfregando per scaldarsi e si grattò la nuca. “E i tedeschi saranno qua a giorni,” si lamentò. “Come facciamo a difendere il passo senza poterci riparare?”

Gli occhi di Nuova Zelanda si illuminarono, e un’idea brillò nella sua testa. “Oh!” Nuova Zelanda batté un pugno sulla mano e fece un piccolo saltello, le guance arrossirono per l’emozione sollevata dal piccolo sorriso e non per il gelo che gli frustava la faccia. “Potremmo usare l’esplosivo per scavare nelle rocce.”

Australia scosse la testa e sventolò una mano. “Negativo,” disse. “Non possiamo sprecarlo, ci serve per usarlo contro i crucchi, per ribaltare i loro Panzer, e per disseminare le mine anticarro.”

L’ufficiale annuì di rimando. “Senza contare il fatto che, con così tanta neve appena caduta, sarebbe estremamente pericoloso.” Diede un piccolo colpetto al suolo con la punta dello stivale, e lo strato di neve congelata appena depositata si sfaldò con un crack! “Rischieremmo di provocare una frana e di rimanere sepolti durante le operazioni.”

L’entusiasmo di Nuova Zelanda scemò ingrigendogli il volto, gli occhi smisero di brillare e caddero in mezzo ai piedi, gli angoli del sorriso si incurvarono verso il basso. “Oh.” Un soffio di condensa si sciolse dalla sua bocca e finì assorbito dal bavero della giacca tirato fin sotto il naso.

Un altro ululato di vento vorticò in mezzo ai tre, si infilò sotto i vestiti, aggredì la pelle mordendo i loro corpi con zanne di ghiaccio, graffiò i volti e le orecchie lasciandoli viola e insensibili, e cristallizzò grani di neve fra i capelli e le sopracciglia.

Australia si chiuse in un abbraccio, batté le mani sulle spalle e sugli avambracci, camminò avanti e indietro per tenere i muscoli caldi, e starnutì. Tirò su col naso, si strofinò il viso, e un’espressione imbronciata gli scurì il volto. “Comincio a credere che la neve non sia poi così bella come pensavo.” Tirò di nuovo su col naso ed emise un lamento stridulo e ondeggiante. “Mi manca il sole.” Lacrimucce di disperazione fiorirono fra le palpebre e si ghiacciarono subito in mezzo alle ciglia, come perline di cristallo. “Mi manca il deserto, voglio tornare nel caldo!”

“Abituatevi.”

Una voce familiare sgusciata in mezzo alle grida della bufera di neve li raggiunse, congelò i loro sguardi e sciolse il gelo che imprigionava i loro corpi.

Australia, Nuova Zelanda e anche l’ufficiale si girarono. Una zaffata di vento trascinò via uno strato di foschia e neve, assottigliò la nebbia dietro la quale si celava l’ombra appena comparsa dietro di loro. La sagoma si avvicinò, ingrandendosi, accompagnata dal rumore dei suoi passi sempre più forte e secco, come se stesse camminando su una distesa di pane raffermo. Il vento risucchiò i vortici di neve, abbassò lo strato di nebbia, fece oscillare la giacca che avvolgeva la sagoma, e rivelò il volto teso e arrossato dal freddo di Inghilterra, nascosto sotto il bavero della giacca. “Perché nevicherà almeno per altri tre giorni, temo,” disse con voce più rauca e bassa del solito.

Australia e Nuova Zelanda rimasero a bocche aperte, occhi sgranati e increduli squadrarono Inghilterra come se avessero visto un fantasma scivolare fuori dallo strato di neve e materializzarsi davanti a loro.

Inghilterra sollevò il bavero della giacca fin sopra le labbra, coprendosi la gola, e alzò la punta del naso verso il cielo. Il vento gli scosse le punte dei capelli sfoltiti sulla fronte e davanti agli occhi ristretti. Inghilterra infilò le dita fra le ciocche e le tenne lontane dalla sua espressione immusonita. “Stupido clima mediterraneo.”

Australia e Nuova Zelanda si ripresero e scattarono verso di lui, ancora a bocche spalancate. “Inghilterra!” Superarono l’ufficiale che si rimboccò la giacca attorno al collo, si chinò a raccogliere le funi che avevano portato assieme alle travi, e sgusciò via svanendo in mezzo alla foschia di neve e ghiaccio, si unì a un gruppo di tre uomini che si stavano dirigendo verso un secondo scavo.

Nuova Zelanda corse davanti a Inghilterra e lo guardò con occhi allarmati. “Cosa ci fai qui?” esclamò. “Pensavamo che fossi a combattere sulla Linea Metaxas.”

Anche Australia si piazzò davanti a lui, strinse i pugni davanti al petto, e il cuore accelerò per la paura. “È successo qualcosa? Vi hanno sconfitti, oppure – oh, no!” Si batté una mano sul viso. Negli occhi si accese un lampo di terrore. “Non è che Germania ha già ammazzato Grecia?”

Inghilterra scosse il capo, sventolò una mano con un gesto lento e rilassato. “No, Grecia sta bene. Più o meno.” Un groppo di tosse gli si annodò in gola. Inghilterra si girò di fianco, infilò una mano sotto il bavero della giacca, stringendosela al collo, e premette l’altra contro la bocca. Tossì due volte, soppresse un vagito di dolore contro il palmo, e si massaggiò tutt’attorno alla gola. Prese un forte respiro per riguadagnare fiato, e allentò il bavero della giacca, massaggiandosi un’altra volta dalla clavicola al mento. “Almeno lui.” Un soffio di vento gli abbassò i lembi del colletto.

Australia e Nuova Zelanda notarono la fasciatura bianca che gli passava attorno al collo, rigonfia all’altezza dello strato di garza, ed entrambi sentirono aprirsi un vuoto nello stomaco.

Australia soffiò una nube di condensa, flesse le sopracciglia in un’espressione addolorata che gli fece diventare gli occhi più lucidi. “Sei ferito?”

Nuova Zelanda si coprì la bocca e lo sguardo si macchiò di un’ombra di spavento. “Ti ha ferito?” Gli andò più vicino e si appese al suo braccio, mettendosi in punta di piedi. “Com’è successo? È tanto grave? Come ti senti?”

Inghilterra mostrò i palmi e si tirò indietro. “Non agitatevi, non è nulla.” Tornò a rimboccarsi la giacca per nascondere le bende attorno alla gola, chinò lo sguardo e portò un braccio davanti alla fronte per resistere a un’altra folata di vento pungente, e strinse i denti. “Però ora siamo finiti in un bel disastro,” commentò. “La Linea Metaxas è caduta, e i tedeschi stanno già scendendo verso Salonicco, ormai il settore macedone è andato.”

Australia tornò a strofinarsi le spalle e gli avambracci, e inarcò un sopracciglio. “E Grecia dov’è?” Ricominciò a battere i denti.

“A proteggere la città, ovvio,” rispose Inghilterra.

“E tu non sei rimasto con lui?”

“No.” Inghilterra scosse il capo e si girò di profilo, compì un paio di passi in mezzo alla neve. “Sarebbe stata solo un’inutile perdita di tempo. Anche se fossi rimasto là con lui, Salonicco sarebbe caduta lo stesso. È solo questione di tempo, ormai.” Si fermò, spostò lo sguardo sulle montagne, reggendosi il bavero della giacca fin sotto il mento, e arricciò il naso in una smorfia indispettita, le iridi fra le palpebre ristrette bruciarono come fuochi verdi, il vento gli soffiò attorno sbattendogli fiocchi di neve contro le gambe e il busto, i capelli agitati dall’aria incresparono fitte ombre sul suo viso. “E il tempo è l’unica arma che abbiamo ancora dalla nostra parte, perciò ho preferito sfruttarlo nel miglior modo possibile.”

Australia e Nuova Zelanda si scambiarono uno sguardo sottecchi, Australia compì un passo dietro di Inghilterra spaccando un altro strato di ghiaccio, e si continuò a strofinare le spalle. “Quindi...” Flesse il capo, si grattò la nuca mimando sguardo interrogativo. “Sei qui per dirci che...” Lasciò che un lamento del vento scivolato fra le pareti di roccia trascinasse via le sue parole.

Inghilterra restrinse le labbra screpolate dal freddo, abbassò gli occhi, e scosse la testa con aria più sconfortata. “Che ormai non si tratta più di vincere o perdere.” Girò la guancia, li guardò da sopra la spalla con la coda dell’occhio. “Ma solo di resistere e di impegnare il nemico più a lungo possibile, almeno fino a che Grecia non sarà al sicuro ad Atene.” Lasciò scivolare lo sguardo a terra, diede un piccolo calcetto a un sasso incrostato di terra e ghiaccio che rotolò in mezzo alle rocce sbucate dal suolo, e soppresse una risata fra le labbra che gli rese la bocca più amara. “Ammesso che Germania non lo uccida prima che ci arrivi.” Lo disse pianissimo, il suo fiato non fece nemmeno condensa.

Gli occhi di Nuova Zelanda tornarono a brillare, un largo e allegro sorriso gli ricomparve sulle labbra, gli scaldò le guance aggredite dal gelo e gli alleggerì il petto. “Ooh, quindi sei venuto qua ad aiutarci?”

Inghilterra gettò subito lo sguardo in disparte, stiracchiò il colletto della giacca fino a coprirsi le guance, e borbottò con voce soffocata dalla stoffa. “Non montatevi la testa, non sono qua per voi.” Diede le spalle a entrambi e sventolò una mano. “Ma solo per coordinare una battaglia decente dato che non posso sperare nelle vostre capacità tecniche e logistiche, se applicate a un ambiente come questo.”

Australia e Nuova Zelanda si guardarono, sollevarono le sopracciglia e nascosero piccoli sorrisetti di complicità sotto le giacche.

Inghilterra tossicchiò per sviare l’argomento e tornò a massaggiarsi la gola. “Dunque...” Si cinse il fianco con una mano, il suo sguardo tornò serio, e un ennesimo soffio di vento gli passò attraverso, arrochendogli la voce. “A che punto siete con l’organizzazione della difesa?”

Un’ennesima spazzata di vento ghiacciato travolse tutti e tre. Nuova Zelanda si chiuse in un abbraccio solitario, chinando il capo per non ricevere in faccia le graffiate di neve fresca, e andò a rintanarsi contro il fianco di Australia, tremando sotto l’incavo del suo gomito. Australia gli sfregò un braccio attorno alle spalle per fargli caldo, e camminò dentro la scia di passi lasciata da Inghilterra sulla neve. “Abbiamo fatto saltare un paio di ponti e tutte le linee ferroviarie.” Tirò su col naso e guardò in alto, verso le cappe di nuvole che tappavano le cime delle montagne, rendendole grigie e lucide come lamine di metallo. “Ma non so quanto potremo resistere con questo freddo, e le comunicazioni con Kazani sono sempre più incostanti.”

Nuova Zelanda tremò sotto il suo braccio e si strofinò la punta del naso. “Però, forse...” Rivolse l’indice al cielo, rafforzò il tono di voce per farsi sentire bene anche da Inghilterra. “Forse potrebbe essere più facile di quello che crediamo. Se Prussia e Germania sono a Salonicco, vuol dire che qui noi...”

“No.” Inghilterra si fermò, scosse il capo, e tenne lo sguardo distante e la fronte china. Strinse i pugni, li sciolse, e tornò a serrarli. Un intenso calore bruciò dentro i palmi, nonostante il gelo della tormenta di neve. Le sue labbra vibrarono, una fitta ombra scura calò sul suo volto, cerchiò gli occhi ristretti e lucidi di rabbia. “Prussia è qui.”

Il vento arrivò in faccia ad Australia e a Nuova Zelanda in un violento schiaffo di realizzazione. Panico gelato strinse il cuore a entrambi, i visi arrossati dal freddo e spolverati di ghiaccio si congelarono in maschere di tensione, gli occhi cerchiati dalla stanchezza brillarono di paura.  

Australia aprì e chiuse la bocca, sbatté le palpebre. “Co...” Dalle sue labbra si gonfiò una nuvola di condensa bianca trascinata via dal vento. “Cosa?”

Nuova Zelanda si posò una mano sulla guancia e spostò gli occhi da Inghilterra ad Australia. Deglutì e riprese a tremare come un passerotto bagnato.

Inghilterra annuì e sospirò. “È anche per questo che mi sono fatto vivo io,” disse con tono sconfortato.

Australia sfilò il braccio dalle spalle di Nuova Zelanda e gli puntò l’indice addosso, sbarrò le palpebre. “Allora le tue previsioni erano sbagliate.”

“Sì.” Inghilterra si voltò verso di loro e sollevò un indice verso le montagne. “Prussia ha viaggiato su questa direttrice fin dall’inizio.”

Australia ritirò il dito, strinse la mano a pugno e la batté sull’altro palmo. “Ecco perché è stato così difficile per noi resistere all’avanzata e ci siamo subito ritrovati ad arretrare e a proteggere il passaggio per Kozani fra queste dannate montagne.”

“E come faremo adesso?” pigolò Nuova Zelanda.

Inghilterra si strinse nelle spalle e riacquistò un briciolo di sorriso. “Consoliamoci.” Camminò vicino a loro e tornò a strofinarsi le braccia per scaldarsi. Guardò lontano, i capelli scossi dalla bufera e gli occhi che riflettevano il grigio cinereo del cielo. “Probabilmente l’Asse non sa ancora del vostro coinvolgimento, quindi nemmeno loro terranno conto della vostra presenza e sarà più facile coglierli impreparati.”

Lo sguardo di Australia si illuminò. “Ooh.” Batté le mani e strofinò i palmi, affilò un largo sorriso da squalo e ridacchiò. “Possiamo tendergli una trappola.”

Nuova Zelanda fece un salto e batté anche lui le mani. “Forte! Un attacco a sorpresa!”

Inghilterra annuì mettendosi a braccia conserte. “Di certo non li lasceremo passare gratuitamente. Ma ora ascoltate.”

Australia e Nuova Zelanda appiattirono i sorrisi di entusiasmo, tornarono seri, immobili in mezzo alla neve come bravi soldatini, tenendo gli sguardi concentrati su Inghilterra.

Inghilterra camminò avanti e indietro, diede un calcio a un altro sasso congelato. “Penserò a un piano. Ho già in mente qualcosa, ma ci sono un paio di fattori che devo ancora verificare. Ma ricordatevi...” Rivolse l’indice prima all’uno poi all’altro, il suo sguardo si indurì, gli occhi scuri e severi, la voce arrochita dalla ferita divenne pesante e graffiante come quella del vento che soffiava in mezzo a loro. “Il fatto che ormai sia praticamente una battaglia persa non ci giustifica a combattere con i piedi. In questo combattimento...” Abbassò il dito, strinse il pugno contro il fianco, accumulò un’energia bruciante che fluì nelle vene e arrivò fino al cuore. “Non saranno ammessi errori.”

   
 
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