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Autore: Makil_    26/06/2017    11 recensioni
In un territorio ostile in cui la terra è colma di intrighi e trame nella stessa quantità con cui lo è dell'erba secca, il giovane ser Bartimore di Fondocupo, vincolato da una promessa fatta al suo miglior confidente, vedrà finalmente il modo per far di sé stesso un cavaliere onorevole. Un torneo, un'opportunità di rivalsa, una guerra ai confini che grava su tutte le regioni di Pantagos. Quale altro momento migliore per mettersi in gioco?
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Storie di Pantagos'
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Glossario della terminologia relativa alla storia (aggiornamento continuo):

Patres/Matres: esperti, uomini e donne sapienti indottrinati da studi all’Accademia. Ogni regno ne possiede tre, ognuno dei quali utile a tre impieghi governativi.
Accademia: ente di maggiore prestigio politico a Pantagos, vertice supremo di ogni decisione assoluta. Da essa dipendono tutti i regni delle regioni del continente, escluse le Terre Spezzate che, pur facendo parte del territorio di Pantagos geograficamente, non  sono un tutt’uno con la sua politica. Il Supremo Patres è la figura emblematica della politica a Pantagos, al di sopra di tutto e tutti.
Devoti: sacerdoti del culto delle Cinque Grazie (prettamente uomini), indirizzati nello studio delle morali religiose alla Torre dei Fiori, nelle Terre dei Venti.
Fuoco di Ghysa: particolare sostanza incolore e della stessa consistenza dell’acqua, la cui unica particolarità è quella di bruciare se incendiata.
Le Cinque Grazie: principali divinità protettrici del sud-ovest di Pantagos, proprie di molti abitanti delle Terre dei Venti e della Valle del Vespro. Tale culto prevede la venerazione di quattro fanciulle e della loro madre. 
Tanverne: enormi bestie dotate di un corpo simile a quello di giganteschi rettili, abitanti il territorio di Pantagos.
Y’ku: titolo singolare dell’isola di Caantos, nelle Terre Spezzate, il cui significato è letteralmente “il più ricco”. Il termine “y’ku” s’interpone tra il nome e la casata nobiliare di un principe dell’isola, posto a determinare la sua ascendenza nobile.
Incantatori: ordine giurato unico del continente di Pantagos. Si tratta a tutti gli effetti di un gruppo di sapienti  in cui sono raggruppati guaritori, speziali, alchimisti e finanche stregoni – benché in molti, e nel popolino nello specifico, non credano a questo genere di arti. La sede degli incantatori è la Gilda degli Incantatori, altresì detta Tempio Bianco, sulla Collina di Burk, a Fondocupo. 
Castellano: figuro (molto spesso un esperto) incaricato di reggere, in vece del sovrano al quale è subordinato, un altro regno, un piccolo borgo o una cittadina appartenente all'uomo cui giura lealtà. 

Ossa di tanverna: vengono impiegate, fuse, nella creazione di gioielli d'importantissimo valore e armi, poiché molto robuste, lunghe, e spesso colme di essenze magiche o, addirittura, proprietà venefiche. 
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Un risveglio traumatico preannunciò una giornata traumatica.
La pioggia aveva continuato a battere incessantemente su ogni angolo di Roshby, causando non pochi problemi. Il campo si era quasi del tutto svuotato di uomini, e alcune tende erano come evaporate. Tra le scomparse, purtroppo, c’era anche il padiglione di Darrick Sunfall. “Un vigliacco, senza dubbio.”
A giudicare dal buio fitto del mattino, come se neppure il sole avesse intenzione di risvegliarsi dal suo sonnecchiare per illuminare quel triste giorno, nessuno poteva assicurare che fosse davvero l’alba. Nuvole grigie chiazzavano il cielo, macchiandolo come pozze di olio scuro su una tovaglia che di bianco aveva solo i bordi. Nessun gallo cantò quel giorno, né alcun araldo si esibì nelle sue solite composizioni pompose e trionfanti. Non ci furono i soliti vocii indistinti di masse di cavalieri intenti a limare le loro armi, gettare fango sui loro stivali, lucidare le loro armature al lago, serrare i loro scudi e i loro bacinetti. Quel giorno pieno di rammarico non poté che incidere un solco più aspro sul dolore che già affliggeva Bart. Rapidamente si gettò un po’ d’acqua fresca sul volto per accelerare il suo risveglio, attaccò Lungacresta alla cintola e indossò pian piano l’armatura. Si prese un paio di minuti per osservare tristemente il cupo cielo che quel giorno aveva deciso di salutarli. La sera prima di andare a dormire, patres Steffon aveva fatto un salto al padiglione di Bartimore ed Esmerelle, giusto per assicurare il ragazzo che ogni cosa stava andando per il meglio. Ciononostante, Bartimore non ebbe il tempo di raccontargli i suoi esiti, in quanto gli era parso che l’esperto andasse veramente di fretta, come un dardo grigio scoccato con un’incredibile forza da un preparatissimo avversario. Lo stesso giorno, accertò Steffon, si sarebbe tenuto la tanto attesa – per disgrazia – quintana di Melkor Winemors. Prima di chinare il volto, si lasciò bagnare dalle lacrime del cielo e rivolse una rapida preghiera alle Grazie. “Ora più che mai abbiamo bisogno della vostra forza.”
Non c’erano ovazioni tenute ad alta voce, quel giorno nel campo, né i soliti nitriti dei cavalli a cui venivano attaccate le briglie e gli speroni.
La vita è come un duello con le lame, Bartimore, se cadi e resti per terra t’infilzano, ma se cadi e ti rialzi schivi il fendente che i nemici ti riservano”. Una frase che Dalton non aveva mai smesso di ripetergli. Quel giorno come mai, Bart sentiva il bisogno di farsi valere. Era pronto a tutto, qualora qualcuno avesse avuto intenzione di dichiarare guerra con un torneo. Sapeva che poteva contare sui suoi amici, in ogni caso, che aveva una spada da difendere e con la quale difendersi, che aveva una morte da vendicare. E sapeva soprattutto che avrebbe dovuto fare più di quanto non sapesse fare, pur di risparmiare il peggio ad Esmerelle.
Svegliò la ragazzina poco più tardi. Esmerelle si limitò a concludere i compiti iniziati la notte scorsa senza pronunciare una sola parola. L’imbarazzo era rimasto integro nei suoi lineamenti, malgrado il gesto di Bart non sembrava averla scossa poi così tanto. Bart si era chiesto se, magari, avesse sbagliato, ma si era convinto altrettanto velocemente che era stato un gesto coerente. Se così non fosse stato, Esmerelle non avrebbe avuto certo problemi nel farglielo notare aspramente: questa era l’unica cosa che lo consolava. Eppure, la ragazzina non lo aveva degnato né di un commento, né di un accenno di sorriso. Il suo sguardo era rimasto corrucciato per tutta l’intera mattinata, e mai era finito più di due volte contro quello di Bartimore. La sua espressione era al tempo stesso un rimprovero anche a sé stessa, che forse non si capacitava del motivo per cui si stesse comportando in quel modo. “Magari non ha mai provato tutto ciò” si limitò a concludere Bart. “Forse il suo mondo è sempre stato fatto di solo odio e rancore. E io sono stato un vento stravolgente per lei… fin troppo, magari, nella sua vita. Tutti abbiamo paura del cambiamento.”
Incontrarono Ortys Wysler, patres Steffon e ser Mark fuori dal padiglione del signore di Ardua Scogliera, al riparo dall’acqua sotto una garitta semidistrutta. Il grosso e muscoloso Ortys era ricoperto d’acciaio su ogni parte del suo corpo. L’armatura lo aveva ingigantito enormemente, facendolo apparire come un colosso sospeso su due enormi colonne di pietra lucida. Possente Sovrano pendeva dal suo fianco, lasciando intravedere il suo pomolo a forma di rombo traslucido. La lama, arma ancestrale della sua casa, forgiata, almeno secondo i resoconti degli aedi, a partire dal cuore della roccia di una scogliera impossibile da abbattere, era immobile nel suo fodero. Nel lato opposto, la sua possente mano stringeva uno scudo rotondo, dello stesso colore dell’armatura, con un bassorilievo impresso sul dorso. L’enorme elmo non aveva un celata, ma compensava quell’assenza con un foltissimo pennacchio dai colori sgargianti dell’arcobaleno. L’armatura era lucida come uno specchio, bordata di finissime lineature d’oro che richiamavano alla mente l’opulenza e la straordinarietà della casa Wysler.
Per la prima volta, Bart vide patres Steffon nei panni di ser Steffon. L’esperto si era svestito del privilegio di un accademico per indossare un’altra volta i panni del cavaliere che era stato in passato, con la spada che, probabilmente, lo aveva accompagnato nelle sue avventure. Tutto ciò che aveva indossato Steffon era un’armatura di cuoio spesso, sorretta da qualche giuntura in acciaio sulle spalle e nel petto, dietro a cui svolazzava un mantello nero inchiostro. “Tutto materiale riciclato” pensò Bart. “Un po’ come la sua virtù”.
Quel giorno patres Steffon aveva l’aria di essere più vecchio di chiunque altro, malgrado Bart sapesse che fosse un suo stretto coetaneo. Non un solo barlume di speranza alimentava il suo sguardo, due occhi neri come le ali di un corvo, divorati dall’incapacità di rivedersi attorno a quel trambusto senza onore.
Ser Mark era davvero poco ilare sotto le poche protezioni che l’armatura gli conferiva. Un accenno di barba malcurata era sorto sul suo volto come erbaccia nata su un campo incolto. “Una sola notte ci ha resi tutti più vulnerabili”. Il suo volto era gonfio, tipico di una vecchiaia del Sud, i capelli striati di bianco e grigio e gli occhi spenti, il suo sguardo irrequieto e reso malinconico dalle lacrime che cadevano dal cielo. “Il cielo piange per noi” si disse Bart. “Le Grazie non ci hanno abbandonato. Raramente lo fanno”.
«Ser Bart» lo salutò ser Mark. «Alla buon’ora per tutto.»
Bartimore lo guardò vago, annuì e prese un profondo sospiro. Steffon non lo aveva neppure degnato di uno sguardo, ma aveva continuato a fissare vagamente la punta dei suoi piedi. La voce di Ortys risuonò sul frastuono del temporale.
«Se siete pronti, è tempo di andare.»
Bart si prese un attimo per osservare l’espressione disorientata di Esmerelle. La ragazzina tentava di capire per quale motivo si fossero riuniti tutti lì, restando il più vaghi possibili, ma alludendo a situazioni che lei non poteva conoscere. Forse, lentamente, stava iniziando a sospettare qualcosa, nonostante fosse irrilevante di fronte al problema reale.
Steffon trainò avanti il cavallo di Ortys, uno stallone nero, ruggente, dalle lunghe narici bagnate d’acqua e muco bianco raggrumato. «Usciamo da questa catapecchia, tanto vale lasciarsi bagnare. Vino rosso come il sangue, ricordate. L’acqua può solo farci restare sobri.»
«Avete chiamato tutti?» chiese Bartimore attirando a sé Lenticchia, la cui agitazione era evidente persino da quella distanza.
«Tutti non proprio» rispose Ortys. «Baldon è dalla nostra, e lo stesso vale per Melkor. Ha detto che non poteva immaginarsi minimamente di aver a che fare con un simile intrigo, e ha detto anche che parteciperà comunque, pur di non lasciare il suo onore a rotolare sul fango. Solite storie, insomma. Con noi c’è anche il figlio, Derek. Sapranno cosa fare quando la cavalla in calore lo butterà giù dal suo destriero. E se mai il suo avversario dovesse attaccarlo… allora sarà guerra… un’altra volta… e proprio come l’ultima.»
Steffon alzò gli occhi al cielo, come un uomo distrutto dal tempo che incombe sulle sue spalle, aggobbito a causa di un fardello che non gli apparteneva poi così tanto. “Insomma, non appartiene a nessuno di noi.”
I suoi occhi si tinsero di grigio e scrutarono le nuvole scure come con la malinconia di qualcuno che da lì a poco avrebbe smesso di vederle.
«Abbiamo ser Ulwar e ser Diggon» disse ser Mark. «Ma Ariston Rowland ha già smontato il padiglione: altro codardo. Al suo posto ora c’è solo fango. In molti sono fuggiti quando li abbiamo informati, e molti altri hanno rifiutato di crederci. Ma andiamo adesso, non abbiamo altro tempo da perdere.»
Meno si ha paura della morte, più si è liberi”. Accompagnata da quel pensiero comune, probabilmente, la combriccola avanzò sotto la pioggia martellante verso il campo di Roshby, l’uno più scosso dell’altro, ed ognuno, a parte Esmerelle, col proprio cavallo al seguito.
Arrivati al campo, diedero i loro destrieri a patres Steffon, il quale li sistemò uno ad uno nelle stalle sotto agli spalti, pagò lo stalliere e si assicurò che fossero presenti anche i carri con le armi più robuste e con la sua stessa spada. Il piano prevedeva di prendere le armi solo se Melkor fosse stato attaccato davvero, per non suscitare prima troppo scalpore senza un’apparente ragione. «Siamo in una botte di ferro» aveva commentato ser Mark, rimanendo vago sul significato della sua espressione.
Sugli spalti superiori non c’era abbastanza spazio per Ortys, perciò furono costretti a restare nella pedana inferiore. Il campo era bagnato d’acqua, ridotto a una poltiglia di fango scuro. Malgrado la pioggia incessante, gli spalti erano pieni come al solito. Tra sguardi loschi ed insicuri di ragazzini dalla pelle macchiata dal sole, ventri flaccidi di macellai, garzoni, mugnai e contadini, Bart riconobbe alcuni uomini. Ser Dayn aveva mantenuto al meglio la sua promessa, portando con sé il suo nobile signore. Il ragazzo vestiva completamente i panni di un cavaliere slanciato, esile come pochi ed agile più del normale sotto l’armatura spessa, elegante e raffinata. “Ho sempre saputo di potermi fidare di te, ser Dayn”. Bartimore sorrise nel riconoscere l’immensa fedeltà del cavaliere della scorta di Norstone.
Come un fiore solitario, al centro di una panchina lunga a sud del campo, sedeva cupamente Baldon Doradon, il signore di Casmellor, dai lineamenti ridotti ad un ammasso ingrigito di rughe, le gambe accavallate con fare pensieroso. Forse, l’anziano signore stava meditando sul grave errore commesso: finanziare anche lui a grandi spese il torneo di Roshby, regalando così la possibilità ai ribelli di mettere in atto il loro sporco piano di vendetta. “Magari gli peserà sulla coscienza un giorno... o forse no.”
Esmerelle si era seduta accanto a lui, immobile e silenziosa come una pietra. Per quella giornata di tornei aveva indossato un abito rosa dalle rifiniture pallide che, come gli aveva confidato, aveva trovato su una bancarella di oggetti smarriti tra l’ammasso di padiglioni, alla cui proprietaria non aveva dovuto pagare nulla. Steffon aveva gli occhi ridotti a due fessure sottili e, immerso nei pensieri, se ne stava alla destra di Ortys, sovrastato dall’imponenza di quest’ultimo. Bart intravide anche ser Konrad con la lunga alabarda al fianco, la spada alla cintola, intento a conversare distrattamente con il suo compagno Mold. Entrambi sembravano aver perso la loro vitalità e la loro testardaggine quel giorno. Bart li aveva incontrati in una notte di pioggia, ora che ci rifletteva, le espressioni corrucciate sul volto, piegate in simbolo di dissenso e caparbietà, ma pur sempre meno rigide di quelle che avevano ora. Quando ser Mold lo intravide, allungò leggermente il braccio e face un cenno di saluto nella loro direzione.
Sul palchetto dei nobili non c’era nessuno ai fianchi di Wolbert Dorran, il quale aveva indossato una lunga veste nera dalle maniche a sbuffo, totalmente in sintonia con il manto grigio che copriva il cielo di quel giorno. Sul suo capo svettava un cappello di feltro dello stesso colore della pece, le sue tre punte indirizzate al cielo come volerlo indicare con superiorità e aria di sfida.
Lo strombettio impacciato di un araldo riportò l’attenzione sul campo più e più volte. Gli scontri di quel giorno furono, per la maggior parte dei casi, privi di ogni qualità, essendo combattuti sotto una pioggia che rendeva il tutto fin troppo difficile da seguire. Peraltro, non ci furono scontri rilevanti, almeno finché l’araldo non richiamò nel campo i nomi di due nobili delle Terre Spezzate, i quali si scontrarono nel duello più bello fin ora visto al campo,  a detta di molti spettatori e dello stesso Steffon.
«Mawar Mayer, signoria dei mari di Andaryn» vociò l’araldo. «E Garagherio Peggryns, principe di Caantos». I due sfidanti stranieri si fecero strada sotto la pioggia, trottando sul dorso dei loro destrieri bianchi. Mawar indossava un’armatura particolarissima, tinta di un viola forte ed acceso. Era tipico degli abitanti di Andaryn, quei pochi che popolavano l’isola, tingere qualsiasi cosa passasse loro sotto mano, rendendola unica e di inestimabile valore. Il viola, però, non donava per nulla a Mawar Mayer, i cui baffi neri spioventi, i capelli unti d’acqua e sorretti all’indietro, gli conferivano un’aria severa, sminuita dal colore del suo acciaio.
L’uomo si accostò alla palizzata sud, indossò l’elmo viola e chiuse la celata con un gesto fulmineo. Afferrò la lunga asta di legno e la portò avanti, assicurandosi che non ci fossero problemi nel maneggiarla e che i suoi movimenti non fossero ostacolati da alcunché. Forse perché la pioggia lubrificava le varie giunture, i movimenti di Mayer furono presto dettati da una fluidità degna di nota.
Garagherio Peggryns indossava, invece, un’armatura completamente dorata, luccicante come poche altre cose sotto la pioggia, rifinita nei minimi dettagli e solcata da soli che intrecciavano i loro raggi nel ricoprire il suo corpo. Alle spalle del principe, un lungo mantello porpora garriva nel vento come uno stendardo. Lui prese posto a nord, dove fece con comodo ciò che il rito di gioco consigliava. Indossò il suo elmo, sistemò accuratamente la lunga asta e, solo infine, si ritenne pronto per cominciare.
L’araldo suonò solo due volte, poi i due presero a corrersi incontro con violenza. I primi colpi che si scambiarono fecero sobbalzare chiunque dalle loro postazioni; perfino Ortys trasalì un paio di volte, quasi fosse spaventato dal cozzare delle armi sull’acciaio delle placche pettorali. Si scambiarono colpi irrilevanti sulle piastre delle ginocchia, sui gambali e sull’elmo, caracollando e danzando come fossero pronti a distruggersi, ma senza mai veramente farsi del male. Ad un certo punto, l’asta di Mawar Mayer caricò su un solo punto dell’armatura del nemico: la spalla. Il colpo che il cavaliere viola assestò al suo avversario fece crollare all’indietro quest’ultimo, che non perse però la presa dalle briglie, anzi lo spronò a dare di speroni e a caricare con più furia, tanto da abbattersi sul nemico e distruggergli l’asta sul petto. Mille pezzi di legno, schegge lucide dell’arma, piovvero sul fango seguendo il ritmo della pioggia. Garagherio tornò a nord, alla sua postazione, e si fece passare un’altra asta. I sussulti della folla incitarono lo scontro, gli diedero forza e conferirono valore ai due combattenti.
 Il terreno tremò quando  la furia di Garagherio si infranse un’altra volta sul busto di Mawar Mayer. Tutti trasalirono negli spalti, Bart compreso. Esmerelle gli afferrò di colpo la mano. “È fatta” intuì Bartimore rallegrandosi, ma non ebbe il tempo di voltarsi a guardarla che si avvertì un suono metallico nel campo. L’asta di Mawar Mayer scaraventò lontano Garagherio, il quale precipitò giù da cavallo e andò a schiantarsi al suolo con un potente tonfo. Mawar si fece strada nel campo, oltrepassò gli sguardi emozionati dei suoi spettatori, raccolse i frutti della vittoria: gli urli, i boati e gli applausi. Il viola della sua armatura era ora macchiato di rosso, e da qualche punto il signore dei mari di Andaryn grondava sangue. Molto sangue.
Il vino, infine, aveva iniziato a scorrere.
Il brusio di cento uomini tutti vestiti allo stesso modo - cappa marrone, corpetto di cuoio robusto, larghe brache sorrette da una cintola scura - si sollevò tutt’attorno, accompagnò il rumore degli zoccoli del cavallo di Mawar Mayer e lo strombettio che seguì alla sua uscita.
POM! POM! Il suono dell’araldo risuonò più forte, carico di possanza e teatralità. La pioggia fu sovrastata dal suono della tromba. POM! POM! Due suoni, quattro passi. Entrò al galoppo Lower Standrom, senza che neppure fosse annunciato, ricoperto da capo a piedi di acciaio. La lunga spada vibrava nel fodero alla cintola, e il grosso signore mulinava impazientemente la sua lunga asta.
«Sua signoria Lower di casa Standrom, signore di Sogno di Sabbia». POM! POM! «E sua signoria Melkor di casa Winemors, signore di Acquaverde!»
Melkor incitò violentemente il suo stallone ad entrare. Il signore di Acquaverde non aveva un elmo sul capo, ma una corona d’oro e d’acciaio con spessi rostri grigi sui lati. “Vuole portare il suo onore nella tomba” pensò Bartimore nel vederlo. I lunghi capelli biondi ed arricciati gli ricadevano sulle spalle, fondendosi con la barba e le folte sopracciglia color cenere. Attaccata alla cintola traballava una potente mazza chiodata dall’impugnatura di cuoio rigido, e uno scudo faceva capolinea sul braccio sinistro. La lunga asta era ferma sul perno stretto al collo dello stallone, parallela al terreno di battaglia.
Lo sguardo di Bart cadde su una figura accovacciata dietro la spalliera dello scranno di Dorran. Un ragazzo poco furbo era appostato dietro al castellano di Roshby con fare agitato e pressoché disorientato. Pareva non farsi sfuggire un solo, piccolo passo, e sta immobile senza distogliere lo sguardo, neppure per un mero istante, dal campo. La sua figura nella penombra era esile, slanciata,ossuta nei lineamenti. Nella mano sinistra stringeva un ventaglio rosso. “Un nascondiglio abbastanza alla vista. Ho già visto quel ragazzo”.
«Ortys» chiamò Bart. «Guarda là.»
Mentre Bart indicava il punto in cui aveva avvistato il furtivo, Ortys si guardò attorno e sgranò gli occhi. Il signore di Ardua Scogliera inghiottì a vuoto due volte. «Balestrieri» mormorò. «Sono tutti attorno a noi, mascherati come semplici spettatori. Questo non era in conto». Il volto di Ortys aveva perso tutta la sua sicurezza. L’uomo si girò verso Steffon, immobile al suo fianco, il quale accolse il suo sussurro e scattò via dagli spalti con fare confuso e completamente disorientato.
POM! POM! Un tuono, poi l’intensificarsi della pioggia, e infine il duello prese vita.
Melkor Winemors diede di speroni e corse per primo contro il rivale. Dall’altra parte, il possente Lower Standrom gli andò incontro con una furia determinata a distruggerlo. La rabbia prese il sopravvento nei lineamenti di Melkor, il quale strinse gli occhi nel caricare contro il nemico. Bartimore fu costretto a chiedersi se avesse realmente intuito le vere intenzioni del suo sfidante, tanto egli sembrava sicuro di sé nel combatterlo. Il colpo che si diedero entrambi non produsse alcun risultato.
I due rivali scattarono indietro, uno verso sud e l’altro verso nord, e ripreso a mirarsi. Tirarono le briglie e diedero di speroni un’altra volta. Tre assalti seguenti furono resi teatrali dalle urla del pubblico, che sobbalzava dalla propria postazione ogni volta che i due incrociavano le loro aste sotto al cielo grigio.
Due giri coi cavalli e poi si mirarono di nuovo: corsero, frenarono a poca distanza da entrambi e tentarono di gettarsi nel fango, ma ad abbattersi non furono loro. POM! POM!
Il cavallo di Lower Standrom si impennò sulle zampe posteriori e nitrì focosamente. L’eccitazione della bestia fu allora evidente a tutti, tanto che in molti presero anche a ridere fragorosamente, scambiando commenti inappropriati e blaterando parole inutili. Ma l’eco di un rumore assordante zittì all’istante ogni risata. POM! POM! I due cancelli ad ovest furono spalancati di forza dalle pedate di due furenti stalloni grigi, impennati sulle zampe. I loro nitriti echeggiarono sul rumore della pioggia, poi si precipitarono nella mischia, coi cavalieri che reggevano sul loro dorso le lunghe aste. Bart riconobbe i due trasgressori: si trattava di Elmor Brasengard e Wictor Wyndwat. La folla urlò e si alzò inferocita sugli spalti, sconcertata da quella grave trasgressione alle regole del gioco. Bart si scambiò una rapida occhiata con ser Mark, terrorizzato allo stesso modo. Nel loro sguardo un solo messaggio: «Che la fortuna sia con te, cavaliere, amico.»
«Che succede!?» urlavano in coro gli uomini sugli spalti. Una sola voce, una sola unica e disarmante vena di terrore che pulsava come pronta all’esplosione.
«Bartimore, cosa sta succedendo?» chiese preoccupata Esmerelle stringendogli più forte la mano.
Ma Bart non riuscì a risponderle. Fu tirato di forza da Ortys per il braccio sinistro e fu costretto a seguirlo, inconscio anche lui della destinazione. In quell’istante, tutto prese a correre velocemente, tra il fragore della pioggia e la tenebrosità della mattinata.
Ortys si lanciò giù dagli spalti, sguainando la pallida lama d’osso di tanverna in volo. Bart lo seguì, ed Esmerelle gli rimase alle calcagna. In breve, ser Mark gli fu dietro. Attesero un momento sul lato degli spalti, accanto alla palizzata, le spalle sul legno. Il cozzare dello scontro li perseguitò fino ad un certo punto, poi fu rovina.
Wictor Wyndwat caricò alle spalle di Melkor Winemors, mentre gli altri due gli restringevano il campo sul davanti. Melkor girò, diede di speroni, alzò rapidamente l’asta… ma non riuscì a parare il colpo. Elmor picchiò la sua asta sullo scudo dell’anziano signore di Acquaverde, e questo andò a schiantarsi contro il palchetto di Wolbert Dorran, che nel mentre si era nascosto sotto al suo scranno.
Sugli spalti l’agitazione si sollevò e si quietò a ritmo della pioggia. Nel campo scesero altri cavalieri che Bart non fu in grado di distinguere, molti contadini armati, persino Derek Winemors e ser Dayn. Il primo corse verso il padre, ormai a gattoni per terra. Melkor Winemors cercò di afferrare la mazza chiodata, portò la mano al bacino e poi… track! Un suono simile alla rottura di un enorme macigno: l’asta di Wictor Wyndwat si conficcò nella sua nuca e gli fuoriuscì violentemente dall’occhio sinistro. Melkor Winemors cadde per terra di faccia, l’asta ancora sporgente dal volto, la mazza stretta gelosamente nel  pugno.
La pioggia divenne furente come le urla degli spettatori: allora iniziò il vero massacro.  
«GIÙ!» urlò una voce. Bart ebbe giusto il tempo di gettarsi nel fango con Esmerelle che dagli spalti sorsero file e file di balestrieri con l’arma carica alle mani. Al posto di Wolbert Dorran, il ragazzino magro e dalle guance biancastre iniziò a coordinare i colpi col ventaglio: ora Bart ne era sicuro, si trattava di Dephyso Maraphen, il ragazzo straniero incontrato nella torre di Dorran. In quell’istante la pioggia di frecce si mischiò a quella d’acqua.
Ortys scartò di lato, prese a mulinare con forza la sua spada urlando frasi indistinte, bestemmie perse nella pioggia. Ser Mark e un altro uomo alzarono il loro scudo al cielo a guisa di barriera, come a volerli proteggere dalla morte certa. Presto alla loro barriera di scudi si unirono anche quelli di Hollard Norstone, ser Dalwar, ser Clewyn e Baldon Doradon. Bart sguainò Lungacrestra, che irradiò il campo di luce metallica. Afferrò l’arma per l’impugnatura, la maneggiò e iniziò a rotearla sul capo. Le urla si mischiarono presto al sapore dell’acqua piovana.
Bart trattenne Esmerelle per la mano per un po’ di tempo, poi le comandò con forza di stare per terra e fuggire lontano, di corsa. Alle spalle, Wictor Wyndwat, ormai sul campo anche lui senza il suo cavallo, gli si mise di fronte e prese a sghignazzare. Non si era dimenticato di lui, proprio come aveva fatto Bartimore.
«Lurido ignobile!». Mulinò la lunga spada contro di lui. «Oggi ti taglio le palle.»
“Vincili Bart!”. La voce di Dalton gli risuonò cupa e lontana. Si scaraventò contro il corpo armato di Wictor con la spalla destra. Le spade ingaggiarono a mezz’aria facendo risuonare l’acciaio. Bart mirò al suo collo scoperto, mulinò la spada, poi si abbassò e provò con un fendete. Wictor maneggiava la spada con troppa destrezza, e non fu facile tenergli testa. Gli assestò un paio di colpi, ma Bart riuscì a schivarli tutti, poi fendette l’aria con un mondante che non andò a segno. Rotolò per terra, cercò di colpirlo, ma Wictor scartò di lato e fece una finta. Bart si rialzò e il nemico lo colpì di affondo. Tirò violentemente l’acciaio dal tessuto della cotta di Bart, che impugnò la spada di sinistra e si scaraventò di nuovo contro di lui mordendosi le labbra.
La voce dei deboli!”. Le parole di Amisa aleggiarono sul campo con il cozzare delle armi. Poteva giurare di vederla, lassù, dietro le nuvole, la sua signora stagliata accanto al sole, più luminosa dello stesso astro. Avrebbe combattuto per lei.
Wictor gli assestò un pugno sul cranio e diede una pedata a Lungacresta che rotolò sotto ai suoi piedi. Bart cadde confuso per terra e tutto prese a volteggiare intorno a lui. Esmerelle stava correndo via, inseguita da due balestrieri che tentavano di colpirla, le mani a reggere i lembi del lungo vestitino rosa. Dall’altra parte del campo vide Ortys che provava a sovrastare l’agilità di Lemmon Cappa Rossa, insudiciato di sangue non soltanto nel mantello. La potenza di Ortys Wysler non aveva eguali, pareva, ed egli stava dando molto filo da torcere al suo avversario. Patres Steffon era per terra, la maglia già imbevuta di rosso sul collo, il cuoio lacero sul ventre, forse in fin di vita. Sulla destra c’era ser Dayn, intento a sfidare focosamente Elmor Brasengard, l’esile signore di Brasengard. Dietro al suo cavaliere, Hollard Norstone si stava confrontando con il colosso Lower Standrom, il quale urlava frasi insensate ed inneggiava all’odio e al sangue. In fondo, molto più in fondo, proprio sul palco innalzato per i nobili, ser Clewyn e ser Mold stavano tentando di infilzare Wolbert Dorran, il quale si difendeva scagliando su di loro i cuscini dei suoi scranni e le sedie stesse che occupavano lo spazio. Ma, a fargli da barriera più forte, c’erano gli abili balestrieri guidati dal giovanissimo Maraphen, i quali avevano già scoccato un paio di dardi sui due cavalieri, con colpi che erano andati quasi tutti a segno.
La spada di Wictor Wyndwat tagliò la terra accanto a lui. Bart fece per rialzarsi, ma Wictor gli assestò un profondo calcio ai polpacci che lo fece ricadere per terra. Bart sputò un grumo di sangue e saliva.
«Mangerai di nuovo la terra, oggi, idiota di un cavaliere. Dov’è finito il tuo patres, eh? Sei spacciato senza di lui! Dove sta quel piccolo bastardo?». Alzò la spada al cielo e fece per abbassarla su di lui. Bart portò le mani avanti; Lungacresta era troppo distante da lui. Una freccia colpì alla spalla Wictor, che si girò furente. Bart allora scartò di lato, si gettò verso i suoi piedi e afferrò con forza Lungacrestra. Sentì la fiamma insorgere dentro al suo petto, vide la pioggia colorarsi di rosso e i boati della tempesta farsi immediatamente spazio tra i combattimenti. Il buio avvolse la sua lama, il furore accecò la sua vista, la rabbia danneggiò gravemente ogni suo lineamento facciale. Urlò. Colpì al petto Wictor: la spada rimbalzò con furia sulla sua armatura. Assestò un paio di colpi al suo cosciale prima di riuscire a farlo ricadere sulle ginocchia. Allora Bart alzò allo stesso modo la lama al cielo. Lungacrestra scintillò, si bagnò, ma quando fece per calarla sulla faccia del nemico, due possenti braccia lo presero dalle spalle e lo sollevarono da terra con un forza immane. Bartimore riuscì a voltarsi, benché sigillato da una potenza barbara che non gli permetteva di respirare correttamente.
Lower Standrom gli si puntò di fronte, lo scaraventò con forza bruta contro la palizzata. Bart sentì una fitta alle costole e avvertì il dolore di una frattura all’osso del piede. L’intero colonnato di legno iniziò a tremare quando il corpo senza forza di Bartimore vi fu gettato di peso. Sputò un altro grumo di sangue e denti spezzati ai suoi piedi. Tentò di rialzarsi, ma i dolori lancinanti lo fecero ricadere per terra.
Intravide allora ser Mark, due o tre frecce sporgenti dalle spalla destra, il braccio ferito pendente su un lato come un sacco di iuta appeso ad un gancio finissimo. Il cavaliere stava duellando ferocemente contro Mawar Mayer brandendo la spada con la sola sinistra. Il suo rivale non era affatto sporco del colore del terrore, e la sua armatura viola come i lividi tumefatti sul corpo di ser Mark lo rendeva addirittura fin troppo ilare. Ser Dayn e la sua piccola combriccola erano disposti a cerchio, spalla a spalla, e si stavano occupando di fronteggiare un paio di balestrieri scesi nel campo. Poco lontano da quello scontro, ser Konrad agitava con rapidità la sua alabarda, mietendo vittime con la stessa velocità di ogni assassino con in mano una balestra. Ortys era infangato e pieno di sangue sul volto, intento ora a combattere Emerard Carwock. Possente Sovrano riluceva di bagliori propri tagliando l’aria accompagnata dalla furia del signore che la brandiva. Ortys stava sfogando ogni suo risentimento ed ogni sua frustrazione contro Emerard Carwock, mulinando la sua spada e aizzandogliela contro come fosse parte del suo muscoloso braccio.
Bart cercò di rialzarsi un’altra volta, e ci riuscì. Corse verso il centro del campo, gli occhi che saettavano alle ricerca di Esmerelle. Un suono acuto trapassò l’aria e una freccia lo colpì precisamente sul polpaccio. Bart trasalì, un gemito gli sfuggì dalle labbra. Il dolore lancinante si intensificò quasi subito dopo il colpo: il giovane cavaliere strascicò la gamba per terra, gemette un po’ e continuò a farsi strada nel campo a denti stretti. La pioggia stava tentando di lavar via il sangue dal terreno, ma invano. Ad ogni goccia d’acqua corrispondevano fiotti di sangue umano che tristemente venivano spruzzati verso ogni direzione. Un tappeto rosso si estendeva lungo tutte le direzioni della lizza, in sostituzione ai combattenti che avevano solcato quello stesso campo, contornando cadaveri e acciaio, legno distrutto, scudi martoriati dalle lame, cavalli che scalpitavano nel fango, colpiti anch’essi dalle frecce.
Raggiunse in corsa Ortys, ormai tristemente bloccato all’interno di un cerchio di cavalieri. Il signore di Ardua Scogliera era solo contro una schiera di uomini in acciaio rilucente, ma non aveva ancora perso le sue speranze. Il suo volto incuteva timore ora, tanto la sua rabbia e, forse, la sua angoscia erano palpabili. Ortys era completamente rosso sul volto, i capillari del naso scoppiati e gli occhi più scuri del carbone.
«ORYTS!» gli urlò «ORTYS!». Per quanto forti fossero le sue grida, Ortys Wysler non poteva sentirlo.
Bart fu raggiunto di nuovo da Lower Standrom, che s’interpose tra lui e il campo come una montagna grigia sull’orizzonte. Il vecchio gigante alzò e abbassò la lama, gli diede un calcio. Bart reagì, schivò un suo fendente, provò con un montante e lo colpì al ginocchio. Lower fece per cadere, ma si rialzò con un pugno nella usa traiettoria, che lo colpì sul mento. Bart si fece sangue sul labbro per la forza con cui lo morse e dovette chiudere gli occhi per il dolore atroce del colpo. Quando li riaprì si ritrovò con le mani strette attorno a quella callosa di Lower Standrom, le braccia piegate come a spezzarsi. Tentò di scalciare, di prendere fiato, di guardarsi attorno. Il gigante anziano lo sollevò da terra di un paio di centimetri e lo mandò a schiantarsi al suolo ancora una volta, ma con più collera delle precedenti. I lineamenti induriti dal furore del gigante grigio sembrano essere stati paralizzati da un’irrefrenabile voglia di massacrare ed uccidere.
Bart brancicò sul terreno, gli arti che gli dolevano come mai in vita sua, il suo stesso petto che gli impediva di respirare e, lentamente, gli pulsava di un dolore lancinante. Ripensò alle valorose gesta di Dalton, a come doveva essersi sentito al suo capezzale, e poi ripensò alla destrezza politica di Amisa, alla sua sagacia e alla sua abilità strategica: non li avrebbe più rivisti o chiamati. Ripensò ad Esmerelle, al suo amore, forse platonico, che aveva provato per lei nell’arco di un’avventura dal cattivo esito. E ripensò a tutto il bene nel mondo, come se, pensando, lo potesse portare con la mente nel campo, in mezzo alla furia del combattimento, e sedarlo anche solo per un istante, per permettergli di riprende coscienza e salutare così ogni suo caro. O affinché potesse utilizzarlo come barriera contro il colosso che gli stava trascinando via gli ultimi respiri, per sfuggire alla sua presa e correre in aiuto di Ortys e degli altri suoi compagni. Perché mai avrebbe desiderato perdere la vita in un luogo tanto malvagio e circondato da assassini piuttosto che amici.
Gattonò prono come un cane sul terreno, annaspando affannato e completamente sfiancato. Le frecce schioccavano nell’aria, il suono della pioggia trasportava i lamenti di morte dei caduti e lavava la terra del loro sangue. Presto, di disse, sarebbe tutto finito così come era iniziato. Presto si sarebbe unito a loro.
Lower Standrom gli fu nuovamente davanti. Bartimore ebbe il tempo di aggrapparsi alla palizzata, mettersi completamente supino e tirarsi su di forza. Nel momento in cui si rialzò, come spontaneamente, roteò Lungacrestra contro il gigante, fece per infrangerla sul suo volto. L’anziano signore parò alcuni colpi, ne raccolse altri con una destrezza ed una velocità esorbitanti. Bart sfogò la sua ira sul corpo del nemico, mulinando la spada e assestando fendenti sbiechi a causa dei dolori lancinanti. Lo sentiva respirare con affanno sotto l’elmo; forse lo stava gradualmente sfiancando.  “Muori, brutta bestia. Voglio vederti coi miei occhi mentre ti accasci al suolo. Voglio vederti morire ai miei piedi. Voglio il tuo sangue sulla mia lama, per ripagare un debito aperto a Città del Grano.
Lungacresta riuscì a fendere una placca della spalliera e si fece strada dentro la fessura aperta. Bart si lasciò sfuggire un sorriso di soddisfazione, ma gli ci volle davvero molta forza di volontà per farlo. Lo colpì.
«Argh!» urlò Lower tentando di deviare i successivi colpi. Gli assestò un pugno andato a vuoto e corse via verso l’altra estremità del campo, barcollando un po’ a sinistra e un po’ a destra. Bart gli corse dietro, gettò a terra lo scranno di Wolbert Dorran e lo mandò a rotolare nel fango, a metà strada tra loro due. Lower raggirò la lizza e notò, suo malgrado, che non c’era modo di attraversare l’altra metà del campo perché gremita di combattenti furenti, amici o nemici che fossero. Si voltò di scatto verso Bartimore, ma inciampò improvvisamente nella sedia del castellano e la sua spada gli sfuggì drasticamente dalle mani. Di colpo il suo volto si rabbuiò.
Fu allora che Bart intravide uno spiraglio di luce, invece, in tutte quelle tenebre. Non sapeva neppure dove avesse trovato quella forza, malridotto così com’era, eppure si precipitò contro l’atterrito signore di Sogno di Sabbia. Lower sguainò improvvisamente il suo pugnale e lo tenne per la sinistra. Il momento di tensione fu troncato da una freccia che passò proprio accanto all’orecchio di Lower Standrom, il quale fu colpito alle spalle da ser Mark, cadde un’altra volta per terra, annaspò un momento, e perse anche la presa del pugnale. Quando i due uomini iniziarono a combattersi, ser Mark gli fece cenno con la testa di fuggire. Bartimore fece come suggeritogli, ma non perse di vista il combattimento, in cui ser Mark non mancò di eseguire una lunga serie di montanti e fendenti diretti verso il nemico. “Esmerelle… devo trovarla subito.
Dalla stalla vennero fuori tre file di cavalli ruggenti, ognuno più furente dell’altro. Le bestie presero a correre sul campo, colpite dalle frecce, bagnate dalla pioggia e dal sangue. Intravide Wictor, fece per corrergli dietro, ma un’improvvisa visione lo bloccò. Ortys Wysler giaceva in ginocchio attorniato da cinque cavalieri alti e dalle spalle larghe. Al centro c’era Emerard Carwock, le mani ai fianchi in modo burbero.  Il signore di Ardua Scogliera aveva gli occhi lucidi rivolti al cielo, neri come la pece, la barba scura inzuppata d’acqua. Il suo sangue era raggrumato sotto agli occhi e sul collo, tale che aveva reso la sua pelle simile al manto di un cavallo maculato, la gola attraversata da una freccia. Rivolse uno sguardo carico d’emozioni a Bart, come per urlargli di raggiungerlo, che si precipitò verso la mischia. «ORTYS!»
Tra i cavalieri, tre erano dei balestrieri. POM! POM! Le frecce furono scoccate con la rapidità di un saluto. Ortys rimase immobile con i dardi conficcati sul petto per un paio di secondi, esattamente nel punto in cui l’armatura era stata distrutta, finché uno lo colpì tra gli occhi. Due rigagnoli di sangue gli uscirono dalle labbra e, a poco a poco, il flusso prese ad intensificarsi. Sembrò che Ortys Wysler stesse risputando fuori tutto il vino che aveva bevuto in vita sua; un vino che le sue labbra non avrebbero mai più saggiato. Infine, il suo corpo ricadde in avanti, la faccia sul terreno madido del suo stesso sangue, la pioggia già pronta lavare il suo cadavere del tipico puzzo dei morti e dell’acre olezzo dell’indegnità.
Bart urlò contro i nemici, cercò di farsi spaziò tra la folla. Si sentì impaurito per la prima volta, annebbiato come mai: era circondato da morti e moribondi, uomini che avevano perso ogni speranza. Vide ser Konrad intento a mulinare affaticato la sua lama contro un cavaliere a lui sconosciuto, Steffon con la maglia sgualcita ridotta ad un ammasso di stracci, che tentava di fermare i copiosi flussi di sangue pressandovi sopra della stoffa grigia. Accanto al palchetto dei nobili, Lower Standrom si raggirava a gattoni sul fango, come stesse cercando qualcosa di invisibile agli occhi, mentre ser Mark era stato completamente assalito e soffocato da un drappello vestito d’acciaio nero. Per terra, poco lontano, il cadavere supino ed  insanguinato di ser Mold era uno dei più grossi e panciuti, e pareva essere caduto proprio accanto alla testa mozzata di ser Clewyn, gli occhi aperti verso un nuovo mondo, come fari spenti infine dall’ultimo soffio di vento. Hollard Norstone stava infilzando un uomo con la sua lunga spada, probabilmente un balestriere, ma non c’erano tracce di ser Dayn. “Il fango lo avrò inghiottito.”
«Bartimore!». La voce singhiozzante di Esmerelle richiamò rapidamente la sua attenzione. Bart si girò. Alle sue spalle, Wictor reggeva la ragazzina per le braccia e la teneva nella sua presa mentre lei si dimenava come una gazzella precipitata nella fiera morsa di un leone. Bartimore fu preso dallo sconforto. Puntò Lungacresta verso il nemico, la mano tremante accompagnata dal gelo della pioggia.
«Lasciala, Wictor.»
Il giovane principe di Canto della Bufera ghignò e spinse in avanti il corpo di Esmerelle con un colpo secco del busto. «Uh, eccolo qui il nostro pulcino umido! Lascia per terra la tua spada, pezzente. E metti in alto le mani.»
Bart fece come gli era stato ordinato e adagiò lentamente ai suoi piedi Lungacresta. «Posa anche la tua, Wictor. Lei non ha colpe, lasciala. Non ti conosce neppure. Lasciala e chiudiamo tra noi la faccenda.»
Wictor non si fece scrupoli nel compiere il primo gesto. Sguainò lo spadone e lo gettò nel fango senza pensarci due volte. «Questa cagna mi ha dato dei problemi, ma alla fine l’ho presa. Corre come corrono le scrofe… ma lei è più bella, lo ammetto». Il malfattore le passò la mano sul collo improvvisando una violenta carezza. Fece scivolare la mano fin oltre il petto, penetrò l’arto nel suo vestito rosa e fece per strapparlo.
Esmerelle stava piangendo sommessamente, gli occhi puntati verso i propri piedi, così impacciata e imbarazzata da non riuscire a sollevare lo sguardo. Bart capì che la ragazzina si stava sentendo davvero impotente per la prima volta.
«Ho detto lasciala!» urlò raccogliendo tutte le sue ultime forze. Si piegò sul fianco destro e si scagliò di peso sul corpo di Wictor Wyndwat con la spalla. Lo scontro tra le due armature produsse un fragore metallico fastidiosissimo, tanto che la placca pettorale di Wictor si crepò sul punto in cui fu colpita. Il principe di Canto della Bufera barcollò all’indietro e perse l’equilibrio, ma anche Bartimore ricevette lo stesso trattamento e fu respinto dalla potenza del rinculo. Esmerelle si liberò di colpo della presa del suo aggressore, si gettò sul fango e improvvisamente si rialzò: tra le mani, ora, riluceva il tagliente splendore dell’arma di Bartimore, Lungacresta, che la fanciulla bionda pareva brandire meglio del suo effettivo possessore. Gli occhi azzurri della ragazzina si macchiarono di una fiamma oscura che Bartimore non aveva mai visto in nessuno sguardo: c’era il sapore acre della vendetta in quell’occhiata, e quello malsano dell’odio mai assopitosi. Wictor, che nel mentre si era rialzato, fu aggredito violentemente dalla ragazzina.
«Sta’ ferma con quella cosa, cagna maledetta!»
«Troppo tardi» fiatò Esmerelle saltando sulla sua postazione. La punta acuminata di Lungacresta attraversò di lato il naso di Wictor Wyndwat e andò dritta verso l’occhio del molestatore. Esmerelle tirò a sé la lama, Bartimore afferrò il lungo spadone di Wictor, e quest’ultimo iniziò ad imprecare e bestemmiare focosamente, le mani, ormai lorde del suo stesso sangue, poggiate sull’incavo dell’occhio sinistro. Esmerelle lo aveva accecato recidendogli completamente il bulbo oculare. Perduto nella sua stessa ira, Wictor afferrò uno stiletto dal fianco, diede un pugno sul petto di Bartimore e gli conficcò l’arma sulla giuntura del braccio. Il giovane cavaliere urlò per il dolore mentre un brivido gli attraversava per intero l’arto; la spada di Wictor ricadde sul terreno a peso morto.
«Me la pagherai!»
Ma, questa volta, era troppo tardi per lui. In poco meno di un battito d’ali, il principe di Canto della Bufera macchiò del suo sangue la seta rosa di Esmerelle sollevandola di peso con entrambe le mani. La strattonò talmente tante volte da lacerarle per intero ogni tratto del suo splendido vestitino. Poi Wictor la piegò in avanti schiacciandole la schiena contro il suo ginocchio. La risata macabra di Wictor Wyndwat accompagnò gli ultimi momenti di giustizia di quel disastroso evento.
POM! POM! Due frecce provenienti dagli spalti saettarono nell’aria, si aprirono la strada nella pioggia e colpirono Esmerelle al petto. La ragazzina gemette e cadde per terra sulle ginocchia con un tonfo spaventoso. Fu allora che Bart perse davvero la vista di ogni cosa, annebbiato completamente da una vulcanica esplosione di ferocia. Afferrò Lungacresta, immobile in mezzo al fango, con una sola mano e si abbatté contro Wictor con una potenza innaturale, spinto da un’impulsività sconosciuta, dimenticatosi di ogni ferita e di ogni dolore.
Non c’era altro ora, il torneo non esisteva più, la sua vita non esisteva più, e lui non vedeva che con gli occhi del furore e della rabbia. Erano rimasti in due, ora: lui e quell’essere ignobile, spregevole, disgustoso. Quella bestia insanguinata in tutta la parte sinistra del volto, completamente imbrattato di sangue sulle mani. Il sangue suo e di Esmerelle.
«No!». Patres Steffon e ser Mark, come spuntati dal nulla, s’interposero tra i due, alzarono le proprie lame a croce e pararono i colpi che Wictor tentò di assestare a Bart, mentre questi veniva spinto per terra. Steffon sfidò a colpi di fendenti e finte Wictor, lo combatté e lo allontanò da quel punto. Ser Mark corse dall’altra parte del campo per andare in aiuto ad un morente Hollard Norstone.
Bart gattonò fino al corpo di Esmerelle, coricata su un lato in mezzo al fango. Dalle ferite sul petto sgorgava sangue a flussi copiosi, le creste delle frecce sporgenti verso il cielo. Bart la prese delicatamente per le spalle, l’avvicinò a sé fino a sentire il calore del suo corpo. Adesso il cielo non era il solo a lacrimare.
«Bartimore…»
Bart posò la sua testa su di lei, le impose il silenzio con un dito sulla bocca. In breve i due furono occhi negli occhi, mano nella mano.
«…portami con te… Bart… per sempre». Il sangue sgorgò fuori dalla sua bocca a spruzzi, come se stesse tossendo. «Per sempre. Portami con te… ti prego
Esmerelle cessò di respirare lentamente. I suoi occhi persero la loro vitalità poco a poco, e l’azzurro del mare si schiarì lasciando spazio alle tenebre grigie, finché la pioggia non prese vita nel corpo della ragazza dai capelli d’oro. Bart l’abbracciò con una forza maggiore, non quanto bastava, però, perché lei potesse ricambiare quel gesto. La furia della battaglia, per un momento, cessò nell’amore del cavaliere e della fanciulla bionda.
Ci volle meno di un minuto perché gli occhi di Esmerelle si spegnessero definitivamente della loro vitalità, perché il suo fiato si facesse corto e perché lei smettesse anche solo di far scorrere lentamente la mano sul fango. Il giovane ser, completamente sfiancato, alzò lo sguardo ormai sbiadito verso il cielo e si fece bagnare totalmente dalle sue tristi lacrime gelide. Il disarmante urlo di ser Bart riecheggiò per tutto il campo, facendosi spazio tra i corpi dei moribondi e il loro algido portamento, mentre le sue mani ghermivano ancora il corpo molle di Esmerelle con la vana speranza che potesse riprendere vita e rialzarsi.
«Ser Bartimore». Il tono affannato, senza vita, di Steffon lo costrinse a girarsi. Gli occhi iniettati di sangue del patres si soffermarono sui suoi. «È finita». Il tono dell’esperto non ammetteva contraddizioni: era incolore, vuoto, terribilmente spaventoso. Il patres alzò al cielo il pomolo della sua lama, gli girò violentemente la nuca verso di sé e lo colpì con determinazione.
Un colpo aspro che lo mandò a scontrarsi col fango.
Il cozzare delle armi si dileguò, amici e nemici scomparvero come ombre di spettri bianchi in un’accecante esplosione di fumo. La pioggia di fuoco continuò a battere incessantemente sul campo, attorno ai suoi lineamenti. Il furore del conflitto si smarrì nel terreno, sotto al suo mento, fu assorbito dal dolore di tutte le vittime di quel massacro e fu incanalato dal fango. Nonostante ciò, le lacrime del cielo rimasero vigorose, insaziabili, dannatamente ingorde del sangue di tutte quelle povere anime.
 
Fine.
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Note d'autore
Ebbene sì, questo che avete appena letto è proprio l'epilogo de "Il cavaliere e la fanciulla bionda", una raccolta di novelle che, senza quasi volerlo, si è trasformata in un'opera un pizzico più grande. Vorrò spendere due paroline sul conto di questa storia, ma lo farò dopo, prima rimaniamo sul capitolo. 
Purtroppo, il piano di patres Steffon - che già molti avevano notato fare acqua da tutte le parti - non ha prodotto alcun risultato, anzi! Pare che qualcuno sia stato informato della questione del "fattore che brucia il campo" e, a prova di ciò, sembra che siano stati aggiunte al conflitto le schiere di balestrieri, un pezzo dell'intrigo che nessuno aveva origliato prima. 
Tra gli scontri dei capitani esteri, il complotto ordito ai danni di Melkor Winemors, arriviamo al fatidico momento... una triste, tristissima sorte. Io non voglio spendere molte parole sul capitolo in questione, ma lasciare a voi il modo di esprimervi a dovere. Mi spiace, ad ogni modo, se ho ferito anche in parte i vostri sentimenti... alcune morti si riveleranno necessarie più avanti. E così ci lasciano molti personaggi, tra cui Ortys Wysler e la stessa Esmerelle. Come avete preso il tutto?
Vorrei, invece, passare a qualcosa che mi sta più a cuore: voi tutti lettori! Come spesso dico io, apporre la parola "fine" ad un'opera non è mai facile. E' come affidare completamente un figlio - perché di una propria creazione si parla - in mani estranee a quelle proprie. E, se nel crescere un figlio si utilizza ogni parte del proprio cuore, anche nello scrivere una storia - di qualsiasi portata essa sia - vige questa regola. In ciò che ho scritto, in ogni singola parola da me composta, ho inserito un frammento del mio cuore, una parte della mia anima, e l'ho donata a voi; voi che, dalla parte vostra, l'avete accettata e l'avete apprezzata in ogni sua sfumatura o forma. Perciò, i dovuti ringraziamenti vanno a tutti coloro che mi hanno seguito con una costanza mitologica in ogni mio piccolo passo, in ogni errore, in ogni strafalcione. Un particolare grazie va a chi ha inserito la storia tra i preferiti, a chi nelle seguite, a chi nelle ricordate, perché mai mi sarei aspettato un "successo" simile. E un particolarissimo grazie va a tutti coloro che mi hanno sostenuto dal primissimo atto, ognuno di essi prezioso come pochi: Ayr, Old Fashioned, Spettro94, The3rdLaw, Stregattina, Easter_huit, evelyn80, Davos, alessandroago_94, Serares, Fan of The Doors, morgengabe, la luna nera, innominetuo, BekySmile97. Spero di non aver dimenticato nessuno in questa lista, in ogni caso ritieniti parte dell'elenco anche tu che stai ora leggendo. In ognuno di loro ho trovato delle differenze molto nette, ma accomunate tutte dalla stessa peculiarità: la voglia di mettersi in gioco, di viaggiare con la fantasia, di lasciarsi trasportare dai sentimenti, dalle emozioni e... di afferrare quel pezzo di cuore posto nella storia! A nome mio e di tutti i miei personaggi, io vi ringrazio di vero cuore, amici, per ogni cosa!
Concludo dicendo che nel giro di qualche settimana - dovrei partire a giorni - sarete informati della pubblicazione de "Spada rossa, cuore bianco", così come vi verrà riferito tramite mp il giorno della pubblicazione de "La spada e le due fiamme", perché sì, miei cari, le avventure di ser Bartimore a Pantagos non sono ancora terminate. Anzi, per tamponare un po' il probabile dolore e lo sconforto causato delle scomparse in questo capitolo, vi preannuncio una cosa: nel prossimo libro, i protagonisti saranno cinque fuggiaschi - tutti personaggi che conosciamo già. Chi potrebbero essere o chi vorreste che siano? 
Con una nota talmente tanto prolissa, io vi saluto... per adesso continueremo a sentirci nelle risposte alle vostre recensioni e nei mp, con una possibilità di parlare più ampiamente della trama! Ancora infinite grazie ad ognuno di voi!
P.S. Quasi dimenticavo; mi piacerebbe sapere cosa ne pensate, adesso, dei personaggi principali della storia, del modo in cui si sono evoluti (se lo hanno fatto) e del rapporto che hanno avuto con la trama. E, per finire, a cosa pensate sia servito il gesto finale di patres Steffon?
Makil_
 
 
 
   
 
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