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Autore: Ashura_exarch    26/06/2017    0 recensioni
Dal testo:
"Erano bei tempi, quelli: l'umanità era ancora fiorente, la natura florida e l'uomo pieno di aspettative come non mai. Il progresso scientifico era giunto al suo culmine e la razza umana si stava preparando ad affrontare sfide senza precedenti. Sembrava che gli uomini avessero un futuro roseo e pieno di speranza davanti a loro.
Poi però le api avevano cominciato a morire."
Senza le api non solo l'uomo, ma anche tutte le altre specie animali e vegetali sarebbero spacciate. Questa è la storia di una catastrofe che sopravviene lenta e inesorabile sull'intero pianeta, e di un'azienda che tenta comunque di lucrarci sopra.
Genere: Drammatico, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Appena l'uomo ebbe finito di spaccare la bomboletta si fermò per un attimo, giusto per rendersi conto se l'aveva fatto davvero oppure no. Appurata la realtà ascoltò beato per alcuni secondi il sibilo dell'ossigeno puro che usciva da dentro l'affare di ferro. Poi, lasciando cadere a terra il cacciavite con un sonoro tonfo metallico, afferrò il piccolo contenitore fallato e se lo portò al naso.
Quella era l'ultima scorta di ossigeno che gli era rimasta, e più il tempo passava e più la sua vita diventava infernale. Il giorno prima si era aspirato un'intera bombola da cinquanta dollari e poi, per poter dormire la notte successiva, aveva aperto tutte le altre per lasciare che la sua camera da letto si ossigenasse. Ormai era a secco.
In cuor suo aveva vivamente sperato di morire durante il sonno. Avrebbe tanto voluto smettere di respirare mentre non era cosciente, lasciare che la sua esperienza terrena terminasse in quel modo. Ma, ahimè, così non era mai stato. Quella mattina si era risvegliato ancora più depresso di prima, e si era immediatamente attaccato alle ultime bombolette rimastegli, oltre che alla bottiglia.
Aveva sei respiratori, ma nel giro di tre ore se l'era fatti fuori tutti; quello che aveva appena spaccato era l'ultimo della sua scorta. L'aveva rotto perché era stufo di avere sempre quella ventosa a comprimergli il naso, e per una volta voleva tornare a respirare liberamente, come quando le piante erano ancora vive.
Erano bei tempi, quelli: l'umanità era ancora fiorente, la natura florida e l'uomo pieno di aspettative come non mai. Il progresso scientifico era giunto al suo culmine e la razza umana si stava preparando ad affrontare sfide senza precedenti. Sembrava che gli uomini avessero un futuro roseo e pieno di speranza davanti a loro.
Poi però le api avevano cominciato a morire. In realtà era già da tanto tempo che il loro numero si era pericolosamente assottigliato, ma il problema era divenuto impellente solamente quando avevano cominciato a scomparire centinaia di migliaia di esemplari al giorno. La colpa era dell'inquinamento: i delicati insetti non erano resistenti alle sostanze tossiche sparse così celermente in giro dall'uomo, e glielo stavano facendo gentilmente notare estinguendosi.
Dei tentativi per salvarle erano stati fatti, ma purtroppo erano risultati tutti ampiamente insufficienti. Del resto, a parte quattro poveri mentecatti invasati, a chi importava mai della morte di un po' di insetti? L'agricoltura doveva essere salvaguardata, così come anche la produttività e le esigenze di una sempre maggiore popolazione mondiale. Alla fine, dopo qualche anno di lenta agonia collettiva, l'ultima ape era stata dichiarata morta e la specie era divenuta legalmente estinta. Erano state versate un paio di lacrime e poi via!, di nuovo a fare baldoria.
Era stato solo dopo alcuni mesi che la gente si era resa conto della vera gravità della cosa, ovvero quando era cominciata la grande moria delle piante. Senza api infatti nessuno trasportava più il polline, e molti vegetali erano così impossibilitati a riprodursi. I fiori avevano smesso quasi completamente di sbocciare, l'erba di crescere e gli alberi di produrre frutti.
Tutti questi segnali erano stati già di per sé preoccupanti, ma c'era stato ancora chi si ostinava a far finta di niente. Sempre più spazi venivano infatti sacrificati all'urbanizzazione, sempre più legna tagliata per gli scopi più disparati, sempre più fiumi e laghi prosciugati per alimentare le colture. Del resto allora erano in molti a pensare che finché il problema non li avesse riguardati personalmente esso non sarebbe quindi stato per nessun motivo affar loro, lasciandoli così liberi di continuare con la loro vita di tutti i giorni.
Già però al primo anno dopo la morte delle api appariva evidente quanto la loro dipartita fosse stata catastrofica: dopo un inverno gelido a primavera niente ricresceva, e l'erba una volta morta si seccava e non lasciava spazio a nuovi fili. Ben presto intere pianure si videro trasformate in deserti rocciosi e desolati, e tutto questo nel giro di pochissimo tempo.
A quel punto anche gli alberi avevano cominciato a dare segni di cedimento. Tagliati, potati, spostati, bruciati, maltrattati e danneggiati in qualsiasi modo possibile e immaginabile, alla fine molti di loro semplicemente non ce l'avevano più fatta. Alcuni si erano seccati e basta, smettendo per qualche motivo di svolgere la fotosintesi; altri alberi erano morti in maniera più plateale, spezzandosi a metà oppure sradicandosi spontaneamente. E poi nessuno ci poté fare niente coi loro resti: quanto mai poteva valere un albero caduto da sé?
Con la morte di così tante piante altre specie avevano incontrato la loro fine. I primi a scomparire erano stati i funghi, ritrovatisi senza più nessuna radice a cui attaccarsi. Poco dopo erano seguite le edere, senza più nessuna pianta da parassitare, e numerosi tipi di animali (uccelli in testa), trovatisi all'improvviso privati del loro ambiente naturale e rifugio prediletto.
Presto anche molti ortaggi e piante domestiche avevano cominciato a fare la stessa fine degli alberi. Le verdure avevano smesso completamente di crescere, e i loro fusti quindi avevano preso a marcire; i cereali si sbriciolavano al solo tocco delle mani; le viti si staccavano dai tralicci, secche; e i tuberi si putrefacevano, venendo quindi infestati dai vermi.
Non ci voluto molto perché si venisse a creare la più grande crisi generale che l'uomo avesse mai affrontato. Senza le piante molti erbivori erano stati condannati a morire, lasciando così senza carne miliardi di persone, già private di frutta e verdura. Erano stati in tanti a quel punto, soprattutto i più poveri e i più fragili, a morire di fame.
E non era stato solo il cibo a mancare. Senza più le piante l'ossigeno aveva smesso quasi completamente di essere prodotto, e le altre fonti naturali non erano bastate certo a rifornire tutto l'ecosistema. I primi a risentirne erano stati i vecchi, i malati e i bambini, oltre che tanti piccoli animali; in sostanza, molti organismi avevano cominciato a morire per asfissia.
Alla fine, com'era prevedibile, si era scatenata la psicosi di massa. "Moriremo tutti? E quando sarà? E sarà per fame o per mancanza d'aria? E il cibo quando finirà? E l'aria quando finirà? Come faremo?": queste e molte altre domande terrorizzavano i giorni e le notti degli uomini superstiti. Ogni speranza di sopravvivenza sembrava una chimera irraggiungibile, e molti a quel punto si erano abbandonati alla disperazione dando l'umanità ormai per spacciata.
Era stato a quel punto che l'azienda era entrata in scena. La Ox & Co. era stata fondata poco dopo la morte delle api da alcuni lungimiranti, tra i quasi suo padre, ed aveva finanziato alcuni progetti di ricerca atti a tentare di produrre l'ossigeno in maniera massiccia - e soprattutto artificiale - per farne un vero e proprio business. Alla fine alcuni scienziati ce l'avevano fatta e grandi quantità di gas avevano cominciato ad essere messe in circolazione. Ovviamente a pagamento.
Era stato proprio lui, quand'ancora era giovane e focoso, ad inventare il motto che aveva fatto diventare così popolare la Ox & Co.: "Volete speranza? Eccola qui, a soli cinque dollari la bomboletta!". Col senno di poi questa sarebbe stata solamente una pessima battuta, di cattivo gusto per di più, ma del resto del senno di poi in quel momento erano piene le fosse. Se si escludevano i cadaveri.
Comunque fosse stata la battuta, i prodotti della Ox & Co. erano andati immediatamente a ruba. Le più richieste erano state le bombolette formato mini, in vendita a soli cinque dollari (come del resto diceva il motto dell'azienda), ma anche le versioni da dodici, venticinque, cinquanta e cento dollari avevano venduto bene. Come era stato facile notare da parte dei venditori, la gente era disposta a spendere qualsiasi cifra pur di sopravvivere, e i dirigenti della Ox & Co. non erano certo stati disposti a farsi sfuggire questa lucrosa occasione. I soldi avevano così cominciato ad accumularsi nei depositi dell'azienda, prima milioni su milioni e poi miliardi su miliardi, rendendo così la Ox & Co. la società più ricca in assoluto sulla faccia della Terra.
Sorprendentemente però non era solo per speculare che la Ox & Co. faceva affari. Era stata una decisione presa di comune accordo tra tutti i fondatori, e nessuno di coloro che li aveva succeduti aveva pensato a quell'idea come qualcosa di assurdo, anzi. L'intero progetto era stato pensato dal lungimirante saggio che aveva avuto l'idea della creazione della Ox & Co., rinomato per la sua arguzia, e tutti loro non avevano potuto far altro che essergli eternamente grati.
Per cominciare la costruzione era stato scelto come sito quella che fino a poco tempo prima era stata una splendida pianura; i drastici cambiamenti climatici l'avevano resa tuttavia irriconoscibile, trasformandola in un arido deserto roccioso. Gli abitanti del luogo se n'erano andati da tempo, e nessuno ci viveva più nemmeno nelle vicinanze; era quindi il posto ideale per rendere realtà il progetto segreto della Ox & Co.
E così, mentre l'intero mondo moriva lentamente, gli operai al soldo dell'azienda avevano cominciato a lavorare. Ci erano voluti alcuni anni perché tutto fosse ultimato, ma il risultato finale valse di certo quella lunga attesa. E mentre i lavori erano ancora in corso i dipendenti della Ox & Co. continuavano col loro mestiere, vendendo bombolette d'ossigeno a tutti coloro i quali ne fecero richiesta, accumulando così sempre più soldi nei forzieri aziendali. Nessuno era parso essere a conoscenza delle manovre dell'azienda, e in questo modo tutti i suoi affiliati se ne erano potuti stare un po' più tranquilli. In questo modo, attendendo che i lavori nel deserto fossero ultimati, i vertici dell'azienda se n'erano rimasti silenti ad osservare ciò che accadeva nel resto del globo.
La catastrofe ci aveva messo abbastanza tempo ad arrivare: erano infatti passati già una decina d'anni dal debutto della Ox & Co. e ancora nulla di apocalittico era successo. Nonostante tutte le ristrettezze dettate dal nuovo mondo, sembrava che la situazione si stesse finalmente stabilizzando. Erano in tanti ad essere morti e ormai la gente riusciva a tirare avanti solamente a forza di bombolette d'ossigeno e cibo in scatola, ma a quel punto quasi tutti i superstiti si erano abituati a questo stile di vita. Pareva che la razza umana, dopotutto, avesse ancora qualche possibilità per ripartire e sperimentare una rinascita.
Poi però c'era stato il crollo. I livelli di ossigeno atmosferico residuo, monitorati costantemente, avevano cominciato tutto d'un tratto a subire dei repentini e bruschi cali. E si parlava di parecchie cifre. Questo fenomeno venne registrato in tutto il mondo, e col passare del tempo non fece altro che acuirsi. I governi avevano provato a nasconderlo all'inizio, ma una massiccia fuga di notizie aveva scatenato il panico globale. E allora era stato il caos.
C'erano state prima proteste, poi sommosse, poi complotti, e alla fine aperte rivolte. Ogni singolo paese del mondo era diventata una vera e propria bolgia: tutti stavano gli uni contro gli altri, in competizione per accaparrarsi le ultime risorse disponibili. Questa situazione d'anarchia poteva portare solamente ad una cosa: la guerra civile.
Assieme ai conflitti le malattie erano diventate la principale causa di morte: con sempre meno aria respirabile le persone erano costrette a fare sempre più uso delle bombolette salvavita, spesso passandosele a vicenda e usandole anche in comune con molti altri. Non avevano quindi tardato a svilupparsi nuovi virus, batteri e germi letali in grado di propagarsi per via orale, ed era stato così che le epidemie erano divenute un fenomeno tristemente frequente.
Era stato allora che i vertici della Ox & Co. avevano capito che era il momento di agire. Oramai le bombolette d'ossigeno erano diventate un oggetto d'uso comune, ed era praticamente impossibile trovare qualcuno che non ne facesse un uso quotidiano. La domanda di esse era andata ovviamente sempre aumentando, seguita a ruota dalla produzione. Ogni negozio veniva costantemente rifornito di nuovi carichi di respiratori, quintali di solito, ma qualche volta anche tonnellate data l'enorme richiesta.
Solo che, un giorno, era stato ordinato di trasportare buona parte delle scorte verso un luogo segreto invece che ai soliti punti di rivendita. Allo stesso tempo un avviso era arrivato a tutti i principali esponenti della compagnia sparsi per il mondo; esso li avvertiva di tenersi pronti a partire.
Poco tempo dopo era accaduta una cosa incredibile: gli impiegati della Ox & Co. una mattina, andando al lavoro come al solito, avevano trovato i negozi chiusi. Di solito i locali erano programmati per aprirsi automaticamente ad una certa ora, ma sembrava che stavolta ci fosse stato qualcosa che non andava dato che i negozi erano ancora ermeticamente sigillati.
Erano fatte delle verifiche ed era saltato fuori che non si trattava di un guasto; si scoprì infatti che la chiusura era stata settata manualmente e in maniera definitiva. Si era quindi provato a chiamare i dirigenti per chiedere spiegazioni, ma nessuno di loro si era rivelato rintracciabile in alcun modo. L'intera catena di comando della Ox & Co. sembrò essere svanita nel nulla.
Se c'era stata una specie di classe sociale che non aveva risentito dei danni della guerra e delle malattie, un gruppo di persone protetto e privilegiato pur non appartenendo ad una casta intoccabile, essa era stata senza dubbio composta dai dipendenti della Ox & Co. Essi venivano visti dalla gente comune come salvatori, buon'anime che dispensavano la vita per pochi soldi, ed era stato questo rispetto a proteggerli fino ad allora. Ma senza più bombole da vendere cambiarono le carte in tavola.
I poveri impiegati a quel punto, incapaci di temporeggiare ancora con le folle inferocite formatesi davanti ai negozi, una volta persa l'unica protezione di cui ancora disponevano erano cadute presto vittime della furia popolare. Il volubile volgo aveva fatto così dei propri "custodi" un capro espiatorio per la fine imminente dell'umanità. Terminate anche le bombolette di ossigeno artificiale la situazione mondiale si deteriorò ancora di più, avviandosi così verso una tragica ma inevitabile conclusione.
Mentre il resto dell'umanità andava inesorabilmente incontro alla sua fine, i responsabili della Ox & Co. erano riusciti a raggiungere incolumi la loro destinazione. Era stato estremamente difficile mantenere segreto il loro progetto, ma la volontà di sopravvivere a qualsiasi costo e la sicurezza di un posto nell'esclusivo luogo avevano contribuito a far tenere la bocca chiusa a tutti i diretti interessati.
Ricordava ancora bene il giorno in cui era arrivato lì: era rimasto impresso nella sua mente come nient'altro nel corso della sua vita. Lui, suo padre e un'altra decina di funzionari erano stati i primi ad arrivare, e si erano presto ricongiunti anche con tutti gli altri. Dopo una breve riunione collettiva avevano proceduto con l'ultima cosa importante da fare: chiudere le porte. Ed era stato così che, quel giorno di qualche anno prima, le entrate del Palazzo erano state definitivamente sigillate.
Isolato in quell'arida piana, il Palazzo era il posto ideale per non essere disturbati. Nessuno a parte i più importanti associati della Ox & Co. era mai stato al corrente della sua esistenza, e poi era giusto che fosse così: del resto nessuno, oltre ai lungimiranti soci dell'azienda, avrebbe mai avuto né si sarebbe mai meritato il diritto di mettervi piede. Era una struttura concepita appositamente per essere occupata da pochi eletti, i quali avrebbero costituito l'ultima speranza dell'umanità. Quel giorno circa duecento persone avevano fatto il loro ingresso nel Palazzo. Per non uscirne mai più.
"Nessuno entra e nessuno esce dal Palazzo!": era stata questa fin dall'inizio la massima per tutti gli occupanti. Del resto, cosa c'era fuori per loro? Nulla, solo la morte. Nel Palazzo invece c'era tutto quello che si sarebbe potuto desiderare: divertimento, amore, pace, cibo, ma soprattutto aria, aria in abbondanza! Dentro al Palazzo non ci si doveva preoccupare di alcun problema: le noie erano state bandite per sempre nel mondo esterno. Cosa si poteva desiderare di meglio? Era l'Eden in terra, l'Utopia finalmente divenuta realtà. Tutto era perfetto.
O almeno avrebbe dovuto esserlo. Purtroppo si sa, molte volte teoria e pratica sono due cose completamente diverse. I primi tempi erano stati effettivamente felici e spensierati, ma era stata tutta un'illusione. I primi dissidi non avevano tardato a nascere, e presto essi si erano trasformati in veri e propri conflitti. E infine, era stata guerra.
Era bastata una baggianata, un nonnulla, per scatenare l'inferno. Era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso, e allora si erano scatenati tutti gli odii e i rancori covati da tempo. Gli abitanti del Palazzo si erano presto divisi in fazioni, le quali avevano preso a combattere aspramente l'una contro l'altra. Ed era stato per pura fortuna se lui e suo padre si erano ritrovati in quella che aveva trionfato.
Alla fine però non c'era stato un vero vincitore. La loro parte aveva avuto la meglio, sì, ma a che prezzo? Degli oltre duecento occupanti originari del Palazzo ne erano rimasti appena una sessantina, quasi tutti feriti oppure deboli e debilitati. E presto, oltre al danno, era arrivata anche la beffa.
L'aria che veniva respirata all'interno del Palazzo era stata pensata per essere una delle più pure e piacevoli miscele inalabili dall'uomo, ma paradossalmente fu proprio essa, progettata per essere la salvezza degli ultimi umani, a causare la loro morte.
I combattimenti all'interno della struttura non avevano risparmiato nessun luogo, e così anche il locale dove veniva prodotta l'aria ne era rimasto interessato. Nella foga della battaglia un combattente ferito a morte era infatti caduto all'interno dell'impianto di miscelazione dell'aria, e se non era già deceduto per i colpi ricevuti o per la caduta era rimasto sicuramente ucciso dalle alte concentrazioni delle pericolose sostanze chimiche utilizzate nel processo. Il cadavere era stato rimosso qualche tempo dopo, ma ormai era già troppo tardi.
Poco prima di morire il combattente non era stato in gran forma: si era infatti buscato una brutta influenza, ma aveva deciso stoicamente di dare il proprio contributo alle operazioni belliche. Finendo nella macchina per produrre l'aria i suoi germi erano entrati in contatto con gli elementi in essa presenti, che li avevano alterati in modo del tutto imprevedibile. Venendo poi trasportati dal flusso della macchina, i germi erano entrati nei complessi d'aereazione e si erano lentamente propagati per tutto il Palazzo.
Inizialmente nessuno si era preoccupato: solo un paio di persone si erano ammalate di quella che sembrava una banale influenza. Gli era stato dato qualche medicinale ed erano stati subito messi a letto. Solo che dopo qualche giorno di costante peggioramento erano morte. Nel frattempo anche altri avevano cominciato a manifestare sintomi simili, ed era stato allora che aveva cominciato a scatenarsi il panico.
Sembrava che una forza superiore si stesse accanendo contro l'umanità: essa, la specie più forte e distruttiva mai esistita sulla faccia della Terra, era ora debole e sull'orlo dell'estinzione. La malattia si era sparsa come le fiamme di un incendio, e presto tutti i sopravvissuti alla guerra ne erano stati contagiati. O meglio, quasi tutti.
Suo padre, fin dalle prime avvisaglie del contagio, era rimasto vigile e all'erta. Probabilmente già temeva che una cosa del genere sarebbe potuta accadere, e i fatti gli avevano presto dato ragione. Appurata l'esistenza dell'epidemia, una notte suo padre l'aveva preso da parte e l'aveva condotto dove nessuno avrebbe potuto sentirli. L'uomo gli aveva spiegato tutto, e lui non aveva potuto fare a meno di dargli ragione. Anche quando aveva detto che forse non era ancora troppo tardi per loro due.
Erano andati a nascondersi subito dopo. Si erano rifugiati in una parte abbandonata del Palazzo, dove nessuno avrebbe potuto raggiungerli facilmente dati i danni causati dalla guerra, e una volta lì non avevano potuto far altro che aspettare. Qualche giorno era così trascorso nel buio e nel silenzio; non una parola, non un gemito, non un respiro, tutto pur di non farsi scoprire. Poi erano cominciate le grida.
Il delirio era lo stadio finale della malattia: quando la febbre raggiungeva il suo picco massimo il malato perdeva completamente la testa. Si avevano visioni, allucinazioni, incubi ad occhi aperti, i sensi erano offuscati e non si riusciva a pensare; mille voci parevano urlare contemporaneamente e costantemente nella testa dei malati, facendoli impazzire in poco tempo.
Per tentare di porre fine a quelle torture gli infetti erano portati a farsi del male: sbattere la testa contro il muro, accoltellarsi, lasciarsi cadere dalle scale, e molti altri metodi ancora erano i modi preferiti per danneggiarsi. I malati alla fine morivano tutti per le ferite e i danni riportati, suicidi nel disperato tentativo di avere un po' di pace.
All'inizio si era trattato di episodi isolati: gemiti lontani, appena udibili, che si sentivano ad intervalli di alcune ore l'uno dall'altro. Ma più il tempo era passato e più quegli orribili suoni si erano fatti forti, strazianti e ravvicinati nel tempo. Alla fine quei pochi disgraziati che non erano ancora morti per i traumi, ormai impazziti per il dolore e la consapevolezza della loro imminente dipartita, li erano venuti a cercare.
Durante la loro latitanza lui aveva sempre avuto paura, soprattutto in quel terrificante frangente. Sentire tutti quegli individui urlare il suo nome seguito da mille maledizioni con quelle loro voci rotte lo faceva sempre trasalire. E i rumori, quegli altri rumori... Le sue gambe erano sempre state sull'orlo di mettersi a correre, e parecchie volte c'era andato molto vicino.
Se non era corso incontro ad un terribile e tragico destino era stato solamente grazie a suo padre. L'aveva trattenuto dall'uscire dal suo nascondiglio, talvolta anche usando la forza. Lui si era infuriato, aveva provato a convincerlo a lasciarlo uscire - avevano anche litigato - ma alla fine non si era comunque mosso.
Alla fine i rumori, così come erano venuti, erano improvvisamente cessati. Per buona misura avevano fatto passare un'altro giorno prima di uscire allo scoperto, e solo allora avevano osato avventurarsi all'esterno. Avevano preso molte precauzioni, quali il portarsi dietro un'arma in caso di bisogno e dei fazzoletti per coprirsi la bocca, giusto per non lasciare nulla al caso.
Nel Palazzo in quel momento regnava il silenzio e da allora, all'insaputa di entrambi, sarebbe sempre stato così. Avevano preso a vagare per tutta la struttura, taciturni e guardinghi, mentre camminavano in mezzo ai cadaveri. Ci avevano messo tutto il giorno per appurare se i loro compagni fossero o meno tutti morti, e una volta constatato ciò il fatale pensiero era balenato nelle loro menti: loro adesso erano gli ultimi due uomini sulla Terra.
Inizialmente quello che aveva sembrato prendere meglio la notizia era stato suo padre: lì per lì non aveva infatti dato particolari segni di apprensione o turbamento. Col passare dei giorni tuttavia il figlio aveva notato un progressivo incupimento nel carattere del genitore, il quale si era fatto man mano sempre più schivo e silenzioso.
L'episodio che tuttavia gli aveva dato più da pensare era stato quello della pompa dell'aria. Per evitare infatti di continuare a respirare aria infetta si era rivelato necessario scollegare dal sistema del Palazzo la macchina che la faceva fluire nei condotti di aereazione, e mentre compivano quest'azione suo padre aveva sempre guardato fisso davanti a sé, come se si fosse trovato in uno stato di trance, a malapena cosciente di ciò che stesse facendo. E poi, una volta terminato il lavoro, aveva detto qualcosa di molto strano.
- Perché? - aveva esordito fuori di sé, quasi che stesse enunciando a voce alta un pensiero interno - Perché così attaccati alla vita? Consumarsi lentamente nutrendosi di rimorso e disperazione: è così che deve finire?
Lui l'aveva guardato a bocca aperta, totalmente sorpreso da quell'uscita. Il padre si era poi voltato verso di lui, quasi accorgendosi solo in quel momento della sua presenza. Aveva bofonchiato uno "scusami, figliolo" e se n'era andato. L'altro era rimasto molto turbato da ciò; che accidenti aveva voluto dire suo padre con quelle parole?
Lo aveva capito qualche tempo dopo, il loro significato. Senza più la macchina per produrre l'aria respirare era diventata un'operazione ardua: di giorno si poteva tranquillamente usare i respiratori portatili, ma di notte la faccenda diventava complicata. Ogni bomboletta d'ossigeno - ormai erano rimaste quasi unicamente quelle piccole, da cinque dollari - aveva un'autonomia di circa tre ore, e una volta terminato il gas in esse contenuto diventavano inutilizzabili. Dormire poi con quelle cose attaccate alla faccia era impossibile: bisognava infatti periodicamente alzarsi per controllare che la bomboletta funzionasse ancora bene e per sostituirla nel caso si fosse esaurita.
Era stato lui a trovare una soluzione: per assicurarsi che entrambi stessero bene l'uomo aveva posto una sveglia nel corridoio esterno alle loro stanze. La sveglia era stata settata per suonare ogni mezz'ora; entrambi così, nel caso avessero dormito, sarebbero stati svegliati e avrebbero potuto controllare le loro bombolette. A quel punto i due, appurato che tutto da loro andava bene, sarebbero dovuti uscire nel corridoio per spegnere la sveglia, non prima però che anche il compagno fosse arrivato.
Lui era stato il primo a riconoscere che la sua non era stata certo il massimo come soluzione, ma almeno era efficiente: si riusciva così infatti a salvaguardare entrambi in qualsiasi caso. Certo, il sonno ne risentiva, ma bisognava scegliere il male minore. Dopo una notte di sperimentazione ne era stato appurato l'effettivo funzionamento e anche suo padre, dopo alcune titubanze, aveva accettato di seguire il protocollo.
Tutto era andato bene per un po' ma forse, dopotutto, c'era davvero stata qualche forza superiore maligna a complottare contro i sopravvissuti. Una notte come le altre la sveglia era suonata per l'ennesima volta e in un attimo padre e figlio si erano ritrovati fuori dalle proprie stanze, l'uno assicurandosi l'incolumità dell'altro. E, per la prima volta dopo tanto tempo, il padre gli aveva sorriso. Suo figlio era stato immensamente felice di ciò: tutto lo stress e le preoccupazioni degli ultimi tempi gli avevano fatto dimenticare di essere ancora in grado di sorridere. L'altro aveva ricambiato, si erano dati la buonanotte ed erano infine ritornati a dormire.
Mezz'ora dopo la sveglia era suonata nuovamente, e lui si era recato ancora una volta nel corridoio. Solo che, in quell'occasione, suo padre non si era fatto vedere. Fiducioso che si sarebbe presto palesato aveva aspettato per un po', ma man mano che i secondi erano inesorabilmente scorsi la sua preoccupazione era andata aumentando. Alla fine, dopo quasi un minuto e mezzo di attesa, non ce l'aveva più fatta ed aveva rotto gli indugi.
Si era precipitato immediatamente nella stanza del padre, quasi sfondando la porta per l'irruenza dell'intrusione, ed era rimasto senza parole per quello che aveva visto. Suo padre giaceva nel letto, rigido e senza vita; sul tavolino accanto a lui un biglietto recitava: "Ti lascio in eredità tutte le mie bombole. Perdonami, figliolo.".
Suicidio. Inizialmente aveva fatto fatica ad accettare la realtà: si era accasciato in un angolo, una mano sulla faccia per asciugarsi le lacrime e il respiratore nell'altra, cercando di convincersi che era stata una disgrazia. "Un guasto, un malfunzionamento..." si era ripetuto fino allo sfinimento "Sicuramente è stato così. Per forza deve essere stato così!".
Col passare del tempo la consapevolezza della realtà si era fatta lentamente strada in lui. Nonostante inizialmente avesse provato a reprimere qualsiasi pensiero al riguardo alla lunga sarebbe stato impossibile far finta di niente. E la semplice realizzazione che, quando l'aveva trovato, suo padre non indossava il respiratore era bastata a far crollare il suo fragile castello di carte.
Accettata l'idea del suicidio ne aveva tuttavia dapprima ignorato i motivi. Era stato solo ripensando allo strano discorso fatto da suo padre qualche tempo prima che aveva compreso. E, nonostante avesse capito tutto, aveva comunque provato per un po' a negare la realtà dei fatti. Loro due prima e lui solo poi potevano anche essere in vita, ma ciò non influiva sul fatto che fossero solamente i residui finali di una specie condannata. In parole povere, lui era rimasto l'ultimo uomo sulla Terra. E ciò che non avevano fatto le guerre e le malattie l'avrebbe fatto il tempo.
Non aveva mai accettato, almeno in apparenza, di essere l'ultimo esponente della sua razza. In fondo, chi mai era lui per essersi meritato questo? Per un po', dopo un adeguato periodo di lutto, aveva provato a condurre un'esistenza "normale", ma ciò gli era risultato ben presto impossibile perché, dentro di lui, sapeva perfettamente come stavano le cose.
Presto continuare a vivere in quel modo gli era divenuto insopportabile. Tutte le volte che passava per i corridoi vuoti essi sembravano rimbombare del suono dei suoi passi, e il perpetuo silenzio che aleggiava nel Palazzo certe volte gli pareva più assordante di un'esplosione. Era stata solo questione di tempo perché perdesse il senno.
Quando il cibo aveva cominciato a scarseggiare aveva cercato di sfuggire ai suoi problemi rifugiandosi nell'alcol. All'inizio gli era sembrato di aver trovato finalmente qualcosa che gli potesse dare la sospirata pace, ma presto aveva cambiato idea.
Forse erano solo allucinazioni causate dall'ebbrezza, ma quando beveva cominciavano ad apparire persone dappertutto. Spuntavano come funghi: erano in ogni dove, in mezzo a tutti i corridoi, dentro ogni stanza, dietro ogni angolo. Ognuna aveva la faccia di qualcuno che aveva conosciuto. E tutte sorridevano.
Terrorizzato com'era dai fantasmi aveva provato a darci un taglio con l'alcol, ma non ci era riuscito. Ormai ne era dipendente, era diventata l'unica cosa indispensabile alla sua sopravvivenza. E così, tutte le volte che buttava giù un sorso, era costretto a correre via per evitare di trovarsi davanti il volto di qualche morto.
Ma che vita era quella? Correre, correre, bere, correre di nuovo. Un ritmo del genere non era sostenibile e lui lo sapeva bene, ma per un po' aveva preferito non pensarci. Da qualche tempo preferiva non pensare più a niente. Poi però un giorno gli era caduto l'occhio su una vecchia pistola risalente alla guerra, e mai prima di allora un'arma gli era sembrata così attraente.
Aveva preparato tutto con cura, utilizzando uno zelo e un'energia che da tanto tempo gli era sembrato di non possedere più. L'aveva smontata, ripulita, oliata e rimontata dopo averla lucidata pezzo per pezzo. Era una bellezza, e più di una volta gli erano venute le lacrime agli occhi.
Dopo essersi preparato l'arma si era procurato una solenne sbronza come ricompensa. "Del resto" aveva pensato "L'ultimo alcolista deve rimanere fedele ai suoi principi.". Anche stavolta aveva visto le facce sorridergli, ma a differenza delle altre volte lui aveva ricambiato. Non c'era nulla da temere dai morti in fondo. Lo stavano solo incoraggiando a raggiungerli, ecco tutto.
Aveva spaccato l'ultima bomboletta rimastagli per assaporare un'ultima volta l'aria senza dover per forza stare attaccato ad una maledetta macchina. Voleva avere un ultimo piacere prima di morire, e visto che era rimasto solo c'era forse qualcuno ancora vivo per impedirglielo?
Si era sistemato nel salone principale, davanti alla grande vetrata che dava sul deserto. Stravaccato su un confortevole divano, pensò che quella vista fosse bellissima nella sua semplicità. Bevve un ultimo sorso di liquore, gettò lontano la bottiglia e ascoltò il suono del vetro che andava in frantumi con un misto di tristezza e nostalgia. Infine si portò la pistola alla tempia.
Subito prima di premere il grilletto tuttavia la sua attenzione era stata catturata da qualcosa. Fuori infatti una folata di vento aveva improvvisamente portato nel suo campo visivo un affarino verde e svolazzante: una bella banconota da cinque dollari.
- Ciao, piccolina. - gli era scappato da dire - Guarda: ecco tu e le tue sorelle dove di avete portati.

  
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