Appena
l'uomo ebbe finito di spaccare
la bomboletta si fermò per un attimo, giusto per rendersi
conto se l'aveva
fatto davvero oppure no. Appurata la realtà
ascoltò beato per alcuni secondi il
sibilo dell'ossigeno puro che usciva da dentro l'affare di ferro. Poi,
lasciando cadere a terra il cacciavite con un sonoro tonfo metallico,
afferrò
il piccolo contenitore fallato e se lo portò al naso.
Quella era l'ultima scorta di
ossigeno che gli era rimasta, e più il tempo passava e
più la sua vita
diventava infernale. Il giorno prima si era aspirato un'intera bombola
da
cinquanta dollari e poi, per poter dormire la notte successiva, aveva
aperto
tutte le altre per lasciare che la sua camera da letto si ossigenasse.
Ormai
era a secco.
In cuor suo aveva vivamente sperato
di morire durante il sonno. Avrebbe tanto voluto smettere di respirare
mentre
non era cosciente, lasciare che la sua esperienza terrena terminasse in
quel
modo. Ma, ahimè, così non era mai stato. Quella
mattina si era risvegliato
ancora più depresso di prima, e si era immediatamente
attaccato alle ultime
bombolette rimastegli, oltre che alla bottiglia.
Aveva sei respiratori, ma nel
giro di tre ore se l'era fatti fuori tutti; quello che aveva appena
spaccato
era l'ultimo della sua scorta. L'aveva rotto perché era
stufo di avere sempre
quella ventosa a comprimergli il naso, e per una volta voleva tornare a
respirare liberamente, come quando le piante erano ancora vive.
Erano bei tempi, quelli:
l'umanità era ancora fiorente, la natura florida e l'uomo
pieno di aspettative
come non mai. Il progresso scientifico era giunto al suo culmine e la
razza
umana si stava preparando ad affrontare sfide senza precedenti.
Sembrava che
gli uomini avessero un futuro roseo e pieno di speranza davanti a loro.
Poi però le api avevano
cominciato a morire. In realtà era già da tanto
tempo che il loro numero si era
pericolosamente assottigliato, ma il problema era divenuto impellente
solamente
quando avevano cominciato a scomparire centinaia di migliaia di
esemplari al
giorno. La colpa era dell'inquinamento: i delicati insetti non erano
resistenti
alle sostanze tossiche sparse così celermente in giro
dall'uomo, e glielo
stavano facendo gentilmente notare estinguendosi.
Dei tentativi per salvarle erano
stati fatti, ma purtroppo erano risultati tutti ampiamente
insufficienti. Del
resto, a parte quattro poveri mentecatti invasati, a chi importava mai
della
morte di un po' di insetti? L'agricoltura doveva essere salvaguardata,
così
come anche la produttività e le esigenze di una sempre
maggiore popolazione
mondiale. Alla fine, dopo qualche anno di lenta agonia collettiva,
l'ultima ape
era stata dichiarata morta e la specie era divenuta legalmente estinta.
Erano
state versate un paio di lacrime e poi via!, di nuovo a fare baldoria.
Era stato solo dopo alcuni mesi
che la gente si era resa conto della vera gravità della cosa,
ovvero quando era
cominciata la grande moria delle piante. Senza api infatti nessuno
trasportava
più il polline, e molti vegetali erano così
impossibilitati a riprodursi. I
fiori avevano smesso quasi completamente di sbocciare, l'erba di
crescere e gli
alberi di produrre frutti.
Tutti questi segnali erano stati
già di per sé preoccupanti, ma c'era stato ancora
chi si ostinava a far finta
di niente. Sempre più spazi venivano infatti sacrificati
all'urbanizzazione,
sempre più legna tagliata per gli scopi più
disparati, sempre più fiumi e laghi
prosciugati per alimentare le colture. Del resto allora erano in molti
a
pensare che finché il problema non li avesse riguardati
personalmente esso non
sarebbe quindi stato per nessun motivo affar loro, lasciandoli
così liberi di
continuare con la loro vita di tutti i giorni.
Già però al primo anno dopo la
morte delle api appariva evidente quanto la loro dipartita fosse stata
catastrofica: dopo un inverno gelido a primavera niente ricresceva, e
l'erba
una volta morta si seccava e non lasciava spazio a nuovi fili. Ben
presto
intere pianure si videro trasformate in deserti rocciosi e desolati, e
tutto
questo nel giro di pochissimo tempo.
A quel punto anche gli alberi avevano
cominciato a dare segni di cedimento. Tagliati, potati, spostati,
bruciati,
maltrattati e danneggiati in qualsiasi modo possibile e immaginabile,
alla fine
molti di loro semplicemente non ce l'avevano più fatta.
Alcuni si erano seccati
e basta, smettendo per qualche motivo di svolgere la fotosintesi; altri
alberi erano
morti in maniera più plateale, spezzandosi a metà
oppure sradicandosi
spontaneamente. E poi nessuno ci poté fare niente coi loro
resti: quanto mai
poteva valere un albero caduto da sé?
Con la morte di così tante piante
altre specie avevano incontrato la loro fine. I primi a scomparire
erano stati
i funghi, ritrovatisi senza più nessuna radice a cui
attaccarsi. Poco dopo erano
seguite le edere, senza più nessuna pianta da parassitare, e
numerosi tipi di
animali (uccelli in testa), trovatisi all'improvviso privati del loro
ambiente
naturale e rifugio prediletto.
Presto anche molti ortaggi e
piante domestiche avevano cominciato a fare la stessa fine degli
alberi. Le
verdure avevano smesso completamente di crescere, e i loro fusti quindi
avevano
preso a marcire; i cereali si sbriciolavano al solo tocco delle mani;
le viti
si staccavano dai tralicci, secche; e i tuberi si putrefacevano,
venendo quindi
infestati dai vermi.
Non ci voluto molto perché si venisse
a creare la più grande crisi generale che l'uomo avesse mai
affrontato. Senza
le piante molti erbivori erano stati condannati a morire, lasciando
così senza
carne miliardi di persone, già private di frutta e verdura.
Erano stati in
tanti a quel punto, soprattutto i più poveri e i
più fragili, a morire di fame.
E non era stato solo il cibo a
mancare. Senza più le piante l'ossigeno aveva smesso quasi
completamente di
essere prodotto, e le altre fonti naturali non erano bastate certo a
rifornire
tutto l'ecosistema. I primi a risentirne erano stati i vecchi, i malati
e i
bambini, oltre che tanti piccoli animali; in sostanza, molti organismi
avevano
cominciato a morire per asfissia.
Alla fine, com'era prevedibile,
si era scatenata la psicosi di massa. "Moriremo tutti? E quando
sarà? E
sarà per fame o per mancanza d'aria? E il cibo quando
finirà? E l'aria quando
finirà? Come faremo?": queste e molte altre domande
terrorizzavano i
giorni e le notti degli uomini superstiti. Ogni speranza di
sopravvivenza
sembrava una chimera irraggiungibile, e molti a quel punto si erano
abbandonati
alla disperazione dando l'umanità ormai per spacciata.
Era stato a quel punto che
l'azienda era entrata in scena. La Ox
& Co. era stata fondata poco dopo la morte delle api
da alcuni
lungimiranti, tra i quasi suo padre, ed aveva finanziato alcuni
progetti di
ricerca atti a tentare di produrre l'ossigeno in maniera massiccia - e
soprattutto artificiale - per farne un vero e proprio business. Alla
fine
alcuni scienziati ce l'avevano fatta e grandi quantità di
gas avevano
cominciato ad essere messe in circolazione. Ovviamente a pagamento.
Era stato proprio lui,
quand'ancora era giovane e focoso, ad inventare il motto che aveva
fatto
diventare così popolare la Ox
& Co.:
"Volete speranza? Eccola qui, a soli cinque dollari la bomboletta!".
Col senno di poi questa sarebbe stata solamente una pessima battuta, di
cattivo
gusto per di più, ma del resto del senno di poi in quel
momento erano piene le
fosse. Se si escludevano i cadaveri.
Comunque fosse stata la battuta,
i prodotti della Ox & Co.
erano
andati immediatamente a ruba. Le più richieste erano state
le bombolette
formato mini, in vendita a soli cinque dollari (come del resto diceva
il motto
dell'azienda), ma anche le versioni da dodici, venticinque, cinquanta e
cento
dollari avevano venduto bene. Come era stato facile notare da parte dei
venditori, la gente era disposta a spendere qualsiasi cifra pur di
sopravvivere, e i dirigenti della Ox
& Co. non erano certo stati disposti a farsi sfuggire
questa lucrosa
occasione. I soldi avevano così cominciato ad accumularsi
nei depositi
dell'azienda, prima milioni su milioni e poi miliardi su miliardi,
rendendo
così la Ox & Co.
la società più
ricca in assoluto sulla faccia della Terra.
Sorprendentemente però non era
solo per speculare che la Ox & Co.
faceva affari. Era stata una decisione presa di comune accordo tra
tutti i
fondatori, e nessuno di coloro che li aveva succeduti aveva pensato a
quell'idea come qualcosa di assurdo, anzi. L'intero progetto era stato
pensato
dal lungimirante saggio che aveva avuto l'idea della creazione della Ox & Co., rinomato per la sua
arguzia, e tutti loro non avevano potuto far altro che essergli
eternamente
grati.
Per cominciare la costruzione era
stato scelto come sito quella che fino a poco tempo prima era stata una
splendida pianura; i drastici cambiamenti climatici l'avevano resa
tuttavia
irriconoscibile, trasformandola in un arido deserto roccioso. Gli
abitanti del
luogo se n'erano andati da tempo, e nessuno ci viveva più
nemmeno nelle
vicinanze; era quindi il posto ideale per rendere realtà il
progetto segreto
della Ox & Co.
E così, mentre l'intero mondo
moriva lentamente, gli operai al soldo dell'azienda avevano cominciato
a lavorare.
Ci erano voluti alcuni anni perché tutto fosse ultimato, ma
il risultato finale
valse di certo quella lunga attesa. E mentre i lavori erano ancora in
corso i
dipendenti della Ox & Co. continuavano
col loro mestiere, vendendo bombolette d'ossigeno a tutti coloro i
quali ne
fecero richiesta, accumulando così sempre più
soldi nei forzieri aziendali.
Nessuno era parso essere a conoscenza delle manovre dell'azienda, e in
questo
modo tutti i suoi affiliati se ne erano potuti stare un po'
più tranquilli. In
questo modo, attendendo che i lavori nel deserto fossero ultimati, i
vertici
dell'azienda se n'erano rimasti silenti ad osservare ciò che
accadeva nel resto
del globo.
La catastrofe ci aveva messo
abbastanza tempo ad arrivare: erano infatti passati già una
decina d'anni dal
debutto della Ox & Co. e
ancora
nulla di apocalittico era successo. Nonostante tutte le ristrettezze
dettate
dal nuovo mondo, sembrava che la situazione si stesse finalmente
stabilizzando.
Erano in tanti ad essere morti e ormai la gente riusciva a tirare
avanti
solamente a forza di bombolette d'ossigeno e cibo in scatola, ma a quel
punto
quasi tutti i superstiti si erano abituati a questo stile di vita.
Pareva che
la razza umana, dopotutto, avesse ancora qualche possibilità
per ripartire e
sperimentare una rinascita.
Poi però c'era stato il crollo. I
livelli di ossigeno atmosferico residuo, monitorati costantemente,
avevano
cominciato tutto d'un tratto a subire dei repentini e bruschi cali. E
si
parlava di parecchie cifre. Questo fenomeno venne registrato in tutto
il mondo,
e col passare del tempo non fece altro che acuirsi. I governi avevano
provato a
nasconderlo all'inizio, ma una massiccia fuga di notizie aveva
scatenato il
panico globale. E allora era stato il caos.
C'erano state prima proteste, poi
sommosse, poi complotti, e alla fine aperte rivolte. Ogni singolo paese
del
mondo era diventata una vera e propria bolgia: tutti stavano gli uni
contro gli
altri, in competizione per accaparrarsi le ultime risorse disponibili.
Questa
situazione d'anarchia poteva portare solamente ad una cosa: la guerra
civile.
Assieme ai conflitti le malattie
erano diventate la principale causa di morte: con sempre meno aria
respirabile
le persone erano costrette a fare sempre più uso delle
bombolette salvavita,
spesso passandosele a vicenda e usandole anche in comune con molti
altri. Non avevano
quindi tardato a svilupparsi nuovi virus, batteri e germi letali in
grado di
propagarsi per via orale, ed era stato così che le epidemie
erano divenute un
fenomeno tristemente frequente.
Era stato allora che i vertici
della Ox & Co. avevano
capito che
era il momento di agire. Oramai le bombolette d'ossigeno erano
diventate un
oggetto d'uso comune, ed era praticamente impossibile trovare qualcuno
che non ne
facesse un uso quotidiano. La domanda di esse era andata ovviamente
sempre
aumentando, seguita a ruota dalla produzione. Ogni negozio veniva
costantemente
rifornito di nuovi carichi di respiratori, quintali di solito, ma
qualche volta
anche tonnellate data l'enorme richiesta.
Solo che, un giorno, era stato
ordinato di trasportare buona parte delle scorte verso un luogo segreto
invece
che ai soliti punti di rivendita. Allo stesso tempo un avviso era
arrivato a
tutti i principali esponenti della compagnia sparsi per il mondo; esso
li
avvertiva di tenersi pronti a partire.
Poco tempo dopo era accaduta una
cosa incredibile: gli impiegati della Ox
& Co. una mattina, andando al lavoro come al solito,
avevano trovato i
negozi chiusi. Di solito i locali erano programmati per aprirsi
automaticamente
ad una certa ora, ma sembrava che stavolta ci fosse stato qualcosa che
non
andava dato che i negozi erano ancora ermeticamente sigillati.
Erano fatte delle verifiche ed
era saltato fuori che non si trattava di un guasto; si
scoprì infatti che la
chiusura era stata settata manualmente e in maniera definitiva. Si era
quindi provato
a chiamare i dirigenti per chiedere spiegazioni, ma nessuno di loro si
era
rivelato rintracciabile in alcun modo. L'intera catena di comando della
Ox & Co. sembrò
essere svanita nel
nulla.
Se c'era stata una specie di
classe sociale che non aveva risentito dei danni della guerra e delle
malattie,
un gruppo di persone protetto e privilegiato pur non appartenendo ad
una casta
intoccabile, essa era stata senza dubbio composta dai dipendenti della Ox & Co. Essi venivano visti
dalla
gente comune come salvatori, buon'anime che dispensavano la vita per
pochi
soldi, ed era stato questo rispetto a proteggerli fino ad allora. Ma
senza più
bombole da vendere cambiarono le carte in tavola.
I poveri impiegati a quel punto,
incapaci di temporeggiare ancora con le folle inferocite formatesi
davanti ai
negozi, una volta persa l'unica protezione di cui ancora disponevano
erano
cadute presto vittime della furia popolare. Il volubile volgo aveva
fatto così
dei propri "custodi" un capro espiatorio per la fine imminente
dell'umanità. Terminate anche le bombolette di ossigeno
artificiale la
situazione mondiale si deteriorò ancora di più,
avviandosi così verso una
tragica ma inevitabile conclusione.
Mentre il resto dell'umanità
andava inesorabilmente incontro alla sua fine, i responsabili della Ox & Co. erano riusciti a
raggiungere incolumi la loro destinazione. Era stato estremamente
difficile
mantenere segreto il loro progetto, ma la volontà di
sopravvivere a qualsiasi
costo e la sicurezza di un posto nell'esclusivo luogo avevano
contribuito a far
tenere la bocca chiusa a tutti i diretti interessati.
Ricordava ancora bene il giorno
in cui era arrivato lì: era rimasto impresso nella sua mente
come nient'altro
nel corso della sua vita. Lui, suo padre e un'altra decina di
funzionari erano
stati i primi ad arrivare, e si erano presto ricongiunti anche con
tutti gli
altri. Dopo una breve riunione collettiva avevano proceduto con
l'ultima cosa
importante da fare: chiudere le porte. Ed era stato così
che, quel giorno di
qualche anno prima, le entrate del Palazzo erano state definitivamente
sigillate.
Isolato in quell'arida piana, il
Palazzo era il posto ideale per non essere disturbati. Nessuno a parte
i più
importanti associati della Ox & Co. era
mai stato al corrente della sua esistenza, e poi era giusto che fosse
così: del
resto nessuno, oltre ai lungimiranti soci dell'azienda, avrebbe mai
avuto né si
sarebbe mai meritato il diritto di mettervi piede. Era una struttura
concepita
appositamente per essere occupata da pochi eletti, i quali avrebbero
costituito
l'ultima speranza dell'umanità. Quel giorno circa duecento
persone avevano
fatto il loro ingresso nel Palazzo. Per non uscirne mai più.
"Nessuno entra e nessuno
esce dal Palazzo!": era stata questa fin dall'inizio la massima per
tutti
gli occupanti. Del resto, cosa c'era fuori per loro? Nulla, solo la
morte. Nel
Palazzo invece c'era tutto quello che si sarebbe potuto desiderare:
divertimento,
amore, pace, cibo, ma soprattutto aria, aria in abbondanza! Dentro al
Palazzo
non ci si doveva preoccupare di alcun problema: le noie erano state
bandite per
sempre nel mondo esterno. Cosa si poteva desiderare di meglio? Era
l'Eden in
terra, l'Utopia finalmente divenuta realtà. Tutto era
perfetto.
O almeno avrebbe dovuto esserlo.
Purtroppo si sa, molte volte teoria e pratica sono due cose
completamente
diverse. I primi tempi erano stati effettivamente felici e spensierati,
ma era
stata tutta un'illusione. I primi dissidi non avevano tardato a
nascere, e presto
essi si erano trasformati in veri e propri conflitti. E infine, era
stata
guerra.
Era bastata una baggianata, un
nonnulla, per scatenare l'inferno. Era stata la goccia che aveva fatto
traboccare il vaso, e allora si erano scatenati tutti gli odii e i
rancori
covati da tempo. Gli abitanti del Palazzo si erano presto divisi in
fazioni, le
quali avevano preso a combattere aspramente l'una contro l'altra. Ed
era stato
per pura fortuna se lui e suo padre si erano ritrovati in quella che
aveva
trionfato.
Alla fine però non c'era stato un
vero vincitore. La loro parte aveva avuto la meglio, sì, ma
a che prezzo? Degli
oltre duecento occupanti originari del Palazzo ne erano rimasti appena
una
sessantina, quasi tutti feriti oppure deboli e debilitati. E presto,
oltre al
danno, era arrivata anche la beffa.
L'aria che veniva respirata
all'interno del Palazzo era stata pensata per essere una delle
più pure e
piacevoli miscele inalabili dall'uomo, ma paradossalmente fu proprio
essa,
progettata per essere la salvezza degli ultimi umani, a causare la loro
morte.
I combattimenti all'interno della
struttura non avevano risparmiato nessun luogo, e così anche
il locale dove
veniva prodotta l'aria ne era rimasto interessato. Nella foga della
battaglia
un combattente ferito a morte era infatti caduto all'interno
dell'impianto di
miscelazione dell'aria, e se non era già deceduto per i
colpi ricevuti o per la
caduta era rimasto sicuramente ucciso dalle alte concentrazioni delle
pericolose sostanze chimiche utilizzate nel processo. Il cadavere era
stato
rimosso qualche tempo dopo, ma ormai era già troppo tardi.
Poco prima di morire il
combattente non era stato in gran forma: si era infatti buscato una
brutta
influenza, ma aveva deciso stoicamente di dare il proprio contributo
alle
operazioni belliche. Finendo nella macchina per produrre l'aria i suoi
germi
erano entrati in contatto con gli elementi in essa presenti, che li
avevano
alterati in modo del tutto imprevedibile. Venendo poi trasportati dal
flusso
della macchina, i germi erano entrati nei complessi d'aereazione e si
erano
lentamente propagati per tutto il Palazzo.
Inizialmente nessuno si era
preoccupato: solo un paio di persone si erano ammalate di quella che
sembrava una
banale influenza. Gli era stato dato qualche medicinale ed erano stati
subito
messi a letto. Solo che dopo qualche giorno di costante peggioramento
erano
morte. Nel frattempo anche altri avevano cominciato a manifestare
sintomi
simili, ed era stato allora che aveva cominciato a scatenarsi il panico.
Sembrava che una forza superiore
si stesse accanendo contro l'umanità: essa, la specie
più forte e distruttiva
mai esistita sulla faccia della Terra, era ora debole e sull'orlo
dell'estinzione. La malattia si era sparsa come le fiamme di un
incendio, e
presto tutti i sopravvissuti alla guerra ne erano stati contagiati. O
meglio,
quasi tutti.
Suo padre, fin dalle prime
avvisaglie del contagio, era rimasto vigile e all'erta. Probabilmente
già
temeva che una cosa del genere sarebbe potuta accadere, e i fatti gli
avevano
presto dato ragione. Appurata l'esistenza dell'epidemia, una notte suo
padre
l'aveva preso da parte e l'aveva condotto dove nessuno avrebbe potuto
sentirli.
L'uomo gli aveva spiegato tutto, e lui non aveva potuto fare a meno di
dargli
ragione. Anche quando aveva detto che forse non era ancora troppo tardi
per
loro due.
Erano andati a nascondersi subito
dopo. Si erano rifugiati in una parte abbandonata del Palazzo, dove
nessuno
avrebbe potuto raggiungerli facilmente dati i danni causati dalla
guerra, e una
volta lì non avevano potuto far altro che aspettare. Qualche
giorno era così
trascorso nel buio e nel silenzio; non una parola, non un gemito, non
un
respiro, tutto pur di non farsi scoprire. Poi erano cominciate le grida.
Il delirio era lo stadio finale
della malattia: quando la febbre raggiungeva il suo picco massimo il
malato
perdeva completamente la testa. Si avevano visioni, allucinazioni,
incubi ad
occhi aperti, i sensi erano offuscati e non si riusciva a pensare;
mille voci
parevano urlare contemporaneamente e costantemente nella testa dei
malati,
facendoli impazzire in poco tempo.
Per tentare di porre fine a
quelle torture gli infetti erano portati a farsi del male: sbattere la
testa
contro il muro, accoltellarsi, lasciarsi cadere dalle scale, e molti
altri
metodi ancora erano i modi preferiti per danneggiarsi. I malati alla
fine
morivano tutti per le ferite e i danni riportati, suicidi nel disperato
tentativo di avere un po' di pace.
All'inizio si era trattato di
episodi isolati: gemiti lontani, appena udibili, che si sentivano ad
intervalli
di alcune ore l'uno dall'altro. Ma più il tempo era passato
e più quegli
orribili suoni si erano fatti forti, strazianti e ravvicinati nel
tempo. Alla fine
quei pochi disgraziati che non erano ancora morti per i traumi, ormai
impazziti
per il dolore e la consapevolezza della loro imminente dipartita, li
erano
venuti a cercare.
Durante la loro latitanza lui
aveva sempre avuto paura, soprattutto in quel terrificante frangente.
Sentire
tutti quegli individui urlare il suo nome seguito da mille maledizioni
con
quelle loro voci rotte lo faceva sempre trasalire. E i rumori, quegli
altri
rumori... Le sue gambe erano sempre state sull'orlo di mettersi a
correre, e parecchie
volte c'era andato molto vicino.
Se non era corso incontro ad un
terribile e tragico destino era stato solamente grazie a suo padre.
L'aveva
trattenuto dall'uscire dal suo nascondiglio, talvolta anche usando la
forza.
Lui si era infuriato, aveva provato a convincerlo a lasciarlo uscire -
avevano
anche litigato - ma alla fine non si era comunque mosso.
Alla fine i rumori, così come
erano venuti, erano improvvisamente cessati. Per buona misura avevano
fatto
passare un'altro giorno prima di uscire allo scoperto, e solo allora
avevano
osato avventurarsi all'esterno. Avevano preso molte precauzioni, quali
il
portarsi dietro un'arma in caso di bisogno e dei fazzoletti per
coprirsi la
bocca, giusto per non lasciare nulla al caso.
Nel Palazzo in quel momento
regnava il silenzio e da allora, all'insaputa di entrambi, sarebbe
sempre stato
così. Avevano preso a vagare per tutta la struttura,
taciturni e guardinghi,
mentre camminavano in mezzo ai cadaveri. Ci avevano messo tutto il
giorno per
appurare se i loro compagni fossero o meno tutti morti, e una volta
constatato
ciò il fatale pensiero era balenato nelle loro menti: loro
adesso erano gli
ultimi due uomini sulla Terra.
Inizialmente quello che aveva
sembrato prendere meglio la notizia era stato suo padre: lì
per lì non aveva
infatti dato particolari segni di apprensione o turbamento. Col passare
dei
giorni tuttavia il figlio aveva notato un progressivo incupimento nel
carattere
del genitore, il quale si era fatto man mano sempre più
schivo e silenzioso.
L'episodio che tuttavia gli aveva
dato più da pensare era stato quello della pompa dell'aria.
Per evitare infatti
di continuare a respirare aria infetta si era rivelato necessario
scollegare
dal sistema del Palazzo la macchina che la faceva fluire nei condotti
di
aereazione, e mentre compivano quest'azione suo padre aveva sempre
guardato
fisso davanti a sé, come se si fosse trovato in uno stato di
trance, a malapena
cosciente di ciò che stesse facendo. E poi, una volta
terminato il lavoro,
aveva detto qualcosa di molto strano.
- Perché? - aveva esordito fuori
di sé, quasi che stesse enunciando a voce alta un pensiero
interno - Perché
così attaccati alla vita? Consumarsi lentamente nutrendosi
di rimorso e
disperazione: è così che deve finire?
Lui l'aveva guardato a bocca
aperta, totalmente sorpreso da quell'uscita. Il padre si era poi
voltato verso
di lui, quasi accorgendosi solo in quel momento della sua presenza.
Aveva
bofonchiato uno "scusami, figliolo" e se n'era andato. L'altro era
rimasto molto turbato da ciò; che accidenti aveva voluto
dire suo padre con
quelle parole?
Lo aveva capito qualche tempo
dopo, il loro significato. Senza più la macchina per
produrre l'aria respirare
era diventata un'operazione ardua: di giorno si poteva tranquillamente
usare i
respiratori portatili, ma di notte la faccenda diventava complicata.
Ogni
bomboletta d'ossigeno - ormai erano rimaste quasi unicamente quelle
piccole, da
cinque dollari - aveva un'autonomia di circa tre ore, e una volta
terminato il
gas in esse contenuto diventavano inutilizzabili. Dormire poi con
quelle cose
attaccate alla faccia era impossibile: bisognava infatti periodicamente
alzarsi
per controllare che la bomboletta funzionasse ancora bene e per
sostituirla nel
caso si fosse esaurita.
Era stato lui a trovare una
soluzione: per assicurarsi che entrambi stessero bene l'uomo aveva
posto una
sveglia nel corridoio esterno alle loro stanze. La sveglia era stata
settata
per suonare ogni mezz'ora; entrambi così, nel caso avessero
dormito, sarebbero
stati svegliati e avrebbero potuto controllare le loro bombolette. A
quel punto
i due, appurato che tutto da loro andava bene, sarebbero dovuti uscire
nel
corridoio per spegnere la sveglia, non prima però che anche
il compagno fosse
arrivato.
Lui era stato il primo a riconoscere
che la sua non era stata certo il massimo come soluzione, ma almeno era
efficiente: si riusciva così infatti a salvaguardare
entrambi in qualsiasi
caso. Certo, il sonno ne risentiva, ma bisognava scegliere il male
minore. Dopo
una notte di sperimentazione ne era stato appurato l'effettivo
funzionamento e
anche suo padre, dopo alcune titubanze, aveva accettato di seguire il
protocollo.
Tutto era andato bene per un po'
ma forse, dopotutto, c'era davvero stata qualche forza superiore
maligna a
complottare contro i sopravvissuti. Una notte come le altre la sveglia
era
suonata per l'ennesima volta e in un attimo padre e figlio si erano
ritrovati
fuori dalle proprie stanze, l'uno assicurandosi l'incolumità
dell'altro. E, per
la prima volta dopo tanto tempo, il padre gli aveva sorriso. Suo figlio
era
stato immensamente felice di ciò: tutto lo stress e le
preoccupazioni degli
ultimi tempi gli avevano fatto dimenticare di essere ancora in grado di
sorridere. L'altro aveva ricambiato, si erano dati la buonanotte ed
erano
infine ritornati a dormire.
Mezz'ora dopo la sveglia era
suonata nuovamente, e lui si era recato ancora una volta nel corridoio.
Solo
che, in quell'occasione, suo padre non si era fatto vedere. Fiducioso
che si
sarebbe presto palesato aveva aspettato per un po', ma man mano che i
secondi
erano inesorabilmente scorsi la sua preoccupazione era andata
aumentando. Alla
fine, dopo quasi un minuto e mezzo di attesa, non ce l'aveva
più fatta ed aveva
rotto gli indugi.
Si era precipitato immediatamente
nella stanza del padre, quasi sfondando la porta per l'irruenza
dell'intrusione, ed era rimasto senza parole per quello che aveva
visto. Suo
padre giaceva nel letto, rigido e senza vita; sul tavolino accanto a
lui un
biglietto recitava: "Ti lascio in eredità tutte le mie
bombole. Perdonami,
figliolo.".
Suicidio. Inizialmente aveva
fatto fatica ad accettare la realtà: si era accasciato in un
angolo, una mano
sulla faccia per asciugarsi le lacrime e il respiratore nell'altra,
cercando di
convincersi che era stata una disgrazia. "Un guasto, un
malfunzionamento..."
si era ripetuto fino allo sfinimento "Sicuramente è stato
così. Per forza
deve essere stato così!".
Col passare del tempo la
consapevolezza della realtà si era fatta lentamente strada
in lui. Nonostante
inizialmente avesse provato a reprimere qualsiasi pensiero al riguardo
alla
lunga sarebbe stato impossibile far finta di niente. E la semplice
realizzazione che, quando l'aveva trovato, suo padre non indossava il
respiratore era bastata a far crollare il suo fragile castello di carte.
Accettata l'idea del suicidio ne
aveva tuttavia dapprima ignorato i motivi. Era stato solo ripensando
allo
strano discorso fatto da suo padre qualche tempo prima che aveva
compreso. E,
nonostante avesse capito tutto, aveva comunque provato per un po' a
negare la
realtà dei fatti. Loro due prima e lui solo poi potevano
anche essere in vita,
ma ciò non influiva sul fatto che fossero solamente i
residui finali di una
specie condannata. In parole povere, lui era rimasto l'ultimo uomo
sulla Terra.
E ciò che non avevano fatto le guerre e le malattie
l'avrebbe fatto il tempo.
Non aveva mai accettato, almeno
in apparenza, di essere l'ultimo esponente della sua razza. In fondo,
chi mai
era lui per essersi meritato questo? Per un po', dopo un adeguato
periodo di
lutto, aveva provato a condurre un'esistenza "normale", ma
ciò gli
era risultato ben presto impossibile perché, dentro di lui,
sapeva
perfettamente come stavano le cose.
Presto continuare a vivere in
quel modo gli era divenuto insopportabile. Tutte le volte che passava
per i
corridoi vuoti essi sembravano rimbombare del suono dei suoi passi, e
il
perpetuo silenzio che aleggiava nel Palazzo certe volte gli pareva
più
assordante di un'esplosione. Era stata solo questione di tempo
perché perdesse
il senno.
Quando il cibo aveva cominciato a
scarseggiare aveva cercato di sfuggire ai suoi problemi rifugiandosi
nell'alcol. All'inizio gli era sembrato di aver trovato finalmente
qualcosa che
gli potesse dare la sospirata pace, ma presto aveva cambiato idea.
Forse erano solo allucinazioni
causate dall'ebbrezza, ma quando beveva cominciavano ad apparire
persone
dappertutto. Spuntavano come funghi: erano in ogni dove, in mezzo a
tutti i
corridoi, dentro ogni stanza, dietro ogni angolo. Ognuna aveva la
faccia di
qualcuno che aveva conosciuto. E tutte sorridevano.
Terrorizzato com'era dai fantasmi
aveva provato a darci un taglio con l'alcol, ma non ci era riuscito.
Ormai ne
era dipendente, era diventata l'unica cosa indispensabile alla sua
sopravvivenza.
E così, tutte le volte che buttava giù un sorso,
era costretto a correre via
per evitare di trovarsi davanti il volto di qualche morto.
Ma che vita era quella? Correre,
correre, bere, correre di nuovo. Un ritmo del genere non era
sostenibile e lui lo
sapeva bene, ma per un po' aveva preferito non pensarci. Da qualche
tempo
preferiva non pensare più a niente. Poi però un
giorno gli era caduto l'occhio
su una vecchia pistola risalente alla guerra, e mai prima di allora
un'arma gli
era sembrata così attraente.
Aveva preparato tutto con cura,
utilizzando uno zelo e un'energia che da tanto tempo gli era sembrato
di non
possedere più. L'aveva smontata, ripulita, oliata e
rimontata dopo averla
lucidata pezzo per pezzo. Era una bellezza, e più di una
volta gli erano venute
le lacrime agli occhi.
Dopo essersi preparato l'arma si
era procurato una solenne sbronza come ricompensa. "Del resto" aveva
pensato "L'ultimo alcolista deve rimanere fedele ai suoi principi.".
Anche stavolta aveva visto le facce sorridergli, ma a differenza delle
altre
volte lui aveva ricambiato. Non c'era nulla da temere dai morti in
fondo. Lo
stavano solo incoraggiando a raggiungerli, ecco tutto.
Aveva spaccato l'ultima
bomboletta rimastagli per assaporare un'ultima volta l'aria senza dover
per forza
stare attaccato ad una maledetta macchina. Voleva avere un ultimo
piacere prima
di morire, e visto che era rimasto solo c'era forse qualcuno ancora
vivo per impedirglielo?
Si era sistemato nel salone
principale, davanti alla grande vetrata che dava sul deserto.
Stravaccato su un
confortevole divano, pensò che quella vista fosse bellissima
nella sua
semplicità. Bevve un ultimo sorso di liquore,
gettò lontano la bottiglia e
ascoltò il suono del vetro che andava in frantumi con un
misto di tristezza e
nostalgia. Infine si portò la pistola alla tempia.
Subito prima di premere il
grilletto tuttavia la sua attenzione era stata catturata da qualcosa.
Fuori
infatti una folata di vento aveva improvvisamente portato nel suo campo
visivo
un affarino verde e svolazzante: una bella banconota da cinque dollari.
- Ciao, piccolina. - gli era
scappato da dire - Guarda: ecco tu e le tue sorelle dove di avete
portati.