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Autore: Ardesis    26/06/2017    10 recensioni
E se una piccola deviazione di percorso avesse compromesso l’intera vicenda?
Genere: Erotico, Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, André Grandier, Oscar François de Jarjayes
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Camminò nel buio dei giardini seguendo il richiamo dell’acqua che zampillava in una fontana. Aveva bisogno di sciacquare il viso dal sale delle lacrime e di guardarsi negli occhi, riappropriarsi di sé. Trovò la fontana dietro ad un muro di siepe, ma un passo falso le impedì di raggiungerla. Un lembo dello strascico finì sotto la suola di una delle sue antipatiche scarpette e, quasi senza rendersene conto, Oscar si ritrovò in ginocchio sulla ghiaia. La bottiglia di vino che aveva in mano, rubata e ormai vuota, le sfuggì dalle dita e si infranse contro il bordo della fontana con uno schiocco acuto. 

Incurante dei danni irreparabili che avrebbe causato alla delicata stoffa dell’abito, Oscar si trascinò fino al bordo della vasca e si protese sullo specchio d’acqua per rivedere il proprio viso.

Inebriata com’era dalla delusione e dal vino, quasi non riconobbe se stessa nel riflesso tremolante della fontana. Di fronte a lei c’era un volto a pezzi come i resti della bottiglia sparsi ai suoi piedi.

-Che cosa volevo dimostrare?-

 

 

Aveva sperato di riuscire a confondersi tra le altre dame come una rosa in un bouquet, invece, quando era arrivata al ricevimento, gli occhi dell’intero salone l’avevano lapidata con sguardi stupefatti.

Era rimasta immobile sulla porta d’ingresso, convinta di apparire ridicola e grottesca, e il suo piede si era istintivamente mosso all’indietro, pronto alla fuga. 

Poi di colpo aveva visto lui, quasi nascosto in mezzo alla folla, ma sfolgorante di raffinata bellezza. Tutti gli altri erano diventati presenze superflue, fantasmi.

Senza smettere di stringere il ventaglio tra le mani per provare a fermare il tremore delle dita, si era addentrata nel salone accompagnata da un silenzio irreale.

Un piede avanti all’altro. Passi brevi, movimenti aggraziati. Quel breve tratto di sala le era sembrato un supplizio interminabile. E quando infine si era trovata ad un passo da lui, non era nemmeno riuscita a guardarlo negli occhi. Gli aveva teso semplicemente la mano e si era abbandonata tra le sue braccia per il tempo di un minuetto, senza mai alzare lo sguardo.

-Il mio cuore si commuove nel vedere ciò che siete diventata, Oscar.-

Le aveva sussurrato Fersen, accostando le labbra al suo orecchio mentre le stringeva un braccio intorno alla vita. 

Era stato come ricevere un pugno nello stomaco.

 

 

 

Intinse un fazzoletto nell’acqua della fontana e se lo strofinò con rabbia sul viso. L’acqua fresca attenuò l’avvisaglia di emicrania che si era presentata sulle sue tempie e lavò via i residui di cipria e di belletto che le avevano appesantito la pelle. Con uno sbuffo immerse le mani nell’intreccio contorto dell’acconciatura per sciogliere i capelli e quando finalmente sentì le ciocce ricadere morbide e libere sulle sue spalle nude, cercò di nuovo con lo sguardo il proprio riflesso sull’acqua. Questa volta si riconobbe, ma non si piacque per niente.

 

 

 

-Venite, voglio parlare con voi al riparo da questi sguardi cattivi ed indiscreti.-

Le aveva detto lui con un sorriso accattivante e, senza aspettare una risposta, aveva impugnato il suo polso sottile per condurla con sé fuori dalla sala. 

Avevano attraversato quasi di corsa gli ampi corridoi di Versailles, schivando qualche servo assonnato e qualche guardia incurante, per raggiungere i giardini, dove avevano trovato rifugio nella discrezione delle siepi profumate del labirinto.

-Sette anni sono passati, vi sembra possibile, Madamigella?-

Lei l’aveva guardato finalmente in viso ed era rimasta in silenzio ad assaporare la sua presenza. Nel limpido chiarore della luna il suo volto le era sembrato più duro e consumato, ma ricco di un fascino nuovo, più maturo.

-Non sapevo, non immaginavo, che aveste scelto di rinunciare all’uniforme.-

 

 

 

L’alba non era lontana, pensò guardando il cielo grigiastro. Si staccò dal bordo della fontana e con uno sforzo si alzò in piedi per dirigersi verso i cancelli della Reggia, dove avrebbe trovato ad attenderla la sua carrozza. Si tolse le scarpe e camminò scalza. Sentire i ciottoli ruvidi sotto i piedi paradossalmente le diede sollievo.

 

 

 

-Solo per questa sera, Fersen, solo per voi.-

Era stato arduo non far tremare la voce e tenere lo sguardo allacciato a quello di lui. Il profumo del Conte la confondeva, era impregnato di aromi intriganti e sconosciuti. Aveva l'odore dell'America, forse, della guerra e dell'oceano.

-Devo confessarvi che io vi ho pensato molto in questi anni, talvolta con malinconia, talvolta con angoscia. Ma questa dolorosa nostalgia mi ha condotta a riconoscere finalmente il forte sentimento che nutro per voi.-

 

 

 

Prima di salire sulla carrozza, si voltò indietro e osservò le poche finestre illuminate che punteggiavano la facciata scura della Reggia. Si chiese se una di quelle luci fosse il riverbero delle candele della stanza di Fersen. Scrollò la testa e prese posto sul cocchio.

Versailles era stato il teatro della sua giovinezza, ma lei era stanca di recitare in quella commedia. Era tempo di uscire di scena e di dare una direzione alla propria vita nel mondo reale.

 

 

 

Da un momento all’altro, si era ritrovata con le labbra impegnate in un bacio. Un bacio! Il suo cuore era stato tramortito dallo stupore ma la sua bocca si era subito felicemente arresa. Baciare era come ballare, aveva scoperto. C’era ritmo, armonia, intesa, solo che a muoversi erano parti diverse del corpo e non serviva la musica.

In quel momento lui era stato tutto suo, ma l’illusione della conquista era durata davvero poco. Il Conte era diventato sempre più esigente, le sue mani si erano fatte audaci, la sua bocca avida. Qualcosa nella prepotenza del suo desiderio le aveva risvegliato il buon senso e la prudenza.

-Vi prego, abbiate pazienza.- gli aveva detto allontanandolo -Ho necessità di domandarvi un pegno della vostra buona fede: solo poche parole.-

Aveva premuto la lingua sul palato per stringere nella bocca il gusto di quel bacio interrotto e aveva fatto appello a tutto il sangue freddo che aveva in corpo.

-Siete disposto a mettere da parte i vostri sentimenti per Maria Antonietta?-

Il lampo che era passato negli occhi di Fersen aveva parlato per lui. “No.”

Oscar aveva avvertito un fremito alle ginocchia e un dolore profondo, come una stilettata nello stomaco. Ma aveva rimandato le lacrime e aveva provato ad improvvisare un atteggiamento stoico, pur essendo consapevole di apparire poco credibile, forse addirittura ridicola, con gli occhi lucidi, le labbra gonfie e le guance arrossate.

-Molto bene, Fersen, capisco.-

La mano del Conte si era posata sulla sua guancia con un tenerezza quasi paterna, sgretolando, al medesimo tempo, il suo cuore e il suo orgoglio. 

-Perdonatemi, Oscar. Voglio essere franco con voi ed evitare di farvi promesse vacue, a nome del legame d’amicizia che ci univa in passato. Nel mio letto c'è spazio per voi, come per altre donne. Ma non nel mio cuore. Posso offrirvi un po’ di piacere e divertimento, nulla di più.-

Gli occhi di lei avevano cominciato a bruciare come se d’improvviso non avessero più potuto sopportare il vento fresco della notte.

-C’è... un favore che devo chiedervi.- aveva sentito dire dalla propria voce -Dovreste parlare con Sua Maestà al più presto e convincerla a tornare a risiedere Corte. È di fondamentale importanza per la sua reputazione e per l’immagine pubblica della Corona. A voi darà ascolto.-

Fersen aveva annuito e si era chinato su di lei per stampare un casto bacio sulla sua fronte, il colpo di grazia. Poi le aveva dato le spalle ed era tornato al ballo, lasciandola da sola in mezzo alle siepi.

 

 

 

-Ingenua.-

Si accusò, aprendosi il corsetto con uno strappo. I bottoni schizzarono sullo sportello della carrozza e la stoffa fragile dell’abito si lacerò, permettendole però di riempire i polmoni con una benefica dose d’aria. 

Una sottilissima pioggia aveva appena iniziato a cadere da un cielo grigio perla adagiandosi in piccole sfere sulla superficie del vetro. La livida luce che penetrava le nuvole suggeriva che il sole si apprestava a sorgere.

Oscar cercò il proprio riflesso nel vetro del finestrino e vide il fantasma di ciò che aveva provato ad essere, prima un uomo e poi una donna, e capì di aver fallito in entrambi i casi. Allungò la vista per togliersi dagli occhi la propria immagine e scorse in lontananza la sagoma di Palazzo Jarjayes. Si sentì sollevata. Voleva soltanto raggiungere il proprio letto e annegare tutto nell’oblio del sonno per qualche ora.

Marron la attendeva sulla soglia dell’ingresso con le mani incrociate in grembo e con il suo solito sorriso composto e benevolo, ma non appena la vide scendere dalla carrozza non riuscì a trattenere un’esclamazione di stupore.

-Oscar, cosa ti è successo? Perché l’abito è in queste condizioni?-

Oscar le sfilò davanti a passo di marcia.

-Non ha importanza. Gettalo nel fuoco o ricavane degli stracci.-

Marron balzò all’indietro come se mani invisibili l’avessero spinta e si sciolse in un pianto silenzioso coprendosi il volto con il grembiule. Oscar si fermò e le rivolse uno sguardo severo.

-Sono spiacente di aver rovinato il vestito, ma non posso proprio più vederlo, né tantomeno indossarlo. Ecco, io...-

Troncò la frase e si guardò intorno col fiato sospeso, in cerca dell’unica persona che voleva davvero vedere. Il vuoto lasciato dall’assenza di André era palpabile.

-Dov’è tuo nipote?-

Marron sollevò le spalle e con la voce rotta rispose che era uscito a cavallo la sera prima e che non aveva ancora fatto ritorno. 

Oscar non ne fu sorpresa, ma provò un vago senso di tradimento che si obbligò subito a reprimere. Con un sospiro si aggrappò alla balaustra della scala e sollevò gli occhi sui gradini. Detestò l’idea di dover affrontare quella scalinata con l’intralcio della gonna e con quelle scarpette strette e scomode. Ripensò con amarezza a quando li aveva scesi al braccio di André, piena di radiose aspettative. Scosse la testa per disperdere quei pensieri.

-Mandalo da me non appena fa ritorno.-

 

 

 

 

 

 

Tornare a casa fu un calvario. La testa gli faceva male come se il cavallo l’avesse più volte calpestata e le gambe faticavano a reggere il peso del corpo. Si fermò e si piegò su se stesso per vomitare in un angolo. Doveva essere la terza volta, fece notare a se stesso.

-Ho proprio esagerato.-

Biascicò passandosi un fazzoletto sulla bocca. Per un momento pensò di ripiegare nuovamente verso il bordello o verso la taverna, ma tastandosi le tasche della giacca scoprì di non avere più un soldo. Non gli restava altro da fare che tornare a casa e sperare che nessuno lo vedesse in quello stato.

Si aggrappò alle briglie del cavallo per reggersi e continuò a camminare. 

Non aveva percorso molta strada quando d’improvviso il silenzio che lo circondava fu spezzato da una serie di strani rumori. Urla, vetri rotti, zoccoli di un cavallo al galoppo e un brusio nervoso.

André constatò di essere troppo ubriaco per potersene preoccupare. Preferiva concentrarsi sul non cadere in mezzo al fango della strada. E poi di notte a Parigi era sempre meglio stare alla larga da tutto ciò che puzzasse di guai. Anche con tutte le buone intenzioni del mondo, ci si poteva ritrovare immischiati in brutte faccende.

Mentre con un sospiro tornava ad autocommiserarsi, da una strada laterale si palesò tutt’a un tratto il viso barbuto di un uomo che, non appena vide André, spalancò gli occhi e congiunse le mani come se avesse visto un santo.

-Fuggi, ragazzo! E che Dio ti benedica!-

André non fece nemmeno lo sforzo di provare a capire. Rivolse a quell’uomo un breve sguardo senza espressione e si allontanò senza dire nulla, ben deciso a non interrompere il proprio pellegrinaggio verso casa.

Parigi era proprio un covo di matti, pensò.

   
 
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