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Autore: Old Fashioned    27/06/2017    10 recensioni
Siamo nel Regno di Prussia, per la precisione nel 1752. Un colonnello della Guardia, Wilhelm von Kleist, riceve una misteriosa lettera dal nipote, un giovanotto che ha abbandonato la vita di agi che la sua condizione nobile gli riserverebbe per vivere a Berlino con i miseri proventi delle sue poesie. La lettera mette subito in allarme il nostro colonnello, perchè è molto strana. Così strana, in effetti, da fargli sospettare che il giovane nipote non sia più in possesso delle sue facoltà mentali.
Andrà a Berlino con l'intento di riportarlo a casa, ma scoprirà di essere giunto troppo tardi. E mentre indagherà sui motivi che hanno portato il ragazzo alla morte, scoprirà misteriose società segrete e intrighi che arrivano addirittura a coinvolgere la persona di Sua Maestà Federico il Grande.
Prima classificata al contest "In punta di pennello" indetto da Stainless_ sul forum di Efp a pari merito assieme a "Iperuranio" di L u c i n d a
Premio speciale "La Gioconda" per la storia più intrigante nello stesso contest.
Genere: Azione, Mistero, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Parte seconda – Albedo

Secondo procedimento dell’Opera, che consiste nella purificazione tramite il Fuoco della massa informe scaturita dalla Nigredo al fine di prepararla alla fase successiva.


Seduti a un tavolo, von Ruchel e von Kleist stavano studiando gli oggetti riportati dall’escursione berlinese.
“Che ne pensi?” chiese il colonnello.
L’altro sollevò una delle catenine e osservò il contenitore, un cilindretto di metallo grande come l’ultima falange di un mignolo. Vi fece scorrere sopra le dita, ne palpò ogni asperità e infine fece cenno all’amico di passargli il tagliacarte che teneva sulla scrivania.
Con la lama smussata fece leva in un punto dove si vedeva una piccola intaccatura, e il cilindro si aprì in due metà per il lungo, rivelando un cartiglio arrotolato.
I due si scambiarono un’occhiata. Von Ruchel distese il piccolo pezzo di carta e subito apparve una sequenza di lettere:

V.I.T.R.I.O.L. (V.M.)

Nel secondo contenitore c’era la stessa cosa.
Von Kleist osservò perplesso i biglietti e chiese: “Tu sai cosa significa questa serie di lettere?”
L’altro annuì. “Visita Interiora Terrae Rectificando Invenies Occultum Lapidem, Veram Medicinam. Ovvero, visita le profondità della terra e attraverso la purificazione troverai la pietra segreta, vera medicina. È un motto dei Rosacroce attribuito a Basilius Valentinus, fa riferimento alla necessità di scendere nelle viscere della terra, ovvero negli anfratti oscuri dell’anima, per conseguire l’iniziazione.”
L’ufficiale aggrottò le sopracciglia. “Aspetta un attimo. Hai detto Basilius?”
“Basilius Valentinus, frate benedettino e alchimista vissuto nel secolo scorso.”
“È come si fa chiamare quello là. Dici che può esserci un collegamento?”
Von Ruchel annuì. “Penso di sì. Del resto, anche Theophrastus proviene dallo stesso ambito, dal momento che era il nome di Paracelso.”
Il colonnello si alzò e fece qualche passo per la stanza. “Tutto questo non ha senso,” disse. Andò alla porta finestra e per un po’ stette a guardare fuori. Infine, con voce dura riprese: “Ma qui niente ha più senso. Credevo di avere a che fare un nipote un po’ eccentrico, che invece di diventare soldato voleva fare il poeta, ed ecco che mi trovo alle prese con società segrete, frasi incomprensibili e codici cifrati.” Tirò fuori di tasca il pezzo di carta su cui aveva copiato la sequenza di lettere trovata nella camera di Konstantin e lo mostrò all’amico. “Guarda cosa c’era nei vetri della finestra, una lettera per ogni riquadro.”
Von Ruchel osservò il foglio:

S S A I
M L O M
F C U R
U U B V

“Passami la Melancolia,” disse dopo qualche secondo.
Brontolando qualcosa di inintelligibile, von Kleist si alzò, andò a un tavolo ingombro di fogli, scartabellò un po’ e infine estrasse il disegno. “Eccola qui,” disse porgendola a von Ruchel.
L’amico, cui si era acceso lo sguardo come accadeva solo in occasione delle scoperte più interessanti, disse: “Ora proviamo a leggere queste lettere seguendo la sequenza del quadrato magico che c’è nell’immagine.”
Il risultato fu:

VASUM CUM FLORIBUS

Von Kleist aggrottò le sopracciglia. “Vaso con fiori? Cos’è, un codice segreto anche questo?”
L’altro scosse la testa. “Non direi, sembra più un messaggio per te.”
“Per me?”
“Nella lettera c’era scritto di guardare fuori dalla finestra con melancolia, giusto? E tu mi dici che sui vetri c’erano queste lettere disposte a quadrato. Secondo me tuo nipote ti stava suggerendo il modo di leggerle nella giusta sequenza.” Si alzò con fatica, andò alla ricerca della lettera di Konstantin che si trovava ancora sulla sua scrivania, la aprì e citò: allora ciò che era manifesto sarà nascosto e ciò che era nascosto sarà manifesto e di certo vedrete la via per comprendere il motivi del mio turbamento.
Sì, ma ‘vaso con fiori’ non significa niente,” disse von Kleist dopo un po’.
“Che tu sappia, c’era qualche vaso da fiori che avesse un particolare significato per lui?”
L’ufficiale ci pensò su. “L’unica cosa che mi viene in mente sono le rose di sua madre, ma non sono nei vasi. Stanno in terra.”
“E allora perché avrebbe parlato di un vaso?”
“Lo chiedi a me?”
“Beh, sì. Il messaggio è indirizzato a te, quindi dovrebbe fare riferimento a qualcosa che conosci.”
Von Kleist scosse la testa. “Abbiamo sempre parlato di tante cose, io e lui, ma mai di fiori. Non so come possa essergli venuta in mente una frase del genere.”
I due si scambiarono un’occhiata delusa: la pista che avevano cominciato con tanto entusiasmo a percorrere rischiava di rivelarsi un vicolo cieco.
Si udì tossicchiare. Entrambi si voltarono verso Franz, ovvero la provenienza del rumore. Vagamente imbarazzato da quell’improvvisa attenzione, il valletto disse: “Ecco, Eccellenza… Vi chiedo scusa. Non per mancarvi di rispetto, ma nella camera c’era un vaso con dei fiori. Forse era di quello che parlava il povero signorino.”
Von Kleist rivide la stanzetta di Konstantin: il letto, il tavolino. Il davanzale. E sul davanzale c’era un vaso di terracotta in cui cresceva una piantina di rose.
“Maledizione, è vero!” esclamò. “Il vaso con i fiori, ecco a cosa si riferiva.” Poi, alzandosi bruscamente: “Torniamo a Berlino!”
“Wilhelm, ragiona,” intervenne von Ruchel, “tra un po’ sarà buio.”
“Motivo in più per sbrigarci. Quello che sappiamo noi, lo sanno anche loro.”
“Loro chi?”
“Quelli che hanno ucciso Konstantin. Gli stessi che ci hanno assaliti sulla via per il Teufelsee. I Rosacroce, o quel che diavolo sono. Dobbiamo arrivare prima di loro, o possiamo dire addio al nostro unico indizio.”



La signora Pfannenschmied comparve sulla soglia in camicia da notte ma con la parrucca. In mano aveva la lorgnette, attraverso la quale scrutava con disappunto i nuovi arrivati. “Credevo che ci fossimo salutati ieri mattina,” proclamò sussiegosa.
“Abbiamo bisogno di dare un’occhiata alla camera,” disse von Kleist per tutta risposta.
“A quest’ora?”
“È cosa della massima importanza. Siate così gentile da farci strada.”
La signora fissò l’ufficiale costernata. “Ma sono in déshabillé,” protestò.
“Per reggere un lume e accompagnarci in soffitta non c’è bisogno dell’abito da sera.”
La donna sospirò. “Voi dovete ringraziare che sono una persona di buon cuore e che voglio essere gentile perché avete subito un terribile lutto,” brontolò, poi prese una candela e cominciò a salire le scale.
Von Kleist mantenne il silenzio.
“Se no vi farei tornare domattina, ecco cosa farei.” Continuò a ciabattare su per le rampe scricchiolanti reggendosi la gonna con la mano della lorgnette.
Arrivarono finalmente alla soffitta. L’ufficiale spalancò la porta già vedendosi davanti agli occhi il vasetto di terracotta con dentro la piccola rosa.
Sul davanzale non c’era nulla.
Si voltò costernato verso la signora Pfannenschmied e chiese: “Dov’è il vaso?”
“Che vaso?”
“Quello che era sul davanzale.”
La donna mollò le sottane e inforcò la lorgnette, scrutando poi l’ambiente come se lo vedesse per la prima volta. Infine chiese: “Parlate forse del mio vaso di rose, che avevo lasciato nella camera del giovane signor Theophrastus per allietarlo nelle sue giornate solitarie?”
Von Kleist sospirò: ci sarebbe stato da contrattare. “Proprio quello,” rispose.
“Beh, si dà il caso che io nutra una profonda affezione per quelle rose, dal momento che le ho coltivate con le mie mani...”
“Signora Pfannenschmied...”
“...Ed erano quelle che crescevano sulla tomba della mia povera madre. Le ho trapiantate io stessa un giorno di dicembre, con il gelo che mi piagava le mani.”
“Signora Pfannenschmied, le do un tallero per quel vaso.”
“Quanto siete prosaico, signor ufficiale. Credete forse che l’amore si possa comprare con i soldi?”
“Qualsiasi soldato che sia stato in una città di guarnigione sa che si può, signora.” La donna lo fissò costernata, inforcando la lorgnette per sottolineare il suo sdegno. “Due talleri,” concluse poi l’ufficiale, “non un Pfenning di più. Se non accettate, quant’è vero Iddio da domani in poi verrò a trovarvi tutti i giorni fino a che i due talleri non me li darete voi per convincermi a togliermi di torno.”



Von Kleist e von Ruchel rimasero a osservare per un bel po’ il piccolo vaso posato sul tavolo. Era un semplice contenitore di terracotta, non aveva scritte, motivi decorativi o qualsiasi altro tratto distintivo. La pianticella era una semplice rosa rossa, senza altre particolarità che la grazia di un piccolo fiore che si stava schiudendo.
“Proviamo a guardarci dentro,” propose alla fine von Ruchel.
L’ufficiale annuì, poi disse: “Non rovinare la pianta, se puoi. La voglio portare a Luise.”
“D’accordo.”
Si spostarono in un laboratorio, andarono a un tavolo e ricavarono uno spazio libero fra le innumerevoli cose che vi erano posate sopra, quindi von Ruchel distese uno strofinaccio e vi rovesciò sopra il contenuto del vaso. Tra le radici della rosa apparvero una chiave di bronzo decorata con elaborati ornamenti e una scatoletta non più grande di una tabacchiera, con il coperchio sigillato dalla pece.
I due si scambiarono un’occhiata. Von Ruchel prese il piccolo contenitore e con la lama del tagliacarte lo aprì: dentro c’erano una chiave più piccola e un foglio ripiegato su cui era scritta una frase:

Cerca l’Ouroboros presso cui si trova il Custode delle Dodici Chiavi. Passa attraverso le fauci del drago, cerca i Sette Sigilli di Paracelso. V.I.T.R.I.O.L.

“Oh, no,” si lamentò l’ufficiale, “degli altri enigmi.”
Osservò il foglietto: la grafia era senza dubbio quella di suo nipote. Ma perché anche in quello che evidentemente doveva essere un messaggio per i suoi eventuali salvatori aveva usato quel linguaggio incomprensibile? Emise un sospiro desolato e poi disse: “Va bene. Cos’è un Ouroboros? E chi è il Custode delle Chiavi?”
“Delle Dodici Chiavi,” lo corresse l’altro.
“Che siano Dodici o Ventiquattro non mi interessa. Quando finalmente riuscirò a mettere le mani addosso a chi ha ucciso Konstantin, gli farò pagare anche tutto questo.”
Von Ruchel rilesse il foglietto. “Le Dodici Chiavi hanno sicuramente a che fare con Basilius.”
“Ah, sì?”
“Le Dodici Chiavi della Filosofia è il suo libro più famoso. Non riesco a capire cosa c’entri l’Ouroboros, però.”
“Sarebbe?”
“Il serpente che si morde la coda. Simbolo di eternità, indica la natura ciclica di tutte le cose. È uno dei simboli più usati nell’alchimia.”
Von Kleist annuì assorto. Man mano che il suo amico li enumerava, tutti quegli elementi pian piano stavano componendo un quadro nella sua mente. Rivide la villa con le statue misteriose, cosa c’era sulla facciata?
“Ci sono!” esclamò alla fine. “So dov’è.”
“Dove?”
“Nella villa di quel tale Basilius. C’è anche una specie di grotta fatta come la bocca di un drago.”
“Hai intenzione di andarci?”
“Si capisce che ci andrò,” rispose l’altro, come se fosse la cosa più ovvia del mondo. “Questa sera stessa.”
Von Ruchel emise un sospiro. “Non sai cosa darei per poter venire con te.”
L’ufficiale si girò verso di lui e vide che aveva lo sguardo fisso sulla propria gamba. Gli appoggiò una mano sulla spalla e stringendola piano gli disse: “E tu non sai cosa darei per averti al mio fianco come ai vecchi tempi. Mi sentirei più tranquillo sapendo che ci sei tu a coprirmi le spalle.” Poi, dopo una pausa: “Come a Mollwitz, ti ricordi?”
L’altro ebbe un lieve sorriso. “Già.”
“Lì mi hai praticamente salvato la vita.”
“Sì, una volta combattevo. Ora non posso fare altro che stare qui come un povero invalido a scartabellare vecchi libri.” Afferrò il bracciolo del divanetto con tanta forza che lo fece scricchiolare, poi si alzò con fatica e si allontanò con un movimento brusco dandogli le spalle. Von Kleist rimase in silenzio per un po’, poi disse: “Questi sono i casi della vita, Johannes, non possiamo farci niente. Non te lo meritavi di certo, ma lo sai meglio di me come vanno le cose sul campo di battaglia.”
Von Ruchel emise un altro lungo sospiro, sembrò ricomporsi. “Già. È successo e non serve a niente lamentarsi. Ora dammi un pezzo di carta, sii gentile, così ti disegno quei sigilli di Paracelso che dovresti cercare.”
“Sì, è meglio, perché io non li riconoscerei nemmeno se ci fosse scritto sotto che cosa sono.”
L’altro tracciò su un foglio dei segni che a von Kleist parvero scarabocchi di bambini, poi sotto a ognuno si essi scrisse il nome di un metallo: oro, argento, rame, piombo, stagno, ferro e mercurio.



La notte stessa, a cavallo, in borghese e armato, Wilhelm von Kleist si diresse alla misteriosa abitazione. Lo accompagnava l’immancabile Franz, anche lui armato fino ai denti.
Si fermarono a circa un quarto di miglio dalla villa e l’ufficiale disse: “Tu aspetta qui con i cavalli. Se fra un paio d’ore non sono di ritorno, corri ad avvisare il signor von Ruchel.”
“Eccellenza! Non vorrete andare da solo!” esclamò il valletto allarmato.
“In due ci faremmo notare troppo, e poi ci vuole qualcuno che faccia la guardia ai cavalli.”
“Ma Eccellenza...”
“Non discutere, Franz.” Il tono era di quelli che non ammettevano repliche. “Sai cosa devi fare. Mi aspetto che tu lo faccia.”
Il ragazzo chinò il capo. “Sì, Eccellenza.”
“Molto bene. Ricorda: due ore.” disse l’ufficiale, poi prese dalla sella una lanterna cieca, l’accese e si incamminò.
Per evitare di essere visto abbandonò la via battuta dopo la prima curva e si addentrò nella macchia.
Avanzò per un po’ in mezzo a un fitto sottobosco, poi la vegetazione cominciò a diradarsi per lasciare spazio alle vestigia di aiuole e siepi. Si imbatté in una stele di pietra consumata dalle intemperie, sulla quale si riconoscevano al tatto delle antiche incisioni.
Schermò completamente la lanterna e procedette affidandosi alla luce delle stelle. Ben presto distinse nel buio la sagoma delle quattro donne con le ampolle sulla testa.
Si acquattò nel buio e rimase in ascolto per lunghi minuti, ma a parte i rumori degli animali notturni e il lieve frusciare del vento sull’erba incolta, il luogo era perfettamente silenzioso. Si avvicinò piano e subito riconobbe la voragine nera della bocca di drago.
Strisciò in avanti un altro po’, rimase ancora in ascolto, ma l’ambiente di nuovo gli rimandò un messaggio del tutto rassicurante. I suoni della natura gli parlavano di tranquillità, il che significava che non c’erano presenze umane. Si arrischiò a produrre un piccolo pennello di luce, col quale ispezionò l’interno della grotta.
Quello che trovò lo lasciò piuttosto perplesso. Si era aspettato di vedere da qualche parte dei sigilli, fra i quali magari anche quelli di Paracelso, invece si trovava in una piccola stanza di pietra nuda, senza alcun ornamento, dalla quale partiva una scala che conduceva verso il basso.
Rimase in ascolto, ma da sotto non proveniva alcun rumore.
Cominciò a scendere. La scala era di pietra, ricoperta di una leggera patina di umidità. Sulle pareti c’erano delle nicchie a intervalli regolari, probabilmente per metterci dei lumi. La fine della scala si perdeva nel buio.
Dopo parecchi gradini arrivò a una seconda stanza, sulla quale questa volta si affacciavano tre porte. Da una di esse partiva un corridoio, le altre due invece davano su scale, una che andava verso l’alto e una verso il basso.
Von Kleist ripensò alle parole del motto alchemico, Visita Interiora Terrae, e scelse quella che andava verso il basso. Ancora una volta si mise in ascolto, ma da essa non sembrava provenire alcun rumore.
Percorse di nuovo una quantità interminabile di gradini, poi finalmente arrivò a un vestibolo con una porta chiusa. Trasse di tasca la più grande delle chiavi e la provò nella serratura. La porta si aprì senza nemmeno un cigolio, rivelando una stanza che si intuiva molto grande, con la volta sostenuta da colonne. Decise di arrischiare un po’ più di luce e aprì completamente il diaframma della lanterna: si trovava in effetti in un locale che rammentava la navata di una chiesa. In fondo c’era una specie di altare sormontato da un’immagine di una rosa sovrapposta a una croce. Ai lati c’erano due statue che rappresentavano un pellicano e un’aquila.
Lungo le pareti laterali si aprivano delle porte sormontate da archi variamente decorati. Von Kleist si avvicinò alla prima e sollevando la lanterna guardò dentro. Illuminò una piccola stanza quadrata, che aveva le due pareti laterali occupate da librerie cariche di tomi antichi e quella di fondo affrescata. Ancora una volta rimpianse che Johannes non fosse lì con lui, perché non era in grado di dare un senso a quello che stava vedendo: c’era uno scheletro in piedi su un sole nero, con un corvo appollaiato su una mano e due angeli ai lati, poi c’era un’ampolla tutta nera nella quale giacevano un uomo e una donna nudi.
Scosse la testa perplesso e passò oltre.
Nella stanza successiva c’erano di nuovo due librerie e la parete di fondo dipinta. L’affresco rappresentava un re e una regina che si davano la mano. Ai loro piedi c’era un leone con due corpi e una testa sola, con una specie di torrente che gli usciva dalla bocca.
Andò avanti per un po’ a controllare, tutte le stanze erano strutturate nello stesso modo, suggerendo che quel luogo fosse una specie di biblioteca. Alla fine, proprio nella stanza più vicina all’altare, trovò un affresco che rappresentava un vecchio re con la corona e la barba bianca assiso sul trono e dinnanzi a lui sei giovani uomini in atteggiamento di postulanti. Ognuna delle figure era sormontata da uno dei simboli che stava cercando.
Si guardò intorno. A questo punto, ci sarebbe dovuto essere da qualche parte un buco dove infilare la chiave piccola.
Osservò dapprima con attenzione l’affresco, ma nulla sembrava suggerire la presenza di una serratura. I simboli non erano mobili né in rilievo, non c’erano asperità di sorta sulla superficie della pittura, e in definitiva, a parte il soggetto, sembrava in tutto e per tutto un normalissimo dipinto.
Guardò l’orologio: erano già passati tre quarti d’ora. Si augurò che Franz fosse ancora dove lo aveva lasciato. Capacissimo di decidere che aveva bisogno di aiuto e correre al suo salvataggio, creando più problemi che altro.
Estrasse un libro e lo sfogliò: di nuovo figure strane, qualche chiosa in latino. Lo rimise via.
Con un sospiro di frustrazione si guardò intorno. Aveva studiato l’arte della guerra, la tattica e la logistica. Nessuno l’aveva mai preparato ad affrontare enigmi e templi sotterranei.
Cercò di ragionare: se il luogo era quello – e lo era, dal momento che la prima chiave aveva funzionato perfettamente – ci doveva essere in quella stanzetta qualcosa che stava trascurando.
Come farei per nascondere qualcosa qui dentro?, si chiese. Gli unici mobili presenti erano gli scaffali. Tenendo in mano la lanterna, cominciò a estrarre libri e a controllare cosa c’era dietro. Trovò per parecchio tempo solo muro grezzo, poi finalmente si imbatté in una fenditura verticale. Tolse un altro libro, la fenditura piegava in alto e in basso ad angolo retto, suggerendo la presenza di uno sportello.
Impilò libri sul pavimento fino a che non mise a nudo una specie di rozzo tabernacolo munito di serratura. Infilò la chiave più piccola nella toppa e anche quella girò senza sforzo, rivelando una cavità nella quale si trovava un quaderno rilegato in pelle.
Von Kleist lo estrasse e lo sfogliò: la grafia di Konstantin.
Se lo infilò in tasca, richiuse lo sportello e rimise i libri al loro posto, quindi schermò la lanterna fino ad avere solo un sottilissimo fascio di luce e tornò sui suoi passi.

Quando arrivò alla stanza con le quattro porte si fermò. Tirò fuori l’orologio e controllò l’ora: aveva ancora tempo.
Sollevò la lanterna illuminando il corridoio pianeggiante. Considerata la posizione della bocca del drago e l’orientamento della prima scala che aveva disceso, calcolò che portava alla villa. Probabilmente era un passaggio per raggiungere il tempio dall’interno.
Secondo il principio che più informazioni si raccolgono sul nemico, più efficacemente viene condotta l’offensiva, vi si inoltrò.
Percorse un tratto che nel buio gli riuscì difficile valutare, ma che gli parve abbastanza lungo, tanto che ad un certo punto si chiese se per caso non avesse già oltrepassato la villa.
Poi finalmente il sottile pennello di luce della lanterna gli rimandò l’immagine di un panneggio rosso scuro.
Si avvicinò. Il corridoio era chiuso da una pesante tenda di velluto.
Di nuovo schermò completamente la lanterna e rimase in ascolto, cogliendo dopo un po’ un lieve ribollire come di acqua sul fuoco.
Spostò la stoffa producendo una piccola fessura: al di là l’aria era calda e umida, gravata di odori che gli ricordavano la bottega di un farmacista. C’era una debole luce.
Si affacciò cauto. Oltre la tenda c’era una stanza così grande che la scarsa luce non permetteva di apprezzarne i confini. Il soffitto era altissimo, e da esso pendevano tre lampadari di ferro battuto, uno solo dei quali parzialmente dotato di candele accese.
Nel centro del locale troneggiava una struttura tronco-conica a più piani, alta più di un uomo, dotata di vari sportelli di ferro, al cui interno rombava di sicuro un fuoco, perché emanava un intenso calore. Da essa si dipartivano dei tubi. Sui ripiani c’erano ampolle che ribollivano e riversavano il vapore all’interno di tubi di vetro serpentiformi.
Tutt’intorno a quell’immensa fornace c’erano tavoli, strumenti e scaffali carichi di vasi e libri.
Sembrava che non ci fosse nessuno, ma l’ufficiale non fu per nulla rassicurato da quella constatazione: il forno doveva essere alimentato, non funzionava da solo. E qualcuno di certo doveva occuparsi di tutti quegli alambicchi pieni di roba che bolliva.
Quindi qualcuno in realtà doveva esserci, in quel posto.
Scivolò oltre la tenda, si appiattì contro una parete. Di nuovo si guardò intorno, ma non vide anima viva.
Cominciò a esplorare il posto alla ricerca di un passaggio che portasse all’interno della villa. Il caldo nel frattempo si era fatto opprimente, tanto che dovette allentarsi il colletto. Si terse il sudore dalla fronte. Anche l’odore era malsano: prendeva alla gola, rendeva addirittura difficile respirare.
Si aggirò per qualche tempo nel misterioso laboratorio, poi si imbatté in una porta chiusa. Abbassò la maniglia ed essa cedette senza sforzo.
Si affacciò e si trovò davanti un’enorme cisterna di vetro nella quale guizzavano dei pesci di una specie che non aveva mai visto prima. Contro la parete c’era un retino. Al suo apparire, i misteriosi animali si gonfiarono diventando delle palle irte di aculei. L’ufficiale aggrottò le sopracciglia. Rimase a osservarli perplesso per qualche secondo, di nuovo pensando a quanto gli avrebbe fatto comodo avere Johannes con sé, poi uscì e richiuse la porta.
Guardò di nuovo l’orologio: avrebbe fatto meglio a ritirarsi in buon ordine.
In quel momento sentì dei passi. Subito si nascose sotto un tavolo in un angolo particolarmente buio. Da lì vide sopraggiungere Rainer Brandt, come al solito pallido e vestito di nero. L’uomo andò alla fornace, spalancò uno sportello e ci buttò dentro numerosi pezzi di legno, facendosi indietro ogni volta per evitare le lingue di fiamma che ne uscivano. Poi aggiunse qualcosa nelle ampolle che stavano bollendo, raddrizzò un tubo un po’ storto e infine controllò un vaso che si trovava ad un’estremità di un tubicino di vetro dal quale un liquido denso e trasparente stava colando goccia a goccia.
Si mise un paio di spessi guanti di pelle, sostituì il recipiente mezzo pieno con uno vuoto, tappò quello che aveva tolto e fece per andarsene, ma qualcosa sembrò attirare la sua attenzione.
Scrutò in giro per un po’, poi fissò lo sguardo sulla porta della stanza con i pesci. Von Kleist represse un’imprecazione: era rimasta socchiusa.
Brandt si sfilò i guanti e andò a controllare, si affacciò all’interno, quindi richiuse accuratamente, con un movimento che avrebbe potuto fare solo chi sapeva di doverlo fare. Si udì uno scatto metallico e la porta rimase bloccata al suo posto.
A questo punto, l’uomo andò verso la tenda e la scostò, rivelando un cancello di ferro. Lo chiuse sul corridoio e diede due giri con una chiave che poi si fece scivolare in tasca, quindi uscì da dove era entrato.
Von Kleist rimase per un po’ immobile nel suo nascondiglio.
Non era del tutto certo che l’uomo si fosse accorto che c’era qualcuno. La chiusura del cancello dava più l’idea di una precauzione. In ogni caso, di lì non sarebbe più potuto passare, a meno di non lasciare chiare tracce della sua presenza scardinando la serratura.
Si voltò nella direzione in cui Brandt si era allontanato: si trattava di entrare nella villa e uscire da quella parte.
Ponderò che se per caso Brandt aveva chiuso il cancello perché immaginava che nel laboratorio ci fosse qualcuno, probabilmente sarebbe stato da qualche parte ad aspettarlo.
Riguardò l’orologio: poteva fare tutti i ragionamenti del mondo, ma come aveva imparato sul campo, la sorte delle battaglie non si decide a tavolino. Doveva uscire di lì e doveva farlo in fretta: le due ore stavano per scadere, ed era sicuro che Franz non sarebbe affatto andato da von Ruchel come gli aveva ordinato, ma si sarebbe messo sulle sue tracce con l’intento di salvarlo.
Guardò un po’ in giro alla ricerca di un’altra uscita, ma trovò solo la porta da cui era passato Brandt. Vi appoggiò contro l’orecchio: non sentì alcun rumore, ma la cosa non lo rassicurò.
Abbassò comunque la maniglia e spinse l’anta, che cedette con un lieve cigolio. Al di là era buio.
Von Kleist andò a prendere la lanterna e di nuovo si affacciò con cautela. C’era un vestibolo senza mobilio, con le pareti di pietra grezza. Da esso una scala conduceva verso l’alto.
Estrasse dalla cintura la pistola che si era portato dietro, e tenendo quella nella destra e il lume nella sinistra, cominciò a salire i gradini.
Ancora una volta, non incontrò nessuno. Non c’era un rumore, se non avesse visto con i suoi occhi Rainer Brandt giungere a sorvegliare le preparazioni alchemiche, avrebbe giurato che la casa era disabitata.
Arrivò a un’altra porta. Di nuovo rimase in ascolto, poi la aprì, la varcò e si guardò intorno: era sbucato in una specie di salottino con le pareti dipinte a scene pastorali. Constatò che la porta che aveva appena chiuso alle proprie spalle era stata fatta in modo da confondersi con le pitture e gli stucchi del muro.
Non sapendo che c’era, sarebbe stato piuttosto difficile trovarla.
Continuò a camminare nella casa buia. Due o tre volte si voltò di scatto convinto di aver udito un rumore, ma invariabilmente non trovò nessuno alle sue spalle.
Dopo un po’ che girava ritrovò l’ingresso con i mobili neri e le stampe misteriose. Da lì fu facile aprire il portone di ingresso e uscire.



Mentre camminava svelto nel sottobosco augurandosi che Franz fosse ancora dove l’aveva lasciato, von Kleist ragionava fra sé e sé sulla propria fuga. Sembrava quasi che qualcuno gli avesse indicato la via per allontanarsi, come si fa nella foresta per far arrivare gli animali da cacciare esattamente dove è stata allestita la postazione dei tiratori.
Si guardò intorno, anche se nel buio sarebbe stato impossibile scorgere eventuali nemici. A parte lui il bosco sembrava immobile, addirittura disabitato: le quinte di un teatro, esattamente come la misteriosa villa.
Raggiunse finalmente il punto in cui aveva lasciato il valletto con i cavalli, Franz era dritto in piedi e teneva in mano le redini degli animali. Von Kleist poteva immaginare l’espressione ansiosa con cui scrutava il buio aspettando di vederlo ricomparire.
Franz!” chiamò.
Il ragazzo si voltò di scatto. “Eccellenza!”
Tutto tranquillo qui?”
Sì, Eccellenza.
Allora andiamo.” Si palpò la tasca della giacca controllando che il prezioso contenuto fosse ancora al suo posto. “Dobbiamo arrivare alla residenza prima possibile.”

Quando giunsero a destinazione, il cielo stava cominciando a schiarirsi. I due smontarono da cavallo, il ragazzo prese in consegna gli animali e si mosse per portarli alle scuderie, ma von Kleist gli fece cenno di immobilizzarsi. Estrasse la pistola.
Vieni fuori con le mani alzate,” ordinò puntando l’arma verso una macchia di vegetazione.
Una giovane voce maschile implorò: “Non fatemi del male, per favore.”
Vieni fuori,” ripeté l’ufficiale senza abbassare l’arma.
Si udì un fruscio di foglie e una figura smilza si alzò lentamente. “Vossignoria non mi faccia del male, per favore,” ripeté.
Von Kleist fece un passo nella sua direzione. “Sepp?”
Sissignore, sono io.”
Azzardò un passo avanti, entrando nel cerchio di luce dei lampioni che si trovavano ai due lati della porta d’ingresso. Aveva gli abiti insanguinati e strappati, il volto pesto e una fasciatura di fortuna a una mano.
Che ti è successo?” gli chiese l’ufficiale.
Zoppicando lievemente, il ragazzo fece qualche altro passo. “Sono arrivate delle persone, Vossignoria. Erano tre uomini e una giovane donna.” Represse un brivido.
Von Kleist lo prese per le spalle, lo costrinse a guardarlo negli occhi. “Sono arrivate, dove? Chi erano?”
Dalla signora Pfannenschmied. Non lo so chi erano, Vossignoria.”
Che cosa volevano?”
Il ragazzo deglutì. “Chiedevano del signorino. Volevano sapere dov’era la sua roba.”
A chi lo hanno chiesto? A te?”
A me e anche alla signora Pfannenschmied.” Deglutì di nuovo, e dopo qualche secondo soggiunse: “Chiedo perdono a Vossignoria, ma ho detto tutto quello che sapevo, che voi eravate venuto, che avevate voluto vedere il tetto, che avevate chiesto l’acqua calda. Ogni volta che non rispondevo a una domanda, mi...” s’interruppe scosso da un brivido.
Sono stati loro a procurarti queste ferite?”
Il ragazzo annuì. “Sissignore. La donna.”
Com’era fatta questa donna?”
Alta e magra, con i capelli e gli occhi neri. Vestiva come un uomo.”
L’ufficiale lo scrutò pensoso. “Perché ti hanno lasciato andare?” gli chiese.
Non mi hanno lasciato andare, Vossignoria. Sono scappato. Mi avevano chiuso nella conserva, ma io sono abbastanza magro da passare per lo scolo della neve, e così sono andato via prima che mi ammazzassero.”
Come fai a sapere che volevano ammazzarti?”
La signora l’hanno ammazzata.”
Von Kleist si scambiò un’occhiata con il suo valletto e poi disse: “Franz, porta questo ragazzo da Gertrud. Dille che medichi le sue ferite e gli dia mangiare. Io devo andare subito dal signor von Ruchel.”
Come ordinate, Eccellenza,” disse Franz. Mise una mano sulla spalla del nuovo arrivato, che in piedi accanto a lui sembrava ancora più magro e più piccolo di quanto non fosse.
L’ufficiale prese il cavallo e montò in sella. “Tieni gli occhi aperti,” raccomandò al valletto. “Se lo stanno cercando, non ci metteranno molto a capire dov’è scappato.”
Non dubitate, Eccellenza.”



Mentre galoppava a briglia sciolta verso l’abitazione dell’amico, von Kleist rifletteva sulle parole del giovane Sepp.
Posto che fosse tutto vero, la misteriosa organizzazione contro cui si stavano misurando sembrava essere sulle tracce del diario di Konstantin.
Sicuramente il tale che si faceva chiamare Basilius sapeva della sua esistenza, e aveva riferito quell’informazione a chi di dovere.
Di nuovo la mano andò alla tasca e attraverso la stoffa ripercorse la forma del piccolo quaderno.
Se quei tizi avevano interrogato la signora Pfannenschmied con gli stessi sistemi che avevano usato con il ragazzo, senza dubbio erano riusciti a sapere di lui e del vaso di fiori.
Arrivò alla villa di von Ruchel, percorse il parco lasciandosi alle spalle le serre di piante rare e le voliere di uccelli esotici. Ormai albeggiava, ma in giro non c’era nessuno. Neppure il vecchio giardiniere di nome Michael, quello che di solito si alzava quando era ancora buio.
Si diresse verso la parte posteriore dell’edificio, ai quartieri della servitù. Anche lì, silenzio.
Una porta era socchiusa.
Von Kleist smontò da cavallo ed estrasse la pistola. Si avvicinò adagio, tenendosi rasente al muro, e con la canna dell’arma spinse l’anta della porta in modo da poter guardare dentro.
Il locale era una lavanderia, c’erano lenzuola e abiti stesi ad asciugare, e vasche piene d’acqua. L’aria era umida e aveva odore di liscivia.
Una cameriera giaceva a terra supina. L’ufficiale si avvicinò cauto e pur nella scarsa luce notò che la ragazza aveva sul collo una macchia grigiastra come quelle che aveva già visto su Konstantin e sull’aggressore del Teufelsee.
Proseguì verso l’interno del palazzo. Tutto era silenzioso, nelle cucine i fuochi erano spenti, non si udiva da nessuna parte l’usuale cicaleccio delle ragazze della servitù.
Arrivò nella parte nobile dell’edificio, si diresse verso la camera da letto dell’amico. Non appena vi si affacciò, notò i segni di una furiosa colluttazione: c’erano soprammobili rovesciati, le coperte erano sparse a terra e spruzzate di sangue. La spada di von Ruchel, inconfondibile per la lama damascata, spuntava da sotto il letto. Un pesante candelabro di bronzo doveva essere stato gettato contro qualcuno e aveva esaurito la sua inerzia sulla parete, si vedeva l’intaccatura che aveva prodotto nella tappezzeria.
Il tutore che l’amico doveva portare per poter usare la gamba destra era per terra, così come il suo bastone con l’impugnatura a forma di testa di levriero.
Si avvicinò al letto. Sul cuscino c’era un foglio arrotolato e chiuso con un sigillo che rappresentava una croce con sopra una rosa.
Lo aprì e lesse:

Se volete rivedere vivo il vostro amico Johannes von Ruchel, tornate senza indugio a casa vostra e attendete. Un nostro emissario verrà a recuperare un oggetto di nostro interesse. Dopodiché non dovrete uscire di casa e non dovrete comunicare con nessuno fino a domani al tramonto.
Se allo scadere di questo tempo avrete fatto ciò che vi chiediamo, all’alba successiva un nostro emissario vi farà sapere dove potrete trovare von Ruchel. Se non lo avrete fatto, ritroverete ugualmente von Ruchel, ma un pezzo per volta, a partire dalla gamba che per colpa vostra non può più utilizzare.

Non c’era firma.
Si costrinse a rileggere la lettera con lo stesso spirito scientifico che avrebbe animato Johannes. Primo, la stoccata finale lasciava capire che qualcuno aveva raccolto informazioni su di lui, sulla sua amicizia con Johannes e sulle battaglie che avevano combattuto insieme. E che volesse far leva, oltre che sul suo affetto per lui, anche sul suo senso di colpa nei suoi confronti.
Era vero, infatti, che von Ruchel era rimasto ferito a causa sua: nel corso della battaglia di Chotusitz un eccessivo entusiasmo lo aveva portato a farsi troppo avanti, e se non fosse stato per il suo più saggio amico, che l’aveva afferrato e buttato al coperto, avrebbe trovato una prematura morte tagliato in due da una palla di cannone.
L’ordigno però aveva rovinato per sempre la gamba destra del maggiore Johannes von Ruchel, costringendolo ad abbandonare una carriera che si preannunciava delle più brillanti.
Rammentò che all’epoca Sua Maestà in persona aveva espresso il proprio rammarico per una tale perdita.
Abbandonò i ricordi per tornare alla realtà contingente.
L’oggetto che quella gente stava cercando non poteva essere che il diario di Konstantin. Si chiese cosa potesse contenere di così importante da giustificare tutto quello che stava succedendo.
Andò al laboratorio di Johannes, a soqquadro al pari della camera. La pianta di rose giaceva sul pavimento in mezzo a cocci e terra sparsa. L’ufficiale dapprima la raccolse e la avvolse in uno straccio bagnato, poi si sedette alla scrivania, trasse di tasca il quaderno e lo aprì.
Le prime annotazioni erano vecchie di circa un anno, ed erano piuttosto generiche. Il ragazzo enumerava i motivi per cui aveva deciso di andarsene dalla dimora avita, ove conduceva un’esistenza di agi e tranquillità, per vivere dei proventi delle sue poesie a Berlino.
Von Kleist sospirò: se Konstantin fosse stato suo figlio, gli avrebbe fatto passare lui certe ubbie. Invece Luise era sempre stata troppo buona con lui, troppo permissiva. Forse perché era così bello, e di aspetto così delicato. Magari, con atteggiamento del tutto materno, l’aveva assecondato perché inconsapevolmente temeva che la dura vita militare sarebbe risultata troppo pesante per quell’efebico fanciullo.
Il padre non era stato in grado di opporsi a quel comportamento protettivo, forse perché anche lui in realtà considerava Konstatin come una specie di statuetta di ceramica incapace di reggere gli urti della vita.
E quelli erano stati i risultati.
Con un sospiro, continuò a leggere.
Ecco che comparivano i Rosacroce. Konstantin ne parlava come di un gruppo di studiosi dediti alla poesia ermetica e alla ricerca. Trovò per la prima volta l’acronimo V.I.T.R.I.O.L., al quale il ragazzo attribuiva un significato del tutto simbolico ed introspettivo.
Lesse poi dell’arrivo dalla Sassonia di una donna che a quanto pareva era un personaggio di spicco nell’ambito dei Rosacroce. Il linguaggio di Konstantin non sempre era chiaro, spesso era inquinato da ermetismo o figure retoriche, ma in generale il ragazzo faceva allusione a lei chiamandola di volta in volta la Luna, l’Argento o la Regina.
La donna era sempre accompagnata da due misteriose figure, che nel diario venivano chiamate Atalanta Fugiens e Aurora Consurgens.
Non riuscì a capire se si trattava di persone reali o se anche quei nomi erano espressioni ermetiche per indicare qualcos’altro.
Il ragazzo scriveva poi di Rainer Brandt. Ne parlava come di una specie di mentore che avrebbe dovuto accompagnarlo nel suo percorso all’interno della setta dei Rosacroce. Spiegava che era stato lui ad attribuirgli in nome di Theophrastus, in omaggio a Paracelso e al suo homunculus, in quanto anche lui era un homunculus, un piccolo essere frutto dell’ingegno e non della procreazione, che avrebbe dovuto crescere e apprendere grazie a un maestro.
Di nuovo, l’ufficiale scosse la testa come di fronte a qualcosa di incomprensibile e fondamentalmente stupido.
Ach, Konstantin, Konstantin,” mormorò fra sé e sé, “se tuo padre ti avesse raddrizzato quando era il momento...”
Tornò alla lettura.
Seguivano, nei giorni successivi, varie considerazioni sulla bellezza dell’ermetismo e dell’alchimia, e sul loro valore come simbolo della ricerca interiore.
Scorse rapidamente le pagine imponendosi di ignorare il fastidio che il panegirico di quella sottospecie di filosofia gli suscitava.
Si imbatté in un foglio bianco.
Poi Konstantin scriveva:

Mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa!
L’Opus Magnum che vogliono portare a compimento non è certo la realizzazione della Pietra Filosofale, reale o simbolica che sia, come ingenuamente credevo. Basilius lo nega, ma io ho messo le mani su alcune delle lettere che la Regina nasconde nella sua casa, ovvero quella villa nascosta sulle rive del Templiner See che tutti credono essere solo il salotto più alla moda di Potsdam.
Solo Iddio, o forse il Diavolo, sa che cosa succede nei suoi sotterranei.
Io però ho capito che la Luna intende divorare il Sole, e lo farà in occasione del concerto. E ho capito che la donna di nome Maria che la istiga è ben altri che la Profetessa[1].
Devo avvertire lo zio prima che succeda l’irreparabile.

L’ufficiale rimase pensoso. Visto così, quel diario gli sembrava troppo poco per giustificare un omicidio e un rapimento. Era solo una raccolta di frasi senza senso, messe su carta da un nobilotto adolescente fuggito di casa. Nessuno avrebbe dato importanza a dichiarazioni del genere.
Ci doveva essere qualcosa di più.
Sfogliò di nuovo il quaderno pagina per pagina, lo scosse, osservò ogni foglio controluce alla ricerca di segni o fori in posizioni particolari. Poi palpò la copertina: sembrava piuttosto grossa.
Andò alla ricerca di una lente di ingrandimento e controllò le cuciture, notando subito che avevano un’aria recente, che non si adattava alla generale patina di tempo che rendeva la pelle della rilegatura lucida per l’uso.
Prese una lama, la infilò in una cucitura e fece saltare qualche punto: l’anima rigida della copertina era stata tolta, e al suo posto c’erano dei fogli ripiegati.
Finì di scucire la pelle, tirò fuori tutto e quando ebbe visto che cosa c’era nei fogli sollevò le sopracciglia stupefatto.
Non è possibile,” disse a mezza voce.
Si trattava di lettere. Un carteggio tra due donne, la destinataria delle missive era una certa Diana, mentre l’autrice si firmava Maria.
Una frase lo colpì particolarmente:

Voi lo ucciderete, mia cara, con quel veleno del quale conservate il segreto. Vi consiglio di metterlo sul suo flauto, è un oggetto dal quale non si separa mai. Alla prova della sua morte io verserò in una banca di vostra fiducia diecimila dei miei talleri.

L’allusione al flauto lo fece riflettere. Sua Maestà suonava il flauto. E Konstantin nel diario parlava di un concerto.
E, neanche a farlo apposta, Sua Maestà dava concerti per flauto al Sanssouci. Cominciò a sentire una specie di formicolio addosso, come gli succedeva ogni tanto alla viglia di battaglie dall’esito incerto.
Il veleno, i talleri...
Diana, rimaneva da scoprire chi fosse quella Diana.
Pensò a cosa avrebbe fatto Johannes al posto suo ed emise un sospiro sconsolato. Probabilmente gli sarebbe bastato attingere alle sue immense conoscenze per citare senza alcuna difficoltà almeno dieci personaggi della storia e della mitologia di nome Diana.
Fece girare lo sguardo sulla stanza, letteralmente tappezzata di libri. Si alzò e scorse rapidamente i titoli, senza trovare altro che trattati di scienze naturali, astronomia e geologia.
Si trasferì in biblioteca alla ricerca di libri di storia e mitologia, ed ebbe un attimo di sgomento nel contemplare l’immensa raccolta di volumi, disposta su tre piani di scaffali in un locale che da solo era grande quasi quanto la sala di marmo del Sanssouci.
Dopo qualche ricerca, trovò fra i libri di più frequente consultazione una copia del Lexicon Universale di Hofmann. Lo aprì, lo sfogliò febbrilmente fino alla sezione dedicata alla mitologia. Alla voce ‘Diana’ lesse: Artemide-Diana, dea della caccia, della verginità, del tiro con l'arco, dei boschi e della Luna.
Posò il libro.
Ripensò alla donna di cui parlava Konstantin, quella che di volta in volta il ragazzo chiamava la Luna, l’Argento o la Regina.
Diana poteva essere la Luna?
Diamo per scontato che lo sia,” disse a voce alta, imitando il modo di ragionare dell’amico. “Questo a cosa ci porterebbe?”
Ci pensò su, quindi si diede anche la risposta: “Alla conclusione che la donna alla quale sono indirizzate le lettere e la Regina di cui parla Konstantin sono la stessa persona.” Annuì soddisfatto, poi però fece una pausa e soggiunse: “Il che comunque ci riporta all’inizio del gioco. Se non riesco a sapere chi si nasconde dietro questa Regina, e chi è la donna di nome Maria che le scrive, la partita finisce prima di cominciare.”



Incapace di dare ulteriori spiegazioni al criptico contenuto del diario, von Kleist si risolse a rientrare alla propria abitazione, anche solo per rimanere in attesa del misterioso emissario che avrebbe dovuto contattarlo.
Cosa fare, poi, con il suddetto, era un altro problema che sembrava non avere soluzioni. Aspettarlo e obbedire ai suoi ordini senza creare problemi, o catturarlo e cercare di ottenere in qualche modo delle informazioni?
Non voleva rischiare di mettere in pericolo Johannes. Gli aveva già distrutto l’esistenza, sebbene non volontariamente, e per quanto fosse certo che l’amico avrebbe preferito mille volte vedere salva la vita del Re piuttosto che la propria, quel pensiero lo faceva esitare.
Si sistemò il diario, la richiesta di riscatto e le lettere in tasca, tornò in cortile, rimontò in sella e fece la strada a ritroso.
Sulla porta delle scuderie c’era Franz che lo aspettava.
Tutto bene?” chiese l’ufficiale.
Sì, Eccellenza. Tutto come avete detto. Il ragazzo è in cucina con Gertrud.” Poi, dopo una pausa: “Quella signora Pfannenschmied non doveva dargli molto da mangiare. È da quando siete andato via che sta divorando di tutto e non ha ancora smesso!”
Von Kleist sorrise. “Buon pro gli faccia. Se si comporterà come si deve lo raccomanderò a qualche mio collega come valletto.”
Penso che ne sarebbe felice, Eccellenza, anche perché adesso è senza lavoro.”
Vedremo. È venuto nessuno mentre ero via?”
No, Eccellenza.”
Von Kleist non replicò. Qualcuno lo stava evidentemente tenendo d’occhio e si sarebbe presentato una volta sicuro di trovarlo.
Rientrò in casa immerso in cupi pensieri, indeciso sul da farsi. Andò nel suo studio e gli cadde l’occhio sul bastone da passeggio con l’impugnatura d’argento. Dopo la serata al Sanssouci era ancora sulla scrivania, mobile dal quale la servitù aveva l’ordine di non rimuovere mai nulla.
Vederlo e rievocare l’episodio in cui la ragazza von Pfuel l’aveva raccolto e gliel’aveva restituito fu tutt’uno.
Gli tornarono in mente le parole del suo collega von Bissing: L’alchimista e le sue figlie, direttamente dalla Sassonia.
Fu come se di colpo gli cadesse una benda dagli occhi: ecco chi era la Regina, e chi erano Atalanta Fugiens e Aurora Consurgens.
Invece di cacciarla come tutti si sarebbero aspettati, le ha concesso una rendita e una villa sul Templiner See.
Tutto corrispondeva.
In quel momento, qualcuno bussò alla porta.
Ma ora von Kleist sapeva anche cosa fare.
Spostò la pistola in modo che fosse coperta dalla marsina, poi ordinò a Franz di aprire.
Sulla soglia c’era Basilius. Portava un manto nero e un tricorno dello stesso colore. Il volto era talmente pallido da apparire quasi diafano.
Le parti si invertono, vedo,” lo salutò il colonnello.
L’altro non rispose. Si limitò a fissarlo serio, poi si tolse il tricorno e con uno scatto del capo spostò all’indietro le ciocche corvine che gli ricadevano sulla fronte. “Avete ciò che vi chiediamo?” domandò freddo.
Von Kleist annuì. “Ovviamente. Ma non lo tengo certo qui.”
E dove, allora?”
Nel mio studio. Venite, vi accompagno.”
No, portatelo qui voi.”
L’ufficiale lo fissò beffardo. “Pensate che metterei a rischio la vita del mio migliore amico per quella cosa?”
Io non penso nulla. Sono qui per prendere ciò che ci dovete e andarmene. Quindi ora portatelo qui.”
Von Kleist alzò le spalle. “D’accordo, se proprio ci tenete.”
Andò nello studio, strappò la copertina dal diario e la mise su un fascio di fogli bianchi, poi prese altri fogli e li piegò come per imitare le lettere. Le carte originali le ficcò in una cartella di giornali vecchi e fogli d’ordini del Reggimento, poi tornò dal suo ospite. “Eccolo qui,” disse mostrando il simulacro che aveva costruito.
Basilius lo stava aspettando con una mano in tasca. “Bene. Datemelo.”
Prima voglio una prova che Johannes stia bene.”
L’uomo rispose con un ghigno. “Nessuna prova. Dovete fidarvi di noi.”
Che sarebbe come dire che devo infilare la mano in un nido di serpi e confidare sul fatto che non mi morderanno.”
Di nuovo calò fra i due un silenzio teso, poi Brandt si avvicinò e ripeté: “Il diario.”
Certo.” Von Kleist allungò l’oggetto verso di lui, ma non appena questi estrasse la mano di tasca per prenderlo, egli sfilò la pistola che si era nascosto dietro la schiena, la puntò e fece fuoco.
L’uomo cadde a terra e vi rimase immobile. Nella mano che aveva allungato verso di lui stringeva ancora un tampone di stoffa.
Ci fu qualche secondo di silenzio, poi von Kleist ordinò: “Franz, dì a Rudolph di attaccare immediatamente, ci servirà la carrozza. E poi chiama Jürgen e digli di mandare gente a casa di von Ruchel, ci sono alcune cose da sistemare.”
Il valletto, che aveva sentito fischiare le pallottole più di una volta assistendo il suo padrone sul campo di battaglia, tranquillamente rispose: “Sì, Eccellenza. Devo far pulire il pavimento, Eccellenza?”
Buona idea. Porta con te le pistole e la spada, ci sarà da combattere.”
Sì, Eccellenza.”







[1] Maria la Profetessa, detta anche Maria Prophetissima o Maria d’Alessandria, è stata una filosofa e alchimista vissuta nel terzo secolo d.C.
   
 
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