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Autore: HistoryFreak_91    27/06/2017    3 recensioni
L’obiettivo di questo racconto è quello di ripercorrere (a linee più o meno grandi) l’intera storia dell’Ungheria, dalla fondazione nell’anno 1000 ad oggi, attraverso la sua trasformazione nella narrazione della vita di una normale donna (non una nazione): Elizabeta Hederváry.
A fine capitolo verranno offerti dei cenni storici, linguistici od a personaggi per aiutare maggiormente la comprensione del testo.
L’insistenza sul rapporto con Prussia, trattato in modo storicamente inesatto, viene inserita come tributo ad Himaruya Hidezak e, specialmente, al fandom di Hetalia.
Ricordo infine che questa è una rivisitazione della storia reale d'Ungheria e necessiterà dell'utilizzo di personaggi e fatti non canonici al manga/anime. Cercheranno di essere rispettate tutte le canonicità riguardo aspetto fisico e personalità dei personaggi presentati.
Genere: Drammatico, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Austria/Roderich Edelstein, Prussia/Gilbert Beilschmidt, Turchia/Sadiq Adnan, Ungheria/Elizabeta Héderváry
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Non-con, Tematiche delicate
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AVVERTENZE: questo capitolo contiene riferimenti a parti intime infantili assolutamente NON a sfondo sessuale.
 
Attilia morì nel silenzio di una notte all’età di cinquantaquattro anni; Elizabeta, al tempo, ne aveva sette. La cerimonia funebre fu lunga e sentita dalla famiglia Hederváry mentre diversi uomini d’affari ne approfittarono subito per tentare un approccio a Stefano, così fiaccato dalla dipartita dell’amata che a stento riusciva a comprendere le parole che gli venivano così insistentemente profilate. Spaesato da tanto chiasso, l’uomo si guardava attorno, in cerca di qualcosa su cui appoggiarsi nella sua disperazione, ed i suoi occhi si posarono sulla figliola che se ne stava in disparte, silenziosa, sotto la torre campanaria gotica a tre piani che scandiva i rintocchi funebri, mentre il sole estivo, incessante, batteva sul mosaico delle piastrelle di ceramica Zsonlay ed accendeva i bianchi muri della maestosa chiesa. Stefano guardò la sua piccolina per qualche instante, così minuta accanto ad un’edifico di tale stazza: gli occhi gli si riempirono di dolore nel comprendere che quella creatura era l’ultima persona cara a lui rimasta, l’unica cosa che gli sembrava proteggerlo da una soffocante oscurità che gli stava lentamente riempiendo il cuore.
 
Stefano si congedò educatamente dal gruppo di uomini che lo aveva circondato e raggiunse la figlioletta, chinandosi dinanzi a lei che spostò i grandi occhi dai pinnacoli e dalle guglie dentellate per ritrovarsi faccia a faccia con il buon padre.
 
“Mia cara, come stai?” Le sussurrò dolcemente quest’ultimo, istigandola ad alzare gli occhi sui suoi portandole delicatamente una mano sotto il mento. I due si guardarono intensamente: il viso di Elizabeta era severo, quasi congelato dalla morsa di dolore che l’attanagliava, ma allo stesso tempo fiero, forte ed orgoglioso; solo gli occhi brillavano, incerti, quasi spaventati all’idea del cambiamento al quale la piccola era stata dolorosamente abituata. Questa consapevolezza l’aveva resa in grado di resistere al pianto, di rinchiudere il dolore in una sfera che le premeva in petto, quasi impedendole di respirare. Il volto di Stefano era, al contrario, di puro dolore: gli angoli della bocca sembravano bloccati verso il basso, tremando appena ad ogni tentativo di prendere fiato; gli occhi azzurri però, seppur tristi, continuavano ad apparire calmi, rassicuranti addirittura, come se il tanto dolore non comportasse alcuna paura, solo un immenso senso di abbandono.
 
Stefano alzò la sua mano e la portò alla guancia della bambina, sorridendo al meglio che potesse per cercare di infonderle quanto più coraggio possibile.
 
“Non piangere, mia cara.” Bisbigliò dolcemente ad Elizabeta, la quale sentì la voglia di piangere quasi sconfiggerla all’udire quelle parole. “I guerrieri non piangono.” Quella frase colpì la bambina con tanta forza che tutti i suoi muscoli facciali si rilassarono e la voglia di piangere scomparve del tutto: giusto, lei era un guerriero ed i guerrieri, gli uomini non piangevano. E lei doveva anche essere meglio di loro, la mamma lo diceva sempre. La sfera di dolore che le si era incastrata in gola si disciolse e la bambina prese un profondo respiro prima di rispondere solennemente al genitore:
 
“Non vi deluderò, padre.” Sentendo quelle parole, Stefano corrucciò la fronte per poi incontrare lo sguardo serio e determinato dell’amata pargoletta. “Né voi né mia madre.”
 
Nel periodo seguente, Elizabeta sembrò tornare presto alla normalità: trascorreva la maggior parte del tempo fuori dalla magione e si allenava intensamente nell’arte della spada con un bastone di legno intagliato dal suo stesso padre. La sua determinazione di diventare più forte, di diventare esattamente come un guerriero, la spronava, impedendole di essere triste e di abbandonarsi allo sconforto. Lei avrebbe cambiato il modo in cui il mondo l’avrebbe vista: sarebbe diventata un uomo, un uomo migliore di tutti gli altri uomini. Per la sua mamma ed anche per il suo papà.
 
Nel frattempo, alla tenuta cominciavano ad esserci delle strane visite: un uomo, con sempre al seguito un bambino di poco più grande di Elizabeta, andava e veniva da casa Hederváry sempre più frequentemente; egli faceva sedere il figlioletto sul divano del salotto e poi si avvicinava alla scrivania dove sedeva Stefano, parlando fittamente con il padrone di casa per ore ed ore mentre questi, ammutolito dal dolore, muoveva appena gli occhi e faceva dei cenni con la testa. Nonostante quest’apatia, il suo interlocutore non sembrava mai soddisfatto, come se non riuscisse mai a raggiungere il suo scopo, e spesso lasciava l’abitazione strattonando il figlio mezzo addormentato dal divano e sbuffando qualcosa di incomprensibile per Elizabeta. Questa lo osservava uscire dalla casa mentre lei ritornava al tramonto per la cena da una delle sue caccie ai lupi mannari ed i suoi occhi si spostavano spesso sul bambino che l’uomo portava con sé: nonostante fosse più grande di lei, quel bambino sembrava davvero gracilino ed aveva un aspetto un po’ troppo impomatato, sempre vestito di tutto punto com’era e sempre con lo sguardo disgustato rivolto al terreno fangoso accanto al selciato, preoccupato che i suoi vestiti preziosi non si inzaccherassero. Quell’espressione schifata, che Elizabeta gli aveva visto fare quasi ogni singola volta il piccolo era uscito dalla sua casa, le aveva reso il bambino incredibilmente antipatico, tanto da vedere in lui una serie di difetti che le gonfiavano il petto: era certamente un personaggio spocchioso, altezzoso ed impudente, oltre ad essere vile, vanitoso e pure debole. Tutto questo Elizabeta l’aveva dedotto senza mai avergli rivolto la parola, anzi senza mai averlo visto fare altro che uscire ed entrare dalla sua casa, lo sguardo attento a dove mettesse i piedi ma senza mai proferire una parola, mai un lamento od un’affermazione che potesse confermare alcunché delle supposizioni della piccola ungherese.
 
Questo astio intrinseco, a pelle che la bambina nutriva dentro di sé non fece altro che crescere col tempo: l’estate trascorreva e lei non pensava ad altro che a fargliela pagare, a quel bambino borioso, per permettersi di giudicare la sua amatissima dimora. Arrivò così l’autunno e le piogge che esso porta con sé: il terriccio, già normalmente umido, si fece ancora più fangoso ed il vento cominciò a trasportare della terra sul selciato, rendendo il passaggio immensamente più ostico. Il piccolo che seguiva l’ammantellato padre gli teneva stretta la grande mano, gli occhi fissi al terreno ed i piedi calzati che si muovevano incerti tra una pozzanghera e l’altra. Quel giorno non pioveva ma i resti della tempesta della notte prima non erano ancora stati assorbiti dalla terra, già rigonfia com’era d’acqua, ed il sole, timido, si nascondeva dietro le nuvole già da una settimana, affacciandosi di tanto in tanto al mondo prima di scomparire al di là dell’orizzonte. Non sporcarsi era impossibile ma il piccolo cercava in ogni modo di evitare le pozze più profonde ed il terreno più scivoloso, asciugandosi attentamente i piedi prima di entrare nel rustico ma elegante casolare degli Hederváry.
 
Elizabeta, dopo giorni di clausura a causa delle condizioni metereologiche, quel giorno era riuscita a convincere il padre a farla uscire di casa. Noncurante dei suoi abiti, si era velocemente inzaccherata dalla testa alle punte dei capelli, scavando nella terra morbida alla ricerca di grandi tesori perduti. Ne trovò uno molto speciale: la punta di una freccia, tutta arrugginita e mancante della stecca, ma complessivamente in ottimo stato. L’immaginazione dell’ungherese prese dunque il sopravvento: a chi era appartenuta quella freccia? Che cosa aveva colpito? Quanto era vecchia? Si potevano davvero cogliere le mele e spezzarle in due utilizzando una freccia, così come la mamma le aveva raccontato? Quanto difficile poteva essere costruire un arco funzionante? Gli occhi della bambina si accesero mentr’ella s’alzava, osservando il suo tesoro tra le mani: ma certo, il papà avrebbe potuto costruirle un arco! Il papà poteva fare tutto! Elizabeta sorrise e, stringendo la punta della freccia tra le mani, cominciò a correre verso la tenuta mentre alcune gocce di pioggia iniziavano a picchiettare il terreno; ma alla bambina non importava, aveva giocato abbastanza per oggi e poi aveva tante cose da chiedere a suo padre.
 
Proprio mentre Elizabeta si stava avvicinando, la porta della magione si aprì ed il bambino che spesso la visitava ne venne spinto fuori violentemente mentre delle urla uscivano soffocate dall’uscio. L’ungherese si fermò dal suo incedere, gli occhi puntati verso il ragazzino che, mogio mogio, aspettava sulla soglia che il padre lo raggiungesse, gli occhi rivolti tristemente verso il terreno. A vederlo in quel modo, Elizabeta si sentì montare una strana sensazione dentro: compassione? No, no, certo che no! Quel ragazzino era spocchioso ed antipatico, stava sicuramente pensando a quanto lo disgustassero quella casa e tutto quel fango e, soprattutto, sicuramente stava pensando a quanto lo disgustasse lei, Elizabeta. Lo aveva visto, di sicuro: aveva alzato il volto per un secondo, incrociato gli occhi di Elizabeta, abbassato lo sguardo sulla punta di freccia infangata che teneva fra le mani sporche e voltato velocemente la faccia, facendo un’espressione di disgusto (aggiungeva la bambina). La verità di quel gesto era invece che il piccolo stava solo cercando di nascondere la sua profonda timidezza che gli aveva bloccato gli occhi così come sempre gli aveva bloccato la lingua. Ma questo Elizabeta non lo capiva: non era mai entrata in contatto con altri bambini e comunque non si era mai interessata al capire le emozioni altrui. Lei era un guerriero, non una psicologa: doveva salvare le persone con la spada, non le parole.
 
Elizabeta continuò ad osservare il bambino con uno sguardo truce mentre l’altro, sentendosi scrutato in quel modo, non sapeva dove volgere lo sguardo: le pupille si muovevano a destra ed a sinistra dei suoi piedi mentre lui si accorgeva di non sapere che cosa fare delle sue mani, stringendole e riaprendole ripetutamente nel tentativo di trovare un po’ di calma. I capelli castani, coperti da un cappuccio, gli cadevano lievemente sulle guance, permettendogli di nascondere il fatto che si stesse nervosamente mordendo le labbra. Per quanto tempo quel ragazzino avrebbe continuato ad osservarlo? – pensava, cercando di respirare in modo normale, - e soprattutto chi era? Lo aveva visto passare tante volte quando il suo papà lo portava dal signor Stefano ma non aveva mai avuto il coraggio di parlagli, soprattutto perché non sapeva chi fosse: sapeva che il signor Hederváry aveva una figlia che lui non aveva mai visto, ma era sempre stato curioso di capire chi fosse quel bambino che gironzolava per la magione, una cosa che non sembrava turbare affatto il suo papà. Gli sembrava un ragazzino simpatico e pieno di energie, al contrario di lui che aveva sempre paura di tutto, persino di aprir bocca. Era a dir poco riservato, lui, ed inoltre preferiva stare al coperto e dedicarsi a dei lavoretti fatti in casa, in particolare alla preparazione di decoratissimi biscottini a forma di cuore che usava offrire ai suoi amici ed ai familiari. Ne aveva portati spesso a casa Hederváry, nascosti sotto le camicie per non rischiare di farli cadere, ed Elizabeta ne aveva mangiati a bizzeffe, convinta che il padre li avesse comprati durante una delle sue ricognizioni in città, in cuor suo complimentandosi e ringraziando mille volte il pasticcere. Probabilmente, se avesse saputo chi in realtà fosse il fautore di quelle delizie, avrebbe immediatamente cambiato opinione sul ragazzino che intanto continuava la sua battaglia interiore nel tentativo di rimanere calmo, nonostante lo sguardo feroce che gli veniva propinato; sembrava non finire mai e solo una cosa gli pareva sensato di fare: controllare se quello sguardo fosse ancora puntato su di lui. Così il bambino alzò gli occhi, solo per un instante, per incrociare ancora una volta quelli di Elizabeta che, riposta la punta di freccia in una tasca, sbuffò e si chinò a terra. L’altro ragazzino si affrettò a guardare da un’altra parte ma la bambina si era già riempita le mani di fango prima di rialzarsi.
 
“Ehi!” Chiamò il ragazzino con voce possente e l’altro sentì un brivido percorrergli la schiena prima di racimolare il coraggio di voltarsi ancora una volta per guardare Elizabeta faccia a faccia. “Hai tanta paura di sporcarti, vero?” Le parole della bambina gli fecero corrucciare la fronte.
 
“Cos…?” Cercò solo di dire, piegando la testa da un lato, ma l’ungherese non gli permise di continuare.
 
“Allora vedi di prendere questo!” Esclamò infatti, correndo verso di lui per poi lanciargli una palla di fango sugli abiti. Il bambino urlò, riparandosi il volto con il braccio, per poi riaprire gli occhi e fissare Elizabeta con espressione sbigottita.
 
“Ma che ti prende?” Domandò, sconvolto. “Sei matto!?” La bambina gonfiò il petto e strinse le labbra, offrendo la sua miglior espressione di sdegno: - Così impari, spocchioso – pensò, sentendosi fiera di essersi presa una rivincita e voltando lo sguardo altrove per qualche instante, prima di sentirsi colpire da qualcosa di viscido e relativamente morbido su un lato della testa.
 
“Ehi!” Gridò quando si rese conto di cosa fosse successo, voltando lo sguardo stupito verso l’altro bambino, le cui mani adesso erano sporche di fango. Lo sguardo di quest’ultimo però non pareva affatto sicuro di ciò che fosse appena successo: le mani erano ancora a mezz’aria e tramavano un poco, bagnate dalla pioggia, mentre gli occhi sgranati sembravano increduli quanto quelli di Elizabeta. Cosa aveva appena fatto? Perché aveva reagito a quella gretta provocazione? Nel frattempo, l’altra bambina sbuffava, sentendo la rabbia montarle in petto: “Ma come ti permetti!?” Esclamò, affrettandosi a prendere altro fango e correndo, con le mani tese, verso il bambino che si affrettò a levarsi di mezzo ma cadde rovinosamente in una pozzanghera, seguito immediatamente da Elizabeta che si sedette sopra di lui e gli coprì il volto di terra. A vedere quel viso, solitamente perfettamente pulito ed in ordine, tutto inzaccherato e coperto dai capelli appiccicosi, Elizabeta sentì improvvisamente il bisogno di ridere. Un sorriso spontaneo le si dipinse in volto mentre l’altro bambino, una volta convinto che l’attacco dell’altra si fosse concluso, riaprì gli occhi incrociando quella smorfia divertita sul volto dell’ungherese sopra di lui. Dapprima, il ragazzino corrugò la fronte, sorpreso da quell’espressione che non gli sembrava di scherno ma di puro e semplice divertimento, per poi sentire curiosamente anche lui la necessità di sorridere. Gli angoli della bocca del piccolo si curvarono verso l’altro mentre intingeva una mano a fondo nel terreno.
 
“Uh?” Elizabeta aprì gli occhi giusto in tempo per notare il ghigno dell’altro bambino prima di essere costretta a chiuderli ancora una volta quando la mano di quest’ultimo le dipinse la guancia di terra scura, costringendola anche a chiudere la bocca pur di non mangiare alcuna. Il bambino sotto di lei soffocò a stento le risate e la ragazzina, se prima avrebbe preso tutto ciò come un insulto, non poté fare a meno di sorridere a sua volta, mentre il fango le colava dai capelli e andava a picchiettare il petto dell’altro.
 
A rompere quel momento giocoso fu un grido possente, rimproverante e severo:
 
“Časlov, che cosa è successo!?” Era la voce del padre del ragazzino che Elizabeta vide sbiancare prima che la potesse togliere di mezzo, mettendosi in ginocchio sul terreno.
 
“P-Padre…” Balbettò Časlov, rosso in volto. “Ecco, noi…”
 
“Stefano, che storia è questa?” Il padre del bambino si voltò verso il padrone di casa che superò l’uscio della porta d’ingresso per ritrovarsi dinanzi ai due bambini completamente inzaccherati. “Guarda cosa ha combinato tua figlia!”
 
“Figlia?” Časlov sussultò e si voltò a guardare Elizabeta che fissava i due padri con un’espressione seccata: possibile che quel ragazzino fosse la figlia del signor Hederváry?
 
“Stavamo solo giocando.” Elizabeta sbuffò ed il padre di Časlov sembrò schiumare di rabbia ma preferì non rispondere direttamente alla piccola e rivolgere il suo sguardo irato verso Stefano, il quale sembrava piuttosto sconsolato ed imbarazzato dalla situazione.
 
“Bözi…” Rimproverò mestamente la figlia che lo guardò con tanto d’occhi, sentendosi tradita.
 
“Ma padre…!” Cercò di spiegarsi lei ma l’uomo la interruppe con un cenno della testa, voltandosi piuttosto verso il padre di Časlov.
 
“Sono costernato per ciò che è accaduto.” Si scusò con un filo di voce, gli occhi stanchi che a malapena riuscivano a reggere lo sguardo dell’altro uomo. “Per farci perdonare, vi prego di accettare il nostro invito a cena. I bambini potranno lavarsi e cambiarsi prima del pasto. Mia figlia sarà felice di prestare alcuni dei suoi vestiti a Časlov.”
 
“Sarà meglio.” Sbuffò l’altro uomo, lanciando un’occhiataccia alla bambina seduta a terra che ricambiò con uno sguardo carico di disdegno. “Muovetevi, voi due: alle docce.”
 
Elizabeta e Časlov si diressero al secondo piano insieme, ammutoliti dalla scenata dei loro padri: Elizabeta si sentiva umiliata, abbandonata e delusa dal fatto che Stefano non le avesse permesso di spiegarsi; Časlov, dal canto suo, era imbarazzato dall’atteggiamento superbo del suo di padre e stava cercando un modo di scusarsi con la bambina, anche del fatto che l’avesse scambiata per così tanto tempo per un ragazzino. Entrati nel bagno, Elizabeta cominciò a far scorrere l’acqua mentre Časlov si liberava della giacca e notava il suo viso inzaccherato in uno specchio; si sorrise: si era proprio divertito quel pomeriggio.
 
“Ehi.” Interruppe il silenzio Elizabeta, estraendo la punta della freccia dalla sua maglia, mostrandola al compagno che si voltò verso di lei. “Ti piace? L’ho trovata oggi nella foresta.”
 
“Wow!” Časlov si avvicinò per osservarla più da vicino. “Era tua, la freccia?”
 
“Nah.” La bambina fece spallucce e si voltò a riporre la piccola lama in un lavandino. “Però mi piacerebbe avere un arco.” Sorrise orgogliosa per poi apprestarsi a togliersi la maglietta mentre Časlov faceva altrettanto.
 
“Io non sono bravo in queste cose.” Sorrise, un po’ imbarazzato, prima di chinarsi a slacciarsi le scarpe.
 
“Ed in cosa sei bravo?” Elizabeta si mise le mani sui fianchi, gonfiando un po’ il petto nudo.
 
“Beh…” Časlov arrossì un poco, rispondendo scansando le scarpe da un lato. “So fare i dolci.” Elizabeta a stento trattenne una risata.
 
“Ma quella è una cosa da femmine!” Disse in modo spontaneo, senza malizia, e l’altro bambino la guardò corrugando la fronte.
 
“Ma tu…” Cominciò timidamente, guardando la bambina da capo a piedi ed arrossendo un poco. “Tu sei una femm…”
 
“Non ti azzardare.” Elizabeta sbuffò, senza distogliere lo sguardo dall’altro bambino che finiva di togliersi il resto degli abiti. “Io sono un maschio, proprio come te. Uh?” Si bloccò quando notò qualcosa penzolare tra le gambe dell’altro.
 
“Cosa?” Domandò Časlov, cercando il punto che aveva scatenato la curiosità dell’altra bambina. “Non ce l’hai anche tu?” La bambina rimase interdetta: guardò verso il basso, dove ancora indossava i pantaloni, e storse la bocca.
 
“Beh, n-no…” Balbettò per poi scuotere la testa ed affermare: “N-Non ancora, intendo!”
 
“Uh?” Časlov piegò il capo da un lato, un po’ confuso. “Come non ancora?”
 
“Beh, tu sei più grande di me!” Si scusò la bambina, togliendosi i pantaloni. “Ma quando sarò più grande, crescerà anche a me.”
 
“Uhm…” L’altro ragazzino sembrava piuttosto incerto: lui il suo lo aveva sempre avuto; cosa intendeva quella bambina con quel crescerà anche a me? Časlov non ne era sicuro ma allo stesso tempo non voleva discutere: dopo mesi e mesi di occhiatacce, finalmente era riuscito a fare amicizia con quel ragazzino che, alla fine, si era persino rivelato essere la figlia del buon signor Stefano. Decise dunque di far finta di niente ed i due entrarono insieme nella vasca, ripulendosi per bene dal fango prima di asciugarsi, vestirsi con abiti puliti e scendere dai genitori per la cena.
 
Nelle settimane successive, Elizabeta e Časlov trascorsero moltissimo tempo assieme: dopo essersi scusata con il padre, Elizabeta gli aveva parlato della freccia che aveva recuperato, trovando conferma della sua probabile appartenenza alla madre; era dunque riuscita, piuttosto facilmente, a convincere il buon Stefano a procurarle un arco con cui giocare e trascorreva dunque tutte le belle giornate all’aperto, con Časlov, a scoccare frecce alle balle di fieno che venivano appositamente portate dai campi vicini per farne dei bersagli. Časlov non era molto bravo e spesso si imbarazzava, soprattutto di fronte alle poderose risate di Elizbeta ogni volta che mancava completamente il bersaglio, e preferiva lavorare come raccatta-frecce per l’altra bambina che, invece, sembrava non sbagliare mai un colpo. Nei giorni piovosi, invece, i due bambini se ne stavano in casa, in particolar modo in cucina, il regno di Časlov dove questi insegnava alla sua nuova amica a cucinare. Questa volta era Elizabeta ad essere in svantaggio e spesso combinava grandi pasticci tutto attorno a sé, trovando difficile rompere le uova o misurare qualunque cosa senza riversarne almeno la metà al di fuori del recipiente e quindi sul tavolo ed il pavimento, oltre che su se stessa. Tutte queste cose innervosivano non poco la bambina che spesso sbuffava, solitamente abituata a riuscire in tutto ciò che si metteva in testa di fare senza il minimo sforzo, ma Časlov non le permetteva di scoraggiarsi: gentilmente, l’aiutava in tutte le mansioni che le risultavano più complicate, dandole dei consigli con voce calma e sempre con un grande sorriso rassicurante stampato sulle labbra che tranquillizzava Elizabeta non poco, aiutandola a non demordere ed a lavorare più lentamente e con più concentrazione. Alla prima torta che i due sfornarono assieme, la bambina provò un tale senso di orgoglio che si ripromise di migliorare e, un giorno, riuscire a fare delle creazioni tutte sue, anche senza l’aiuto di Časlov.
 
Il tempo trascorso tra i due amici sembrava non essere mai abbastanza ed il momento dei saluti comportava sempre un senso di tristezza per la bambina che, un po’ sconsolata, tornava in cucina e rivedeva l’amico giocare assieme a lei, osservando malinconicamente gli sgabelli vuoti. Stefano non era in grado di dare alla sua bambina la compagnia di cui aveva bisogno, in realtà non lo era mai stato: da quando la moglie se n’era andata, si era reso conto di quanto fosse inetto come padre; non era necessariamente un cattivo genitore ma di certo non sapeva come intrattenere la propria figliola per più di dieci minuti, vuoi perché non c’era abituato, vuoi per il fatto che le ricordasse in modo dolorosissimo la moglie, vuoi per la tristezza che gli aveva tolto tutte le energie da quando questa se n’era andata. Se Elizabeta aveva avuto la forza di andare avanti, Stefano invece era caduto in un vortice di negatività che lo aveva reso incapace di occuparsi di qualunque cosa lo riportasse con la mente al passato; ringraziava dunque il buon Dio dell’arrivo di Tomislao: anche se i suoi metodi erano alquanto rudi, il padre di Časlov era stato l’unico a consigliarlo ed a proteggerlo dagli sciacalli che avevano tentato di approfittare della sua debolezza per metterlo fuori gioco nel modo degli affari. Nonostante i litigi degli anni passati, Tomislao aveva deciso, anche per difendere la propria azienda dalla forte competizione esterna, di seppellire l’ascia di guerra e collaborare con Stefano nel tentativo di mantenere l’impero agricolo di quest’ultimo e giovarne attraverso una partnership agevolata. Incerto sul da farsi, a lungo Stefano aveva temporeggiato, permettendo però a Tomislao di aiutarlo nella gestione dei suoi possedimenti, senza mai promettere nulla in cambio. I motivi di discussione erano dunque sempre presenti fra i due: l’atavico Stefano non riusciva a prendere una decisione, ma più il tempo passava più si rendeva conto che, senza l’aiuto di Tomislao, non sarebbe mai riuscito a mantenersi al riparo dagli attacchi dei suoi detrattori, mancandogli la forte personalità che aveva piuttosto contraddistinto la sua amata Attilia.
 
Immerso in questo pensiero, un giorno Stefano se ne stava alla finestra ed osservava il cortiletto che dava sulla porta sul retro dove, vista la bella giornata, Časlov ed Elizabeta stavano giocando alla guerra: come sembrava contenta, la sua piccola guerriera, di aver trovato un amico con un passare il suo tempo spensierato; Stefano neanche ricordava da quanto tempo sua figlia non sorridesse in questo modo in compagnia di un’altra persona. La guardava danzare quella danza un po’ scombinata ma decisa ed affondare la spada di legno tra il corpo ed il braccio dell’amico che cadeva a terra, fingendo di essere stato trafitto a morte, mentre la bambina rideva di gusto ed alzava le mani al cielo in senso di vittoria. Dal riflesso che intravedeva dal vetro della finestra, Stefano si accorse di star sorridendo e gli occhi gli si riempirono di lacrime. Il sottofondo della voce di Tomislao scomparve d’improvviso quando questo si accorse che l’altro uomo aveva smesso di ascoltarlo. Tirando un lungo sospiro, il croato si avvicinò al padrone di casa e guardò cosa avesse colto la sua attenzione: il suo bambino si era rialzato e stava correndo via con tutte e due le spade nelle mani, inseguito da una indispettita Elizabeta che reclamava il possesso della sua arma. Tomislao scosse il capo e si lasciò scappare un sospiro.
 
“Non credi sia arrivato il momento di prendere una decisione?” Domandò, mettendo le braccia conserte, utilizzando una voce meno severa del solito. Stefano prese un grande respiro.
 
“Sembrano felici.” Disse con un filo di voce, cercando di mantenere quel sorriso che lentamente stava scemando. “Non vorrei mai che accadesse loro qualcosa.” L’uomo lanciò uno sguardo preoccupato a Tomislao che rifletté per qualche istante prima di farsi avanti.
 
“Se vuoi proteggerli, questa è la migliore soluzione.” Pronunciò, prendendo una penna dalla tasca e mostrandola all’altro uomo che si voltò ad osservarlo in faccia. “Il contratto è chiaro: i possedimenti di entrambi saranno ben distinti e nessuno dei due perderà ciò che gli appartiene, nemmeno in caso di morte accidentale, che Dio ce ne scampi, fino a quel fatidico giorno.” Tomislao fece una pausa, attendendo una reazione da Stefano che si limitò soltanto a voltarsi a guardare nuovamente i due bambini: Elizabeta aveva atterrato Časlov, riprendendosi la sua spada, ed ora gliela puntava al petto mentre l’altro alzava le mani in segno di resa. “Se vuoi proteggere la tua bambina, vederla felice, questo è il modo, Stefano.” Stefano lo sapeva, lo sapeva eccome, per questo aveva sempre permesso a Tomislao di tornare, nonostante i feroci litigi e le discussioni. Sua moglie non aveva mai amato Tomislao, erano sempre stati come cane e gatto, forse perché troppo simili nel carattere; ma quell’uomo ci sapeva fare, sapeva che cosa era giusto e sapeva cosa fare per ottenere ciò che desiderava senza chiedere più del necessario. Dopotutto, i due bambini sembravano andare d’accordo: crescendo sarebbero certamente potuti diventare qualcosa di più e quel contratto, quella promessa, sarebbero potuti evolvere in una profezia e la casata Hederváry e quella Uzelac unire definitivamente in una nuova, duratura armonia.
 
Stefano si allontanò dal suo interlocutore e si diresse verso la porta, aprendola dopo un solo attimo di esitazione.
 
“Bambini.” Chiamò l’attenzione dei due che cessarono le loro risa e si alzarono in piedi, mostrano i loro sorrisi.
 
“Sì, padre?”
 
“Signor Hederváry?” Nel vedere i due stare l’uno accanto all’altro spensierati, Stefano sembrò più convinto che mai.
 
“Bambini, che ne direste di restare qui?” Chiese, sorridendo a sua volta, un sorriso tiepido che rivelava la sua incertezza nello sguardo ceruleo. I due bambini si scambiarono uno sguardo un po’ confuso prima di voltarsi ancora una volta verso il grande uomo che si chinava alla loro altezza. “Che ne direste se Časlov ed il suo papà venissero ad abitare qui con noi?”
 
“Wow, dice sul serio?” Gli occhi di Časlov brillarono ed il piccolo si voltò verso l’amica che sfoggiava un sorriso da parte a parte.
 
“Davvero, papà?” Chiese anche lei, avvicinandosi al padre che le posò una mano sul capo, accarezzandolo.
 
“Ma certo, piccola mia.” Annuì mentre la bambina rideva per poi andare verso l’amico.
 
“Tu vuoi rimanere, vero?” Domandò con gli occhi che sprizzavano di gioia.
 
“Assolutamente sì!” Časlov annuì con forza con la testa ed i due si sorrisero prima che il ragazzino si voltasse verso Stefano ed aggiungesse: “La ringrazio tanto, signor Stefano!”
 
“Di niente.” Rispose lui amabilmente per poi fare un cenno della mano. “Su, su ora: tornate a giocare. Non volevo togliervi tanto tempo.”
 
“Sì, signore.” Časlov assentì mentre Elizabeta corse dal padre per dargli un forte abbraccio prima di salutarlo con la mano e volgersi nuovamente verso il croato con il quale si ridiresse verso i propri giochi. Tomislao si avvicinò lentamente, sfoggiando un sorriso sollevato.
 
“Hai fatto la scelta giusta, Stefano.” Pronunciò con un tono rasserenato, chinandosi per aiutare l’altro uomo a rialzarsi. Stefano continuava a guardare davanti a sé, gli occhi fissi verso i due bambini, ancora profondamente incerto della grave decisione che aveva preso.
 
“Lo spero tanto.” Sospirò per poi voltarsi a guardare l’altro uomo ed aggiungere: “Socio.”
 
 
 
 
 
 
Note dell’Autore:
  • La chiesa a cui si fa riferimento per i funerali di Attilia è Nostra Signora Assunta della Collina del Castello, meglio conosciuta come Chiesa di Mattia, costruita al centro della piazza di Santa Trinità su di un’altura che si affaccia su Budapest.
  • Il periodo di turbolenze attraversato da Stefano riflette le lotte intestine dell’Ungheria alla morte di Re Stefano I, deceduto senza eredi diretti.
  • Časlov e Tomislao Uzelac – Časlov Uzelac è il nome dato dai fan alla Croazia, personaggio impossibile da omettere nel racconto di una storia d’Ungheria. Nel racconto si cerca di seguire quei pochi indizi caratteristici dati da Himaruya al personaggio, nonostante le caratteristiche fisiche ed il nome vengano presi dal fandom. Tomislao (Tomislav) è il nome del primo re di Croazia. Gli eventi che portano alla conoscenza di Časlov e del padre con la famiglia di Elizabeta si identificano attraverso la Pacta Conventa (da cui il nome del capitolo), la decisione (od imposizione?) di unificare i regni di Croazia ed Ungheria sotto una stessa corona, assegnata al croato Colomanno nel 1102.
  • Un diminutivo del nome ungherese Erzsébet (vera trasposizione del nome Elisabetta, al contrario dell’Elizabeta usato da Himaruya, che nella realtà non esiste) è Bözsi. Per renderlo più coerente con il nome canonico scelto ho preferito adattare la –zs- (-g- dolce) con la –z- di Elizabeta. Ho scelto questo diminutivo, meno comune della variante Liz spesso utilizzata dal fandom, perché ha un suono di genere più neutro. 
   
 
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