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Autore: FRAMAR    28/06/2017    28 recensioni
Le stecche si erano fermate sul tavolo del biliardo e alcuni fusti locali mi additavano proferendo apprezzamenti sulla mia persona. Che ero bello lo sapevo. Ma il sentirmelo ricordare in modo così sfacciato mi diede grinta, la voglia di essere, per quei provinciali, il ragazzo evoluto un po’ spregiudicato che sognano sempre di incontrare.
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Racconto dedicato ai miei tre anni di efp
Genere: Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Un incontro



 
A quell’ora la siepe di giovanotti seduti al bar era fitta e vociante, bisognava attraversarla.

La telefonata  da cui mi aspettavo un esito positivo era  andata  in fumo e con lei alcuni progetti di lavoro che covavo da tempo. Mi sentivo avvilito ma l’improvviso tacere del brusio mi diede dignità.
Le stecche si erano fermate sul tavolo del biliardo e alcuni fusti locali mi additavano proferendo  apprezzamenti sulla mia persona. Che ero bello lo sapevo. Ma il sentirmelo ricordare in modo così sfacciato mi diede grinta, la voglia di essere, per quei provinciali, il ragazzo evoluto un po’ spregiudicato che sognano sempre di incontrare.

Il perché del mio atteggiamento andrebbe ricercato in pieghe molto recondite dell’anima, perché in genere non  sono spaccone, non mi piace dare nell’occhio e per giunta non sono spregiudicato.
Forse volevo dimostrare di essere un “vincente” proprio nel momento che ero in perdita. Fatto sta che con un gesto deciso, fermo in mezzo al locale, mi accesi una sigaretta, con l’atteggiamento di chi è solo, perché  abituato alla curiosità e alla corte degli altri.

Il gioco, in fondo, era quello di provocarli per poi non degnarli di uno sguardo. Infatti con passo deciso ma estremamente interessante attraversai il locale, lo sguardo in avanti.

Ho spiegato questo antefatto per rendere chiaro l’episodio seguente che mai avrebbe avuto luogo se io non mi fossi sentito così sicuro di me, libero, audace, mascolino.

Avevo girato l’angolo, aperto la porta della macchina, messo in moto il motore che ora rombava irrequieto, sempre con quell’atteggiamento da divo. Volevo sfrecciare davanti a loro che con il collo girato, credo aspettassero  addirittura lo stridio delle gomme, per dare il via alle loro congetture.
«Ciao Ciccio», un viso giovane si sporge da una Porsche.

«Ciao» rispondo buttando indietro la testa, sono fermo per dare la precedenza e lui accosta l’auto alla mia.

«Ciao, ti offro un caffè.»

«Perché dovrei accettare?», rido invitante. Dietro noi strombettano e lui mi fa cenno di accostare al marciapiede. Il gioco continua, non realizzi che sta diventando un modo cretino di comportarsi, che per non essere banale lo divento e che il mio gioco finisce dove inizia il suo.

«Perché mi piaci. Sono solo e a quanto pare anche tu», mi fa cenno con una mano di scendere e di avvicinarmi al suo sportello, ma io ignoro il gesto uguale a quello che si usa per abbordare e chiedere un prezzo, spregiudicato sì ma con classe. Sono anche incuriosito come si svolgono questi approcci? Accetto o no? Riuscirò a tenere in pugno la situazione?

«Non sono mica un orco, o forse hai timore di me? ». E’ in piedi vicino al finestrino che mi provoca. Decido, accetto il gioco e riprendo la mia aria strafottente.»

Sorrido ironico. Gli piaccio, lo sento e mi rende sicuro.

«Allora sali, ti offro un caffè».

«Perché non tu da me?».

«Non ti fidi? Ti riporterò quando vuoi».

«Sono quindi libero».

 
«Liberissimo». Parte rombando con me a bordo. Si sta bene, queste macchine extralusso hanno  un gran confort. «Ti abbasso il sedile?»

«Non è necessario», lo guardo fisso negli occhi, non voglio aver paura. «Non ti sembra di correre troppo con gli avvenimenti? Come ti chiami?»

«Samuel».

«Io Giuliano.»

«Sono medico, sono venuto fin qui per visitare un’ammalata».

«Senza dubbio carina, altrimenti non avresti fatto tanti chilometri.»

«Sì. È giovane, ma non mi interessa, non mi interessano le donne», e si dilunga sulla malattia della paziente, usando, per darsi un tono, parole difficili. Sorrido per la sua ingenuità e gli termino il discorso  con una parola  prettamente medica. Mi guarda sospettoso, in fondo non ci conosciamo.

«Non devo confessarti», dico, «il bello di questo incontro è che non c’è bisogno di dirsi bugie». Improvvisamente ferma dolcemente lungo un viottolo di montagna.


«Hai ragione», e  con violenza mi bacia. «Ci siamo», penso tra me, «cosa ti aspettavi? Neanche un po’ di schermaglia, qui si va subito al sodo».

«Fai sempre così? Sei sicuro del fatto tuo».

«Sì».

«Tutti ai tuoi piedi, allora?».

«Ho un certo successo».

Bestia io che ho creduto di stupire con un atteggiamento che a quanto pare, invece, è abituale. Possibile che i ragazzi siano così facili? Un cenno, due nomi, una strada discreta e lo scambio avviene, più o meno riuscito, poi arrivederci, amici come prima. Forse è giusto. Senza pensieri e senza rimorsi.

Samuel continua a parlare, mi sembra sulla libertà sessuale, dei diciottenni. E’ incredulo, ma lieto di questa messe abbondante, giovane e felice. Il discorso si sta facendo importante e non è l’ambiente adatto per parlare di costume e di morale e poi io devo studiare come uscire da questa situazione salvando la faccia.

«Quanti anni hai Giuliano?»

«Tu quanti me ne dai?»

«Venticinque… ventisei…»

«Povero me! Sono proprio giù di forma».

«Scusami, ho buttato lì… Ma certo che guardandoti meglio…»

«Ma chi se ne frega, Samuel, ormai non vale, quel che è detto e detto, e poi non me ne importa».

Mi circonda le spalle con il braccio, mi stringe forte, mi cerca la bocca. Scherziamo ancora un po’. Lo interesso con la mia parlantina sbrigliata, gli boccio  con frasi pungenti i luoghi comuni in cui incappa, lo disoriento. Forse sono diverso dagli altri, non vado in brodo di giuggiole né per lui, né  per il

contorno, macchine e accessori vari che si è creato.


Fossi lui avrei scaricato un tipo come me. Invece no, forse lo affascino. Dopotutto è simpatico e anche ingenuo. Allungo una mano per una carezza. Subito ne approfitta, mi abbraccia, mi cerca.

Mi sento sconfitto era chiaro dovesse finire così. Quando uno si carica uno sconosciuto non è certo per parlare di filosofia russa delle intuizioni Kantiane. In queste cose ognuno ha un ruolo che dovrebbe rispettare. Dopotutto mi dico, non sono un verginello e far l’amore con Samuel deve essere anche piacevole. Non mi va però sentirmi incastrato, costretti. La colpa non è di Samuel, lui è coerente, lo stupido sono io. Cin uno spintone mi svincolo, apro la portiera ed esco.

Il profumo dei campo mi da sollievo, mi siedo sul ciglio del fosso, riordino le idee perché non so cosa dirò a Samuel. Veramente non c’è nulla da spiegare, tutto è chiaro, non ci sto, tornerò a piedi.

«Giuliano che fai? Entra, se non vuoi, non vuoi».

E’ sereno. Mi siedo: «Scusami, è colpa mia»,  farfugliai, «avresti ragione di inquietarti. Se non ce l’hai con me, portami indietro».

«Lo sai, non mi sono piaciuto neppure io», sbotta improvvisamente Samuel.

Rido: «Mi dispiace… no… ne sono contento.».

«Perché?»

«Sei troppo soddisfatto di te stesso, ti sembra tutto dovuto, un po’  di autocritica fa bene».

«Sì, per ora tutto mi è sempre andato liscio».

«Perdonami di essere stato un “no” nel tuo curriculum di amatore. Non l’ho fatto perché non mi piaci, tu sei simpatico: è che tutto mi è sembrato sciatto e banale».

«Giuliano, ti vorrei telefonare mi dai il numero?»

«Mi sembra inutile, non desidero fare domani quel che non ho fatto oggi».

«Vorrei poterti rivedere, ci stai?»

«E’ un modo gentile di lasciarmi o un desiderio autentico?»

«Dammi fiducia e vedrai».

«Mi sei simpatico».

«E tu perché sei un ragazzo serio.»

   
 
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