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Autore: Novizia_Ood    28/06/2017    8 recensioni
“Lei è?”
“Holmes, Sherlock Holmes.”
Era la prima volta che il detective si presentava con il proprio nome e cognome escludendo l’idea di entrare senza permesso nell’edificio, magari sgattaiolando a prendere le prove che gli servivano o a parlare con il sospettato di turno.
Ma quella volta c’era una valida ragione.
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Sono passati ormai 4 anni e mezzo circa da quando John ha fatto il suo ritorno a Baker Street ed è giunto il momento di mettere le cose in chiaro.
Genere: Fluff, Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Rosamund Mary Watson, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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You're my...

 


“Lei è?”

“Holmes, Sherlock Holmes.” 

Era la prima volta che il detective si presentava con il proprio nome e cognome escludendo l’idea di entrare senza permesso nell’edificio, magari sgattaiolando a prendere le prove che gli servivano o a parlare con il sospettato di turno. 

Ma quella volta c’era una valida ragione.

“Sherlock Holmes… - ripeté la donna, mentre con il dito cercava sul file del computer quel nome. Probabilmente non l’aveva mai sentito prima di allora. Poi finalmente sorrise, - sì, il Dottor Watson l’ha indicata come familiare.” Si alzò dalla sua sedia dietro la grande scrivania all’ingresso e lo raggiunse dall’altra parte. “Se vuole seguirmi, andiamo a prenderla in classe.” Disse continuando con quel suo sorriso cortese. Sherlock per un attimo si chiese quante volte l’avesse rivolto a John e quante volte il medico avesse accettato le sue gentilezze in modo più che filtrante. 

Sarebbe stato tipico di John.

Senza farsi distrarre oltre, il detective seguì la donna fino ad una porta verde decorata con fiori tutt’altro che geometrici o perfetti, ma molto creativi. Sicuramente uno di quelli era stato dipinto da un bambino con una madre soffocante a dir poco, i tratti interni ai bordi erano stati tracciati lentamente e in una linea unica, mentre quelli che maldestramente erano sfuggiti al contorno erano più corti e tremolanti, ripassati più volte, come se il bambino (perché era un maschio) avesse poi provato a camuffare l’errore. 

Non appena la porta si aprì, Sherlock individuò velocemente Rosie in un angolo della classe a giocare con uno strano bimbetto dai capelli rossi e ricci. Stava provando a fargli qualche treccia, ma chiaramente erano troppo corti e la frustrazione le si leggeva libera sul volto. Le sue compagne erano intorno a loro per guardare, questo probabilmente la faceva sentire sotto pressione e il bambino sotto di lei non stava fermo un secondo perché voleva guardare il prodotto finito, senza sapere che in realtà lei non era nemmeno a metà strada. 

“Rosie Watson, sono venuti a prenderti!” Esclamò la donna sempre sorridendo, nella direzione della piccola e poi della maestra. 

“Sherlock!” Saltò sù lei, lasciando andare immediatamente i ricci rossi del compagno e correndo subito verso la porta dov’era l’uomo con il lungo cappotto ad attenderla.

“Prendi lo zaino mi raccomando,” disse velocemente l’insegnante indicandole l’appendi panni che era qualche metro più avanti. Il suo zaino verde a forma di game boy spiccava contro quelli di tutti gli altri. Non appena fu pronta, sempre con gli occhi fissi su Sherlock, si mise lo zaino sulle spalle e corse ad abbracciarlo. 

“Pronta?” Domandò dopo averle accarezzato la testa sotto lo sguardo amorevole delle due donne. 

“Andiamo da papà?” Chiese infilando le mani sotto le bretelle dello zainetto.

“Vediamo. - Disse con un piccolo sorriso, sapendo benissimo che John non era potuto passare a prenderla perché era bloccato all’ambulatorio per colpa del numero di pazienti che si erano presentati quel giorno. - Grazie, arrivederci.” Salutò poi rivolto agli altri e alla donna che gentilmente l’aveva accompagnato. 

Quando furono nel corridoio Sherlock prese il suo zaino in spalla e Rosie immediatamente gli allungò la mano per stringergliela mentre saltellava un po’ per la felicità. 

“Hai mangiato oggi?” Domandò lui voltandosi a guardarla mentre le apriva la porta lasciando che uscisse per prima.

“Sì, il pollo a mensa! Avevano anche il purè oggi. Perché noi non lo facciamo mai?” Chiese con tono di cantilena, mentre con la mano faceva dondolare quella sua e quella di Sherlock insieme. 

“Papà è il cuoco di casa, non io.” Rispose semplicemente. A quel punto Rosie si fece più pensierosa e rimase in silenzio per qualche secondo prima di riprendere la parola. 

“Se papà non c’era a pranzo oggi, tu non hai mangiato, vero?” La logica c’era e il detective sorrise a quella domanda, fiero come non mai di rispondere: “no, non ho mangiato infatti.”

La piccola si rabbuiò di nuovo, con il nasino e la bocca contorti in un piccolo broncio.

“Tu non hai mangiato e papà non avrà mangiato. Gli portiamo qualcosa?” Quella poteva essere una buonissima idea in effetti. 

“Pensi che il cinese possa andargli?” Fu Sherlock a chiederle consiglio e quando lei annuì con un grandissimo sorriso, pensò che una fermata al ristorante cinese fosse d’obbligo. 

 

 

 

Quella giornata non poteva essere più pesante di così.

Il Dottor Cloverson si era dato malato proprio quella mattina, senza preavviso, quando tutti sapevano perfettamente che quella settimana era semplicemente fuori città con sua moglie… beh, la sua ex moglie, la prima. 

John sospirò coprendosi il viso con le mani prima di risalire tra i capelli e scivolare dietro il collo, mentre cercava di stiracchiarsi su quella sedia che ormai, dopo 6 ore di fila, era fin troppo scomoda. 

Erano le tre di pomeriggio e il cibo non era riuscito a vederlo nemmeno con il binocolo, fortuna che quella mattina era riuscito a fare una colazione abbondante, altrimenti il mal di testa lo avrebbe colto già da un pezzo.

Prima che potesse sedersi in modo di nuovo composto, l’infermiera entrò bussando alla sua porta, affacciandosi appena. 

“Dottor Watson, ci sono sua figlia e suo… beh il…”

Sherlock, pensò immediatamente John con un sorriso morbido sulle labbra. 

No, non era suo marito e non era nemmeno il suo compagno, ma era qualcosa di  ugualmente intimo, di troppo intimo. Tra loro mancava distanza di un bacio e non aveva idea di quanto tempo si sarebbe trattenuto ancora, perché la sera prima ci era andato veramente molto vicino a farlo; aveva avuto quasi il coraggio di colmare quella lontananza fisica, ma poi lo aveva visto chiudere gli occhi sfinito per il caso che gli aveva portato via tre giorni e così desistette, permettendosi però di fargli un massaggio alle spalle prima di andare a dormire. 

Quanto avrebbe voluto baciarlo la sera prima.

E anche quella volta in cui aveva trovato lui e Rosie a suonare il suo violino.

O quell’altra volta in cui li aveva trovati a mangiare insieme. 

Sherlock. A mangiare. 

Era praticamente un miracolo e quel quadro di felicità avrebbe voluto incorniciarlo e congelarlo nel tempo e nello spazio; avrebbe voluto baciarlo e nasconderlo nella parte più profonda di sé e forse l’aveva fatto. Era un ricordo che custodiva con grande gelosia.

Tutti i ricordi con Sherlock e Rosie erano qualcosa di straordinariamente meraviglioso. Sapere che quell’uomo amasse sua figlia quasi quanto l’amasse lui era qualcosa di rassicurante, di appagante, non sarebbe riuscito nemmeno a spiegarlo a parole. Ma lui non era bravo a spiegare niente a parole. 

“Li faccia pure entrare, Agnes. Grazie.” E quando li vide entrare fu come stare bene di nuovo. La schiena non doleva più e la mente era più inebriata dall’euforia di vederli che dolorante. Quella non poteva che essere una bella visita. 

“Papà!” Esclamò la piccola senza lasciare andare la mano di Sherlock e cominciando a correre nella sua direzione allungando l’altro braccio per raggiungere John che subito si sporse di rimando verso di lei. 

“Ciao principessa, che ci fate qui?” Domandò dopo averle dato un bacio e aver guardato Sherlock che ora aveva alzato una busta bianca da poggiare sulla scrivania, senza far troppa attenzione alle cartelle aperte lì accanto. 

“Rosie ha ben pensato che avessimo bisogno di mangiare, visto che nessuno di noi due l’ha fatto.” Lasciò scivolare lo zaino per terra, poi lasciando andare la mano della piccola, prese una sedia da avvicinare alla scrivania. 

“Oh davvero? Grazie! Papà aveva proprio bisogno di un buon pranzo in effetti…” Rosie sorrise arrampicandosi subito addosso a lui, tirandogli appena il camice bianco per arrivare a sedersi compostamente sul suo ginocchio e con le manine pronta a scavare nella busta per tirare fuori i primi piatti troppo caldi. 

“Attenta,” disse Sherlock con voce leggera mentre le spostava la busta con attenzione. 

John li osservò mentre lavoravano di gruppo nel cercare di contenere i danni - cosa che cercavano di fare almeno il 99% delle volte in cui erano insieme quei due - e si ritrovò a sorridere di nuovo per nessun motivo apparente. O forse per tutto. 

Alzò la cornetta del telefono e digitò il numero interno.

“Agnes, prendo una pausa di mezz’ora va bene?” I pazienti avrebbero aspettato. “Grazie.” Disse prima di attaccare e si avvicinarsi un po’ di più con la sedia alla scrivania che ormai sembrava più una tavola imbandita al ristorante. Con cura e attenzione richiuse alcune cartelle che erano lì e le rimise a posto nei cassetti, per evitare che si rovinassero. 

“Allora, vediamo un po’ qui che avete preso!” Esclamò battendo le mani e strofinandole appena con la soluzione disinfettante che si era appena spremuto al centro dei palmi. 

“Sherlock ha preso i gamberi perché ha detto che sono i tuoi preferiti,” disse immediatamente la piccola avvicinandogli la vaschetta di alluminio, mentre il detective si faceva di un colorito leggermente più rosso a quelle parole. 

“S-sì ma digli quello che hai pensato tu, guarda.” Si affrettò a dire l’uomo sporgendosi un po’ sulla scrivania. Certo, era stato quello l’unico motivo per cui avevano preso gli spiedini di gambero, ma sperava che Rosie non dicesse proprio tutto tutto. 

E invece, come al solito, la piccola era la bocca della verità.

Come quella volta in cui gli aveva confessato che John pensasse che quella camicia viola gli stesse meglio rispetto alle altre. 

O quando aveva detto a suo padre che Sherlock diceva che stonava quando cantava sotto la doccia. 

Cose così.

O peggio.

Come quando era corsa piangendo da lui perché John si era arrabbiato quando una sera, nel mezzo di un caso, non era ritornato a dormire a casa e non aveva avvertito nessuno nemmeno con un messaggio. Da quel giorno, qualsiasi spostamento avesse in mente di fare, John era il primo a saperlo, con un messaggio, con una telefonata, qualsiasi cosa stesse facendo, Sherlock la interrompeva e avvisava. 

“Io ti ho preso le salse, quella agrodolce perché ti piace sempre tanto che devi prendere quella di Sherlock!” Esclamò contenta mentre con le manine attente la tirava fuori per mettergliela il più vicino possibile. 

“Siete veramente due perfezionisti, sai? Siete stati bravissimi, grazie. Ma tu hai mangiato a scuola?” Domandò muovendo un po’ il ginocchio per richiamare l’attenzione della piccola e lei annuì.

“L’ho già dettò a papà appena usciti da scuola.” E quella non era la prima volta che quel nome per Sherlock scappasse dalle labbra di Rosie, tuttavia faceva sempre lo stesso effetto: un battito mancato al cuore per entrambi.

Sherlock si era fermato in quello che stava facendo, cercando comunque di apparire il più disinvolto possibile; John invece aveva alzato immediatamente gli occhi sull’uomo che aveva davanti.

Avevano deciso di non farne un dramma la prima volta e tutte quelle che erano venute a seguire anche. Ma John lo sapeva benissimo che quel titolo avrebbe dovuto concederglielo completamente prima o poi e Sherlock avrebbe dovuto accettarlo senza colpevolizzarsi troppo.

“Beh lo devi dire a tutti e due comunque.” Disse John con finto tono di rimprovero accompagnato dal solletico che le fece vicino i fianchi. La risata della bambina riempì la stanza e Sherlock parve rilassarsi di nuovo sia nell’espressione che nei gesti. 

Per fortuna.

 

La mezz’ora passò veramente troppo velocemente, con Rosie che di tanto in tanto si allungava ad imboccare Sherlock e John che rideva per le facce buffe che sua figlia faceva nell’assaggiare un poco di quelle salse che gli aveva portato con tanto orgoglio.

“Rosie, tesoro, puoi andare a buttare queste cose nel cestino che c’è lì e poi prendi le tuo cose?” Disse John una volta alzato, mentre Sherlock ancora recuperava tutte le varie coppette di alluminio per farne un unico grande sacchetto. 

La piccola si impettì prima di cominciare le sue mansioni.

“Stai bene?” Chiese Sherlock d’improvviso a bassa voce, con la testa bassa ma con gli occhi attenti su John. Gli sembrava felice, ma molto stanco. Aveva assolutamente bisogno di una pausa probabilmente e per fortuna erano passati a tenergli compagnia.

“Sto bene, sto bene.” Rispose molto velocemente e quando ebbe finito, chiudendo la busta bianca con un nodo, una mano si allungò a prendere quella di Sherlock che immediatamente la girò per far combaciare i palmi, ricambiando la stretta. 

“C’è qualcosa che non va?” Domandò immediatamente, poco più allarmato di prima. Il suo polso sembrava effettivamente segnalare qualche battito più del normale.

“Per le sei dovrei tornare a casa, vorresti vedere se gentilmente alla Signora Hudson va di tenere un po’ Rosie questa sera?” Il suo tono era ancora basso e il pollice ora accarezzava delicatamente la pelle del detective che ancora lo fissava cercando di dedurre qualcosa. Sicuramente aveva delle cose da dire che probabilmente era meglio tener lontano dalle orecchie della figlia, ma Sherlock in quel momento non riuscì proprio a pensare a niente, perso com’era in quel contatto.

“V-va bene.” Si limitò a dire restando immobile.

“Fatto!” Esclamò la bambina, con lo zainetto già in spalla e un sorriso sulle labbra. A quella parola entrambi si rimisero dritti sulla schiena e Sherlock afferrò la busta da buttare.

“Perfetto, torniamo a casa e lasciamo lavorare papà, che ne dici?” Suggerì oltrepassando la scrivania e raggiungendo Rosie che già aveva un’espressione più buia e per un attimo John si sentì in colpa ad aver chiesto a Sherlock di lasciarla alla Signora Hudson per quella sera, ma era un discorso che andava affrontato, qualcosa che andava fatto e possibilmente non per la prima volta davanti alla bambina. 

“Va bene, ma torni subito però?” La vocina aveva perso la sua caratteristica squillante e ora sembrava essere un capriccio incastrato tra le labbra che si muovevano appena.

“Cercherò di fare il prima possibile, va bene? Promesso. Però i papà qui hanno bisogno che questa sera tu ceni dalla Signora Hudson, ti andrebbe bene?” Chiese senza riuscire a trattenersi oltre. S’inginocchiò davanti a lei che già aveva stretto la mano di Sherlock - che a quelle parole si strinse un po’ di più intorno alla sua per la sorpresa - e provò a chiedere il suo parere per quella decisione. 

Se avesse detto di no John l’avrebbe capito e avrebbe rimandato senza problemi quella conversazione. Vedere sua figlia così era in grado di fargli fare qualsiasi cosa. 

“Mi farà il dolce come piace a me? Quello con il cioccolato al centro?” Ovviamente le conveniva avere qualcosa in cambio e John rise sollevato.

“Sono sicuro che se glielo chiedi appena tornate a casa, lei saprà accontentarti! Ma sicuramente avrà qualche altra cosa buona, no?”

“Sì.” Annuì ancora poco convinta, ma il medico parve essere convinto così. Si rialzò dopo averle dato un bacio sulla guancia e posò una mano sul braccio di Sherlock.

“Ci vediamo a casa allora,” gli sorrise. “Grazie ancora, davvero. Mi serviva una pausa del genere.” Ringraziò ancora guardando la figlia che sembrava molto orgogliosa di quanto fatto e poi mandò un bacio ad entrambi non appena uscirono da quella stanza richiudendosi la porta alle spalle. 

Quella sera avrebbe detto tutto quello che aveva da dire.

E fatto tutto quello che avrebbe sempre voluto fare. 

 

 

Quando John tornò a casa erano le sei e mezza passate e Sherlock era steso sul divano a caviglie incrociate e mani sotto il mento, occhi chiusi, non addormentato, ma pensieroso.

“S-Scusa. Un paziente mi ha trattenuto e abbiamo dovuto fare delle chiamate che- dov’è Rosie?” Domandò d’improvviso, con la giacca ancora a metà spalla, dopo aver visto che nessuno corresse a fargli le feste. 

Sherlock solo in quel momento riaprì gli occhi e li diresse verso l’altro.

“È uscita con la Signora Hudson a fare la spesa. Ha detto che sarebbe stata più felice se Rosie l’avesse aiutata a fare il dolce e Rosie è sembrata più che entusiasta dell’idea.” Informò velocemente, senza cambiare posizione, mentre John si sfilava del tutto la giacca e l’appendeva all’ingresso.

Con passo incerto si avvicinò poi al divano e prese posto accanto al fianco di Sherlock.

“Stavi riflettendo su un caso o…?” Chiese con voce più morbida e tranquilla nel guardarlo. Era un sollievo tornare a casa per lui. 

“No, Lestrade ultimamente me ne da solo di noiosi.” Confessò con uno sbuffo mentre allungava le gambe un po’ di più, spingendo i piedi contro i cuscini dall’altro lato del divano.

“Sicuro che sia Greg a darteli noiosi e non sia tu stesso a scegliere proprio quelli?” Chiese poggiando il pugno chiuso oltre il fianco di Sherlock, sul divano nella parte interna, sfiorandogli appena la camicia bianca. Lui storse il naso.

“No, non sono io. I criminali si stanno rammollendo tutti in una volta. Quasi mi manca Moriarty.” A quelle parole l’espressione di John s’indurì e sospirò alzandosi dal posto. Certe idiozie non voleva nemmeno sentirle dire per scherzo.

Chissà che cose orrende avrebbe potuto fare alla bambina se fosse stato ancora vivo e, soprattutto, a piede libero. Se non si fosse suicidato su quel tetto probabilmente li avrebbe perseguitati per il resto della vita, senza permettere loro di vivere la vita che stavano vivendo in quel momento.

“Ho fatto il tè. Pensavo arrivassi per le sei, ora dovrà essersi fatto freddo.” Aggiunse nel vederlo avviarsi in cucina e, giusto il tempo che John bevesse un sorso, Sherlock lo raggiunse appoggiandosi allo sgabello che era vicino la porta secondaria d’ingresso.

“Mi dispiace, i peggiori pazienti arrivano tutti alla fine. Non so come facciano.” 

“Probabilmente sanno di essere i peggiori, sanno che darai loro qualche brutta notizia o che la visita sarà imbarazzante abbastanza da inibirli e da farla prolungare di molto, così, inconsciamente, cercano di posticipare il più possibile arrivando inevitabilmente per ultimi o in ritardo. Nel caso dovessi dire che le visite sono finite per loro sarebbe anche un sollievo, per un altro giorno potrebbero restare tranquille.” Quando finalmente finì di parlare, John era appoggiato al bancone di schiena, lo guardava con un sorriso ammirato. 

Sì, avrebbe voluto interrompere quel flusso di parole con un bacio come avrebbe voluto farlo altre mille volte prima di quella, ma restare fermo incantato a guardarlo, cercando di rimanere al passo della sua mente era tutto ciò che gli veniva da fare in momenti come quello. 

“Oggi Agnes non sapeva come chiamarti.” John interruppe quel discorso con uno totalmente nuovo, sorprendendo Sherlock e lasciandolo a bocca serrata in attesa di un continuo, qualcosa che gli desse un contesto e magari un aiuto per capire il suo compagno dove volesse arrivare. “Voleva introdurre mia figlia e mio qualcosa, ma non aveva idea di cosa fossi.” Aggiunse, ma ciò non aiutò per niente il detective che per la prima volta con la mente brancolava totalmente nel buio. Perché con John doveva sempre essere tutto così difficile?

“Sa che lavoriamo insieme, no? Partner sul lavoro andrebbe benissimo, ma non c’è bisogno di essere così fiscali. Sherlock andrà benissimo.” Spiegò con un po’ d’imbarazzo nel non riuscire a seguire quella conversazione. John si mosse all’improvviso e lo raggiunse prima afferrandogli il viso tra le mani e poi poggiando con poca grazia le labbra sulle sue. 

Il detective barcollò appena all’indietro e con entrambe le mani si aggrappò ai gomiti dell’altro per non cadere. 

Quando l’equilibrio fu ristabilito, Sherlock non mancò di ricambiare immediatamente il bacio e John ne fu assolutamente estasiato. Lasciò scorrere le mani fin dietro la sua nuca, incastrando le dita tra i suoi capelli scuri e a quel tocco un brivido percorse tutta la schiena del detective. 

Senza approfondire il bacio, John si allontanò lentamente e fu il primo dei due a riaprire gli occhi. Non si sarebbe perso quella scena per nulla al mondo: Sherlock aveva ancora gli occhi chiusi, l’espressione rilassata e le labbra schiuse e rosse già per quel bacio. Quanto era meraviglioso? Un sopracciglio gli si alzò prima che potesse cominciare a sussurrare qualcosa.

“Questo era- beh, sì. Io- continuo ad essere Sherlock suppongo.” Terminò riaprendo gli occhi e incrociando immediatamente quelli così vicini di John che ora gli stava offrendo un grande sorriso.

“E io ti amo come un idiota proprio per questo.” Ora nemmeno più la distanza di un bacio li divideva, perché finalmente John poteva stringere il suo viso tra le mani e decidere di avvicinarsi o allontanarsi quando voleva e sembrava tutto così familiare.

Nonostante quello fosse il primo bacio in assoluto, sembrava che avesse passato tutta la vita a farlo.

Gli si avvicinò di nuovo e quella volta Sherlock rispose immediatamente, lasciando però che il suo corpo facesse qualche passo indietro, andando a scontrarsi con la porta alle sue spalle. Quando le sue mani, dai gomiti, si allungarono dietro la schiena di John, il dottore si strinse nelle spalle come a cercare di farsi più piccolo per rimanere tra le sue braccia, il più protetto possibile e Sherlock lo accolse, lo avvolse e lo strinse. 

Quando il bacio si approfondì, per il detective fu difficile restare in silenzio e gemette sulle labbra dell’altro senza preoccuparsi di silenziarsi in qualche modo - non che ne avesse l’intenzione ormai - e John a quel suono così sensuale non poté che sciogliersi e perdere la testa per lui ancora un altro po’. Come un riflesso involontario, il medico lasciò scattare in avanti il bacino premendosi ancora di più contro il corpo dell’uomo che aveva davanti e quella era la sensazione più liberatoria del mondo. 

Era come se lo avesse baciato già un milione di volte e tutto quello stava presto diventando troppo poco per lui che voleva di più da molto tempo ormai. 

“Ci tieni proprio che non mi chiami Sherlock, eh?” Disse il più alto alzando la testa e appoggiandosi al muro rovesciandola all’indietro, mentre John con le mani provava a riportarlo sulle proprie labbra, sorridendo. 

“Mi piacerebbero più altri mille nomi.” Rispose con una piccola risata leggera che vibrò sul collo di Sherlock.

“Tipo?” Chiese chiudendo gli occhi per il piacere che cominciava ad inebriarlo più di quanto non avesse mai fatto. 

Era tutto così nuovo e al tempo stesso familiare lì con John che probabilmente in quel momento non sembrava nemmeno impacciato nei movimenti o nei sentimenti. Era tutto naturale e avrebbe permesso a John di guidarlo in qualsiasi altra cosa che avesse a che fare con il contatto fisico perché era così dannatamente bravo che-

“ ‘Singor Watson sta entrando il suo amante’ o ‘Dottor Watson, sta arrivando il suo compagno’ o ‘il suo amore’ anche mi va bene. Qualsiasi cosa.” Disse lasciando una scia di baci bagnati sotto il mento prima di risalire dietro l’orecchio.

“ ‘Dottor Watson, sta per entrare il suo prossimo paziente. Ha bisogno di una visita parecchio approfondita’ andrebbe bene lo stesso?” Riuscì a formulare Sherlock con gli occhi ancora chiusi e la testa ancora premuta contro il muro. Una risposta verbale non arrivò subito, non prima di quella non verbale comunque. John lasciò cadere una mano dal suo collo e andò ad afferrargli il cavallo dei pantaloni che si era già fatto troppo stretto per Sherlock da un po’. Ma non gli conveniva mentire proprio adesso: anche il suo jeans non stava aiutando per niente. 

“Mi andrebbe meglio se tu fossi un cadetto,” confessò lasciandosi andare ad una fantasia che aveva avuto più di una volta da solo in quella stanza al piano di sopra e Sherlock sorrise a quelle parole.

Capitan Watson, mi piace di più in effetti.” Rispose portando la propria mano sul maglione dell’altro. “Ma per ora Sherlock mi va bene. Dovremmo r-rallentare. Non credi?!” Riuscì a dire una volta che le mani di John arrivarono all’altezza della sua cintura. Erano al momento troppo esperte e troppo veloci per uno Sherlock che, per la prima volta nella vita, era più lento di qualcun altro.

“No, io non credo. Ma se è quello che vuoi, allora…” alzò le mani e si allontanò da lui di un passo. Eccitato com’era non si era chiesto nemmeno per un attimo se tutto quello gli andasse bene, ma solo perché pensava che il corpo di Sherlock si stesse facendo capire abbastanza anche senza le parole.

“Non è quello che voglio, ma per adesso sì.” Provò a spiegarsi, non convinto di averlo fatto al meglio.

“Va bene.” John scosse la testa e poi si schiarì la voce per l’imbarazzo, ma Sherlock lo raggiunse subito con un bacio a fior di labbra. 

“Solo… un po’ più piano, va bene?” Chiese appoggiandosi alla sua spalla, scivolando poi a prendergli la mano accarezzandogli tutto il braccio.

“Ho capito, sei uno di quelli che va corteggiato.” Scherzò John con un sorriso dipinto sul volto e a quelle parole Sherlock si sciolse un po’ dalla tensione accumulata per un attimo.

“Come se non avessi visto tutti i modi in cui mi hai corteggiato in questi anni?” Domandò furbo. Ovvio che non aveva mancato di cogliere quei piccoli, minuscoli segnali di interesse da parte di John da quando era tornato ad abitare con lui più di quattro anni fa ormai. Eppure aveva scelto con convinzione di non elaborare nessuno di quei comportamenti; aveva deciso di non metterci la testa, di non fissarsi, di non pensarci e qualche volta aveva rischiato di perdere il controllo lui per primo, ma la paura che potesse distruggere tutto era paralizzante. 

Da qualche mese a quella parte però ormai era diventato tutto così ambiguo, più del solito: gli sguardi più intensi, i sorrisi più intimi e anche il contatto si era fatto in qualche modo diverso. Quel bacio era arrivato come se fosse la cosa più naturale da fare come prossimo passo nella loro relazione. Per tutto il resto però Sherlock aveva bisogno di tempo, aveva bisogno di pazienza. Solo un po’.

“Ah quindi non è che non te ne sei mai accorto, è che volevi fare il difficile?” Domandò ancora più divertito di prima, con una risata pronta che già gli vibrava nel petto.

“Volevo solo essere sicuro. Sono stato cauto.”

“Per la prima e ultima volta nella tua vita suppongo, giusto?” Quando doveva saltare da un tetto all’altro non ci rifletteva mai per più di mezzo secondo e invece per decidersi a fare qualcosa per la loro situazione ci aveva riflettuto anche più di quattro anni? Quell’uomo era impossibile. “E proprio con me dovevi esserlo?” Rise.

“Soprattutto con te, John.” Quella risposta fece tornare serio il medico che sospirò e rimase a guardarlo quasi con espressione colpevole. Avrebbe dovuto fare qualcosa lui prima? Aveva fatto passare troppo tempo? Gli posò di nuovo una mano sul viso e lo accarezzò piano.

“Adesso sei sicuro, Sherlock? Non vorrei mai fare nulla che-”

 “Lo sono, davvero.” Rispose immediatamente, afferrando la mano che aveva sul viso, con la propria come per paura che John potesse riallontanarsi da un momento all’altro. Non gliel’avrebbe lasciato fare. “Ma tu? Tu sei convinto? Perché io non sono certo di riuscire a tornare indietro da tutto questo poi…” con il cuore in mano aveva pronunciato quelle parole e John glielo leggeva negli occhi quanto bisogno avesse che tutto quello fosse reale e duraturo.

“Non sono mai stato più convinto di qualcosa in vita mia, credimi. Ho anche aspettato più del dovuto per quello che mi riguarda.” Confessò scuotendo la testa e Sherlock si voltò per baciargli il palmo della mano, dolcemente. 

“Va bene.” Disse sospirando, un po’ più sicuro.

“Adesso che ne dici se raggiungiamo Rosie e la Signora Hudson giù? Magari vogliono una mano.” E Sherlock annuì immediatamente. 

“Vado a togliermi questo maglione allora, non vorrei sporcarlo. Mi aspetti e scendiamo insieme?”

“Sì.” Rispose annuendo e allungandosi ad accogliere un altro bacio. Quando il medico si voltò per dirigersi al piano di sopra, però, Sherlock lo chiamo di nuovo.

“John?”

“Sì?” Si fermò a metà rampa di scale e si voltò a guardare il compagno.

“Ti amo anche io, comunque.” Non aveva fatto finta di non sentirlo prima, semplicemente il suo cervello doveva metabolizzare moltissime informazioni, per la prima volta, troppo velocemente e stare al passo gli era risultato difficile. Sentimenti e pensieri si oscuravano a vicenda e il processo di metabolizzazione sembrava diventare sempre più complicato.

I suoi sensi avrebbero subìto un rallentamento ogni volta che John gli sarebbe stato vicino, Sherlock ne era sicuro. Funzionava al meglio delle sue capacità accanto a lui e al tempo stesso era in grado di spegnersi completamente, lasciando al corpo il piacere d’avere il controllo sulle sensazioni e non alla mente che pretendeva null’altro che tenerle a bada. 

“Aspettami, che torno subito.”
E quella era una promessa che avrebbe tenuto per il resto della vita. 




Angolo della scrittrice:
Prima di tutto ci tengo a scusarmi per eventuali errori, ma questa è una di quelle mie tipiche notti in cui domani ho sveglia alle 6, ma la mia mente doveva scrivere e quindi questo è il risultato: fretta e ispirazione, che lo so, non sempre (anzi quasi spesso) sono accoppiata vincente. Con questo metodo è sempre un terno al lotto: o farà completamente schifo o sarà decente. Si spera sempre nella seconda opzione più che in qualunque altra! Chiaramente appena pubblicherò la rileggero dal cellulare, a letto. Quindi comincerò a trovare vari errori che spero di aggiustare subito o domani, ma mi scuso comunque.

Per il resto, niente. Dovevo scrivere una cosa del genere a seguito di una fan art che ho visto che mi ha scatenato quest'immagine che non potevo tenere per me, come tutte le immagini che mi arrivano alla mente e devo buttare giù in questo modo così barbaro! Spero possa piacervi ugualmente!

Ps. Sì, sto ancora lavorando alla seconda parte dell'ALTRA OS (Back when we had nothing), quindi niente panico, sto solo cercando di non buttare giù cose a caso, ma di rifletterci passo passo per tenere lo stesso livello della prima parte ^_^ Vi ringrazio sempre per l'attesa! <3

  
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