Ho
sempre avuto un fascino quasi deviato per le mani.
Forse è perché trovo le mie mani particolarmente
belle.
Forse è perché sono l’unica cosa bella
che trovo in me.
Forse è perché è l’unica
cosa bella che gli altri hanno sempre trovato in me.
“E’ strana. Insomma
guardala, è bassa, è piatta, non ha un bel viso e
ha i capelli sempre legati.”
“E’ una sfigata.
L’hai
vista in faccia? A chi piace una così?”
“L’unica cosa bella
che vedo in lei sono le mani. Quelle sono davvero belle. Il resto
è nulla.”
“Ha delle dita lunghe
e sottili, ha le mani da artista.”
“Le sue unghie sono
sempre perfette, anche quando non le cura.”
Ogni
tanto mi guardo allo specchio e penso che in fondo non
sono male, anzi sono carina, ho un bel fisico proporzionato e dei bei
lineamenti
del viso ora che da ragazzina sono diventata donna. Però
loro sono sempre li,
lunghe, delicate, affilate. Mi fissano. Mi chiamano.
Sono la mia benedizione e la mia maledizione; sono il simbolo della mia
bellezza e il ricordo delle mie cicatrici.
“I miei sogni
diventano la mia arma, e le cicatrici che porto con me diventano le mie
medaglie. “ [Luhan - Medals]
Forse
è per questo che sono così ossessionata. Ho
passato
talmente tanto tempo ad analizzare le mie mani in ogni piccolo
particolare che
mi sono resa conto di quante cose esse raccontano di me. Ho un leggero
callo da
matita sull’indice destro, perché amo disegnare.
La pelle delle nocche di
entrambi gli anulari è più dura e secca, segno
delle redini di equitazione. Le
mie dita hanno una forma allungata, delicata come i petali di ciliegio,
talmente sensibili da cadere con un solo soffio di vento.
Però sono anche
muscolose, forti, solide.
Pian
piano ho cominciato ad osservare le mani altrui. Ho
iniziato ad analizzare gli altri: guardavo le loro mani e vedevo loro,
le loro
passioni, il loro lavoro, il loro carattere. Capisco se qualcuno non mi
piace
guardandogli le mani. Mi innamoro sempre di ragazzi con le mani simili
alle
mie: ossute, snelle, nerborute. Non mi interessa che siano lunghe,
corte o
piccine, ma la grazia e la sensibilità di chi come me ha le
mani da artista mi
affascina sempre. Gente con le mani simili alle mie, ma al contempo
diverse,
con vite diverse, con esperienze diverse.
Odiavo
le sue mani.
In
fondo sapevo fin da subito che non avrebbe funzionato, mi
era bastato uno sguardo, un tocco, una stretta di mano. Il brivido e la
sensazione di disgusto che la sua pelle mi aveva trasmesso era bastato
per
rendermi conto che non avrei voluto aver niente a che fare con quella
persona.
Eppure lui era li di fronte a me, a parlare con me, di me, a cercare di
risolvere i miei problemi.
Non so nemmeno io perché avevo accettato di vedere uno
psicologo. I miei
genitori erano convinti che non servisse, ma per qualche motivo avevo
accettato
il consiglio di un amico.
No di un conoscente.
Nemmeno le sue mani mi piacevano.
La
prima volta ero andata io nel suo ufficio; mi ero
rifiutata di toccare quella stanza. Su ogni oggetto che toccava
lasciava delle
macchie indelebili, una scia chiara e netta che diceva “Sono
stato qui.”. E io
non volevo essere contaminata. Non da quelle impronte. Non da quelle
mani. Mi
ero rifiutata di prendere in mano la tazza di te che mi aveva offerto.
Non
accettavo nessun tipo di contatto con quella persona, con i suoi
effetti
personali, con qualunque cosa gli stesse accanto. La sola idea di poter
entrare
in contatto con l’epidermide che ricopriva quelle dita
caricaturali mi
nauseava, disgustava.
Il
disgusto è una reazione umana derivante dalla
capacità di
capire cosa ci fa bene e cosa no. Provare disgusto verso qualcosa o
qualcuno
equivale a identificarlo come tossico, come velenoso.
Si,
io disgustavo quella persona.
Era
la mia tossina, il mio veleno. Più le guardavo e
più le
sue dita mi ricordavano la bocca delle sanguisughe. Ho iniziato a
temere che da
un momento all’altro mi si sarebbero attaccate addosso e
avrebbero succhiato
via tutta la vita che scorreva dentro di me, secondo dopo secondo.
La
seconda volta è stato peggio. Era convinto che per
sistemarmi sarebbe dovuto venire da me, il modo migliore per riprendere
il
controllo della mia mente era distruggere il muro che avevo creato.
Doveva
contaminare il mio spazio sicuro per far si che avrei smesso. Come se
questa
mia cosa fosse come il fumo. Come se l’avessi cominciata per
moda o perché
qualcuno me l’aveva offerta.
-Sembra
che ci sia un disturbo ben radicato dietro questa
tua abitudine. Generalmente si tende ad andare per gradi, ma nel tuo
caso se
vogliamo risolvere la situazione dobbiamo andare alla radice del
problema.
Dobbiamo mandare in crisi la tua mente per poterti permettere di
riprendere
il controllo su questa cosa.–
L’aveva
chiamata cosa perché non aveva idea di come
definirla eppure già credeva di sapere come risolverla. Ma
non sapevo nemmeno
io se la volevo risolvere. Non così. Non con lui.
Quando mise piede dentro casa mia iniziai a sudare. Le sue dita sulla
maniglia
della porta mi irritavano, non riuscivo a smettere di pensarci. Ogni
cosa che
toccava era un conato di vomito che sentivo salire lungo la gola. La
sensazione
era quella di quando si vede un animale spiaccicato
sull’asfalto, con le
interiora sparse sul cemento e l’odore di putrefazione che
impregna l’aria. Fa
schifo, ma non si è capaci di distogliere lo sguardo.
Cercava di toccare più oggetti possibili, sporcava la mia
casa con quelle sue
appendici putride. Lo faceva apposta perché sapeva come mi
sentivo, gliel’avevo
detto. Sono sempre stata una persona schietta, non mi faccio problemi a
dire le
cose come stanno. Visto l’evolversi della situazione
però ho cominciato a pensare
che forse sarei dovuta rimanere zitta.
Si
stupì quando vide ago e filo. Non tanto per quello che
vide ma per la spiegazione che diedi sul loro utilizzo.
-
Ti piace cucire? Non sapevo avessi questo hobby, non hai
paura di pungerti le dita? –
-
No. Mi piace cucirmi la pelle. –
Presi
i miei due arnesi e gli feci vedere. Scaldai l’ago
sulla fiamma di un accendino, la sicurezza prima di tutto, poi ci
passai il
filo e feci un piccolo nodino alla fine. Prima di infilare il filo
nella cruna
gli avevo fatto scegliere il colore, ne avevo solo due. Lui aveva
scelto il
rosso, io quindi avevo preso il nero.
Mi infilai l’ago sottopelle alla base interna del dito medio,
in quel punto c’è
parecchia pelle morta quindi non si sente dolore. Ricamai una piccola
stella.
-
Qual è il motivo che ti spinge a farlo? –
-
Lo stesso motivo che spinge la gente a tatuarsi o fare
piercing. E’ esteticamente appagante. E’
soddisfacente. –
-
Lo faresti anche a me? –
Mi
porse il palmo della mano, io mi ci allontanai ma lui di
tutta risposta lo avvicinò ancora di più tanto
che potei sentire la peluria del
dorso della sua mano viscida solleticarmi il polso.
Irritante, era maledettamente irritante.
Avevo
la sua mano appoggiata sulla mia, non potevo fare
altrimenti, e l’ago già disinfettato
nell’altra mano. Avevo cambiato colore,
non potevo permettere che il filo che avevo appena passato sotto la mia
pelle
toccasse la sua. Sudavo e tremavo, mi sarei dovuta concentrare su
quello che
facevo eppure l’unica cosa a cui riuscivo a pensare era che
dovevo lavarmi il
palmo sinistro. Sentivo il suo sudore causato dal prolungato contatto
mischiarsi
al mio, un formicolio mi pervadeva la spina dorsale, le braccia, le
punte delle
dita. Avevo i muscoli tesi e rigidi, digrignavo i denti, corrucciavo la
fronte.
Sentivo l’irrefrenabile impulso di perforargli la mano da
parte a parte, di
piantargli l’ago da cucito nella vena, di usarlo per cavargli
uno dei suoi
meravigliosi occhi color dell’oceano.
Forse l’avrei fatto.
Passai l’ago sotto la sua pelle. Feci una croce. Premetti un
po’ troppo forte;
un rigolo del suo sangue finì sul mio polso.
Vomitai.
Pian
piano divenni più brava. La situazione sembrava
migliorare, non con tutti ma almeno con lui.
La situazione sembrava migliorare.
Ero solo più brava a fingere, ora non si accorgeva se lo
guardavo con odio, con
diffidenza o con arroganza. Avevo preso una maschera, l’avevo
fatta mia, la
stavo forgiando sul mio viso a mia volontà. Credeva che
quando lo bucavo era
perché ormai avevo preso confidenza e agivo in modo troppo
deciso.
La verità è che mi piaceva.
Amavo
profondamente provocargli dolore.
A
volte perdevo le staffe e non riuscivo a controllarmi. Quando
mi chiedeva di cucinare e toccava il cibo che avrei dovuto mangiare,
tendevo a
rompere qualunque cosa avessi in mano, a volte lo minacciavo, a volte
vomitavo
sul pavimento.
Odiavo quando mi toccava il viso, quando passava la punta delle sua
dita unte e
ruvide prima sul mento, poi sul naso, infine sulle palpebre. Il peggio
erano i
capelli, non doveva permettersi di toccarmeli; l’unica volta
che ci aveva
provato gli avevo quasi piantato una forchetta nella giugulare.
- Il contatto fisico è importante – si
giustificava – serve per
desensibilizzarti all’idea di essere
toccata. –
Diceva che mi stava disintossicando, ma io mi sentivo più
sporca di prima.
Un
giorno incontrai la persona che mi aveva consigliato
quello psicologo. Andammo a pranzare assieme, chiacchierammo a lungo. A
quanto
pare stavo meglio. Non sembravo più troppo ossessionata a
fissare e
scervellarmi sulle mani della gente.
Non ne avevo più bisogno.
Mi bastava meno di un secondo per analizzare gli arti di qualcuno,
passavo
molto meno tempo a guardare semplicemente perché non ne
necessitavo più tanto
quanto prima. Ero più veloce.
Stavo diventando brava.
Mi disse che era contento di vedermi fare progressi, che ci saremmo
dovuto
vedere più spesso, che sembravo una persona nuova, migliore,
più bella.
“Sono più bella?
Adesso sono bella?”
Gli
tirai un pugno.
Gliene tirai un secondo.
Poi un terzo.
E altri ancora.
Sentivo la brezza del primo pomeriggio scuotermi i capelli,
accarezzarmi la
pelle. Sentivo il calore del sangue e il viscidume della sua saliva
sulle
nocche dolenti. Udivo il vento soffiare tra le fronde degli alberi del
viale solitario
e i suoi versi sommessi grugnire a tempo coi miei movimenti.
Vedevo il blu del cielo riflettersi nei suoi occhi mescolandosi al
dolore e
alla paura.
L’adrenalina, la gioia e una strana energia dal retrogusto
amaro mi pervadevano
il petto.
Ridevo senza rendermene conto, piangevo senza accorgermene.
Lo lasciai semicosciente sul marciapiede, mi presi un suo dente come
ricordo.
Ancora non capisco perché non mi abbia denunciata, ma non
l’ho più visto.
La mia mano destra diventò rossa e indolenzita, mi sentii in
colpa per averla
ridotta così.
La colpa era solo sua, sarebbe dovuto rimanere zitto.
Ciao a tutti!
Finalmente dopo un sacco di tempo sono tornata con una nuova fanfic!
Purtroppo tra università, lavoro e impegni vari è
difficile trovare il tempo di scrivere ma fortunatamente l'ispirazione
non mi ha abbandonata del tutto! Ho scritto questa fanfic ieri notte in
preda all'ispirazione del momento e non sono riuscita a resistere dal
pubblicarla!
In realta ho già altre serie che mi piacerebbe pubblicare ma
visto che sono serie e probabilmente non sarei in grado di tenere i
capitoli aggiornati costantemente devo ancora decidere sul da farsi!
Per ora vi lascio con questo one shot introspettivo psicologico che si
basa, lo ammetto, su una mia fissa reale che però qui viene
portata all'estremo.
Spero vi piaccia!
See y'all!
Bardos96