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Autore: The_Trickster    30/06/2017    3 recensioni
[ What...if? E se Harry avesse scelto di abbandonarsi alla Morte?]
Harry Potter, il Bambino che è sopravvissuto, il Prescelto, il protagonista della Profezia, l'unico con il potere di sconfiggere il Signore Oscuro, è morto, ma la morte non è che l'inizio di una nuova avventura, un uroboro perfetto ed eterno che lo farà piombare in un mondo in cui la guerra non è mai finita, una dimensione altra, parallela in cui le certezze di una vita finiranno con il crollargli dinanzi agli occhi come un castello di carte.
{Coppie principali: James/Lily, Harry/Severus, Sirius/Remus, Hermione/Fred, Luna/Ron, Draco/Ginny}
Genere: Guerra, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Harry Potter, I Malandrini, Mangiamorte, Nuovo personaggio, Voldemort | Coppie: Draco/Ginny, Fred Weasley/Hermione Granger, Harry/Severus, Remus/Sirius
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7, Più contesti
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Phoenix's Anthem

Like the legend of the Phoenix
All ends with beginnings
What keeps the planet spinning
The force of love beginning

Oh we come too far
To give up who we are

Daughter - Get Lucky



 
Disclaimer: 'Tutti i personaggi presenti in questa storia, ad eccezione di Euphemia Dahlia Potter, non mi appartengono, ma sono proprietà di Joanne K. Rowling; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro'.


Prologo

Amore e Morte


 
«Nell'Ufficio Misteri» lo interruppe Silente «c'è una stanza che viene tenuta sempre chiusa. Contiene una forza al tempo stesso più meravigliosa e più terribile della morte, dell'intelligenza umana e della natura. E forse il più misterioso fra i molti soggetti che vengono studiati laggiù. E la forza contenuta in quella stanza che tu possiedi in grande quantità, e che Voldemort non possiede affatto. E stata quella a spingerti laggiù stanotte per salvare Sirius. E ti ha salvato dalla possessione di Voldemort, perché egli non può risiedere in un corpo tanto pieno della forza che lui detesta. Alla resa dei conti, non ha avuto importanza che tu non riuscissi a chiudere la tua mente. È stato il tuo cuore a salvarti».
J.K. Rowling, Harry Potter e l'Ordine della Fenice



Curioso quanto fosse stato semplice chiudere gli occhi dinanzi alla Vita, abbandonarsi al tocco lieve e mormorante di un Velo sinuoso, d'acqua salmastra e fango che aderiva alle vesti e trascinava nell'acquitrino di una palude, un Avvincino dalle braccia forti e dalla volontà di ematite.
Peculiare quanto il sibilo dei dimenticati assomigliasse a un canto di dolore, la nenia soffusa di un'orrida madre che intonava odi per il suo pargolo deforme. La loro ballata era sconnessa e aspra, disperata e soffocata dai singhiozzi appena trattenuti. Voci di donne e uomini s'accavallavano in vuote minacce e in patetiche recriminazioni, pianti di bambini mescevano il liquido mortifero di quel calice avvelenato. Non era vero che la Morte portava pace. Quelle anime vivevano tra i tormenti.
« Harry!»
Quell'invocazione potente, di mille e più voci che pregavano all'unisono, estinse tutte le altre, facendo piombare nel silenzio più cupo gli insetti catturati nella tela del ragno, atterriti da quel contatto con un regno a loro mai più concesso, che profumava di sogni e di vita, di possibilità e di scelte, avente il sapore di ricordi perduti.
L'anima appena giunta alle soglie della dannazione eterna riprese coscienza di sé, sradicandosi dai fili argentei ed emergendo nella sua dignitosa interezza. Si crogiolò per un attimo nel sentirsi, abbandonandosi al piacere di riscoprirsi corpo giovane, di ragazzo alto dal fisico asciutto e mingherlino, sorriso timido e determinato, occhi verdi e brillanti come gocce di malachite.
Il suo nome era Harry.
In quel momento lo ricordò e lo assaporò di nuovo, quell'antico cenno di nobiltà normanna. Il lieve sospiro all'inizio, il trillo in conclusione, l'allegria per niente smorzata dalla durezza della vibrante
L'urlo straziante della ragazza, voce roca di chi aveva pianto a lungo, riverberava ancora e ancora tra le pareti della caverna in cui era costretto, una litania di sofferenza e orrore che lo scosse a tal punto da ridestarlo.
Harry conosceva quel timbro quanto il proprio e lo amava con il tenero affetto che così poco aveva riservato a se stesso. Capelli castani e cespugliosi, labbra sottili che sapevano piegarsi in dolci sorrisi fraterni, occhi vispi e intelligenti, di un caldo castano che profumava di casa e famiglia. Era Hermione, la sua migliore amica, l'ultimo legame con la sua vecchia vita, con il ragazzo indomito e fedele che era stato. E lo supplicava, una richiesta d'aiuto che non avrebbe mai ignorato, perché, se Hermione e Ron fossero stati in pericolo e Harry non fosse riuscito a salvarli, avrebbe davvero fallito e perduto tutto ciò che gli era caro al mondo.
Harry tentò di scostare il Velo che lo separava dalla ragazza implorante, tocchi spasmodici tra la nebbia fitta, labbra tremanti di preghiere inespresse, occhi verdi e febbrili, lucidi di lacrime di pura frustrazione e livore.
« Hermione. Ron,» li chiamò in un urlo disperato, la voce arrochita dall'atavico timore che l'aveva scosso per anni, imprigionando la sua anima per ridurla in catene come una fiera immonda.
Il Velo rimaneva muto alle sue preci, uno muro di mattoni fatti di ghiaccio liquido e distorto, illusorio, che sembrava voler concedere un contatto ma che lo negava l'istante successivo, il gioco di un bambino iniquo e spietato.
« Oltrepassata la soglia, il Velo è impenetrabile,» esclamò con timbro asettico una voce alle sua spalle, costringendolo al silenzio.
Harry si volse ad osservare lo spettacolo che si dispiegava dinanzi a sé, per scoprire chi avesse parlato, chi fosse stata abbastanza forte da abbandonare quel marasma di anime senza nome che turbinava nella tela.
Spalancò gli occhi verdi, brillanti come l'erba tagliata di fresco, nel riconoscere il luogo in cui si trovava. Assomigliava al parco di Hogwarts, dai prati umidi di rugiada e con le torri di pietra antica e intrisa di magia in lontananza, le serre afose a pochi passi e il Platano che s'agitava inquieto per non permettere a nessuno di penetrarne i segreti. Se aguzzava la vista poteva notare il Lago Nero, dalla superficie appena scossa da timide onde e dalle creature che si celavano nel suo ventre accogliente.
Poi la vide e un rantolo d'orrore gli sfuggì dalle labbra schiuse.
La creatura aveva le sembianze di una donna, né giovane né anziana, avvolta in un manto nero che le fasciava il busto tornito e le copriva le membra come un sudario, arrivando ai piedi nudi, pallidi come raggi lunari.
Aveva un volto freddo e senza età, dai lineamenti distorti come argilla mal lavorata, zigomi aguzzi e mento debole, gote incavate come se non si nutrisse da giorni e labbra livide. Occhi di un azzurro slavato, ghiacciati e implacabili, lo fissavano senza inflessione, quasi pigri, come se si fosse attesa una reazione diversa ma non ne fosse stupita. La bellezza decadente di una condannata.
Lunghi capelli neri, folti ma stopposi, le stringevano il collo di cigno come un cappio mortifero e ben stretta alla mano sinistra portava una falce di legno di tasso e dalla lama d'oro.
« I miei amici hanno bisogno di me. Lasciami andare,» la pregò il ragazzo che era sopravvissuto per troppe volte, protetto dall'amore di una madre coraggiosa e dalle scelte oculate di un protettore non troppo disinteressato.
« Temo di non potere. Abbandona i vivi, Harry James Potter. Non è questo il giorno in cui la Falce calerà sui tuoi amici,» affermò con sicurezza la donna gelida, di gesso lavorato a fuoco, sorridendo appena della sua ingenuità, annoiata dalle sciocchezze dei mortali. Nella destra, notò il ragazzo, portava una rosa dai petali neri e già seccati, le cui spine avevano scavato nella pelle liscia, ferendola senza lasciar colare sangue.
« Chi sei?» sussurrò Harry sempre più consapevole e certo di sapere chi avesse dinanzi a sé. La storia dei Tre Fratelli era ben impressa nella sua memoria, avendola ascoltata dalle labbra pallide e scettiche di Hermione poche settimane prima in una stanza angusta che aveva il tanfo del tradimento.
La donna sorrise e fu terribile, come osservare un crimine orrendo senza il coraggio di scostare lo sguardo, il fascino delle cose ripugnanti nel fetore delle tenebre.[1]
« Io sono la Morte e tu mi appartieni.»
Lo affermò senza gioia e senza alcuna soddisfazione, ma non v'era neanche un accenno di pietà. Era il timbro doveroso di un impiegato che s'apprestava a timbrare una qualche carta.
« Non posso abbandonare Hermione e Ron. Devo tornare a combattere,» soggiunse con più urgenza, per farle comprendere le proprie ragioni. Non era arrogante come il secondo fratello, non bramava la vita per sé, ma solo per proteggere chi amava.
« Saranno protetti,» gli assicurò la creatura per la prima volta impietosita da quell'amore che gli impediva di lasciare per sempre il mondo dei vivi e ricongiungersi con chi aveva perduto. Quelle parole servirono a convincerlo. La Morte non mentiva. Era brutale come solo la verità poteva essere.
Pensò a Sirius, al suo padrino morto prima che potesse imparare a vivere davvero, a tutto l'affetto che avrebbe potuto legarli se Minus non avesse mentito, al porto sicuro che era stato per il tempo di un soffio distratto; a suo padre, che aveva combattuto e amato sino alla fine per permettere a sua moglie e a suo figlio di fuggire; a sua madre, alla dolce Lily, sempre disposta a cercare il buono in chiunque, la madre che aveva sacrificato se stessa per proteggere il suo bambino; a Remus, al Malandrino tranquillo e quieto, il più saggio e il più triste, appena diventato padre e già condannato a non conoscere mai suo figlio; a Silente che aveva giocato la sua partita a scacchi con maestria, ma che non l'aveva mai abbandonato e che s'era odiato per i suoi crimini. Pensò, infine, a Severus Piton che aveva amato una donna per tutta la vita, l'aveva perduta e aveva cercato di redimersi, al trattamento meschino che gli aveva riservato per tanti, troppi anni senza accorgersi del suo valore.
Era a loro che apparteneva ormai, non più ai vivi.
Mosse un passo in avanti, esitante quanto un infante che aveva avuto l'ardire di issarsi in piedi e smettere di gattonare, e la Morte allungò la destra, esponendogli la rosa nera come per spronarlo ad accettarla.
Un fruscio innaturale spezzò la quiete del momento e la Morte, per la prima volta, scostò lo sguardo gelido da lui per rivolgerlo a una figura ammantata di nebbia che stava avanzando di gran carriera verso di loro.
Era un uomo alto e imponente, munito di armatura medievale, le scarselle assicurate contro le cosce tornite e una guardiastanca di ferro sul torace, deformata in più punti come se avesse partecipato a innumerevoli duelli. I capelli avevano il colore del tramonto, ma l'alba ridente gli abbelliva il viso gentile e nobile, dai tratti delicati e sormontati dagli smeraldi che gli occupavano gli occhi.
La Morte l'osservava con nostalgia tanto evidente da apparire umana, ma il Cavaliere sembrò non accorgersene tanto era preso ad osservare la destra che ancora stringeva lo stelo appuntito.
« Mia Signora. Ho udito il canto di quest'anima disperata e non ho potuto esimermi dall'accorrere al vostro cospetto.»
La sua voce era chiara e profonda, come certi laghi di montagna che apparivano effimeri come stagni e che sapevano trasformarsi in cascate, una dizione nobile e sicura, d'altri tempi. Il Cavaliere s'inchinò ossequioso, il ginocchio destro a terra e il gomito sinistro a toccare l'altro, esponendo il bel viso all'ombra della Falce, lo sguardo di smeraldo immerso in quello slavato della Morte fremente.
Harry rimase per un attimo confuso dinanzi a quella scena, al Cavaliere d'argento e alla Dama d'ossidiana, per la tensione magica che condividevano, le auree più potenti che il giovane mago avesse mai conosciuto. Un dialogo silenzioso, antico quanto il mondo, si intrecciò dinanzi ai suoi occhi e non poté scostare lo sguardo da quello spettacolo unico e irripetibile, un onore concessogli dopo una vita di fato avverso.
Dopo un momento che gli parve eterno la Morte scostò lo sguardo per prima, le labbra tremanti di rabbia e un'espressione astiosa a deturparle i lineamenti duri, mentre il Cavaliere si issò in piedi rivolgendogli uno sguardo mite, gli occhi verdi così simili a quelli di sua madre da stringergli il cuore in una morsa serrata.
« Ebbene, Harry James Potter, sii grato ad Amore. Si ritiene che tu abbia vissuto una vita a metà e che soltanto le stirpi condannate a cent'anni di solitudine non abbiano diritto a una seconda possibilità sulla terra[2]. Tu non sei condannato,» interloquì la Morte arrogante, chiaramente seccata di non mietere la sua anima.
« Cosa significa?»
La Morte scivolò verso di lui, un ghigno che scintillava di malizia e crudeltà a macchiarle gli occhi chiari. Amore le cedette il passo con galanteria, osservandola con la nostalgia di un amante abbandonato. La creatura si chinò su di lui, i lunghi capelli neri che sfioravano la sua anima. Poteva percepire il suo respiro sulla pelle che non possedeva più, odore di belladonna e mandorle tritate. Le labbra della Morte erano livide e bluastre, come quelle di un Infero, morbide come petali di rosa ma gelide, ghiacciate e nocive come arsenico. Quando le posò sulle proprie, Harry si sentì precipitare e tutto scomparve nel buio.






[1]: Parafrasi della frase: “ Scopriamo un fascino nelle cose ripugnanti, ogni giorno d'un passo, nel fetore delle tenebre, scendiamo verso l'inferno, senza orrore.” (Charles Baudelaire, I Fiori del Male)
[2]: Parafrasi della frase: “Le stirpi condannate a cent'anni di solitudine non avevano una seconda opportunità sulla terra.” (Gabriel Garcia Marquez, Cent'anni di solitudine). 
   
 
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