Serie TV > The Originals
Segui la storia  |      
Autore: Oneiroi    03/07/2017    0 recensioni
A metà del Cinquecento per stanare e punire i loro nemici i Mikaelson decidono di inviare Rebekah in missione alla corte di Renard. Il compito affidatogli è molto semplice, scoprire chi sta aiutando Mikael Mikaelson a dar loro la caccia e vendicarsi per l'affronto subito. Rebekah, allora, fintasi la contessina Giselle Moreau promessa sposa del figlio del duca di Renard, parte alla volta della contea con il solo scopo di rendere fieri i suoi fratelli. Ma ben presto quello che doveva essere un banale incarico si tramuta in qualcosa di più grande e potente.
Intrappolata tra l'illusione e la realtà, tra l'amore e la famiglia, costretta a difendersi da antichi nemici e nuove minacce, Rebekah proverà ad esser felice, a dare un senso a quell'eternità che da sempre l'opprime.
Genere: Azione, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Elijah, Klaus, Rebekah Mikaelson
Note: AU, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Contea di Renard, Francia, 1546.
Gli occhi di Nick mi perseguitavano senza posa. Le sue iridi, di un colore indefinito a metà tra un azzurro  di ghiaccio ed un tenue grigio, aleggiavano nella mia mente come l’ombra di un nefasto presagio. Conoscevo bene quello sguardo, quel profondo cipiglio, specchio luminoso di una molteplicità conturbante di emozioni, era stato per un tempo così lungo da apparire infinito, il confine evanescente del mio intero universo. Aveva paura, per quanto paradossale e profano che fosse, mio fratello, il famigerato e crudele Niklaus Mikaelson, l’ibrido originale da tutti venerato e temuto, aveva paura. Lo deducevo dal suo modo paranoico di stringere i denti, dalla convulsa frenesia con cui serrava e dischiudeva le ciglia, una, due, tre e mille volte ancora. Non era l’unico, tutti eravamo terrorizzati, ognuno a modo suo. Mio padre Mikael, l’unico in questo modo in grado di gettare mio fratello in un tale stato di fragilità ed incertezza, era ritornato per l’ennesima volta dal passato, pronto a darci la caccia, sospinto dal suo folle ed irrefrenabile desiderio di porre rimedio a quel male dai lui stesso causato, quei figli dai lui stesso generati. Non erano passate nemmeno due settimane da quando eravamo stati costretti a scappare da Parigi nella vana speranza di anteporre il maggior numero possibile di chilometri tra noi ed il nostro spietato inseguitore. Il che ad onor del vero, non faceva altro che sintetizzare i miei ultimi cinque secoli di vita, di una vita dolorosa e vuota, di una lasciva ed infruttuosa corsa contro il tempo. Avevamo rischiato grosso quella volta, Mikael era arrivato a poco più di una decina di isolati da noi e se non fosse stata per la provvidenziale paranoia di Niklaus il mio corpo si sarebbe di lì a poco ridotto ad un mucchietto informe di cenere. Non capivo, anzi non capivamo, perché in realtà nessuno dei miei fratelli ci riusciva, cosa fosse andato storto quella volta, quale imperdonabile errore ci avesse traditi. Eravamo stati molto più attenti del solito, capaci ed esperti nel non destare sospetti, nel celare nel miglior dei modi possibili le nostre vere identità, eppure uno sbaglio, una leggerezza, dovevamo pur averla commessa. O almeno questo e quanto fino a poco fa credevamo, prima ancora di scoprire di essere stati ingannati, di essere stati offerti come vittime sacrificali al nostro spietato assalitore. Ci era giunta notizia infatti che qualcuno ci avesse denunciati, che dalla contea di Renard, fosse partita la voce, per noi mortale, della presenza a Parigi di antiche e mostruose creature assetate di sangue umano, che vagabondavano ai confini della città disseminando tra le sue strade un mucchio di cadaveri sventrati. Avevamo deciso allora che fosse necessario fare qualcosa, trovare il modo adeguato di reagire, dovevamo appurare la veridicità o meno di quelle informazioni e comportarci di conseguenza. Se da un lato Niklaus voleva sterminare l’intero paese senza pensarci su due volte, Elijah propose un’alternativa meno sanguinolenta ma al contempo efficace. Sarei partita pochi giorni dopo in direzione della contea e avrei verificato io stessa, di persona, se quanto si dicesse in giro su quel luogo e sui suoi ipotetici abitanti corrispondesse a verità oppure no.
Ed era per quel preciso motivo che mi ritrovavo in quel esatto istante nascosta tra le fronde di un’alta quercia nel bel mezzo di una fitta foresta in attesa che una carrozza reale scortata da una decina di guardie passasse di lì, a qualche metro di distanza dai miei stivaletti di velluto. La situazione era piuttosto delicata, in quel calesse si sarebbe trovata la contessina Giselle Moreau, promessa sposa di Jerome Blanchard figlio del duca, nonché signore della contea, Cesar Anthime Blanchard. La signorina Moreau era accorsa dalla cittadina di Saint Ethiennè in occasione della sua festa di fidanzamento, grazie alla quale le due più potenti famiglie reali del sud della Francia si sarebbero assicurate l’egemonia politica di gran parte della nazione. Il mio piano, a dispetto di qualsivoglia ragionevole supposizione era molto semplice, avrei aggredito la carrozza, fatto una strage di gran parte delle guardie compresa l’avvenente contessina, ed una volta assunte le vesti della mia nuova personalità avrei convinto, tramite compulsione, un paio di cocchieri affinché mi portassero al castello dei Blanchard, luogo dal quale sarebbero iniziate le mie indagini. Non mi restava far altro che aspettare, sotto quel cielo desolante senza nuvole, il momento propizio per entrare in azione.
◊◊◊
Con un assordante sfrigolio di zoccoli un cocchio dalle intense sfumature blu e oro irruppe nel mio campo visivo, feci una rapida conta delle guardie, erano otto disseminate ad intervalli regolari per la lunghezza di tutto il perimetro. Indossavano una pesante armatura di luccicante argento ed erano armati di lance e balaustre, sorrisi, ucciderli sarebbe stato un gioco da ragazzi. Con una delicatezza degna delle miglior étoiles di fama internazionale, mi catapultai giù dagli alti rami, affondando i piedi su un cespuglio di fresca erba. Mi strappai parte dell’orlo inferiore della gonna e staccai con forza il ricamo superiore del corsetto. Con la semplice dinamicità delle dita, sciolsi i lunghi capelli biondi che avevo raccolto in un morbido chignon e li spettinai a destra e manca senza alcun criterio logico. Nell’estenuante frangente dell’attesa avevo deciso che, per infondere un minimo di divertimento a quella ridicola impresa, avrei finto di essere una tenera fanciulla indifesa, addentratasi da sola nei boschi per sfuggire alla cieca ingordigia di un branco di spietati fuorilegge. Sgranchite dolcemente le gambe detti avvio alla mia carriera d’attrice.
“Fermatevi, vi prego, fermatevi!” uno dei postiglioni tirò le briglie di un possente cavallo color cioccolato e la carrozza si fermò di colpo. Fu una delle guardie ad interpellarmi,
“Chi è lei? Che succede fanciulla?”
“Vi prego aiutatemi, io e la mia famiglia siamo stati attaccanti da un’orda di banditi a qualche chilometro da qui.”
“Ma io vedo solo lei fanciulla, dov’ è il resto dei suoi familiari?”
“Non lo so, non so che fine abbiano fatto. Mio padre e i miei fratelli hanno cercato di rispondere all’assalto, mentre io e mia madre siamo scappate nel folto dei boschi. Ma poi all’improvviso abbiamo udito uno sparo e mia madre ha deciso di tornare indietro per capire cosa fosse successo, mentre io ho proseguito in cerca di aiuto. Ho camminato sotto al sole tra le erbacce da sola con il cuore che per poco non mi esplodeva dalla paura, fino a quando per fortuna mi sono imbattuta in voi. Vi prego, dovete aiutarci, dovete salvare la mia famiglia” una delle guardie, quella che ad occhio e croce sembrava essere a capo della scorta, trottò con il cavallo in direzione del calesse, colpì velocemente per tre volte contro una piccola porta di legno e attese di ricever risposta.
“Contessina Moreau, avete sentito il racconto della ragazza, cosa gradisce fare a riguardo?” una voce flebile, simile a quella di un’oca fece eco dall’interno,
“Raccogliete la fanciulla e scortatela all’interno della carrozza, siederà per il resto del viaggio al mio fianco. Quanto alla sua famiglia, non appena saremo arrivati al castello, manderemo qualcuno in loro aiuto”,
“Ai suoi ordini, contessina”. Fui sollevata di peso da un paio di guardie, accompagnata al calesse ed aiutata a prendere posto al suo interno. Giselle Moreau era una ragazza di circa vent’anni dai lineamenti piuttosto anonimi. Aveva i capelli biondi pettinati in morbidi ricci, le guance ricoperte da un velo di cipria ed un  collo lungo e sottile, che infondeva un pizzico di eleganza a quel volto altrimenti semplice ed impersonale. Indossava un bell’abito color crema, ed un paio di lunghi orecchini di perla.
“Se non ci sono altre richieste, proseguiremmo il nostro cammino contessina”,
“Nessun’altra interruzione. Cercate di affrettare il passo, vorrei avere il tempo di fare un bel bagno rilassante prima del ballo di stasera”
“Senz’altro contessina, arriveremo quanto prima a destinazione”
“Me lo auguro”, la guardia smise di parlare ed i cavalli ripresero il loro cammino. La contessina volse a me gli occhi, armeggiò per qualche secondo con la borsa e mi porse poi un quadrato di soffice garza,
“Tenga cara, si asciughi pure le lacrime. Dev’essere stato terribile vivere un’esperienza del genere per una tenera ragazzina come lei”
“Oh si, davvero terribile. Non immagina che spavento, ho temuto di morire o peggio di divenir loro prigioniera” nascosi il viso tra la garza,
“Suvvia, mi dica il suo nome e non ci pensi più che il peggio per fortuna è ormai passato”
“Mi chiamo Rebekah, Rebekah Mikaelson e lei  adesso farà tutto ciò che le dico”.
Ero col tempo ormai diventata un’esperta nell’arte della compulsione. Ricordo che all’inizio non riuscivo a comprendere fino e infondo il meccanismo strabiliante tramite il quale riuscissi a convincere le persone a fare quanto io volessi. Mi sembrava una magia, un’assurda e folle magia, un potere tanto forte da non poter essere controllato. Per quanto fui ben presto costretta a rivedere il confine tra reale ed immaginabile e a categorizzare come possibile ciò che fino ad un attimo prima mi appariva come inconcepibile, la possibilità concreta e tangibile di piegare la mente altrui al mio volere, di decidere in maniera tanto semplice ed immediata delle vite ed azioni estranee, era per me un qualcosa di tanto grande quanto non psicologicamente accettabile. Purtuttavia dopo una lunga serie di tentativi e fallimenti riuscii a scoprire la natura del mistero. Bisognava desiderare, desiderare con tutte le proprie forze, anelare un qualcosa tanto ardentemente da soccombere quasi sotto l’intensità della propria brama. Era poi necessario crederci, autoconvincersi che ciò fosse possibile, che quanto si sognasse fosse semplicemente a portata di mano. Riuscendo in ciò, si poteva indurre chiunque a fare qualunque cosa, dilettandosi così nello scrivere di proprio pugno il destino delle persone.
Mi avvicinai lentamente a Giselle e tenendo fissi gli occhi nei suoi le parlai con voce calma e suadente,
“Non urlate, non gridate, non emettete il minimo suono, non compite il minimo movimento. Attendete con serafica accettazione il momento della vostra morte”, mi soffermai per un attimo ad osservare la placida stanchezza con cui i suoi muscoli si rilassarono e poi le affondai i canini nel collo lasciando che quella tiepida tranquillità mi scivolasse in gola. Assaggiai con ardente golosità il retrogusto salato e piccante del suo sangue, quel liquido vermiglio inondava la mia bocca alimentando i miei gusti di nuova ed irrefrenabile energia. Quando anche l’ultima goccia rossa era stata risucchiata via da quel corpo senza vita, scaraventai la porta con un calcio e diedi libero sfogo alla parte più selvaggia del mio essere. Con una velocità prossima a quella della luce, sopraggiunsi alle spalle di due guardie e ruppi loro l’osso del collo, poi mi avvicinai ad altre due e strappata via loro la lingua le osservai mentre cadevano al suolo strozzati dalla loro stessa bile. Mi fiondai sulle restanti, alternando istantanee decapitazioni a fulminei sgozzamenti, brandelli di carne madidi di sudore esplosero nell’aria creando una danza della morte mentre un coro di voci spezzate risuonava cupo in sottofondo. Quando mi resi conto di averne lasciato solo uno, deglutii il mio insaziabile istinto di caccia e lo persuasi a riprendere il tragitto interrotto. Acquietati così anche i feroci destrieri, mi riaccomodai in carrozza e, terminato il mio travestimento, mi liberai dell’ingombrante cadavere della vera Giselle Moreau. Mi concessi infine un attimo di calma, mancavano si è no una cinquantina di minuti al castello dei Blanchard ed io necessitavo di un piccolo riposo per riprendere completamente il controllo di me stessa e dei impulsi.
◊◊◊
Il castello dei Blanchard appariva come il frutto di una rozza ostentazione di lusso e ricchezza, un’esaltazione sfarzosa e sfacciatamente provocatoria, di potere e solennità. Contrafforti in oro zecchino, architravi di cristallo, pavimenti color rubino e lampadari  in avorio, si susseguivano senza posa in quell’intricata rete di anticamere, stanze e corridoi. Un intenso profumo di cannella aleggiava nell’aria ed il riflesso sbiadito del sole filtrava attraverso ampie vetrate dalle più ricercate geometrie. Un’opera ammirevole per ingegno e meticolosità, non altrettanto per eleganza e buongusto. Mi orientavo con fatica all’interno di quell’ambiente così poco familiare, la corte parigina nella quale avevo trascorso i miei ultimi dieci anni, era di ben altra levatura in materia di arredamento e di stile, ciò che lì era lodato perché armonico ed essenziale, qui era ritenuto superfluo ed innaturale.
“Contessina Moreau, eccoci arrivati alle sue stanze”, il poeta di corte Jacques Leclercq era stato incaricato dal duca in persona di farmi da Cicerone, esaudendo ogni mia richiesta od esigenza di qualsivoglia natura. Una parte di me stessa, più tipicamente femminile, si sentiva grata e lusingata da un siffatto nobile trattamento, per quanto fossi consapevole di non esser in realtà io il vero oggetto di tali amorevoli considerazioni. Ciò costituiva in realtà, a voler essere sinceri l’unico elemento positivo di quell’insensata missione di spionaggio, non ero perfettamente consapevole del perché mi fossi lasciata convincere da Elijah nell’accettare il suo piano, se fosse stato merito della sua reiterata capacità di persuasione o causa della mia scarsa attitudine all’opposizione, fatto sta che non avevo tardato a pentirmene amaramente, ciononostante  malgrado fossi stata più e più volte sul punto di tornare indietro allontanandomi da tutto quanto, avevo sempre mancato del coraggio necessario per farlo. Forse a pensarci bene era l’idea di poter deludere in qualche modo i miei fratelli, di tradire la loro fiducia così generosamente in me riposta, ad indurmi ad andare avanti.
“Et voilà mademoiselle, le stanze imperiali” Jacques scostò con non poca fatica un paio di ampie arcate a mezzo sesto, mostrando alla mia visuale il classicheggiante scenario di una vasta camera padronale dalle pompose sfaccettature.
“Non trova siano deliziose contessina?”
“Senz’altro, Leclercq, senz’altro”
“La lascio da sola a prendere familiarità con l’ambiente. Più tardi le manderò un paio di damigelle che l’aiuteranno a farsi bella per il ballo. Mi raccomando contessina  Moreau, non esiti ad avanzarmi anche la più piccola richiesta, son qui apposta per esaudire ogni suo più piccolo desiderio”
“Me ne ricorderò Jacques, non tema di questo”, aspettai di esser finalmente sola e mi fiondai, senza pensarci due volte, sull’alto letto a baldacchino. Un soffitto color zaffiro dai ricami floreali in oro rappresentava l’angolo di cielo a me destinato, socchiusi gli occhi sopraffatta e sfinita da quella giornata incredibilmente senza fine. Mi ritrovavo da sola, in un ambiente nuovo e potenzialmente ostile, catapultata in una realtà distante anni luce dalla mia quotidianità, costretta a fingermi una persona diversa da me stessa, non era una situazione affatto piacevole, detestavo dover essere in balia degli eventi, non poter decidere in prima persona del seguito delle mie azioni. Volevo semplicemente raggiungere il mio obiettivo nel minor tempo possibile, avrei trovato la verità, informato la mia famiglia a tal riguardo e deciso insieme il da farsi. E forse dopo sarei partita per un viaggio, sì un viaggio, in quei paesi esotici, in cui il sole sembra non  tramontare mai, in cui l’arsura si innalza lentamente dalla terra consumando a poco a poco l’ossigeno e in cui il domani non nient’è altro all’infuori della promessa di una nuova avventura. Sì, avevo deciso, avrei messo fine a quella storia e poi sarei partita, nell’estrema ricerca di un senso ad un’eternità povera di prospettive. Sollecitata allora da quel nuovo e perentorio progetto, mi ridestai in men che non si dica da quello stato di tepore in cui ero dolcemente caduta e mi diressi in bagno, desiderosa di un po’ d’acqua calda. Girai allora la manovella d’ottone della vasca, aspettai che questa si riempisse spargendo nell’aria un’avvolgente nuvola di vapore e mi tolsi quei pesanti e sudati abiti di dosso. Detestavo dover indossare quei corsetti stretti ed opprimenti, costringevano il corpo di una donna ad uno stato di semi-inamovibilità a dir poco orticante per il mio fiero ed indomito spirito di guerriera. Liberatami anche dell’ultimo centimetro di stoffa, mi lasciai sprofondare all’interno di quel piatto specchio d’acqua e per poco non mi misi ad urlare quando una divampante sensazione di bruciore mi attraversò la pelle da cima a fondo. Scattai agilmente in piedi e mi allontanai il più possibile da quella gabbia di ceramica, mi osservai attentamente l’epidermide in cerca di conferme. Avevo tutto il corpo segnato da lunghe venature rossicce simile alle rocce vulcaniche percorse dalla lava, una percezione profonda di intenso calore mi scorreva ancora nelle vene, scottandomi al sol ricordo di quanto poco prima provato. Conoscevo bene quel sentimento di viscerale arsura, era verbena, non c’erano dubbi. Mi ci volle ancora qualche istante per smaltire del tutto lo sbigottimento causato da un pericolo tanto semplice quanto inatteso. Non mi aspettavo di poter trovare della verbena nelle condutture dell’acqua e non ne fui felicemente sorpresa. Capii, andando al di là dello spiacere della faccenda, che ciò costituiva senz’altro un punto di partenza. La presenza di quel deterrente per vampiri all’interno delle tubature del castello, era una prova incontrovertibile e piuttosto chiara. In paese sapevano, o almeno le sfere aristocratiche locali erano a conoscenza della presenza di vampiri, di quelle voci infamanti sulla corte parigina. Due sole prospettive mi si palesavano dinnanzi, o da un lato le voci sull’implicazione della contea all’arrivo di Mikael erano vere, oppure quella stessa ignobile fuga di notizie era sopraggiunta anche lì, disperdendosi veloce come una macchia d’olio, simbolo di un sigillo di morte firmato Mikaelson. In entrambi i casi dovevo stare attenta, se da carnefici o meno, le persone che mi circondavano sapevano, erano a conoscenza del pericolo costituito dalla mia natura e del modo con cui difendersi. Mi avvolsi frettolosamente le lenzuola attorno al petto ed incomincia a girare per la camera in cerca di ulteriori trappole. L’unica cosa che trovai, con mio grande divertimento, fu una piccola pianta di aglio nascosta dentro il soppalco della finestra, sorrisi, per fortuna le notizie inerenti i vampiri sembravano più il frutto di antiche e stupide superstizioni piuttosto che l’opera di una meticolosa informazione. Probabilmente non mi sarei dovuta scontrare con veri e propri cacciatori di vampiri, ma al massimo con qualche fanatico folle e religioso, la qual cosa a volte non costituiva necessariamente un vantaggio. Afferrai la piantina e la lanciai dalla finestra, per quanto inutile, emanava nell’aria un odore piuttosto sgradevole e inoltre l’idea di liberarmi di qualsiasi minaccia nei confronti della mia specie vera o finta che fosse mi era di gran sollievo.
◊◊◊
Ero quasi del tutto pronta, quando ordinai alle mie ancelle personali di lasciarmi sola, detestavo essere servita e riverita in tutto, preferivo di gran lunga fare le cose a modo mio, in piena e totale autonomia.
“Come desidera contessina, ma prima devo darle questa per lei. È da parte del figlio del duca, nonché suo promesso sposo, come ben sa”
“Grazie, adesso andate, lasciatemi sola”, attesi la porta si chiudesse e poi con un’innaturale foga staccai la cera rossa e lessi la lettera. La calligrafia era lunga ed elegante, opera di una mano esperta e ben educata, non riuscivo a capirne il motivo ma avvertivo il cuore sussultarmi sempre più nel petto.
Mia adorata contessina, staserà avrò finalmente
l’onore di incontrarla per la prima volta,
di poter ammirare con i miei occhi il suo splendore.
Spero condivida la stessa trepidazione e che la mia persona
si rivelerà all’altezza delle sue aspettative.
Con la certezza che il tempo saprà ricompensarci dell’attesa
le invio questo piccolo regalo,
come prova del mio impegno e della mia devozione.
Sinceramente suo, Jerome Blanchard.
Respirai a lungo lasciando che l’emozione si smaterializzasse sullo sfondo inconsistente dello scorrere del tempo. Osservai attentamente allo specchio i confini del mio riflesso, ero perfettamente consapevole di cosa stessi in quel preciso momento provando. L’amore, oh l’amore, era stato da sempre il faro guida della mia esistenza, la ragione intima e profonda del mio percorso di vita. Avevo amato, sì, eccome se lo avevo fatto, più e più volte, in un numero quasi infinto. Era il mio punto debole, Klaus non perdeva occasione per ripetermelo, ero cronicamente incapace di resistergli, di opporre ad esso o ad ogni sua più blanda manifestazione anche la più piccola e misera delle resistenze. Ero innamorata dell’idea stessa dell’amore, destinata a cedere all’onere delle pulsazioni ogni qualvolta queste si presentassero, era fatta così Rebekah Mikaelson e per quanto gli anni trascorsi cercassero di insegnarmi qualcosa, la mia cieca dedizione in materia non evolveva in alcun modo. Non riuscivo a farmene un colpa, a veder ciò che di negativo si celasse in quella situazione, la mia vita, la possibilità dell’eternità, non erano state cose da me volute o desiderate in alcun modo. Ciò che ero diventata, era un destino al quale fossi stata condannata, una colpa che la natura aveva inflitto alla mia famiglia. Quella dell’immortalità per me, era semplicemente una maledizione, un problema con quale dover cercare di convivere e non trovavo altri rimedi che l’amore, altre medicine all’infuori di esso. Necessitavo di una paio di braccia in cui poter piangere, di un’anima alla quale mostrare la mia debolezza, volevo sentirmi protetta, difesa dal mondo e dalle sue intemperie. Io non avevo la forza di Klaus, la serenità di Elijah, la temerarietà di Kol o la costanza di Finn, io non avevo nulla di tutto ciò, nulla di tanto netto e definito, io ero un universo in transizione, una nebulosa lattiginosa e caotica che oscilla costantemente tra l’implosione e l’esplosione, alla ricerca di una definizione, di una perpetua dimensione. Lo notai, perché il mio viso non sapeva mentire, anche in quel momento ci speravo, anche in quel momento ci stavo provando. Vidi una lacrima solcarmi il viso, la intrappolai tra le dita e poi la soffocai, ero in missione, non potevo permettermi di pensare ad altro, d’altronde avevo chissà quant’altre vite per farlo. Scostai il cartoncino ed afferrai quella splendente collana che vi era all’interno, era un diadema a forma di goccia, una piccola lacrima di smeraldo, molto più preziosa della mia. Me la portai al collo per vedere come mi stesse ed una scintilla di ardente calore si impadronì del mio corpo. La gettai violentemente al suolo, il segno di una minuscola bruciatura a risplendermi sulla pelle, era verbena, di nuovo. Strinsi le mascelle, serrando i denti gli uni sugli altri, non potevo perdere la calma, tra una decina di minuti sarei stata l’ospite principale di una serata in mio onore, dovevo mostrarmi serena e felice, il più naturale e tranquilla possibile. Non sapevo il perché si consumasse così tanto veleno anti-vampiro in quel castello, ma qualunque ne fosse stato il motivo io l’avrei scoperto, perché ero una persona piena di difetti, non c’era alcun dubbio, e la cocciutaggine era tra questi.
◊◊◊
“Lei dev’essere, Celine, la ragazza di cui Leonor mi ha tanto parlato”, mi girai colta alla sprovvista “Devo ammettere che quanto si dice sul suo conto non le rende giustizia. Lei non è la fanciulla più bella della contea, ma mi consenta di osar tanto, la giovane più avvenente di tutta la Francia” sorrisi allettata,
“Non le nascondo che le sue lusinghe appaiono non di poco gradite alla mia persona, ma se non le dispiace, potrebbe cortesemente dirmi qual è il nome di costui che tanto diletta il mio ego?”
“Finge forse di non conoscermi?”
“A tal punto, da convincermene”
“E va bene come vuole, d’altronde non mi è sempre dato capire i desideri profondi del narcisismo femminile. Il mio nome è Jerome Blanchard, sono il figlio del duca Cesar Anthime Blanchard, nonché l’uomo più fortunato del mondo, se mi è concesso il permesso di poter parlare con un angelo di siffatta umanità”. Rimasi sbigottita, priva di parola alcuna. Jerome Blanchard, l’uomo a cui sarei stata teoricamente destinata in sposa, era proprio lì, accanto a me, intento a mostrare  atteggiamenti da gran seduttore con una donna che credeva si chiamasse Celine, una donna diversa da Giselle Moreau. Dovevo, per quanto mi pesasse farlo, soprattutto in quel frangente così poco dignitoso, ammetterlo, Jerome era bello, tremendamente e spavaldamente bello. Aveva folti capelli lisci, scuri come l’ebano, che gli ricadevano sulle spalle, un paio di grandi occhi chiari simili a due stelle appena nate. Labbra rosse e sottili, mascelle squadrate ed un fisico alto, dalle ampie spalle e braccia possenti. Mostrava grande eleganza e sicurezza, era padrone del suo corpo e delle sue azioni, era consapevole delle sue potenzialità e non esitava a sfruttarle al meglio, il suo era un comportamento edonistico e gaudente, non avrei faticato a ritenerlo il sogno di ogni giovane donna.
“Piacere di conoscerla Jerome” ciononostante non potevo evitare di notare la sua naturale predisposizione all’infedeltà, non era di certo una dimostrazione di gran onorabilità flirtare con una sconosciuta il giorno della propria festa di fidanzamento, avrei probabilmente gradito qualche goccia del suo sangue se solo fossimo stati in ben altra occasione “E mi permetta di farle, le mie più sincere congratulazioni”
“Per cosa, se mi è dato chiederlo?”
“Beh non capita di certo tutti i giorni di celebrare un fidanzamento ufficiale, non trova?”, sorrise mordendosi le labbra,
“Non saprei, questo dopotutto è il primo a cui io partecipi”
“Non se ne rammarichi, qualcosa mi dice che non sarà l’ultimo”
“Mi dica, devo per caso interpretarla come una proposta? In tal caso la informo, che non saprei davvero come rifiutare”
“Oh non si scomodi, non c’è n’è alcun bisogno. Non amo intraprendere relazioni con persone già impegnate”
“Se solo lo fossi”
“Che cosa, impegnato?”
“Sì, non mi ritengo di certo tale”
“Beh sa, credo che valgano davvero a poco le sue considerazioni dinnanzi ad un evento di simile ufficialità” mi lanciò un’occhiata indagatrice,
“Mi riconosce la facoltà di rivolgerle un interrogativo?”
“Ma prego faccia pure, non mi sembra di certo il tipo da certe remore”
“Riterrebbe se stessa legata in qualche modo ad una persona mai vista prima in vita sua? Sentirebbe di dover qualcosa nei confronti di colei che potrebbe a buon diritto considerare, una perfetta sconosciuta?”
“Certamente del rispetto, quello mi sentirei in dovere di serbarlo. E poi, se mi permette, perché gliene fa quasi una colpa, non crede che anche lei, alla fin fine si trovi nella sua stessa situazione?”
“E me ne dispiaccio mi creda. Ma proprio per questo, sono e sarò sempre molto comprensivo nei confronti della mia futura sposa. Se lei dovesse amare qualcun altro, se dovesse scegliere di non piegare il suo cuore dinnanzi alle spietate regole del potere, non alzerei il benché minimo dito per fermarla. Non troverebbe in me un avversario, bensì un alleato” si avvicinò al mio busto arpionandolo con un braccio,
“Ciò le rende onore, non c’è che dire”
“Allora, mi sono guadagnato il permesso di conoscere il suo nome?”. La musica incominciò a risuonare alta dal fondo della sala, uno stuolo di dame e cavalieri si affollarono al nostro accanto tenendosi saldamente per mano. Io mi strinsi forte a Jerome, lasciando che lui mi guidasse. Avvertivo la presenza del suo alito sulla mia pelle, la sue mani sulla mia schiena,
“Credevo lo conoscesse”
“Credevo di essermi meritato almeno questo” con un movimento agile delle braccia, mi fece reclinare la testa all’indietro e poi volteggiare più volte su me stessa,
“Mi dispiace, ma non è nella condizione tale da avanzare simili richieste” rise,
“Sa la contessina Moreau dovrebbe sapere di poter contare su sudditi tanto fedeli”
“E chi le ha detto non lo sappia?”. Si avvicinò al mio viso, le labbra ad un centimetro dalle mie, lo sguardo colmo di apprensione,
“Mi dite, la conosce per caso? L’ha vista? Ci ha parlato? Com’è? Come le è sembrata? Pensa che mi piacerà? Che le piacerò? Quali impressioni le  ha suscitato?”
“Si calmi, si calmi non ho né visto, né incontrato la contessina Moreau. Non ho ancora goduto di simile piacere”
“Come fa a dire questo, ignora forse quanto si dice sul suo conto?” divenni nervosa,
“Perché quali notizie infamanti sono giunte alle sue orecchie, signore?”
“Mi scuserà se preferirò non alimentare simili ignobili pettegolezzi. Spero soltanto non corrispondano al vero, non potrei sopportare di non apprezzare la donna con la quale vivrò per il resto dei miei giorni. Lei mi capisce vero? Non chiedo di innamorarmene, non oserei tanto, ma vorrei poter trovare una compagna, un’amica, una complice. Una persona sulla quale poter fare affidamento, un’anima alla quale poter essere legato in maniera più intima di un semplice vincolo matrimoniale. Pensa forse, mi stia illudendo? Me lo dica non esiti a giudicarmi”. Mi arrestai di colpo sopraffatta dalle emozioni. Non sapevo cosa dire, cosa pensare, cosa poter rispondere ad una supplica tanto sincera e commuovente. Era incredibile per me anche solo ritenerlo possibile, ma Jerome Blanchard, quel perfetto sconosciuto nel cui destino mi ero prepotentemente imposta, aveva la strabiliante capacità di dar voce ai miei dubbi, alle mie paure, alle mie incertezze. Era come se fosse in grado di leggermi, di sfogliarmi pagina per pagina come si fa con un libro, sapeva interpretare i miei pensieri e dar ad essi una forma sublime, concretizzare quanto di caotico risiedesse nelle mie riflessioni. Mi sentivo in colpa, si fottutamente in colpa per aver privato un uomo così nobile e gentile del suo fato, avevo ucciso la donna che avrebbe dovuto incontrare, riscritto le regole del tempo e ridisegnato i confini del suo mondo. Eppure mi domandavo: e se in realtà non lo avessi fatto? Se in realtà il nostro incontro fosse stato scritto sin da sempre? In un’altra occasione magari o in un’altra epoca forse, ma chi poteva realmente darmi la certezza che quanto ritenessi di aver fatto, fosse una colpa ascrivibile alle mie azioni? Non poteva trattarsi di pura e semplice casualità, Jerome manifestava dalle sue labbra il mio essere, era in connessione con la mia intimità, punto nevralgico di un intricato gioco di sinapsi, potevo davvero esser reputata l’unica responsabile di tutto ciò?
“Io non la giudico Jerome, né adesso, né mai. Io…”
“Ma bene bene, cosa vedono i miei occhi. A quanto pare, il destino della contea si reggerà su qualcosa di più profondo del mero e volgare denaro” la teatralità inconfondibile di Jacques Leclercq strozzò sul nascere quanto stessi per aggiungere,
“Come scusi? Jacques, fatico a seguirla”
“Mio caro Jerome si fidi, gli uomini dai soavi pensieri e le sudate occupazioni, riescono a cogliere ben al di là delle semplici apparenze. Il vostro non sarà un matrimonio di semplice interesse, vedrà che un giorno me lo confermerà”
“Il vostro? Ma Jacques fatico ancora a seguirla, credo abbia esagerato con il vino stamane. I miei occhi devono ancor posarsi per la prima volta su colei che presto diventerà  mia sposa, la mia vista è ancora vergine del suo profilo”
“Ma signore perdoni la mia irruenza, ritengo che  non solo gli occhi, ma anche le mani par abbiano già fatto ampia conoscenza della contessina Moreau. È qui accanto a lei, dedita alle arti della danza”
“Lei? Lei è la contessina Giselle Moreau?” distolsi lo sguardo evitando il più possibile ogni forma di contatto,
“In carne ed ossa, duca”.
“Ma non è possibile, le ho fatto recapitare una collana, un ciondolo di smeraldo, perché non lo indossa?”
“Ne sono allergica purtroppo”.
“Mi da la sua parola contessina, lei è davvero chi dice di essere?”
“Quant’è vero che il sole sorge ad Est e tramonta ad Ovest” Jerome irruppe in una profonda e sonora risata, si inchinò ai miei piedi e mi baciò delicatamente il palmo delle mani,
“Felice di far la sua conoscenza, contessina Moreau”
“Piacere mio, Jerome Blanchard”
“Inizio a ritener possibile da parte mia un eccesso di vino. Comunque ad ogni caso miei cari, sono venuto qui perché contessina, è giunta per lei l’ora di far la conoscenza del suo futuro suocero, il duca della contea di Renard”
“Tornerà Giselle? Adesso che so il suo nome, non mi priverà di certo della possibilità di pronunciarlo ancora?”
“Tornerò Jerome, non tema di questo. Ha pur sempre molte cose da farsi perdonare”
“Non vedo l’ora di supplicare la sua benevolenza”. Lasciai che Jacques mi allontanasse di forza da lì, la tensione tra me e Jerome si era lentamente tramutata in altro, in un’energia nuova ed irresistibile, sentivo che sarei potuta restare a ballare con lui per ore ed ore senza mai stancarmene, ero meravigliata io stessa per l’importanza di quelle considerazioni, ma non riuscivo ad astenermi dal farlo. Forse ammettendo ciò che provavo, scegliendo di essere sincera nei confronti del mio cuore, sarei stata in grado di stemperare un’emozione che non sarebbe mai dovuta nascere.
“Signor duca, ho il piacere di presentarle l’adorabile contessina Giselle Moreau” fui molto grata a Jacques in quel momento, se non fosse stato per lui, dubito fortemente che sarei riuscita a riconoscere da sola il profilo di mio suocero, se così si poteva definire. Era un uomo trasandato, molto trasandato, il che se non si addiceva ad un uomo normale è facile supporre quanto non lo fosse per una persona della sua levatura. Aveva ricci capelli brizzolati sparati ai quattro venti, una lunga barba incolta sparsa in modo irregolare sull’andatura morbida delle mascelle ed un paio di occhi scuri come il catrame, rivolti perennemente in direzione di un punto imprecisato dell’orizzonte. Tutto, dal suo modo di parlare alla maniera con cui dondolava a destra e sinistra il capo, infondeva una profonda idea di trascuratezza, di una sciatteria radicata ed ancestrale.
“Duca, è per me un immenso piacere conoscerla” mi inchinai al suo cospetto indecisa sul da farsi,
“Piacere mio, graziosa fanciulla. La festa è di suo gradimento?”
“E come non potrebbe? Non avrei saputo immaginare di meglio”
“Mi aggrada sentirle dire ciò, ho assunto il miglior arbiter elegantie per l’occasione”
“Ha fatto un lavoro eccellente. Spero soltanto di apparire ai vostri occhi meritevole di codeste premure”
“Oh ragazza mia, non crucciatevi di questo. Un viso tanto incantevole non può che esser degno di qualsivoglia attenzione” mi accarezzò il volto con la punta delle dita, “Venite qua lasciate che vi abbracci”, fui sul punto di ritrarmi ma obbligai il mio corpo a resistere, non potevo ricambiare con una simile scortesia quelle parole tanto dolci. Alla fin fine forse l’aspetto fisico del duca non rendeva giustizia al suo animo.
“Come desidera”. Mi serrò le spalle in una salda stretta, ero sorpresa da una tale sproporzionata manifestazione di forza, non ne capivo bene il perché ma avvertivo una situazione di pericolo, un sentimento imprecisato che mi induceva all’allerta.
“Sono dappertutto mia cara, noi non ce ne accorgiamo ma sono dappertutto. Nascosti in ogni piccolo anfratto di ombra”
“Come scusi? Chi è dappertutto? Chi si nasconde nell’ombra?” il duca mi spinse di colpo, staccandomi dalla sua persona. Si passò una mano sulla fronte, aveva lo sguardo sgranato e i denti che tremolavano sconvolti. Non seppi come interpretare quel repentino cambio d’umore, non identificavo l’origine di una tale agitazione. Vedevo quell’uomo cedere pian piano all’ansia, smarrire il controllo a favore di una squilibrata smania. Mi chiedevo soltanto, se non avessi dovuto sentirmi anch’io in qualche modo figlia di quell’improvviso turbamento.
“Scusatemi ma temo sia arrivato per me il momento di ritrarmi nelle mie stanze, la stanchezza inizia a sortire un certo effetto e non vorrei permettere ad essa di prendere il sopravvento sulla mia lucidità. Ribadisco nuovamente il mio sincero piacere nell’averla conosciuta contessina, non dubito avremo altra occasione in futuro per approfondire la nostra conoscenza. Con permesso”
“Duca, duca, lasciate che vi accompagni” vidi Jacques allontanarsi sempre più in compagnia del duca fino a diventare un’ombra vacua nel profilo luminoso del mio campo visivo. Avrei voluto aggiungere qualcosa, congedare a dovere il signor Blanchard, ma non riuscivo a fare alcunché. Quel breve e surreale incontro aveva scatenato non poche rivoluzioni all’interno del mio essere, avvertivo lo stomaco contorcersi velocemente e le gambe divenire di volta in volta sempre più molle. Avevo la sensazione di essere come una stanza, sì so che quanto dico potrà sembrare ai molti assurdo, ma era proprio così che mi sentivo. Capovolta da cima e a fondo, disordinata e profanata in ogni singolo centimetro di me stessa. Decisi di infondere una nuova direzione a quella languida confusione, estraniata com’ero dall’ambiente circostante, mi allontanai indiscreta dalla sala incominciando ad orientarmi all’interno del castello.
◊◊◊
Non potevo impedirmi di rimuginare più e più volte su quelle semplici eppur catastrofiche parole “Sono dappertutto mia cara, noi non ce ne accorgiamo ma sono dappertutto. Nascosti in ogni piccolo anfratto di ombra”, non comprendevo a chi o cosa si riferissero. Mi ritornava alla mente il viso sconvolto del duca e raggelavo nelle vene al sol pensiero di cosa potesse indurre una simile agitazione in una persona tanto potente quale lui. Il duca aveva usato il plurale, aveva detto “sono”, era chiaro che di qualunque cosa si trattasse , non fosse una ma bensì molteplice, in un numero che oscillava dal due all’infinito. Pensai di riferisse ai vampiri, era la cosa più ragionevole da supporre. Quello avrebbe spiegato in modo piuttosto convincente la presenza di verbena nelle condutture dell’acqua e si sarebbe sposato alla perfezione con la notizie giunte alle porte della mia famiglia. Non potevo aspettare oltre, dovevo sapere, dovevo capire se il quadro che si stava delineando dinnanzi ai miei occhi era tanto semplice e consequenziale come appariva. Mi orientavo con fatica in quei lunghi ed interminabili corridoi, sorretta dalla forza della mia intemperanza. Avevo troppe domande che attendevano una risposta. Il duca sapeva? E se sì, quanto ne sapeva? Jerome ne era al corrente? Chi e quanti lo erano? In cosa mi stavo imbattendo? Contro cosa la mia famiglia stava combattendo? Mi ricordai dell’aglio ed il pensiero della sua natura inappropriata mi recò non poco conforto. Sentivo il cuore palpitarmi freneticamente nel petto, cercai di sincronizzare il suo battito al procedere dei miei piedi. Dopo essere svoltata ad un angolo, mi imbattei in due guardie, per poco non ci sbattevo il naso contro.
“Signorina, che cosa ci fa lei qui tutta sola?”
“Stavo cercando i bagni per darmi una breve rinfrescatina, ma credo di essermi persa purtroppo. Sa, dovete scusarmi ma è solo da qualche ora che soggiorno qui, in questo castello ed i suoi corridoi sono così tanti che mantenere un minimo di orientamento mi risulta davvero difficile, quasi impossibile oserei dire”
“Oh ma lei dev’essere la contessina Giselle Moreau giunta stamane stesso dal nord del paese”
“In persona mio caro e voi siete?”
“Siamo Thomas Dupont e Gustave Lemaire, a sua completa disposizione contessina”. Mi dissi che era conveniente abusare di quell’eccesso di generosità,
“Non ne dubito. Mi potrebbe togliere una piccolo dubbio Thomas, sa noi giovani donne, per quanto detestiamo ammetterlo, siamo tragicamente incapaci di resistere alla curiosità. È come una tentazione, più forte di… non so qualunque cosa” , della sete di sangue avrei voluto chiosare,
“Ma certo contessina, sarò ben lieto di rispondere a qualsiasi domanda vorrà farmi”
“Non ho potuto fare a meno di costatare la presenza sgradevole di uno strano odore all’interno delle mie camere, un odore forte, pungente. Se non mi apparisse tanto assurda quanto insensata come cosa, giurerei si trattasse di aglio. Ma ci pensa, dell’aglio nelle mie camere? Mi sento sciocca al solo domandarlo”
“Non so cosa dirle contessina, non mi risulta si faccia uso nel castello dell’aglio come profumatore per ambienti. Ma se vuole posso chiedere alle domestiche di pulire nuovamente i suoi alloggi da cima a fondo”
“Ne è proprio sicuro, Thomas, non le viene in mente nulla a proposito dell’aglio? E lei Gustave, c’è qualcosa che saprebbe dirmi?”
“No, mi dispiace contessina, nulla che non le abbia già detto Thomas” avevo come la sensazione mi stessero mentendo. Non sapevo da dove quella malsana consapevolezza traesse origine, forse era semplicemente il frutto del mio innato scetticismo,  della mia poca fede nei riguardi del genere umano. Mi affidai al mio sesto senso,
“Peccato speravo di riuscire a saperne qualcosa di più. Vedrò di informarmi altrove” feci per andarmene, ma fui prontamente interrotta,
“Dove va contessina, i bagni sono nella direzione opposta. Venga, mi segua, l’accompagno io”
“Molto gentile da parte sua, Thomas” mi avvicinai a lui e la mia attenzione fu rapita da un minuscolo ma fondamentale particolare. Scorsi un piccolo baluginio argenteo risplendere nelle tenebre della notte, affinai lo sguardo e riconobbi il profilo di un braccialetto di metallo avente una strana pietra verde incastonata al centro. Mi voltai in direzione di Gustave, anche lui lo indossava. Mi venne un sospetto e se si fosse trattato di un gioiello intinto di verbena, proprio come la collana fattami recapitare da Jerome?
“Ma che bel bracciale, sono smeraldi quelli?”
“Si contessina, si tratta proprio di loro” senza pensarci due volte mi sporsi in avanti e sfruttando l’effetto sorpresa strappai il gioiello da ambedue i polsi.
“Ma cosa fa contessina? Che cosa le prende?” arpionai entrambi i corpi al muro tenendo gli occhi fissi nei loro. Avvertii le mie pupille dilatarsi gradualmente, sorrisi, era il segno che la compulsione stava avendo i suoi effetti.
“Ve lo ripeterò di nuovo, ma cercate di essere più loquaci stavolta. Sapete qualcosa a proposito dell’aglio nelle mie stanze? E della verbena nelle tubature dell’acqua, ne sapete qualcosa?”
“Dell’aglio no, ma della verbena, sì. È stata un’idea del duca, ha detto che serviva per eliminare i topi presenti nelle tubature”
“Si, l’ha definita una precauzione necessaria per la nostra incolumità”
“E voi, ci avete creduto? Ci avete creduto fosse per i topi?”
“Si”
“Io no, ad esser sinceri. Mi è sembrata troppo illogica come motivazione. A cosa dovrebbe servire la verbena per i topi? Ma in realtà è da tempo ormai che ho smesso di seguire le azioni del duca”
“In che senso, si spieghi meglio”
“È da un paio di settimane a questa parte che il duca, si comporta in modo strano. Blatera cose senza senso, trascorre intere giornate rinchiuso in camera, si rifiuta di mangiare. Pensi che un giorno ha rimandato indietro alle cucine un vassoio intero di buoillabaisse marseillaise, il suo piatto preferito. Un tempo non avrebbe mai fatto una cosa del genere, lui ci muore per le buoillabaisse”
“Si, è vero è iniziato tutto da quando quella donna è arrivata al castello”
“Adesso che ci penso hai ragione, è da allora che ha incominciato a dar di matto”
“Chi, di quale donna state parlando?”
“Non conosciamo il suo nome, non l’abbiamo mai incontrata di persona. Il duca la chiama la dama di roccia”
“La che?”
“La dama di roccia, contessina”. La dama di roccia, provai a pensarci , ma no non avevo mai sentito prima di allora quel nome. Un rumore lontano e cupo di passi che velocemente si avvicinavano mi ridestò di colpo, purtroppo anche se non avevo scoperto abbastanza, dovevo allontanarmi il più presto possibile da lì.
“Va bene, adesso ascoltatemi bene. Dimenticherete ogni singola parola di quanto vi ci siamo detti, dimenticherete persino di avermi mai incontrata. Non appena ve lo dirò io, scapperete via da qui, indosserete i vostri bracciali e tornerete alla festa. A chiunque vi chiederà cosa avete fatto per tutto questo tempo, risponderete che siete usciti un attimo fuori, all’aperto, a prendere un boccata d’aria fresca. Finita la festa, tornerete ai vostri alloggi e lì cadrete in un sonno profondo. All’indomani invece riprenderete tranquillamente la vostra semplice vita e ricorderete questo giorno come uno dei tanti. Avete capito tutto?”
“Si contessina”,
“E allora adesso fuggite via da me”.  Nel momento esatto in cui Thomas e Gustave si sottrassero da occhi indiscreti smarrendosi dietro un muro di ombra, la voce di Jerome sbocciò come un fiore primaverile alle mie spalle.
“Ecco dove si era cacciata Giselle, la stavo cercando dappertutto”
“Jerome, mi scusi, non credevo di esser l’oggetto di tali attenzioni, avrei altrimenti reso più manifesta la mia presenza”
“Non ha nulla di cui scusarsi Giselle, sono io ad esser troppo impaziente di rivederla” avvampai dall’imbarazzo e distolsi lo sguardo nella speranza di non essere vista.
“Sbaglio o le mie parole la imbarazzano?”
“No, non sbaglia”
“Non si preoccupi non ha nulla di cui vergognarsi. Amo le donne che sanno arrossire”
“E scommetto non siano in poche a farlo se rivolge a tutte loro simili lusinghiere parole” si protese in avanti accarezzandomi le dita con le sue,
“Deve credermi Giselle, i miei sentimenti non sono mai stati più sinceri prima d’ora”
“Vorrei crederle Jerome, sono onesta in questo. Ma ho visto cose che mi inducono a non farlo”
“Ed è per questo che la stavo cercando. Mi segua Giselle, venga, c’è una cosa che vorrei tanto vedesse”
“Cosa? Di cosa si tratta?”
“Se si fiderà di me, lo saprà”
◊◊◊
“Le dispiacerebbe Giselle se incominciassi a darle del “tu”?”
“Presto saremo marito e moglie, penso che potremmo concederci questa piccola trasgressione”, rise
“Non posso che essere d’accordo”.
“Mi dica, anzi dimmi, Jerome fra quanto tempi credi che potrò aprire gli occhi?”
“Ancora un po’ di pazienza Giselle. Potrai aprirli tra, tre, due, uno…” avvertii la pressione delle sue mani scivolare via dalle mie palpebre ” zero”.
Trattenni il respiro cercando di custodire dentro di me la meraviglia e lo stupore che in quell’istante provavo. Una lunga distesa interminabile di campi seminati e stradine rocciose si estendeva sotto di me fino all’infinito, una fitta foresta di alberi svettanti costeggiava l’intero perimetro infondendo un confine netto e preciso a quell’immensa macchia bruna dalla consistenza indefinita. Mi sentivo piccola, in preda a quella sensazione di limitatezza tipica nell’uomo difronte a ciò che lo sovrasta per dimensioni ed intenzioni, nei confronti di qualcosa che vada ben al di là della sua stessa immaginazione. Facevo esperienza sulla mia pelle di quello stato psichico-fisico che ben trecento anni dopo Caspar David Friedrich avrebbe ritratto nel suo famoso Der Mönch am Meer.
“È da mozzare il fiato, non è vero?” eravamo sul terrazzo in cima al castello, un piccolo quadrante dalla ringhiera minuta e arrugginita,
“Assolutamente, si”
“Da piccolo ci venivo sempre. Scappavo dalla balia e mi arrampicavo fin qua e su, attendendo che mi trovassero. Pensavo lo facessi per divertimento, perché la faccia arrabbiata di mio padre era una delle cose più buffe che avessi mai visto, ma poi col tempo mi sono reso conto che non è così, che, non so come, non so perché ma di questa vista non riesco più a farne a meno. È diventata fino a tal punto parte integrante della mia vita, da sentirmi perso senza di essa”
“Ognuno ha le sue debolezze Jerome, non devi vergognarti per questo”
“Lo so Giselle, ho imparato a capirlo”. Mi prese per mano e si avvicinò lentamente al parapetto, “Soffri di vertigini?”
“No, perché me lo chiedi?” sorrise e con uno slancio energico, il mio corpo serrato al suo, saltò sul precario profilo del parapetto, strillai terrorizzata,
“Oddio Jerome, mettimi subito giù” mi sporse in avanti,
“Dovresti essere più attenta nell’impartire ordini” mi ricacciò a sè, con le spalle strette al suo petto,
“Non sono abituata a chiedere alle persone di non ammazzarmi”
“Tranquilla, non ti succederà niente”
“Non so, se è più folle crederti o assecondarti”
“Non scegliere, fai entrambe le cose”
“Oppure potrei stenderti e scapparmene”
“Pensi che ci riusciresti?”
“Mi stai forse dicendo che sottovaluti la tua futura moglie?”
“Soltanto se ella è non si fida di me”
“Beh, non mi stai dando granché modo per farlo. Questo dovrai pur ammetterlo”
“Diciamo che semplicemente non ho una maniera convenzionale di mostrare la mia affidabilità”
“Se per “per non convenzionale” intendi, all’infuori di qualsivoglia ragionevole supposizione, penso che potrei essere d’accordo”. Mi spostò una ciocca dalla fronte, sistemandola dietro l’orecchio,
“E le tue, quali sono?”
“Le mie cosa?”
“Le tue debolezze”
“Sono molto più stupide di quanto tu possa immaginare”
“Questo lascia che sia io a dirlo”
“Non credo sia molto saggio rivelare ad un uomo le proprie debolezze”
“Io, l’ho fatto”
“Ma non mi hai messo di certo nella condizione ideale per trarne vantaggio”
“E allora è questo che temi? Che io possa approfittare di quanto dici” notai un barlume di sconforto velargli il viso,
“No, Jerome. È solo che non amo sentirmi debole. Ancor di più, esserlo per gli altri”
“Non apparirai mai a me diversa da quanto tu voglia essere, posso giurartelo se vuoi”
“Non ne ho bisogno Jerome. Sento che ti de posso fidarmi”. Ed era vero, per quanto irrazionale e stupida potesse essere come cosa, io di lui mi fidavo. Aveva un modo così spregiudicato e naturale di essere, che per quanto potesse apparire a tratti folle o persino pericoloso, mi trasmetteva una sensazione di sincerità, di estrema limpidezza e trasparenza. Si mostrava per quel che era con i suoi pregi ed i suoi difetti, non assumeva filtri, non indossava maschere, aveva il coraggio di accettarsi nella sua totalità, non rinnegando di se stesso neanche il più piccolo particolare. Ed io adoravo quell’aspetto del suo carattere, mi tranquillizzava, sapevo a cosa stessi andando in contro,  cosa aspettarmi e contro cosa prepararmi, era una sensazione rara da poter provare e l’esperienza di certo non mi mancava. Cresceva dentro di me la convinzione che di quel ragazzo mi sarei potuta innamorare ed ero fottutamente spaventata da tutto ciò.
“E arrivato adesso il momento del rituale”
“Del che?”
“Del rituale, non te l’ho detto?”
“No, dubito fortemente me ne sarei dimenticata”
“Provvederò subito” prese ad armeggiare con la tasca interna del panciotto e ne estrasse due pezzetti logori di carta ed una piccola penna di piuma d’oca
“Sempre da piccolo, una delle tante volte che scappando mi venni a nascondere fin qua su, mi inventai un rituale da svolgere ogni qual volta una persona nuova sarebbe arrivata qui per la prima volta in vita sua. Si tratta di un qualcosa di molto semplice e incredibilmente giudizioso”
“Quindi niente lanci dalla ringhiera, o capriole a mezz’aria”
“No niente di tutto ciò, anche se volendo potremmo pur sempre provarci. Ammesso che tu voglia ovviamente”
“Credo di volermi abbastanza bene per dire di no”
“Come vuoi, qualora cambiassi idea, basta chiederlo”
“Ne terrò conto”.
“Bene. Ritornando a noi, il rituale è molto semplice, dobbiamo semplicemente scrivere su questi due fogli, un nostro desiderio. Una volta fatto li abbandoniamo al vento ed aspettiamo che il tempo li esaudisca”
“E ha mai funzionato?”
“A volte. Allora, ci stai?”
“Ci sto”. Presi la penna e mi soffermai per un attimo a riflettere. Era una scelta difficile da compiere, c’erano così tanti desideri che avrei voluto avverare che scegliendone soltanto uno, mi sembrava di far un torto a gli altri. E poi in base a quale criterio avrei compiuto la scelta? Come si faceva a stabilire una gerarchia di priorità nella sfera dei propri sogni? Feci allora la cosa che mi riusciva meglio nella vita, senza pensarci due volte, sorretta solo ed esclusivamente dall’impeto dell’istinto scarabocchiai poche parole su quel foglietto.
Desidero dare un senso alla mia eternità.
Fu quello che scrissi, poi attesi che Jerome facesse altrettanto e insieme disperdemmo quei pensieri al vento. Mentre la carta assumeva le fattezza di una bianca colomba libera in volo, poggiai la testa sulle sue spalle,
“Pensi che questa volta funzionerà?”
“Lo spero Giselle, lo spero con tutto il cuore”. 

Se volete lasciare una recensione, sarò ben lieto di leggere e rispondere a tutti i vostri dubbi e domande. Spero che questo prima capitolo vi sia piaciuto e che avrete voglia di leggere i prossimi. 
Grazie per la vostra attenzione.
   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > The Originals / Vai alla pagina dell'autore: Oneiroi