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Autore: Marysia Lukasiewicz    06/07/2017    2 recensioni
Almaty, Unione Sovietica, giugno 1941.
Un gruppo di ribelli anti-sovietici kazaki approfitta dell'operazione Barbarossa per sabotare e danneggiare l'esercito russo. Tra questi spicca la figura del giovane Otabek Altin, reduce da un passato burrascoso proprio a causa dei sovietici, che combatte attivamente per la libertà del proprio paese. Obbiettivo principale dell'organizzazione ribelle è il colonnello Viktor Nikiforov. Uomo affascinate che, dopo essere stato esiliato dalla natia San Pietroburgo, venne messo a capo della città di Almaty, compito per lui estremamente umiliante. Aiutato dal caporale Jean-Jacques Leroy, giunto in Kazakhstan con la propria divisione direttamente dal Canada per fronteggiare i nazisti al fianco dell'esercito sovietico, il colonnello Nikiforov combatte strenuamente la resistenza kazaka per risanare il proprio orgoglio. Un amore proibito nasce, però, tra le due fazioni di una guerra senza fine. Yuri Plisetsky, nipote del colonnello Nikiforov, sedicenne scalmanato allontanato ingiustamente dalla propria città Natale quando ancora era bambino, troverà l'amore al fianco dello stesso Otabek, l'Aquila d'oro delle steppe asiatiche.
Genere: Drammatico, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Georgi Popovich, Jean Jacques Leroy, Otabek Altin, Victor Nikiforov, Yuri Plisetsky
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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 Il caporale Leroy non aveva un’ottima reputazione in Canada, e non si era presentato certo nel migliore dei modi neppure in Kazakhstan. Sorriso spavaldo, pieno di sé, narcisista, un animale da palcoscenico che poco aveva a che fare con l’esercito. Lo sapeva, lo riconosceva, la carriera militare non gli era mai calzata bene e mai lo avrebbe fatto. Era un pesce fuor d’acqua, stonava con quel mondo rigido e chiuso. Eppure si era arruolato, aveva scalato la gerarchia e si era ritrovato, ancora molto giovane, a vestire niente poco di meno che il grado di caporale. Diceva di essersi arruolato per il gusto di indossare la divisa, tanto era superficiale, ma la storia era tutt’altra. Jean-Jacques Leroy era un ribelle, un ragazzino iperattivo, impossibile da domare. E questo gli causò grandi difficoltà, oltre che una vita spericolata. La famiglia Leroy vantava un grande prestigio in patria. Ricchi, influenti, discendevano da nobili francesi e avevano affermato la propria posizione della società attraverso la loro cultura. Erano stati tra i fondatori dell’Università del Quebec, che, proprio a cavallo tra gli anni ’30 e ’40, si vedeva retta proprio da Alain Leroy, padre di Jean-Jacques. I Leroy erano medici, avvocati, banchieri, professori, tutti tranne Jean-Jacques. Era stato dapprima alcolista, poi un maniaco delle feste, un rubacuori senza ritegno, un uomo provocante in una famiglia di santi. L’esercito era stato sì un modo per evadere dalla vita noiosa che avevano progettato per lui i genitori, ma anche una valvola di sfogo, un rifugio, dopo che accadde la tragedia. Jean-Jacques Leroy era un uomo superficiale e scalmanato, ma possedeva un cuore anche lui, molto più profondo di quanto chiunque attorno a lui potesse immaginare.
 

- Il problema davvero grave qui, quello per cui ho richiesto il vostro aiuto, caporale Leroy, non sono i tedeschi alle porte della nazione. – il colonnello Nikiforov si accese una sigaretta, la strinse pensieroso tra le labbra, poi ritornò a fissare l’ufficiale canadese con sguardo preoccupato, quasi assente. – I ribelli ci hanno dato molto filo da torcere, dubito che non approfitteranno della situazione per sabotarci.- Viktor si rigirò la sigaretta tra le dita, il caporale Leroy stava dando un’occhiata agli innumerevoli rapporti di sabotaggio a carico dei ribelli di Almaty.

- Non hai molte informazioni, Nikiforov. – gli fece notare il canadese, con un sorriso beffardo. Viktor sospirò, i capelli argentati gli ricaddero sul viso. Sembrava stressato, esausto, la caccia ai ribelli andava avanti da anni e non era mai arrivata ad un punto di svolta.

- No, non ne ho.- confermò il russo, stringendo i pugni. Sembrava un muro insormontabile, quello dei ribelli, scovare i loro covi era come cercare un ago in un pagliaio. Si spostavano in continuazione, ogni volta che sembrava essere giunto ad uno di essi, questi facevano sparire ogni traccia. E Viktor non sapeva neppure il significato dei capelli rasati ai lati, un segreto che Almaty non aveva mai rivelato agli oppressori russi.

- Pensi riusciremo a scovarli? – Leroy posò i documenti sulla scrivania, poi poggiò la schiena contro il muro. Sul tavolo accanto a lui giaceva una bottiglia di vodka, Viktor aveva insistito per fargli bere almeno un sorso. Era stressato, Leroy, ma teneva duro e non bevve neppure un goccio. Aveva promesso di non farlo più.

- Li troverò, certo. – tuonò Viktor. – A costo di distruggere l’intera Almaty, io li troverò. – strinse i pugni, schiacciando e distruggendo la sigaretta tra le dita. Il tabacco e la cenere ricaddero a terra, sulle sue scarpe. La questione dei ribelli andava anche oltre il suo dovere di amministratore della città, era diventata una faccenda d’onore. Era stato umiliato già abbastanza dopo il suo esilio da San Pietroburgo, non avrebbe permesso a degli scalmanati kazaki di mettergli i piedi in testa. La vergogna, a quel punto, sarebbe stata insopportabile. In patria il suo nome era deriso e screditato, placare l’indomabile Almaty era la sua unica opportunità per riavere il suo perduto splendore. Dei ribelli non avrebbero certo rovinato i suoi piani.

Yuri tornò a casa molto tardi, quella sera, la cena era quasi pronta in tavola. Quando la porta d’ingresso si aprì, Viktor fissò la figura del nipote con fare sorpreso. Era raggiante, Yuri, splendido come una stella. Nikiforov non si era neppure accorto della sua assenza quel pomeriggio.
 

L’album di ricordi della famiglia Nikiforov era pieno di segreti che Viktor doveva tenere ben nascosti. Rilegato in pelle, elegante ma comunque sobrio, era una raccolta di cimeli d’inestimabile valore morale. L’aveva rilegato in soffitta, nella polvere, ma non ebbe mai il coraggio di buttarlo via. Tra quelle pagine proibite si celava il vero motivo del suo esilio ad Almaty, il perché avesse portato con sé Yuri, il destino della famiglia Plisetsky e tutti i suoi crimini compiuti in Kazakhstan. Ogni volta che Viktor si guardava allo specchio scorgeva un viso in continuo mutamento, un corpo lacerato dalle mille anime e dai mille segreti che doveva tener nascosti. Yuri non sapeva, e non doveva sapere quello che accadeva ad Almaty ogni giorno da quando vi avevano messo piede, per mano sua. Non gliel’avrebbe perdonato.
 

Il giorno dell’operazione “Vitya” era finalmente giunto. Era stata organizzata in fretta e furia, quando si seppe di un’imminente invasione nazista, ma sembrava un piano perfetto. Tutti i venerdì, tra le 13:20 e le 13:40, un’auto nera, accompagnata da una piccola pattuglia scelta, scortava il colonnello Nikiforov attraverso il centro città, verso la stazione militare di Almaty, percorrendo sempre la medesima strada. Una viuzza secondaria, quasi parallela alla via principale della città, meno trafficata e isolata. Dava direttamente sulla piazza della grande moschea, poi si apriva in un bivio, da una parte proseguiva verso la piazza della cattedrale ortodossa, dall’altra si arrivava alla stazione militare. Una squadra di ribelli aspettava proprio lì. E tra questi non poteva mancare l’Aquila d’Oro delle steppe, ovviamente. Appena cominciò l’organizzazione dell’agguato, fece pressione sul suo mentore Aydek affinché gli venisse assegnato un ruolo in essa. Era giovane, il suo maestro ebbe da ridire per la sua incolumità, ma alla fine cedette alle suppliche di Otabek. L’aveva sentito piangere la notte, quando era ancora un ragazzino ospite in casa sua, l’aveva sentito urlare quando la sua mente maturò desiderio di vendetta e continuava a vederlo soffrire ogni singolo giorno della sua vita. Non poteva dirgli di no, non poteva privarlo quell’amara soddisfazione. Otabek fremeva, nella tasca del giaccone teneva nascosta una pistola. Fantasticava da anni di poterla puntare sul viso di Nikiforov, sulla fronte, proprio in mezzo ai suoi gelidi e freddi occhi, che erano stati il suo peggior incubo per troppo tempo. Fremeva, voleva tirare il grilletto, sentire il suono sordo e potente di uno sparo e poi vedere il corpo del russo giacere a terra in un lago di sangue, la fronte perforata, gli occhi morti, la pelle bianca e gelida tinta di un rosso scarlatto. E urlare davanti al suo corpo morto, urlare il nome della sorella, della madre, del padre, urlare vendetta, poi ridere, sorridere, perché quell’incubo non l’avrebbe più tormentato, gioire nel vedere il mostro che lo aveva tormentato giacere ai suoi piedi. Infine, forse, avrebbe pianto lacrime amare. Perché ammazzare Nikiforov non avrebbe riportato indietro i suoi cari, avrebbe solo e solamente svuotato Otabek di quel sentimento di rabbia bollente che da anni lo accecava. Il rancore lo soffocava, voleva vederlo marcire e vendicare i suoi cari. Ma Otabek sapeva che quando la rabbia sarebbe svanita, dentro di lui sarebbe rimasto il vuoto. Era solo, la fiera Aquila delle steppe, quell’omicidio che tanto bramava non gli avrebbe restituito la felicità.

Si guardava intorno, Otabek, aveva ricevuto l’ordine di fare da sentinella. Gli occhi inespressivi celavano un misto di rabbia, dolore e ansia. Era emozionato, non sapeva se in bene o in male. Voleva uccidere Nikiforov, vendicare la propria felicità perduta, eppure la mano tremava ogni volta che sfiorava la pistola nelle sue tasche. Non aveva mai sparato a nessuno, pensò. Non aveva mai ucciso. E per quanto l’immagine dello sguardo morente di Viktor fosse per lui gratificante, stentava a immaginare che sparare gli sarebbe stato facile. Sognava quel momento da anni, eppure aveva paura di fallire. Paura che la sua umanità prendesse il sopravvento, che la paura di uccidere avrebbe avuto su di lui la meglio. L’immagine della sua famiglia felice era uno stimolo, i ricordi lo facevano soffrire e, allo stesso modo, alimentavano il fuoco della vendetta che ardeva in lui. La voce della sorella lo chiamava, Otabek voleva raggiungerla, ma lei non c’era più. Lei non avrebbe mai approvato la sente di vendetta dell’amato fratello.
 

- Staremo via fino a tardi, tigre. – Viktor, col suo solito sorriso raggiante e sereno, diede una leggera pacca sulla spalla del nipote. La voce calda e piena di vita non rispecchiava l’immagine oscura e tenebrosa che infestava la mente di Otabek. – Devo presentare il caporale e dobbiamo discutere di faccende importanti, quindi aspetta l’arrivo di Yakov e non combinare guai. – si rassicurò poi, attendendo che l’ufficiale Leroy lo raggiungesse all’ingresso. Yuri annuì distaccato, non l’aveva neppure ascoltato. Era sceso nello studio dello zio solo per procurarsi qualche foglio da disegno e un carboncino. Nella sua mente stava maturando la bozza di un’opera d’arte, non poteva farsi distrarre dalle lontane parole di Viktor.

Il canadese, con la divisa imbastita di onorificenze, i capelli perfettamente ordinati e lo sguardo sicuro di sé, fece un cenno al giovane Yuri, appollaiato sul divanetto del salotto, intento ad abbozzare un disegno con un carboncino. Non era mai stato appassionato d’arte, Yuri, ma nella sua mente permaneva la dolce immagine di un volto gentile e sorridente che voleva imprimere su carta come una fotografia, nella speranza di non dimenticarlo mai.

- Baderò io a tuo zio, tigre. – Yuri sollevò lo sguardo dal disegno a sentire quelle parole. Non gli dava fastidio che Viktor lo chiamasse “tigre”, ma sentirlo dire da qualcun altro era strano, spiacevole. Soprattutto con quel tono tanto pieno e fastidioso. Il ragazzino squadrò il canadese con un’occhiata contrariata, ma evitò di rispondere, riportando la sua attenzione sulla bozza della sua prima opera.

- Divertitevi. – disse solamente con tono distaccato, continuando a tracciare linee armoniose sul foglio. Piano piano stava prendendo forma un viso familiare e dolce, gli occhi, appena abbozzati e imperfetti, squadravano l’artista con sguardo pacato e calmo. Yuri sorrise soddisfatto, quei lineamenti appena accennati lo rassicuravano come fosse l’immagine di un santo.

Viktor si lasciò sfuggire una risata, poi aprì la porta e fece uscire il caporale Leroy. – Lo faremo senz’altro! – così si mise il cappello dell’uniforme e, scambiandosi un’occhiata col suo autista scelto, si richiuse la porta alle spalle. Nella casa regnava il silenzio. Non sapeva che quel giorno sarebbe stato tutt’altro che divertente.
Quando fu solo, Yuri continuò il suo schizzo, sul foglio prese forma un viso simmetrico e squadrato. Abbozzò un sorrisino su quell’incantevole volto, flebile e pallido, poi lo fissò, lo squadrò e sospirò. Otabek sembrava un’opera d’arte, le mani di Yurio l’avevano ritratto con tanta cura e attenzione che quasi sembrava una fotografia. Non era perfetto, ma a Yuri piaceva, era soddisfatto.
 

Attorno ad Otabek regnava il silenzio. Alle sue spalle, poco più indietro, i suoi compagni stavano sistemando una piccola ma pratica barricata con sacchi di terra e sassi. L’Aquila delle steppe scrutava la piazza della moschea con sguardo attento, l’orecchio reagiva ad ogni minimo rumore. Cercava di tenere la testa libera dai pensieri, di concentrarsi, ma puntualmente l’immagine della sua famiglia gli si ripalesava davanti agli occhi. Quel giorno aveva voglia di uccidere, di fare vendetta, di sporcarsi di sangue. Un desiderio malato che aveva allevato dentro di sé e che finalmente avrebbe compiuto. Aspettava di scrutare qualcosa in fondo alla piazza, attendeva di vedere la sagoma scura dell’auto di Nikiforv, fremeva stringendo tra le mani la pistola. Sentiva la brezza estiva accarezzargli la pelle, voleva calmarsi e concentrarsi. Ogni tanto si dava un’occhiata alle spalle, i suoi compagni stavano facendo un ottimo lavoro. Sembrava andare davvero tutto per il meglio, nessuno pareva aver sbagliato nulla. Eppure aveva una sensazione brutta, dentro di sé. Era insicuro, anche se il suo sguardo fiero non lo dava a vedere. Aveva paura.
 

Viktor e Jean-Jaques viaggiavano assieme sul sedile del passeggero, composti e disciplinati, il loro autista guidava piano, sempre attento e pronto a qualsiasi possibile pericolo. Attorno a loro, la scorta faceva da parte i civili per fare strada ai due ufficiali. Il caporale Leroy teneva lo sguardo fuori dal finestrino, calmo, quasi a volersi godere finalmente un tour dei bassifondi del centro città. Viktor era immobile, lo sguardo esausto dallo stress che doveva nascondere in presenza del nipote. I capelli grigi gli ricaddero sul viso, il respiro era lento e calmo, nonostante il tremore alle mani. Yuri sapeva dell’invasione nazista, ma Viktor aveva fatto modo che non gli giungessero informazioni su tutte le rovinose sconfitte che l’Unione Sovietica stava patendo. Voleva fosse sereno, il nipote, non doveva appesantire la sua già complicata situazione psicologica con i suoi problemi politico-militari. Viktor era costretto ad indossare numerose maschere nella sua vita quotidiana e nascondere l’angoscia si stava facendo sempre più difficile. Sentiva il fiato dell’esercito tedesco sul collo e, nel mentre, doveva proteggersi dall’ombra dei ribelli. Aveva provato a sopprimere quei fastidiosi parassiti in tutti i modi, non aveva dato un freno al suo potere. Rappresaglie continue, indagini, spesso anche esecuzioni, ma più ne faceva ammazzare, più questi divenivano numerosi. Si riproducevano come una colonia di formiche, Almaty era un gigantesco formicaio che Viktor non era più in grado di gestire. Sentiva sulle spalle il peso di anni di difficoltà e scelte sbagliate. Sentiva la mancanza della sua San Pietroburgo, ma non si pentiva di ciò che aveva fatto lì, né dell’esilio che ne era derivato. Se aveva fatto un qualcosa di buono nella vita, fu proprio quello. E ogni giorno, quando guardava il sorriso del suo Yuri, si convinceva di non essere del tutto cattivo.

- Desidera fermarsi in un caffè, Signor Nikiforov? – chiese l’autista con tono garbato e pacato, Viktor si destò dai suoi pensieri. La sosta nella caffetteria di fiducia del colonnello era quasi d’obbligo. Lo gestiva una famigliola locale, kazaki vili e codardi, spie oltre che eccellenti baristi. A Nikiforov i codardi facevano schifo quasi quanto i ribelli e li sfruttava, spremeva loro ogni informazione fino al midollo. Avevano deciso di abbandonare il loro popolo e di consegnarsi al nemico, Viktor li opprimeva come traditori.

- No, proseguiamo. – detto ciò chiuse gli occhi e si rilassò, l’autista non aggiunse altro. Non voleva più pensare, Viktor, non voleva stressarsi ancora di più. Vedere quei sorrisi falsi, bere quell’insipido caffè, non erano certo quello che desiderava in un momento di nervosismo. Aveva le sue motivazioni, un dolore implacabile a bruciargli nel petto, e capì che non avrebbe mai potuto portare rimedio a tutti gli errori che aveva fatto. Yuri era la sua unica gioia.
 

Un brivido percorse la schiena di Otabek. Dall’altra parte della piazza intravide le motociclette della scorta sovietica, poi, pochi attimi dopo, la scura sagoma dell’auto di Nikiforov. Il suo cuore saltò un battito, per pochi istanti rimase pietrificato, le mani tremanti, sudore freddo a bagnargli la fronte. Non poteva più tornare indietro ormai, non poteva né fuggire né cambiare idea. Era arrivato il momento di scontrarsi faccia a faccia col suo peggior incubo, era arrivato il momento di uccidere. Non si sentiva pronto, aveva bramato quel momento così a lungo, ma aveva paura. Corse indietro, verso i compagni che lo attendevano al bivio. Un nodo gli stringeva la gola, il respiro si stava facendo affannoso e il cuore batteva come non mai.

- Sta arrivando. – disse loro, con voce roca, profonda, contorta dall’ansia e dal dolore. Stava per compiere la sua vendetta, voleva mietere sangue nemico, voleva vendicare la memoria dei suoi cari, che gli erano stati portati via davanti agli occhi. Chiamava il nome della sorella a mente, le chiedeva di stargli accanto, di dargli forza, di aiutarlo a trovare il coraggio di premere il grilletto quando ce ne sarebbe stato bisogno. Eppure non percepiva la confortante energia dell’amata sorella, e più la pregava più si sentiva angosciato e spaventato come un bambino. Aveva paura di essere solo, quel giorno tanto atteso, solo come sempre.

Si accostò con altri suoi compagni poco più avanti degli altri, all’ingresso della viuzza, così da incastrare i sovietici alle spalle e non lasciare loro via di fuga. Viktor si sarebbe trovato in una trappola di fuoco, circondato da occhi ardenti d’odio e nulla, se non un miracolo, l’avrebbe salvato. Otabek si nascose, tirò fuori la pistola, dietro di sé sentiva il rombo del motore delle vetture farsi più vicino. Al suo fianco riusciva a sentire il respiro angosciato del suo compagno Georgi. Metà russo, metà kazako, aveva gli occhi vitrei e chiari tipici dei sovietici, attenti, vigili, freddi e concentrati. Non erano mai stati amici, non che Otabek fosse particolarmente legato ad altri, ma in quel momento di ansiosa attesa sentì di avere con lui una pena in comune. Attendevano solo un segnale, quando i loro compagni avrebbero sparato il primo colpo sarebbero usciti allo scoperto, chiudendo l’unica via di fuga alle spalle di Nikiforov, non gli avrebbero lasciato scampo. E il corteo sovietico si avvicinò, passò proprio accanto a loro e Otabek trattenne il respiro. Vide un paio di occhi di ghiaccio persi nel vuoto attraverso il finestrino, freddi, distaccati, e nella mente dell’Aquila delle steppe si palesarono ricordi orrendamente dolorosi. In quel momento, furente e carico di vecchio e ribollente rancore, sentì di avere il coraggio di uccidere, come Nikiforov aveva ucciso. Strinse la pistola e in pochi attimi le urla entusiaste dei suoi compagni si levarono alte, e il primo suono sordo di uno sparo si fece largo per la strada. Ne seguì lo stridente rumore delle frenate frettolose, poi ecco che si levarono numerosi altri spari. Otabek uscì allo scoperto, la pistola carica e pronta a sparare. Uno dei soldati della scorta fu vittima del primo proiettile sparato, la sua moto giaceva ferma al suono, il suo compagno sul cydecar venne colpito alla testa prima che potesse accorgersi dell’accaduto. Gli sportelli dell’auto si aprirono di scatto, proiettili vaganti vi si conficcarono in mezzo rumorosamente. Altri due membri della scorta caddero a terra, morti, così come altri tre ribelli si ritrovarono feriti dal confuso contrattacco sovietico. Otabek ancora non aveva sparato ancora un colpo. Nikiforv uscì dalla macchina, riparandosi dietro lo sportello. Gli occhi confusi, freddi, l’espressione furente ma incredibilmente concentrata, da vero valoroso soldato. Urlò ad uno dei soldati di scorta di fargli da scudo, poi tirò fuori la pistola dalla cintura e iniziò a sparare ai ribelli rifugiati dietro alle barricate. Otabek ebbe un fremito e in un lampo si sentì più forte di una montagna. Tese il braccio, verso Viktor, mirò e dentro di sé se lo immaginò già morto ai suoi piedi. Sfiorò il grilletto, ma non sparò. La mano tremava, il sudore gli colava sugli occhi. Si sentiva forte, ma era debole, debole come un bambino. Era rimasto il ragazzino innocente che era quando vide per la prima volta Viktor, era rimasto l’orfanello impaurito e spaesato di un tempo. La presenza di Viktor, il suo sguardo, lo piegavano e lo spezzavano senza pietà. Il trauma era troppo forte da poter essere superato. Si sentiva inferiore, piccolo al suo cospetto. Aveva paura che, anche sparandogli, non l’avrebbe neppure scalfito e, anzi, avrebbe dovuto patire la sua rabbia. Sentiva il gelo delle sue mani stringergli la gola fino a soffocarlo piano, lento e crudele, fino a lasciarlo perire di una morte orrendamente straziante. Se lo ricordava come un mostro, non si sentiva forse abbastanza per sparare. Il soldato che proteggeva Viktor lo vide, braccio teso pronto a sparare, e gli puntò l’arma contro. Georgi se ne rese conto prima di Otabek, si precipitò davanti al compagno e i due spararono all’unisono. La guardia ricadde a terra, uccisa da un colpo preciso ed impeccabile del ribelle. Georgi, invece, si piegò in due, ai piedi di Otabek. Si teneva la spalla, marchiata dal sangue, e tratteneva gemiti di dolore. Era rimasto ferito per proteggere il compagno. L’Aquila d’oro si sentì ferita nell’orgoglio, si sentì di nuovo un peso, si accasciò accanto al suo compagno, premendogli sulla ferita per fermare il sangue. Viktor era rimasto scoperto, il soldato che gli faceva da scudo era ormai morto. Si voltò, Otabek aveva già ripreso in mano la pistola e gliela puntava contro, gli occhi rossi e ribollenti di un rancore che aveva tormentato la sua adolescenza. La mano tremava, non voleva stare ferma, ma sparò comunque. Il suono secco e acuto sembrò sormontare ogni altro rumore, il ribelle rimase immobile, incredulo del suo gesto. Tra le sue braccia, Georgi aveva smesso di gemere. Viktor Nikiforov cadde atterra, uno schizzo di sangue colpì la portiera alle sue spalle. Una luce abbagliante si accese negli occhi di Otabek. Il suo più grande incubo sembrava essere giunto al termine, tutte le sue paure le aveva affogate nel sangue. Passarono attimi che sembrarono eterni, attorno all’eroe delle steppe sembrava regnare un silenzio innaturale. Non riusciva a pensare ad altro, se non al corpo di Nikiforov immobile, steso a terra. La divisa del colonnello si sporcò rapidamente di sangue, per qualche momento sembrò non dare più segni di vita. Otabek continuava a pregare la sorella, che era sempre stata la sua più cara amica. “È morto”, pensava, le labbra tremanti non riuscivano ad emettere un suono. Nella sua testa si formularono mille pensieri in pochi attimi, dentro di lui fu il caos. E si destabilizzò, si deconcentrò. E in pochi momenti Viktor si tirò su, la spalla destra grondante ti sangue, il braccio ricoperto da rivoli scarlatti. La pistola gli cadde di mano, non poteva più mirare, non poteva difendersi e si accasciò contro la macchina. I ribelli avevano ucciso metà dei suoi uomini, sarebbe stata questione di poco prima che avessero finito anche lui. Otabek mirò di nuovo, la vista offuscata, confuso. Stava avvenendo tutto troppo in fretta e nella sua mente, maturata troppo velocemente, si affannavano angosce e paure che spezzarono l’armonia della sua concentrazione. Sparò un altro colpo, ma andò a vuoto, non era più in grado di ragionare. Pregò la sorella di stargli accanto ancora e ancora, la pregò di dargli la forza di sopravvivere e concludere quella vendetta progettata da anni. Ma le paure di Otabek erano fondate: era solo, non sentiva il calore della sorella. Il caporale Leroy, che con una mira impeccabile si era liberato di alcuni ribelli, si avvicinò all’ufficiale ferito, prestandogli immediato soccorso. Si strappò un pezzo di camicia e lo avvolse frettolosamente attorno alla spalla del sovietico. Nikiforov gli urlò di fare attenzione, così Otabek, confuso, sparò un altro colpo, che di nuovo andò a vuoto. Jean-Jaques aiutò Viktor ad alzarsi, facendolo poggiare su di sé. I soldati della scorta sopravvissuti continuarono a fare da scudo, persino l’autista scelto era morto per proteggere Nikiforov. Il caporale sollevò la pistola, il suo sguardo s’incontrò con quello di Otabek. Leroy sparò per primo, Otabek non ebbe neppure il tempo di accorgersi di quanto stava accadendo. Sentì solo una lacerante sensazione di bruciore farsi strada in lui all’altezza dello stomaco, le gambe cedettero e in un istante l’Aquila delle steppe si ritrovò stesa a terra, le ali ferite non gli permettevano più di volare. Sentii il sangue caldo e viscido scorrergli lungo la pancia, squarciata da un dolore talmente forte che neppure gli permetteva di respirare. Provò a rialzarsi, Otabek, ma non riuscì neppure a muoversi. Il sangue gli arrivò fino in gola, ma non riusciva neppure a tossire. Un rivolo di scarlatto sorse dalle sue labbra, scorrendo lungo il suo affascinante viso orrendamente contratto in una smorfia di dolore. Le palpebre si fecero pesanti, era improvvisamente esausto. La vista era offuscata dal dolore, la mente lacerata dalla sofferenza. Le urla dei compagni si fecero sempre più lontane e vaghe, così come quelle del compagno Georgi che gli implorava di resistere. Accanto a sé, inginocchiata, vide una figura dai tratti familiari e dolci, bella e calda come il sole che ad Otabek mancava tanto. La figura sorrise e l’Indomabile Aquila D’Oro si addormentò cullato dalla dolce ninna nanna della sorella. Pensava che davvero, a quel punto, fosse finita.
 

Il caporale Leroy trascinò via Viktor dalla sparatoria, in pochi minuti le pattuglie russe nella zona intervennero per porre fine al massacro. Secondo i rapporti sovietici quel giorno morirono 16 ribelli e ne sopravvisse solo uno: Georgi Popovich. I corpi dei ribelli caduti vennero lasciati in strada, a marcire, un messaggio potente per chiunque avesse voluto tentare un aggressione simile ai danni dei sovietici. Aybek giunse sul luogo della sparatoria, il suo caro Otabek era steso a terra in un orrendo lago di sangue, il viso rilassato e calmo. L’unico sopravvissuto, Popovich, di padre russo e di madre kazaka, venne catturato dalle truppe sovietiche e portato via. Nikiforov, furente, perdeva sangue copiosamente, gli occhi iniettati d’odio furono la cosa che spaventarono maggiormente il giovane Yuri, quando lo zio si presentò dolorante in casa.

- Che succede?! – chiese il ragazzino dai capelli splendenti, quando, urlando, i due ufficiali rientrarono in casa. Viktor gemeva, ringhiava come una bestia, il caporale Leroy non badò minimamente a Yuri e allo stesso modo i domestici, accorsi subito con bende e acqua. Una giovane cuoca stava chiamando il medico ufficiale di Nikiforov. Yuri non aveva il coraggio di avvicinarsi allo zio, tutto quel sangue lo terrorizzava. Iniziò a tremare, indietreggiò, nessuno fece caso a lui. – Che cazzo è successo?! – sbraitò con voce rotta e spezzata dalla paura.

- Quei bastardi! Quei bastardi! – urlò rabbioso Viktor, le domestiche non riuscivano a tenerlo fermo. Il sangue aveva rapidamente sporcato tutto il divanetto. – Che crepino! Che crepino! – imprecava ancora, sembrava un mostro. Yuri rimase a bocca aperta, le gambe presero a tremargli. Suo zio lo stava terrorizzando, non aveva mai visto Viktor ridotto in quello stato, non l’aveva mai sentito urlare così.

Il caporale canadese, reduce dell’agguato, fu l’unico ad accorgersi dello sguardo spaventato del giovane Yuri, che tremava nel vedere quella scena inaspettatamente straziante. Jean-Jaques trascinò via il ragazzo, lo riportò nella sua stanza, dove le urla di Viktor erano più vaghe e lontane. – I ribelli ci hanno attaccato. – spiegò più tranquillamente possibile, Yuri ebbe un fremito.

- E che fine hanno fatto? I ribelli, intendo… - chiese, non poté fare a meno che pensare ad Otabek prima che a tutti.

- Non preoccuparti di loro. Sono tutti morti. – disse il caporale con un’espressione calma, il tono gentile mirava a calmare il ragazzo. Ma quelle parole non fecero che allarmare di più Yuri, che temeva per il suo eroe, il suo amico.

- T… Tutti..? – chiese di nuovo, le mani tremavano. Non sapeva dov’era Otabek, né se fosse stato coinvolto nell’agguato, ma aveva paura. Paura che non avrebbe più potuto scambiare la parola con lui, paura che avesse perso l’unico amico che aveva senza averlo neppure conosciuto a fondo. Era sicuro che non si sarebbe lasciato sfuggire un attentato al suo peggior nemico, doveva essere lì.

- Non tutti. Uno l’hanno arrestato, arriverà qui domani per essere interrogato. – Yuri emise un sospiro di sollievo. Appeso al muro c’era il ritratto di Otabek che lo squadrava col suo viso simmetrico e perfetto. Una fitta strinse il cuore del biondino, la paura che gli fosse accaduto qualcosa lo divorava. Ma la speranza era l’ultima a morire e Yuri passò quella notte insonne, rigirandosi nel letto alla ricerca di una risposta. Voleva il suo amico, il suo Beka, accertarsi che stesse bene, che non l’avrebbe lasciato.
   
 
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