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Autore: Raptor Pardus    06/07/2017    3 recensioni
La figura incappucciata vagava per il deserto spazzato dal vento, china sotto il peso dei granelli di sabbia taglienti come lame.
Si calò il cappuccio ancora più sul naso e continuò a fissare il terreno, in cerca delle orme della creatura che stava cercando.
Un tempo non avrebbe dovuto fare tutta quella caccia a piedi, affidandosi solo al suo istinto da cacciatore.
Un tempo non avrebbe potuto ritrovarsi in una situazione simile.
Ma il Secondo Medioevo aveva cambiato tutto.
Dopo il Crollo dei Tre Imperi e il Grande Isolamento nessun pianeta era stato più lo stesso, non dopo oltre mille anni senza un controllo centrale a gestire ciò che restava di loro, senza un modo per viaggiare da un sistema a un altro, senza neanche il modo per comunicare tra due città, figurarsi due pianeti.
Le leggende narravano che migliaia di sistemi colonizzati, tra i più fiorenti e importanti della galassia, fossero caduti nell’inverno nucleare, ma lui era scettico su tutto ciò.
Perché aveva fiducia nella sua razza, purtroppo a torto.
Genere: Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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 Il guardiano

 
La figura incappucciata vagava per il deserto spazzato dal vento, china sotto il peso dei granelli di sabbia taglienti come lame.
Si calò il cappuccio ancor di più sul naso e continuò a fissare il terreno, in cerca delle orme della creatura che stava cercando.
Un tempo non avrebbe dovuto fare tutta quella caccia a piedi, affidandosi solo al suo istinto da cacciatore.
Un tempo non avrebbe potuto ritrovarsi in una situazione simile.
Ma il Secondo Medioevo aveva cambiato tutto.
Dopo il Crollo dei Tre Imperi e il Grande Isolamento nessun pianeta era stato più lo stesso, non dopo oltre mille anni senza un controllo centrale a gestire ciò che restava di loro, senza un modo per viaggiare da un sistema a un altro, senza neanche il modo per comunicare tra due città, figurarsi due pianeti.
Le leggende narravano che migliaia di sistemi colonizzati, tra i più fiorenti e importanti della galassia, fossero caduti nell’Inverno Nucleare, ma lui era scettico su tutto ciò.
Perché aveva fiducia nella sua razza, purtroppo a torto.
La leggera tempesta di sabbia si calmò, permettendogli di fermarsi, riprendere fiato, alzare lo sguardo e scrutare intorno a lui.
Se non trovava nulla entro sera avrebbe tremendamente rimpianto l’aver accettato quella missione.
Non ci teneva a tornare al villaggio a mani vuote, il rischio di diventare lo zimbello della tribù era troppo alto.
Qualcosa baluginò all’orizzonte, verso sud.
Prese l’elettrovisore fulmineo e puntò verso la traccia.
<< Trovato! >> sbottò soddisfatto.
Qualcosa di grosso si muoveva lento in mezzo al deserto, solitario e tetro.
Corse verso il primo sperone di roccia tra lui e la creatura, distante almeno quattro chilometri da lui, e si gettò a terra.
Controllò di nuovo con l’elettrovisore se ciò che aveva visto era effettivamente ciò che cercava da sei giorni, o forse da cui stava scappando.
La creatura era ancora lì, un monolito scuro stagliato contro il sole: il Grixys.
Nessuno sapeva bene cosa fosse, ma era chiaro, dopo numerosi villaggi distrutti e ancor più numerose carovane razziate, che era dannatamente pericoloso.
Diversi cacciatori erano partiti per abbatterlo, ma nessuno aveva mai fatto ritorno, ognuno portando con sé una delle loro armi-reliquie, preziose rimanenze della civiltà perduta, fondamentali per sopravvivere alle minacce esterne alla tribù.
Ne avevano perse otto in quella maniera.
Slacciò dalla tracolla il suo fucile di precisione, la terzultima reliquia rimasta al suo villaggio, la imbracciò, inserì il caricatore contenente dieci proiettili di grosso calibro fatti a mano da lui personalmente, regolò il bipiede e l’obbiettivo termico.
Strizzò l’occhio e appoggiò la guancia sul calcio del fucile, guardando dentro l’obbiettivo.
Come previsto non rilevava niente, quindi avrebbe dovuto tirare senza supporti.
Studiò attentamente la bestia attraverso la lente dell’obbiettivo, fissò a lungo la sua larga schiena alta tre metri, i due tozzi e forti arti posteriori e i due possenti anteriori, terminanti in sei affilatissimi artigli, lunghi quanto un suo avambraccio.
L’essere non aveva testa, ma solo una protuberanza priva di collo da cui spuntava un unico, grande occhio rosso.
Aveva uno strano vello, a cui la sabbia si attaccava quasi attratta dal suo corpo, permettendogli di nascondersi sotto le dune e avvicinarsi silenzioso alle sue ignare vittime.
Procedeva lento verso ovest, probabilmente diretto verso la fabbrica abbandonata dove ieri sera il suo cacciatore aveva bivaccato.
Impossibile che non l’avesse già notato.
Regolò la lente sulla bestia, puntando proprio al centro del grande occhio rosso, mentre quella lentamente si fermava e, dopo qualche secondo passato a fiutare l’aria, voltava rapida il moncone che componeva la sua testa proprio verso di lui.
“È la volta buona che mi faccio ammazzare” pensò il cacciatore.
Ora si fissavano entrambi, attraverso l’ottica del fucile.
<< Oh, andiamo… >>
Scattando la bestia si mise a correre verso di lui, sollevando la sabbia con i suoi artigli a rasoio.
Rapido il cacciatore dovette regolare il visore in modalità inseguimento, anche se non era sicuro fosse ancora in grado di elaborare qualcosa del genere, e inspirò a fondo per trattenere il fiato, cercando di controllare l’adrenalina che rischiava di fargli tremare le dita proprio nel momento più importante.
L’ottica non rilevava ancora niente, eppure quell’essere correva a quasi 200 chilometri orari verso di lui, l’avrebbe raggiunto in poco più di un minuto.
Premette il grilletto, bestemmiando silenziosamente quando attraverso l’ottica vide rimbalzare il proiettile sull’occhio della creatura.
Quei proiettili avrebbero passato da parte a parte la corazza di un vecchio carro armato dell’Impero, ma contro quell’essere avevano miseramente fallito.
Premette di nuovo il grilletto, stavolta senza riuscire a trattenere un grugnito di stizza, mentre il rinculo dell’arma gli attraversava la spalla facendogliela vibrare tutta, mentre l’otturatore automatizzato espelleva il grosso bossolo e incamerava un altro proiettile.
Premette di nuovo, rimanendo sorpreso quando vide attraverso l’obbiettivo l’occhio della bestia incrinarsi, come fosse fatto di vetro.
Premette ancora, mentre i bossoli bollenti cominciavano ad accumularsi nella sabbia, impattando pesantemente col suolo, asciugando col calore emanato dall’arma le gocce di sudore che imperlavano di sudore la sua fronte, sempre più corrugata per la vicinanza della bestia.
Il mostro gli era ormai addosso, già alzava gli artigli pronto ad aprirlo in due, oscurando completamente l’ottica.
Non gli restava che il tempo per premere un’ultima volta il grilletto.
Alzò il fucile e lo puntò sul petto della creatura, sopra di lui, sparando senza neanche mirare.
Il proiettile rimbalzò con un suono metallico e volò via fischiando, mentre lui già rotolava di lato per schivare l’affondo del suo rivale, andato a vuoto in una nube di sabbia.
Si alzò di scatto, rotolando sulla schiena, e puntò il fucile di nuovo sull’occhio, sparando quasi a bruciapelo il sesto colpo.
Venne quasi sbalzato dal rinculo dell’arma, mentre una fitta di dolore gli attanagliava la spalla destra, lussata dal contraccolpo.
La bestia emise un ruggito metallico e si gettò all’indietro, proteggendo quello che a malapena poteva essere definito volto, mentre schegge di vetro volavano dappertutto in un’esplosione di luce rossa che accecò il cacciatore, colpito anche dalle schegge stesse.
Quando riacquisì la vista, vide un laser rosso fuoco uscire dall’occhio meccanico di quella che era palesemente una macchina.
Era il retaggio di una guerra passata, che aveva divorato il pianeta e la civiltà umana.
Quando era apparso, gli eserciti di automi erano già spariti da un’era, volati via con le ultime astronavi esistenti su altri pianeti da ripulire da quello che loro ritenevano essere un cancro che divorava la galassia.
Eppure, quella macchina proteggeva qualcosa, qualcosa di importante, che per troppo tempo aveva incuriosito la sua tribù, facendo gola ai più abili cacciatori di relitti di tutti i villaggi nel raggio di cento miglia da lì, troppo disperati per rinunciare anche al più misero bottino.
Rovistò nella sacca che teneva legata al cinturone, estraendo una mina a pressione.
Non ci sarebbero state mezze misure quel giorno.
La armò in un secondo e si preparò a lanciarla, sapendo che nonostante il rischio era l’unica cosa che avrebbe funzionato contro il suo nemico.
Lasciare la mina davanti a sé avrebbe permesso all’automa di aggirarla, corrergli incontro per sbattergliela sul muso sarebbe voluto dire entrare nel raggio d’azione dei suoi artigli o farsi coinvolgere nell’esplosione.
La bestia lo fissò, accecandolo di nuovo, emettendo un assordante boato metallico.
<< Crepa, bastarda! >>
La mina volò per tutto il metro che li separava, finendo per incollarsi sulla spalla destra del robot.
Ignorò il dolore e afferrò la pistola a tamburo che teneva al fianco.
Non aveva più possibilità.
Rotolò via altre due volte, trascinandosi dietro il braccio inerte, schivando i rapidi artigli del suo avversario, abbandonando il fucile a sé stesso sotto le zampe artigliate del nemico.
Poi fece fuoco.
Sparò due volte, colpendo l’automa nell’occhio, accecandolo definitivamente, e sulla spalla, proprio sopra la mina.
La deflagrazione sbalzò entrambi, spingendoli all’indietro, in un’ondata di calore e detriti metallici, gettando entrambi per terra.
Lui si alzò dolorante, il braccio completamente inutilizzabile, e fissò la sua preda, riversa e immobile davanti a lui, la spalla squarciata dall’esplosione.
Solo ora notò la ruggine che costellava il suo interno, rodendo circuiti e organi meccanici.
Si avvicinò zoppicando, ipnotizzato dalla cresta di lamiere accartocciate che coronava la ferita, ancora abbastanza lucido da credere che quell’affare non fosse “morto”.
Tenne la pistola alta, puntata contro le interiora della bestia che facevano capolino dallo squarcio nella sua corazza.
Il Grixys si mosse, ruotando su sé stesso con uno scossone.
Subito sparò atri due colpi all’interno della ferita, aspettò un secondo e svuotò il tamburo.
Non era il momento per risparmiare proiettili.
Quella incurante di tutto si alzò, fissandolo con ciò che rimaneva dell’occhio rosso.
Ormai era cieca, eppure lo percepiva ancora, e rimase lì a fissarlo, indecisa se completare il suo compito o dar retta a quello che poteva essere definito il suo istinto di sopravvivenza.
Provò di nuovo ad attaccarlo, con un ultimo, goffo quanto fiacco, scatto in avanti.
Lui quasi si lasciò prendere, la mano già volata nella sacca per estrarre una granata.
La mina era stata rischiosa, ma era più precisa e più potente, una scelta obbligata quasi.
Scartò di lato e tirò la bomba nello squarcio, ma la gamba lo tradì.
Non saltò abbastanza lontano, e la bestia lo afferrò, aprendogli maglietta, corpetto protettivo e fianco.
Urlò di dolore e cadde a terra, intontito dal colpo, ma ormai era fatta.
La granata volò dritta in buca e, mentre il Grixys si alzava sulle zampe posteriori per finirlo, esplose, distruggendolo dall’interno.
Ora era finita sul serio.
La creatura si schiantò pesantemente al suolo, senza più dare segni di “vita”, senza più il ronzare di ventole in movimento o il sibilo di batterie a fusione.
Il cacciatore fissò il nemico sconfitto, e finalmente tirò un sospiro di sollievo, mentre l’adrenalina faceva posto al senso di stanchezza.
Poi tutto il dolore lo attraversò di colpo, confluendo nel sangue che sgorgava dal fianco e bagnava i vestiti.
Lanciò un urlo, schiacciando le mani sulla ferita aperta, cercando il coraggio di fissarla.
Aveva tre solchi di una ventina di centimetri l’uno, per fortuna non così profondi da ledere gli organi, ma abbastanza da fargli perdere sangue copiosamente.
Aveva bisogno di fasce, subito.
Si avvicinò zoppicante alla carcassa, superandola, in cerca della sua reliquia.
Il fucile di precisione era poco distante, ammaccato e ricoperto di sabbia, ma ancora perfettamente integro.
Tornò sullo sperone di roccia dove la lotta era cominciata, trascinando il fucile per il rompi fiamma, e si accasciò sulla dura roccia, ansimando.
Staccò lo zaino dal cinturone e se lo poggiò sulle gambe, rovistandoci dentro in cerca di un kit medico, pur sapendo di avere solo qualche garza e un vasetto di gel lenitivo, meglio di niente.
Si medicò con ciò che aveva e raccolse i bossoli che trovò lì vicino; qualsiasi spreco di materiale non era ben visto dalla tribù.
Smontò il fucile per ripulirlo e controllarne l’integrità, mise via bipiede, caricatore e ottica, prese il sacco a pelo e consumò una delle sue razioni concentrate.
Sapeva schifosamente di cuoio bollito, ma era l’unica sostanza sufficientemente nutriente che riuscivano a produrre.
Mangiò senza gusto quella cena frugale, mentre il sole rosso lambiva ormai l’orizzonte, tramontando in un cielo di fuoco e cedendo il passo alle due lune che regnavano nella notte di quel pianeta.
In poco tempo il cielo si riempì di milioni di stelle, una più luminosa dell’altra, tutte magnificamente splendenti.
Fosse vissuto in un’altra era avrebbe fatto di tutto pur di viaggiare tra quegli infiniti soli, esplorando ogni remoto angolo della galassia, a bordo di chissà quale astronave Imperiale, ma era stato sfortunato, era nato troppo tardi per fare qualsiasi cosa, se non sopravvivere.
Era nato su un mondo periferico, in un antico sobborgo ridotto a desolate rovine, in cui qualche anima disperata cercava di mantenere un minimo di civiltà, dopo secoli di freddo siderale e isolamento, dopo la più lunga guerra che l’umanità avesse mai conosciuto tra i due più grandi imperi che avessero mai dominato la galassia, una guerra così dannosa che aveva portato al crollo dell’ordine costituito, alla quasi estinzione della razza umana, alla perdita delle tecnologie necessarie per viaggiare tra i mondi e restare in comunicazione con altri pianeti.
Una guerra così violenta che per porvi fine erano dovute entrare in campo le armate di droidi della Repubblica, droidi in grado di fare una sola cosa.
Nonostante la fine della guerra continuarono a combattere, da soldati divennero cacciatori, e iniziarono una sistematica opera di rastrellamento andando da un mondo all’altro, eliminando qualsiasi traccia di ciò che era rimasto della civiltà, divorando come sciami di Locuste centinaia di miliardi di persone e lasciando solo deserti.
O almeno, così sapeva.
Difficile dirlo, dato che non c’era modo per le informazioni di attraversare l’etere ormai.
Solo i droidi viaggiavano nello spazio.
Anche quel pianeta era stato attraversato dallo sciame e divorato, eppure, per qualche strana ragione, loro erano sopravvissuti, in pochi, ed erano stati in grado di ristabilire una seppur piccola società.
Avevano combattuto per difendere la loro esistenza palmo per palmo per tutta la superficie di quel pianeta dannato, un tempo florido e rigoglioso, e si erano dispersi, quando ormai il nemico aveva ucciso le loro speranze.
Poi venne il Grixys, a rastrellare i sopravvissuti, mentre lentamente i droidi tornavano fra le stelle, sparendo alla stessa maniera di come erano arrivati.
Poco a poco loro avevano rialzato la testa, e la civiltà umana era tornata, seppur lentamente, a crescere, mentre il Grixys ormai vagava come un’anima persa per il deserto che lui stesso aveva creato, come proteggendo qualcosa nascosto lì in mezzo.
Col tempo la storia era stata dimenticata, i racconti erano divenuti leggenda, e ciò che era rimasto non era che un mostro nascosto nella sabbia.
Adesso, nulla rimaneva di emozionante su quell’ammasso roccioso, e non restava altro da fare che alzare il naso e tornare a fissare le stelle sognando.
E mentre la testa si affollava di pensieri più numerosi delle stelle che il suo sguardo riusciva a cogliere, il cacciatore si addormentò.
 
Quando la mattina dopo si svegliò, il cacciatore era dolorante e debole, e avvertiva l’infezione che si stava diffondendo dalla sua ferita.
Si alzò lentamente, gemendo per il dolore, si cambiò le fasciature e pulì le ferite, sicuro che sarebbe sopravvissuto.
Consumò una colazione frugale, e solo dopo si accorse che la carcassa del Grixys era sparita.
Si guardò intorno, impaurito, ma non colse nessuna sagoma all’orizzonte.
Fissò per terra la fossa che la creatura, con la sua mole, aveva lasciato, mentre la testa gli faceva male per lo sforzo di capire come potesse essere possibile.
Grosse orme procedevano verso il punto da cui la creatura era venuta.
Il cacciatore raccolse le sue cose e si mise zoppicando in viaggio, incuriosito, seguendo le tracce della sua preda, usando il fucile come stampella.
Viaggiò per un giorno e mezzo, in pieno deserto, ormai distante da casa come mai prima.
Affrontò un’altra gelida notte e un’altra torrida alba, fino ad arrivare al punto dove le orme finivano, nel bel mezzo del nulla, di fronte ad un basso sperone roccioso, davanti al quale la sabbia si affossava.
Il cacciatore imprecò tra i denti, ma intuì presto che quell’affossamento non era naturale.
Si gettò a terra e iniziò a scavare con le mani, fin quasi a strapparsi le unghie, finché la sabbia compattata non cedette e iniziò a scivolare silenziosamente nel portale arrugginito che si aprì sotto i suoi piedi, un portellone incastratosi a pochi centimetri dal sigillarsi, che nascondeva ai suoi occhi un vasto tunnel ancora più arrugginito che andava perdendosi nell’oscurità.
La fenditura rimasta era appena sufficiente a farlo passare, ma calarsi sembrava abbastanza sicuro e la curiosità lo uccideva.
Entrò nell’antro della creatura, scendendo nella gola di metallo, mentre la luce si faceva sempre più fioca, mentre l’eco dei suoi passi gli riempiva sempre più le orecchie.
La rampa scendeva sempre più, continuando ancora nel buio, fino ad aprirsi in una grotta.
L’immagine che investì il cacciatore fu terribilmente magnifica, eppure inquietante.
Il tunnel si apriva su una rampa ancor più larga, in grado di far passare almeno un centinaio di uomini affiancati, che scendeva verso il fondo dell’immensa grotta, dove si stendeva una città fantasma, un complesso industriale di dimensioni mai viste.
La base dell’armata di automi, ormai abbandonata da tutti.
Escludendo il Grixys, ovviamente.
Il cacciatore lo trovò non molto distante dall’entrata, nella guardiola di una fabbrica, mentre tentava vanamente di avvicinarsi ad una postazione di riparazione.
Difficile non notarlo, il suo occhio rosso era l’unica fonte di luce là dentro, anche se ancora per poco.
Non riusciva più nemmeno a strisciare, a malapena si sentiva il sibilo della batteria ormai fuori uso.
Era lì, solo, un arto proteso verso la capsula arrugginita in cui voleva rifugiarsi.
Ma non vi era più corrente, né pezzi di ricambio.
Per lui era finita.
Era palese che l’unico motivo per cui la bestia non l’aveva sopraffatto fosse che era ormai agli ultimi attimi del suo ciclo vitale.
Il cacciatore la fissò spegnersi, pietosamente impotente, mentre la luce del suo visore ottico si affievoliva fino a sparire, annunciandone la definitiva morte.
Di nuovo la grotta calò nel buio.
Ora totalmente solo, il cacciatore vagò a lungo, scavando tra i rottami arrugginiti di quella città perduta.
Trovò archivi rimasti chiusi da secoli, magazzini pieni di sementi e campioni genetici sigillati da ancor più tempo, eppure ancora intatti.
Più scavava in quel cimitero, più nella sua mente si insinuava un’idea sempre più assurda.
Trovò il generatore della città e faticosamente riuscì ad avviarlo.
Poco a poco, con un rumoroso borbottio di protesta, la città si illuminò a giorno, avviando tutti i suoi mille nascosti processi per un’ultima volta.
Scovò una vecchia periferica, ancora funzionante, e non senza difficoltà riuscì ad interfacciarsi.
Stranamente, comunicava in vecchio comune universale, a lui, seppur a stento, comprensibile.
In poco tempo trovò cataloghi e progetti, un tesoro contenente tutto quello che mancava alla loro società.
Finalmente capiva il disegno che aveva mosso i droidi dopo la fine della guerra, finalmente gli era tutto chiaro.
Lì vi era tutto il necessario per terraformare il pianeta, per poter permettere loro di ricominciare da zero.
I droidi non volevano eliminarli completamente dalla faccia della galassia, volevano in realtà ripulire il cancro che gli uomini erano diventati, lasciare che tornassero alle origini, per poter imparare dagli errori del loro passato.
Chiunque avesse creato quegli automi non voleva annientarli, ma dare una nuova possibilità a loro e alla galassia.
Doveva tornare al villaggio, e far vedere cosa aveva scoperto.
Uscendo dalla grotta si accorse che ormai era calata la notte.
Aveva completamente perso la cognizione del tempo esplorando quella città morta, finendo per rimanervi dentro tutto il giorno.
Fissò le stelle in cielo, guardandole tutte in un nuovo, fanciullesco modo, due scintille negli occhi accese da un sogno bambinesco.
Sicuramente lui non sarebbe vissuto abbastanza a lungo per poter esplorare quei cieli ma, forse, un giorno lo avrebbero fatto i suoi figli o meglio, i figli del suo villaggio.
E sotto la volta stellata, l’ormai vecchio cacciatore tornò sui suoi passi, la mente già in viaggio su altri pianeti e lo sguardo dritto verso la sua vera casa.
La Terra.

   
 
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