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Autore: Iria    08/07/2017    1 recensioni
Catturare i colpevoli delle rapine in banca seriali era stato abbastanza semplice. Individui di quel calibro, sfiorata l’ebrezza della gloria criminale, assumevano un atteggiamento di sfida pericoloso che spesso conduceva all’innesco di un’inevitabile auto-distruzione annunciata da piccoli e rilevanti errori.
Quindi li avevano incastrati.
[Dazai/Kunikida con una spruzzata di Oda/Dazai]
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Doppo Kunikida, Osamu Dazai
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Alone – Everything Passes
 
Era un incubo ricorrente e iniziava sempre alla stessa maniera: nel silenzio e nel buio, Kunikida sedeva alla cattedra di una vecchia aula, sfiorando le pagine di un libro di matematica impregnate di sangue.
In quella dimensione senza tempo l’aria era acre e l’odore della polvere da sparo gli bruciava le narici. Appariva simile ad uno spettro; e se l’immagine onirica del corpo del detective se ne stava lì, ferma ed immobile a respirare la miscela mefitica di sangue e disperazione, la sua razionalità (assurdamente sveglia e vigile nel sogno) gridava e si dibatteva pur di liberarsi e fuggire.
In realtà sarebbe stato semplice, se solo Kunikida, notte dopo notte, non avesse continuato a desiderare di tornare in quel luogo.
Ad ogni nuovo incubo si accompagnava l’ingenua speranza di poter cambiare, almeno nella  sua sfrenata e più rosea fantasia, i destini di quanti erano stati traditi dalla sua incapacità, quella totale inettitudine in bilico su azioni deboli, strazianti e colpevoli.
Il dolore iniziava a penetrargli il cuore quando le immagini scorrevano verso i corridoi della scuola e inconsciamente, come sempre, lui era lì a dirigere le file di ragazzini.
Ricordava tutti i loro volti e ogni singola espressione: dall’ultimo lampo di vita in quegli occhi confusi, fino alla vitrea immobilità di una morte improvvisa e inaspettata.
Bang. Bang. Bang.
Realizzare fu complicato e i primi schizzi di sangue sul viso gli diedero l’impressione di grosse gocce di pioggia, il preludio di un temporale spaventoso. Kunikida vide i piccoli cadere quasi come fossero grotteschi pupazzi sfuggiti alla presa di un marionettista distratto; poi udì le grida e le suppliche.
No, no, no.
Come agire? Quale metodo applicare? Come districare la matassa di una ragione violentata, abusata da ogni singolo proiettile esploso?
In sottofondo distingueva una risata maniacale, e col tempo aveva imparato a sezionare gli eventi intrappolati in quei ricordi, a slegare i suoni dalle immagini e a riavvolgere il mostruoso nastro audio alla ricerca di tutto ciò che poteva essergli utile per comprendere.
Kunikida ovviamente conosceva la definizione di “crudeltà”, e disprezzava la fredda e selvaggia carezza di quella bestia annidata nei cuori umani, eppure trovava difficile individuare la scintilla, ciò che incendiava la miccia di una follia tale da giustificare lo sterminio di una classe di bambini delle elementari.
 
Dazai lo osservò attentamente, mettendo da parte il libro letto fino a qualche istante prima. Gli occhi castani scrutarono il profilo del compagno, indugiando forse più del dovuto sui capelli biondi, lunghi e scomposti. Sogghignò tra sé, tracciando con un dito bendato la linea di alcuni ciuffi sparsi sul cuscino, mentre il sole invernale del primo pomeriggio filtrava a fatica nella stanza, affacciandosi fra le nubi pregne di tempesta.
Quindi, si mosse piano e con leggerezza quasi felina: controllò il respiro e la temperatura di Kunikida, assicurandosi che le fasce attorno al corpo dell’altro fossero ancora pulite.
Conclusioni: febbricitante e in preda agli incubi.
Nulla di straordinario; e finalmente, si sentì di aggiungere tra sé, mentre sprofondava più comodamente nella poltrona di fianco al letto, in quell’angolo ben preciso dove poteva avere il perfetto controllo sull’intera stanza ­– porta, finestra e Kunikida compresi.
Tutto facilmente raggiungibile.
Sospirò, lasciando il libro sulle gambe accavallate e congiungendo le mani davanti al mento in un gesto assorto, ripercorrendo gli eventi di quella settimana.
Catturare i colpevoli delle rapine in banca seriali era stato abbastanza semplice. Individui di quel calibro, sfiorata l’ebrezza della gloria criminale, assumevano un atteggiamento di sfida pericoloso che spesso conduceva all’innesco di un’inevitabile auto-distruzione annunciata da piccoli e rilevanti errori.
Quindi li avevano incastrati: Kunikida aveva dedotto lo schema dei furti, non casuale come inizialmente assunto, ed erano entrati in azione, pronti ad intrappolarli nel caveau della banca. Il vero problema era stato l’abilità di uno dei colpevoli, un potere piuttosto infido che nessuno di loro aveva previsto.
Era iniziato tutto con un graffio, una striatura sottile, superficiale e rossastra lungo il ventre contratto di Kunikida, che aveva insospettito la dottoressa Yosano prima ancora che producesse una sorta di lento decadimento, una morte cosciente ed inesorabile. Tuttavia, la prontezza della donna era stata come sempre determinante ed aveva individuato un seme, un parassita che si stava nutrendo del collega, avvelenandolo, impossibile anche per lei da rimuovere chirurgicamente, poiché aveva già impiantato il suo nucleo maligno nelle cellule del detective, a meno che non ci fosse qualcuno in grado di…
“Neutralizzarlo.”
No Longer Human.
 
Ed ecco com’era finito a fare da badante a Kunikida, per tutta la settimana di guardia al suo letto, una veglia intervallata solo da una sbirciata ai taccuini e dalle visite alla libreria in perfetto ordine.
Era stato spettatore della sua vulnerabilità, della sua incoscienza. Aveva letto un profondo dolore nella fronte aggrottata, e il terrore nel respiro affaticato durante le notti trascorse a tenerlo al sicuro, avvolto nell’abbraccio di No Longer Human.
Anche Dazai si era ritrovato preda di una paura melliflua. Grattando nel suo cuore, quel mostriciattolo aveva iniziato a mordere e a gustare lentamente ogni suo pensiero, infarcendolo con intenzioni deviate.
Avrebbe potuto allungare una mano, una soltanto, stringerla attorno alla gola fredda e spoglia di Kunikida, mettendo fine ad ogni loro sofferenza…
Sfiorò la carne morbida per un solo istante, un tocco elettrico che scosse il suo corpo al battito del cuore dell’altro contro la carotide; quindi ritrasse le dita, ricadendo di colpo nella poltrona, il libro ora rovesciato al suolo.
Era un grosso tomo di matematica avanzata, sulla dinamica e la trasmissione del calore, ed era stato nascosto in un angolo polveroso della libreria: gli ci erano voluti dieci minuti buoni per tirarlo fuori, e non aveva provato a desistere per una pura questione di principio. Lo divertiva il modo in cui il compagno aveva quasi desiderato trovare un modo per dimenticarsene, ma non disfarsene, come se fosse comunque importante e irrinunciabile.
Allora, lo aveva letto lentamente e con non poche difficoltà. Era arrivato quasi a metà, al punto in cui le pagine si erano arricciate, bagnate da quello che aveva ovviamente riconosciuto come sangue.
Interessante.
Nonostante la polvere, il volume non appariva eccessivamente vecchio e una rapida occhiata alla data di pubblicazione gli confermò che risaliva a qualche anno prima che Kunikida entrasse nell’agenzia.
Sapeva che il giovane era stato un insegnante di matematica, e con altrettanta sicurezza poteva confermare che di certo la termodinamica avanzata non rientrava nei programmi di nessuna scuola elementare del globo. Di conseguenza, suppose che Kunikida stesse probabilmente proseguendo negli studi, all’epoca.
Poi era accaduto qualcosa.
D’istinto, aveva fatto uno scatto verso i taccuini impilati sulla scrivania, alla ricerca di quello datato circa allo stesso periodo del libro… e allora si era fermato, incastrato in un’improvvisa epifania.  
Il passato di Kunikida non lo riguardava. Il suo presente gli apparteneva, probabilmente. Non era tanto certo del suo futuro, ovvio… ma il passato era un cadavere in putrefazione cui porgere il rispetto dovuto ai morti, un fantasma singhiozzante da ignorare.
Sorridendo, aveva quindi rinunciato alla marachella, tornando al libro con rinnovato interesse, accarezzando le pagine intrise di rosso, quasi riavvertendole umide, richiamando immediatamente alla mente l’odore penetrante e metallico del sangue.
Schioccò la lingua contro il palato.
Tornava al suo peccato, a quel fallimento perpetuo dell’esistenza: vivere ed avere riguardo per le più insignificanti banalità umane.
“Ed è solo colpa tua.”
Le sue parole si persero nel vuoto, rivolte a nessuno in particolare, anche perché quel nessuno direttamente interessato non avrebbe potuto udirlo o rispondergli in alcun caso. Eppure, avvertì il fremito di un sorriso, un fioco sbuffo esasperato alla sua destra, e si coprì il viso con una mano. Doveva destarsi da quell’illusione sospesa in un baratro di vuota attesa: non ci sarebbero state parole ad accompagnare il ricordo della sua risata roca congelata nel tempo.
Spostò ancora lo sguardo sulla figura di Kunikida, i raggi del sole a disegnare ombre buffe sul profilo immobile. L’altro giovane detective aveva un corpo forte, definito dalle arti marziali e ben nascosto dagli abiti che indossava per il lavoro, ma manteneva comunque un’apparenza di elegante fragilità. Era un involucro umano facile da eliminare; ed avrebbe potuto affogarlo nel sangue e nell’odore di polvere da sparo, cancellandolo proprio come i due occhi azzurri e spenti che infestavano gli antri oscuri del suo cammino.
Un monito.
Continua a vivere, tutto passa.
 
Kunikida stava cadendo.
Galleggiava in una nebbia cobalto, e nel suo ultimo ricordo abbracciava il cadavere a brandelli di un bambino che aveva tentato di salvare da un fucile a pompa: non era rimasto granché, li avevano trattati tutti come maiali da mandare al macello.
Sapeva di aver gridato a lungo e disperatamente: la gola gli bruciava e non riusciva più ad emettere un singolo suono, incapace persino di chiedere aiuto a quel denso nulla, mentre l’atmosfera lo avvolgeva in stringhe blu.
Cos’è un ideale?
Cos’era un ideale?
Forse, prima di quel momento non avrebbe saputo dare una risposta precisa. Di certo, si sarebbe perso nella contestualizzazione del concetto, analizzandone le effimere proprietà: cultura dell’individuo, sfondo storico e sociale, pensiero politico… Un quadro complesso, troppo generale, abbondante d’informazioni superflue in grado solo di distrarlo dalla definizione che si celava in piena vista, proprio di fronte ai suoi occhi persi in un blu asfissiante.
Dominare il futuro.
Comunque, era infine arrivato alla conclusione che rappresentasse la delimitazione di un percorso costruito adattandosi ai desideri e alle inclinazioni degli uomini, da inserire nel disegno più vasto e armonioso dell’esistenza.
Kunikida aveva anche compreso che incamminarsi lungo un sentiero lastricato di ideali avrebbe significato fare ciò che era necessario e finire quanto iniziato a qualunque costo, pur di impedire che una scia di cadaveri infestasse ogni suo ricordo.
Dunque, con un ideale aveva il pieno controllo; e forse, un giorno, avrebbe potuto smettere di lavare quotidianamente via il sangue e le interiora di quei bambini dai propri abiti.
Allora, per un istante, avvertì il tocco di lunghe dita stringersi attorno alla sua gola e premere sul pomo d’Adamo, mentre un paio di occhi freddi incorniciati da un velo blu esplodevano di disprezzo e di disgusto.
“Questo mondo è incompleto. Se non esiste una giustizia degna di definirsi tale, se non sei degno di professarla, allora qual è lo scopo della tua vita?”
 
Dazai si era spostato sul bordo del letto del compagno, disfacendo lentamente le medicazioni alla ferita. Mantenere No Longer Human attivo per tutto quel tempo era sfiancante, ma studiando il lungo taglio, riuscì finalmente ad intravedere poco sotto la cute il bubone del seme che iniziava a premere contro i tessuti, alla ricerca di una via di fuga.
Osservò, allora, la pelle chiara macchiata dallo sfregio, e lo sfiorò con un'attenzione all'apparenza inspiegabilmente dolce, che gli strappò un sorriso.
Dazai non era mai stato davvero estraneo a quel genere di sentimentali piccolezze, per quanto le avesse a lungo riposte in un angolo nascosto dell'arido cuore che possedeva. Aveva condannato e visto morire innumerevoli esseri nel corso della sua breve esistenza, eppure c'era sempre stato qualcuno (quel qualcuno) a tendergli una mano e a passarla fra i suoi capelli impastati di sangue o sul corpo livido di colpi.
In un ricordo tenuto ben lontano dalla fragile sfera della coscienza, Dazai riavvertiva il calore di Oda, la presa forte dell'altro e l'odore di fumo che si imprimeva sulla pelle restando poi sospeso, acre e tossico, fra le loro labbra vicine. Era un marchio, un sigillo con il quale dichiarava di aver riposto ciò che di utile restava della propria esistenza nelle mani forti di Sakunosuke. Si piegava al suono della sua voce profonda, arrochita dal troppo catrame e dall'alcol, e si lasciava cullare in quell'abbraccio stretto che sapeva di vita: lo sentiva sulla punta della lingua, gli solleticava il palato e lo appagava come un orgasmo.
Alle volte Dazai rideva. Adagiandosi contro il torace del compagno, si passava una mano sul viso, preda di una risata che celava il suo singhiozzare infantile – aveva meno di vent'anni, ed era poco più che adolescente.
"Se un giorno tu dovessi sparire, poi sarà soltanto la morte a restarmi per davvero." Lo aveva bisbigliato giocando con le dita callose del più grande, portandole quindi alle labbra gonfie e spaccate, sfiorandole in un bacio macchiato di sangue; ed aveva fatto lo stesso quando, tremante, avvolto nel dolore lacerante che gli stava riducendo l'anima in pezzi, si era stretto proprio quella mano, gelida quanto la morte, contro un cuore ancora ingiustamente pulsante di vita.
Né felicità o tristezza.
Tutto passa.
Solo il vuoto.
"Voglio morire. Voglio morire più di qualsiasi altra cosa al mondo."
Tutto passa.
 
Kunikida somigliava dannatamente ad Oda.
C'era qualcosa nelle iridi del partner, una determinazione così assoluta da tingere la sua espressione di una sfumatura quasi primitiva; e, sì, lo eccitava, poiché rivelava caratteristiche insospettabili di quel rigido atteggiamento, una passionalità sorprendente in grado di stordirlo più di una droga. Alle volte lo comprendeva dal modo in cui Kunikida inclinava il viso o nell'esitazione che lo coglieva prima di afferrargli il polso. Poi il giovane cercava i suoi occhi, e lo sguardo chiaro gli si illuminava in una fantasmagoria di reazioni che Dazai riusciva a leggere come se fossero impresse su carta.
Nero su bianco, una storia da mozzare il fiato.
Riteneva, inoltre, che i capelli lunghi del compagno fossero una traccia visibile di quell'animo irrequieto, una peculiarità che rendeva più fisico e palpabile il suo inconsapevole fascino selvaggio.
Quando li scioglieva, Dazai adorava sfiorarli, lasciarli scorrere fra le dita per memorizzarne la consistenza, l'odore privo di sostanze velenose come l'alcol o il fumo; e a quelle considerazioni rideva, attirandolo a sé.
Kunikida era perfetto.
Non correva più il rischio che sul suo corpo restassero tracce tangibili della presenza dell’altro giovane, poiché l'odore di Oda, di quella stupida colonia scadente, della nicotina e del suo liquore preferito erano incubi più che sufficienti; e non aveva bisogno di nessun altro tormento.
Tutto passa.

Infine, quando No Longer Human riuscì ad estrapolare il seme di Les Fleurs du Mal (così il criminale aveva chiamato quell’abilità) impiantato in Kunikida, Dazai tirò un profondo sospiro di sollievo, osservando il germoglio sospeso sul compagno disintegrarsi lentamente. Allora, con un gemito, ritirò il proprio potere e, cercando di reprimere la fatica e di mettere nuovamente a fuoco la stanza, prese a respirare piano. Quindi, affondando le mani nel materasso ai lati del corpo di Kunikida, si allungò appena verso il viso del detective e sorrise notando che, sfiorandogli le labbra secche con due dita, quegli occhi luminosi erano tornati ad aprirsi su un mondo troppo grigio.
“Che peccato, ed io che contavo di risvegliare la Bella Addormentata con il bacio del vero amore.” Lo provocò in un sussurro, rilassandosi alla sensazione del suo respiro sottile contro la pelle.
In un primo momento Kunikida apparve disorientato e Dazai si costrinse ad allontanarsi dal suo volto, prima che il giovane sollevasse delicatamente una mano; e a quel gesto Osamu attese trepidante il suo tocco. Poi si diede dello sciocco a provare tanto desiderio verso un misero contatto.
Faceva quasi male: la smania di riavvertirlo, di assicurarsi che tutto fosse rimasto immutato crepitava nel suo torace e gli stringeva la gola fino a bruciare, però Kunkida non smetteva mai di sorprenderlo, e Dazai non trattenne un mezzo ghigno quando le dita dell’altro, dita lunghe ed affusolate come quelle di un musicista, si posarono a poca distanza dalla sua mano inerme.
Gli occhi chiari del detective appena sveglio vagarono dal viso del collega all’orologio nella stanza, e una ruga di stanca esasperazione si disegnò fra le sopracciglia aggrottate.
“Non… dovresti essere… a fare l’idiota altrove?”
Era affaticato, vergognosamente debole, ma sapeva che non era necessario nascondere quella forma di umanità a Dazai: nonostante tutto, Kunikida si fidava di lui; e per quanto l’altro non facesse particolare caso alla propria vita, Doppo odiava la cura ben celata che metteva nel custodire quella degli altri. 
 
“La mia vita è pubblico ludibrio. Una sequela di umiliazioni schiaccianti intervallate dal puro vuoto. Non sento nulla, Kunikida. Non riesco neanche ad immaginare come possa essere vivere come un essere umano. Esisto in attesa della morte, non sono che un cadavere ambulante.”
Glie lo aveva bisbigliato un giorno all’orecchio mentre erano a letto, spossati dopo l’ennesimo inseguimento ad un folle maniaco omicida. I due detective erano semplicemente crollati l’uno di fianco all’altro, ritrovandosi nudi e stretti in un bisogno incolmabile senza che se ne fossero resi davvero conto, persi nella disperata frenesia di cancellare, almeno per qualche ora, la violenza che abbracciava i loro corpi.
“Anche ammettendo che sia così, Dazai, la tua morte peserà su chi resta.” Kunikida aveva pronunciato quelle parole con lentezza, incerto sulla reazione che avrebbero scatenato, tentando di calibrare la preoccupazione che tinse la sua voce prima ancora che potesse esserne consapevole.
Non voleva portare con sé anche il sangue di Dazai.
Non lo avrebbe sopportato.
Tuttavia, l’altro rise gioviale, voltandosi a guardarlo dritto negli occhi.
“E chi resterebbe per me? Tu, Kunikida?” Si sistemò su di un fianco per osservarlo meglio, studiando il labirinto di luci nelle sue iridi vigili e stanche, per poi prendere una ciocca dei capelli lunghi, osservandola brillare in contrasto con i raggi del sole.
“È un pensiero molto dolce, ma egoistico tanto quanto la mia inclinazione al suicidio.” Gli aveva detto infine, respirando contro le sue labbra senza concedergli la grazia di un bacio.
 
“Mmh, no. Direi di aver tempo fino alle quattro, almeno.”
Doppo si ridestò dal ricordo alla risposta del collega, e chiuse nuovamente gli occhi, intrappolato contro il cuscino.
“Ci sei ancora..?”
La risposta arrivò in una presa attorno alla mano di Dazai, una stretta più tremante di quanto il giovane si sarebbe mai aspettato; e disprezzava il modo in cui quella debolezza gli ricordava quanto effimera fosse l’esistenza dell’altro.
Inaccettabile.
“Sì, ma tu sei debole.”
“Da che pulpito…”
“Hai la mano fredda, il tuo battito è più rapido e stai tentando di mascherare l’affanno.” Iniziò ad elencare piano Kunikida, guardando lui e poi l’ambiente in cui evidentemente gli aveva tenuto compagnia per tutta la durata del suo stato di incoscienza. C’erano i suoi libri e i suoi taccuini sparsi in giro fra bottiglie di plastica vuote e ciò che restava di diversi pasti d’asporto.
“Le labbra e la pelle sono secche, nonostante tu abbia bevuto parecchia acqua in questi giorni ed hai una gamba particolarmente rigida, forse a causa dei crampi muscolari.”
Dazai lo ascoltava in silenzio, frastornato a quella scarica di osservazioni inaspettate; e stava per elaborare e dire qualcosa di particolarmente sarcastico, prima che una carezza di Kunikida, stavolta sul suo viso, lo spiazzasse del tutto, inducendolo ad un silenzio strozzato.
“Ed hai gli occhi incavati.” Aggiunse, la mano ferma sul volto del compagno in una risolutezza tinta di imbarazzo. Tenero, pensò Dazai.
“Non ho le capacità di Ranpo, ma sono comunque un detective. So riconoscere i sintomi da disidratazione, o quelli causati da un uso prolungato delle nostre abilità.” Concluse, e a quel punto fece per ritrarre la carezza, ma Dazai lo trattenne.
Sorrise lievemente, mentre posava le labbra a baciargli il palmo aperto e gelido.
“Eccezionale.”
“Tu lo avresti compreso più in fretta di me.” Kunikida si limitò a ribattere amareggiato, senza più sottrarsi alle attenzioni di Osamu; e, allora, chiuse gli occhi, attraversato dal calore del partner, che sembrò espandersi in ogni sporco antro della sua anima, cancellando gli orrori dei suoi sogni e tornando a restituirgli l’aspetto di un essere umano.
“Grazie.” Soffiò infine, quando i loro occhi tornarono ad incrociarsi nel silenzio rotto dal rombo di un tuono in lontananza. Il sole era completamente scomparso oltre le nuvole, ed ora la stanza era immersa nel buio del temporale.
“Tu avresti fatto di meglio.” Gli rispose divertito Dazai, mimando lo stesso tono che il compagno aveva utilizzato poco prima.
Allora risero, e lo fecero con una leggerezza d’animo che apparve stonata, di fronte alle loro misere condizioni.
Però in quel momento non importava.
Resta, e fingerò di non aver visto che hai letto un mio vecchio libro dell’università o le mie annotazioni.” Sospirò, osservando gli occhi scuri del giovane brillare di una malizia quasi fanciullesca.
C’era così tanta vita nelle sue espressioni.
“Mmh, ma sì. Potrei farlo in attesa che passi il temporale, perché no?” Dazai accettò con fare ragionevole, spostandosi per sistemarsi alla sua altezza; e Kunikida gli fece spazio scuotendo piano la testa, prostrato.
“Poi vedi di rimettere tutto in ordine.” Brontolò soltanto, mentre le prime gocce di pioggia iniziavano a infrangersi e a ticchettare contro gli edifici della città.
“Cercherò di fare del mio meglio, croce sul cuore.”
Osamu lo mormorò in un ghigno, adagiandosi contro Kunikida, il viso solleticato dai capelli sciolti e l’odore di disinfettante più forte contro le narici. Eppure, ritenne che andasse più che bene in quel modo, poiché il vuoto nella sua anima vibrò a quel contatto irragionevolmente dolce, spingendolo a rimandare di un altro giorno ancora l’appuntamento con la morte, permettendo a Kunikida di imprimersi un po’ più a fondo sul suo corpo e di lasciare lì l’alone della sua peritura presenza.
Tutto passa.
No.
Era solo l’ennesima, enorme e maledetta bugia della vita.
 
 
Fine
 
Note
Dunque, ammetto di non essere contentissima di quanto scritto, ma poiché non lo ritenevo neanche da pattumiera, mi sono decisa a concludere e a pubblicare questa piccola storia.
Spero che nonostante tutto possa essere stata una lettura gradita! Grazie davvero per essere arrivati fin qui!
Vorrei inoltre aggiungere che questa one-shot, originariamente, era destinata a partecipare ad un piccolo contest indetto da un’amica, ma siccome la mia ispirazione è una ritardataria cronica ed io la peggior critica di me stessa, ho preferito lasciar perdere, e comunque tenere il prezioso prompt che mi ha permesso di tornare a scrivere!
Quindi, un enorme grazie a Nena ~ e a questo scambio di battute:
9) “Don't you have to be stupid somewhere else?”
“Not until four.”
 
Iria

 
 
 
 
   
 
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