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Autore: pandamito    08/07/2017    0 recensioni
Mentre da una parte nel mondo Andrea e Giuliano incontrarono Licia per caso, in un’altra parte sempre molto super random qualcuno mi chiese mi raccontare una storia. Sinceramente non ne avevo proprio voglia, però sapete com’è, non avevo niente di meglio da fare mentre il torrent finiva di scaricarsi e poi ho realizzato: quello era il mio momento. Il Destino, il Fato, un cavallo, qualcosa di mistico e onnipresente che governava le forze dell’universo mi stava dando l’opportunità che avevo sempre aspettato per risplendere ancor di più, per infangare ancora il nome di qualche persona e bearmi delle loro sventure.
E così una testolina riccia e nera trotterellava tranquilla per strada, intento nel tornare a casa da-
No, aspettate, non è così che inizia la storia.
Torniamo indietro. Rewind.

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Basically: gente molto random e scapestrata abita in un condominio dove succede di tutto e di più e fanno cose.
Ovvero chiamata "la storia che nessuno aveva bisogno che io scrivessi".
Genere: Commedia, Demenziale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash, FemSlash, Crack Pairing
Note: Nonsense | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Threesome
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Il lunedì è un giorno tragico. Sempre. Indipendentemente da cosa succede, lo è e basta, punto.
Vedete, il Creatore-della-settimana era una persona molto ma molto sadica e, quando decise di realizzare la sua opera, ci pensò molto bene.
Il lunedì è tragico perché è l’inizio di tutto: il lavoro o la scuola, la settimana di merda che verrà a seguire... insomma, è richiesto a tutti di essere attivi quando invece ci si deve ancora riprendere dal coma del giorno precedente.
Il martedì stessa storia, solo più lieve, non ci si abitua ancora alla routine ed è sempre un colpo al cuore quando si pensa a quanto rimanga prima del weekend.
Il mercoledì sta in mezzo, un po’ come il cazzo, quindi sinceramente ci interessa poco.
Il giovedì va un po’ meglio, anche se il giovedì, non so voi, ma ho notato che succede sempre qualcosa di brutto. Però il giovedì si pensa positivo, è quasi finita la settimana, quindi fare uno sforzo in più costa di meno.
Il venerdì è felicità, felicità pura. I più fortunati possono dire addio al loro lavoro e trascorrere la sera come preferiscono; i meno fortunati hanno ancora il sabato che li aspetta, ma lo affrontano con più positività.
Il sabato è il giorno in cui una volta a casa non si vuole sapere più niente, nessuno esiste più per nessuno, esiste solo l’egoismo di voler passare il resto del giorno come più si desidera.
Ma, se il venerdì è la gioia per il sabato e il sabato la gioia per la domenica, la domenica è la tristezza. Se il sabato non si vuole ricordare che la domenica aspetta le persone in lutto, quando arriva il fatidico giorno tutti sono costretti ad affrontare la realtà e a doversi preparare per il traumatico lunedì.
 
Così anche quel lunedì era un lunedì™.
Questa frase ha poco senso ma è vera.
 
Come sappiamo, al numero dodici del quarto piano di quello che oramai era nominato da tutti come Il Condominio™ (in questa storia ci sono un bel po’ di ™), viveva una famiglia che avrei voluto davvero tanto non incrociare mai nella mia vita. Come tutti i lunedì, Wade Orwell, il primogenito, finiva di prendere il suo caffè nero, aspettando i fratelli per uscire e salire in macchina, pronto per un’altra giornata di lavoro. Con lui vi erano Philip Orwell, il quintogenito, che quella mattina aveva lezione, e Theodore Orwell, il sesto e ultimo – per fortuna – della famiglia, che invece cominciava un’altra settimana di merda al liceo, tipica degli adolescenti.
Anthony Orwell era ancora a casa col gesso, Alexandre aveva portato il caffè per tutti quella mattina ed era pronto anche lui per il lavoro, a momenti. Di Peggy e Robin, invece, nessuna traccia, ma non era una novità.
Un’altra cosa che sappiamo, però, è chi viveva vicino a loro. No, non l’appartamento di sinistra, bensì quello di destra, il numero undici. Mentre gli Orwell mattinieri si apprestavano a scendere dalle scale, una figura li spiava dalla spioncino della porta. Capelli rossi, toga di seconda mano… dovresti essere un Weas- no, no, stiamo parlando di Ernest Stages.
Ernest Stages in qualche modo – e non siamo ancora riusciti a trovare una spiegazione scientifica a questo fenomeno – riusciva sempre ad essere presente quando qualcosa accadeva.
 
Ma facciamo un passo indietro. Chi o cosa era Ernest Stages e, soprattutto, com’era finito a vivere nel Condominio™?
Sebbene il suo carattere burbero e il suo disgusto verso l’umanità, quella di Ernest era stata una scelta; a differenza di molti che erano obbligati a stare lì dentro di malavoglia, Ernest comunque odiava lo stesso tutti gli altri abitanti del palazzo, però sì, aveva scelto lui di abitarci.
Vedete, nonostante Ernest non fosse di brutto aspetto, anzi, poteva apparire come un uomo affascinante – se fosse rimasto fermo senza guardare o rivolgere la parola a nessuno – dovete comunque sapere che aveva abbastanza anni a quel tempo da poter entrare nella crisi di mezza età.
Tutto risale ai favolosi anni Novanta. In quel periodo di pantaloni a zampa di elefante, choker, salopette e punk-rock, il nostro caro Ernest stava frequentando il college.
Era un giovane asciutto, ma dobbiamo ammettere che l’età gli ha giovato davvero, perché ovviamente in quegli anni da studente era un pel di carota a cui i capelli corti si arricciavano sempre, le sue camicie erano orribili e i jeans altrettanto.
La cosa più strana di quegli anni, però, era che Ernest era quasi felice. Scontroso, sempre, ma quasi felice.
In quegli anni ormai lontani, Ernest aveva preso appartamento proprio in quel buco di fogn- ehm, palazzo. No, chi se ne frega della censura, era proprio un buco di fogna che, vi giuro, neanche i topi ci ho mai visto. Una volta forse ne vidi uno di passaggio e mi disse: «No, amico, io faccio le valigie, qui non ci sto neanche per le zoccole gratis.» Da allora forse solo qualche procione in giro, una mucca, un agnellino, una tartaruga, un pulcino, molti gatti, troppi cani, qualche animale non ben identificato, ma vi giuro che quel condominio non poteva avere la reputazione di topaia. Al massimo di fattoria.
Ma comunque, tornando al nostro discorso inutile per allungare questo capitolo, dicevamo che Ernest si era trasferito lì poco tempo dopo che gli attuali proprietari… beh, non posso proprio dire che acquistarono il palazzo perché decisamente non fu quello ciò che accadde, ma possiamo dire che in qualche modo passò a loro. Un tempo non faceva neanche così schifo… cioè, oddio, forse meglio se non esagero ora, ma prima vi erano solo uffici. Che poi in realtà quasi tutti gli uffici nascondessero un giro di mafia e droga era un altro contro. Ma, ehi, erano pur sempre uffici! Quasi rispettabili, a dirla tutta. Come mai i successivi proprietari decisero di smantellare tutto e affittare i monolocali? Potremmo dire per ripicca, ma questa sarà una storia che vi racconterò un altro giorno.
Per il momento concentriamoci su Ernest, che a questo punto potremmo considerare come un membro onorario di quel palazzo visto che, se contiamo dalla prima volta che si trasferì lì, è quello che vi ha vissuto più a lungo.
Ma cosa successe alla sua quasi felicità?
Julie Daniels.
Si era semplicemente fatto fottere. E rimane il suo più grande tormento, pensare di aver agito proprio come tutti: un uomo con il cazzo.
La verità? Ernest non ci aveva mai dato tanto peso a questo genere di cose: relazioni, rapporti… robaccia. Non faceva per lui. Ma poi un giorno, in un festino del college a cui aveva accettato di essere trascinato solo per poter rubare una bottiglia d’alcol a cui attaccarsi, ecco che conobbe Julie Daniels.
Cosa fece interessare Ernest a lei? Probabilmente il fatto che vi era solo un divano libero su cui nessuno stesse pomiciando, lei era riluttante quanto lui a volerlo condividere, non lo degnò di uno sguardo, cercò di rubargli l’alcol e passò tutta la serata a insultare chiunque capitasse nel suo campo percettivo.
Ecco che a ventisei anni, non si sa come, Ernest si era sposato, Julie aveva sfornato una figlia e, veloce come era successo, ecco che stavano già divorziando ed Ernest aveva capito troppo tardi che Julie l’aveva incastrato solo per avere i soldi degli alimenti della bambina. Ernest si malediva ogni giorno per questo suo errore ma, in effetti, si era probabilmente innamorato almeno un po’ di quella donna proprio perché era il genere di stronza da poter fare una cosa del genere; non doveva sorprendersi.
La bambina, a proposito: Ophelia. Aveva qualcosa come diciassette anni, ma Ernest riceveva messaggi da lei come un orologio svizzero quando si trattava di una cosa:
 
 
Eppure, in qualche strana maniera inspiegabile, Ernest non poteva fare a meno di volerle un minimo di bene. Ci aveva provato a smettere, eh! Ma nei suoi confronti, sebbene fosse consapevole che la ragazza avesse preso dai genitori i loro peggiori difetti, proprio non ci riusciva. Forse era stato avvolto da quella strana condizione che talvolta affligge gli uomini e che viene chiamata col nome di paternità e per cui non si è ancora scoperta una cura.
 
Ernest, una volta pronto, prese la sua valigetta contenente alcuni fascicoli ordinatamente archiviati, uscì di casa, facendo roteare le chiavi della macchina tra le dita, e scese le scale al piano inferiore. Si fermò all’appartamento di destra del terzo piano, il numero dieci; suonò il campanello e aspettò.
 
Al suono del campanello, Jacob Sullivan rimase congelato sul posto. Il monolocale di Jacob era grande esattamente come tutti gli altri nella palazzina, ma, a differenza di qualsiasi altro appartamento, il suo poteva far invidia a una stanza di ospedale in quanto a depressione. C’erano pochissimi mobili, tre quarti di quella stanza erano praticamente vuoti, non vi era nessun oggetto fuori posto ed era tutto – tutto – ricoperto di plastica.
Jacob, di prima mattina, stava facendo l’inventario del suo armadietto dei farmaci, ovvero la cosa di cui andava più fiero al mondo: in quell’armadietto c’erano qualcosa come cinquanta farmaci e più, tutti ordinati e catalogati. Purtroppo a volte accadeva che dei farmaci sparissero misteriosamente e così c’erano due cose che Jacob aveva imparato a fare: fare l’inventario più volte possibile per tenere il conto di ciò che c’era o non c’era e chiudere ogni volta l’armadietto con un catenaccio.
Serviva? No. Ma almeno lo rassicurava un po’.
Così, quando il campanello suonò, Jacob era a metà del suo inventario, ma il rumore squillante lo prese così all’improvviso da fargli dimenticare a che punto fosse arrivato. Gli si gelò il sangue come uno scoiattolo in allerta, ma andò davvero nel panico nell’esatto secondo in cui si accorse di dover ricominciare l’inventario da capo e che contemporaneamente qualcuno lo stava aspettando alla porta. Il pensiero dell’inventario gli impediva di concentrarsi per pensare a chi potesse essere a quell’ora.
Il campanello suonò ancora, prolungato, più forte e impaziente. Quello dall’altra parte doveva essere arrabbiato e ciò spaventò Jacob. Non era la padrona del condominio, no? Era quasi certo che non fosse ancora arrivato il giorno dell’affitto, ma la possibilità che la vecchia donna stesse dall’altra parte della sua porta bastò a fargli accelerare il respiro.
Dopodiché, il campanello iniziò a suonare il motivetto di Seven Nation Army e alcune scatole di farmaci caddero dalle mensole, finendo addirittura in testa al nostro povero malcapitato. Jacob lanciò un urlo, colto di sorpresa, ma, sebbene il suo primo impulso fosse quello di raccogliere tutto, la paura di far attendere ancor di più il suo futuro ospite prese il sopravvento.
Disdetta – la sua gatta nera di cui un giorno parleremo meglio – ne approfittò, veloce, per prendere in bocca una scatola di farmaci caduta e correre via. Jacob tentò di urlarle contro, ma non sapeva bene cosa gridare nel panico, e la gatta fuggì nel bagno.
Jacob corse ad aprire la porta, quasi inciampando un paio di volte nei suoi stessi piedi.
Quando finalmente spalancò la porta, Ernest Stages gli si presentò davanti.
L’espressione che comparve sul volto di Jacob immediatamente dopo è paragonabile a quella di Kit Harington quando interpreta Jon Snow: l’espressione di quando la vita ti vuole male e non sai più cosa farne di te stesso.
Ma, invece di qualsiasi insulto di quotidiana amministrazione, Ernest disse: «Jerry, vuoi un passaggio?»
Ormai, da un annetto e poco più, cioè da quando aveva trovato un buon posto in obitorio e aveva avuto la malsana idea di trasferirsi in quel condominio, Jacob doveva sopportare l’esistenza di Ernest Stages nella sua vita. Ernest era il suo… “collega”, ma in realtà il rosso era così terribilmente geloso dei suoi spazi che proibiva a Jacob addirittura di avvicinarsi a certi oggetti dell’ambulatorio e lo trattava praticamente come un infermiere, bacchettandolo a destra e manca e mai una volta azzeccando il suo nome. Il fatto che si fosse rivelato un inquilino nel suo stesso palazzo fu, davvero, un caso dell’immensa sfortuna che perseguitava Jacob, perché era molto difficile stabilire se Ernest fosse peggio a lavoro o a casa.
Ernest trovava Jacob terribilmente semplice come persona, una che poteva facilmente passare inosservata, coi suoi corti capelli scuri e gli occhi castani, non aveva nulla di particolare, nemmeno il suo corpo rachitico, nemmeno la sua faccia da cane bastonato; si capiva benissimo che Jacob era la classica persona che odiava andare in palestra, ma Ernest poteva scommettere il culo di Barack Obama che l’altro calcolasse ogni caloria pronta a ingerire nel corpo pur di non andarci e allo stesso tempo non farsi venire ulteriori ansie sulla sua salute.
Ernest trovava la cosa piuttosto noiosa e inutile.
John qui – o qualunque fosse il suo nome – era ancora peggio, ora che le sue pupille si erano dilatate e somigliava a Bambi o qualche altro animale Disney, mentre lo fissava sgomento.
«Davvero?» domandò l’interpellato, la voce debole per l’incredulità.
Ernest grugnì e, di scatto, lo schiaffeggiò sulla fronte, facendo gridare l’altro per l’improvviso impatto.
«Certo che no, Jason. Se ti prendi un anno di malattia mi fai un favore.» Detto ciò, Ernest proseguì a scendere velocemente le scale.
Il moro si massaggiò la fronte e sospirò sonoramente, richiudendo la porta.
Ovvio che Ernest voleva solo giocargli un altro dei suoi scherzi.
Ricordò che nella fretta aveva lasciato ancora Disdetta dentro il bagno. E con una scatola di chissà quale farmaco! La porta della piccola stanza era ancora chiusa, della gatta nessuna traccia; provò a girare la maniglia ma era chiusa. Maledizione, si era chiusa dentro! Perché sì, quella gatta sapeva chiudere le porte a chiave.
Jacob provò a forzare la maniglia, ma iniziò ad aver paura che potesse staccarsi, frantumarsi in mille pezzi e finire con alcune schegge nel suo occhio. L’aveva visto in un film.
Tamburellò un dito sul suo labbro inferiore, per poi mordersi l’unghia nervosamente.
Cosa fare?
Aveva l’ansia di fare tardi a lavoro, ma non poteva di certo lasciare Disdetta in bagno, senza cibo. E se fosse morta? Rabbrividì al solo pensiero. Era vero che aveva trovato quella gatta per puro caso, si era infiltrata nel suo appartamento e da allora era rimasta lì, non lasciando molta scelta a Jacob se non quella di darle da mangiare, da bere e di prendersene cura.
Sospirò, cercando di non farsi prendere dal panico.
 
Il numero diciassette, scritto coi pennarelli colorati su un foglio attaccato a quello che doveva essere il numero sedici del corrispondente appartamento al quinto piano, lasciava sempre un po’ perplesso Jacob.
Ciononostante, bussò.
Jacob Sullivan non era di certo una persona in cerca di interazioni sociali, anzi; il fatto che lavorasse esclusivamente con gente morta la diceva lunga sul suo conto. Ma aveva dovuto scegliere fra delle priorità nella sua vita e proprio non riusciva ad andarsene con la consapevolezza che sarebbe potuto succedere qualcosa alla sua gatta.
Nessuno rispose.
Doveva forse ribussare? Sarebbe stato scortese? Forse era meglio andarsene, sì, decisamente, era già stata una pessima idea arrivare fin lì.
Voltò i tacchi e si avviò a raggiungere le scale, quando sentì la porta aprirsi.
«Ehi!» lo chiamò una voce maschile.
Jacob si voltò di scatto, come uno scoiattolo colto in flagrante a rubare noccioline. Non è colpa mia se faccio molti paragoni con gli scoiattoli, sono loro ad essere disagiati.
Roy Jones era appoggiato all’uscio della propria porta, i corti ricci scuri arruffati e l’espressione ancora assonnata, ma l’altro poteva sentire gli occhi nocciola osservarlo attraverso le ciglia.
Il panico tornò a insinuarsi dentro di lui. In realtà, non l’aveva mai lasciato.
Aprì e chiuse la bocca qualche volta, non sapendo come formulare una frase decente. Roy corrugò la fronte, cercando di capire cosa stesse succedendo.
«Motogatto» sputò fuori l’altro, mangiandosi le parole. Roy parve ancora più perplesso. «Volevo dire… motosega!» si corresse Jacob, irrigidendosi più di prima.
«Ti serve una motosega?» domandò Roy, provando a dar senso alle parole del maggiore. Quello annuì violentemente.
Roy rimase per qualche istante a fissarlo, un po’ spaventato. Erano rare le volte in cui riusciva a interagire con l’uomo che abitava al numero dieci e la ragione era proprio perché Jacob cercava in ogni modo di evitare di parlare con gli altri del condominio.
Roy non staccò gli occhi di dosso dall’uomo. «Devo aiutarti ad ammazzare qualcuno?»
Jacob trasalì, non riuscendo a capire se il giovane stesse dicendo sul serio o se lo stesse semplicemente prendendo per il culo. Visto chi abitava quella palazzina, non si poteva mai essere sicuri.
Jacob stava trattenendo il respiro e sentiva che sarebbe scoppiato da un momento all’altro, ma in quell’istante proprio non riusciva a ricordare come si respirasse.
«I-i-i-i-i-il m-m-m-mio ga-a-atto-o…» cercò di dire, invano. Poteva percepire di star tremando da capo a piedi e la lingua gli si era come annodata, provocandogli un imbarazzante balbettio. «È… è…. Incastrato. Nel bagno. No-non riesce… a… a uscire.» Una volta finita – finalmente – la frase, Jacob fece un respiro profondo, come toltosi un peso dal petto, tanto che sentì le sue gambe farsi molli.
Lo sguardo di Roy diventò improvvisamente buio e serio e un brivido di paura percorse Jacob, chiedendosi cosa avesse sbagliato.
L’altro si limitò a dire: «Arrivo subito.»
 
Ed è così che Roy Jones finì a tagliare una fessura nella parte bassa della porta del bagno nell’appartamento di Jacob Sullivan, mentre quello restava in piedi poco distante da lui e lo fissava lavorare, nel più completo imbarazzo. Aveva però imparato che Roy teneva tantissimo agli animali, ma a quanto pare era una caratteristica molto popolare in quel palazzo, e non avrebbe mai lasciato un “““amico””” in difficoltà.
Roy finì di ritagliare un rettangolo di fessura nel legno, applicò un po’ di pressione con la mano per farlo staccare dal resto del complesso e lo tirò via, poggiandolo a terra, di fianco a lui. Si abbassò nuovamente, sulle ginocchia, per osservare il bagno dalla fessura.
Si rialzò col busto, un po’ confuso, e si voltò verso Jacob. «Ma qui non c’è nessun gatto.»
L’altro sgranò gli occhi, facendosi prendere dal panico. Si inginocchiò a sua volta ma nella furia sbatté al ginocchio e si morse un labbro dolorosamente per non gridare, cercando di passare inosservato agli occhi degli altri. Osservò anche lui dalla fessura, ma Roy aveva ragione: di Disdetta neanche l’ombra. Invece notò la scatola di farmaci era a terra, vuota, e la finestra del bagno – che ridava sulle scale colleganti tutte le altre finestre – era stata aperta. Dannazione, non aveva minimamente pensato di passare dalle finestre della sala per andare a quella del bagno e aprire la porta!
«Il tuo gatto si è drogato?» alluse Roy, indicando la scatola vuota di farmaci.
Improvvisamente un miagolio fece voltare di scatto entrambi gli uomini. Sopra il frigorifero ecco che era comodamente accoccolata Disdetta, che li guardava dall’alto al basso.
Jacob sospirò, ma ciò che uscì fu più un lamento, chiudendo le palpebre per qualche secondo per riprendersi. Contò mentalmente fino a dieci per non mettersi a piangere dallo stress. Sentì la mano di Roy dargli un paio di pacche sulla spalla.
«Ehi, puoi sempre tenere la fessura per sicurezza, magari per il gatto, non si sa mai» provò a confortarlo il minore. Jacob lo guardò con occhi tristi, ma annuì. «Uhm, ora dovrei proprio andarmi a preparare» continuò, «ma se ti serve qualsiasi altra cosa, chiedi pure quando vuoi, eh. Ci vediamo» lo salutò, alzandosi e uscendo dalla porta.
Probabilmente a lavoro Ernest stava festeggiando il suo ritardo.
 
«E quindi alla fine come hai risolto?» domandò Ira, facendo un tiro dalla propria sigaretta.
Lui e Rafael Perez – che abitava l’appartamento alla sua sinistra – stavano spettegolando nell’atrio tra le loro porte e le scale, come quasi ogni mattina, quando Rafael consegnava il latte.
Il moro era appoggiato al muro, braccia conserte, col suo cane Ernesto seduto ai suoi piedi e, da quanto sembrava, interessato alla conversazione.
«Il fatto è che io dovevo proprio vuotare il serbatoio, ma lei era in mezzo alla strada. Ci credi che l’ho dovuta trattenere fin quando non è rinvenuta?» si lamentò l’altro, sentendosi un po’ in colpa per quello successo alla sua povera vittima. «E niente, ho cercato di ripulirla come meglio potevo mentre era incosciente, ma una volta svegliata si è messa a gridarmi contro. Ma che hanno le donne di questo condominio che ci tengono tanto a menarmi?»
«Forse a loro piace selvaggio» suggerì Ira, ghignando. «E quindi la cara Tempest non regge l’alcol. Era da tanto che volevo vederla divertirsi. Di solito ha sempre un palo ficcato in culo.»
«Ehi, amigo, ad alcune persone piace così.»
«Ah, dillo a me.» Il biondo alzò le sopracciglia, cogliendo al volo la battuta proposta.
All’improvviso dei passi veloci provennero dalle scale, Jacob Sullivan stava correndo giù, in estremo ritardo per il lavoro. Ed ecco che, nella breve curva dell’atrio per andare verso le altre scale, inciampò nei propri piedi, scivolando.
Ira lo prese al volo, aggrappandosi alla maglietta del moro e tirandolo su a sé.
«Caschè!» esclamò, ridacchiando.
Jacob arrossì, imbarazzato, e annuì in senso di ringraziamento, ma poi riprese a correre via, giù per le scale.
«Attento!» gridò Rafael, mentre lui e Ira scuotevano la mano per salutarlo. Il più alto tornò con l’attenzione sul biondo. «Mi fa sempre ridere, è impacciato, ma mi piace.»
«È davvero buono» disse Ira, serio, rigirandosi la sigaretta rimastra tra le dita. «È un po’ ansioso, ma mi ha aiutato spesso. Le ferite dalla palestra possono essere delle brutte bestie, menomale che lui ha sempre qualche rimedio.»
«Peccato non gli piaccia molto stare con gli altri.»
«Già, peccato» concordò l’altro.
«Comunque, sai che fine ha fatto Heather? L’altra sera ad un tratto l’ho persa completamente di vista.»
Ira espirò una nuvola di fumo, tamburellando l’indice della mano libera sul mento, pensieroso. «Ah, sì, l’ho vista andarsene con uno dell’ambulanza. Probabilmente la sua serata è finita meglio della nostra.»
Rafael alzò entrambi i pollici in approvazione, come se Heather potesse percepire in quell’istante che era fiero di lei.
«A proposito» iniziò il cubano, ghignando, «non mi avevi detto che doveva venire tua sorella?»
Ira grugnì, scocciato. «Sì, se tutto va male dovrebbe venire settimana prossima.»
«E se tutto va bene?»
«Se tutto va bene spero non venga mai» confessò il biondo. «Non fraintendermi, eh, voglio bene a mia sorella, solo che è assillante. Se mi sono trasferito è proprio perché voglio stare da solo, mentre so già che lei vorrà farmi tornare a casa o chissà che altra idea si è messa in testa.»
«Ed è gnocca?» domandò Rafael.
Ira roteò gli occhi. «Non il tuo tipo.»
Il moro alzò un sopracciglio. «Non ho un tipo.»
«Allora tu non sei il suo tipo» precisò, sorridendo.
«Questo lo staremo a vedere» disse l’altro, incrociando le braccia al petto.
«Il punto è che questo palazzo non è per niente un luogo dove Jordan potrebbe vivere» continuò Ira, nominando la sorella, «solo che non se ne rende ancora conto. Da quello che ho capito già vuole portare tutte le sue valige. Menomale che il belloccio con cui sta Tony ha detto che ci pensa lui ad aiutarla, perché io proprio non ho intenzione di muovere un dito. Abbiamo fatto questo accordo se accettavo di sostituire Tony al locale» spiegò.
In quel momento la figura pallida e vestita di nero – come al solito – di Robin Orwell comparve dalle scale, intento a salire lentamente fino al suo piano. I tre si salutarono.
«Stavamo giusto parlando di tuo fratello, quand’è che si toglie quel maledetto gesso?» domandò Rafael.
Robin si avvicinò al gruppo, rubando la sigaretta dalle mani di Ira e prendendo un tiro. «Mi sembra in fine settimana. Dalla prossima sarai libero» disse al biondo al suo fianco, dandogli un leggero pugno sulla spalla.
«A me e Becky manca prenderlo a pugni in palestra» confessò Ira, per poi continuare con l’accenno di un ghigno sulle labbra: «Piuttosto, non ti si vede dalla serata, te la sei spassata?»
«Nah, sono tornato stanotte, ma diciamo che ho dormito praticamente zero. Ho quasi litigato con mia sorella, così siamo usciti all’alba, a volte lo facciamo. Volevo portarla a fare colazione così mi perdonava, ma subito dopo mi ha scaricato per un tizio» raccontò, alzando le spalle alla fine. «Me lo meritavo. L’altra sera l’ho praticamente abbandonata in un’ambulanza.» Alle espressioni confuse e preoccupare degli altri due, Robin scosse la mano per non farli preoccupare. «Lunga storia» si limitò a dire.
«Tua sorella è una forza della natura e non credo in una maniera positiva» dovette ammettere Rafael.
«Fidati, lo so da quanto portava il pannolino e gridava come una matta la notte, tenendo tutti svegli.»
«Non è cambiato poi molto» ridacchiò Ira.
Robin si aggiunse alle risa. «Con la differenza che ora, se provo io a svegliarla la notte, come minimo mi ritrovo un machete in testa.»
Rafael sospirò, voltandosi verso Ernesto poco più in là. «Mi tocca andare e finire le consegne. Ci si vede!»
E detto ciò i tre si separarono, ognuno per la propria strada.




 


p a n d a bitch.
Breve aggiornamento della mia vita:
- sono in ritardo con gli esami
- ho l'ansia
- vado in Erasmus in Germania per sei mesi
- ho Lancya
- probabilmente morirò
- Ivola puzza ma già lo sapevate
Ora vi copio-incollo un messaggio:
Ricordo che potete venire in pagina Come una bestemmia. per parlarmi di tutto quello che volete; mentre per qualsiasi altro social network dove potete contattarmi e seguirmi, sono pandamito. Tumblr, twitter, wattpad, pinterest, qualsiasi cosa vi venga in mente, davvero. Tranne weheartit. Non ho weheartit e c'è un tizio che si spaccia per me e non so come segnalarlo, tutto regolare. Potete trovarmi anche nei link dei cuori nel mio profilo, anche se effettivamente dovrei aggiornarlo ma ok.
Questo link invece è per seguire la storia su wattpad.
Eeeee niente, ho cambiato pure profilo del fake dove potete aggiungermi se volete.
Baci e panda, Mito.
   
 
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