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Autore: Ibuki Satsuki    08/07/2017    3 recensioni
Adrien ha un animo complesso ed articolato come un’opera di Mozart. Un Requiem capovolto, un inno alla vita con così tanti strumenti discordanti, da risultare quasi cacofonico, all’orecchio inesperto di chi presti ascolto alla sua esistenza a cuor leggero.
Marinette è una fuga di violino, un’anima bella, uno spirito vivace e dalle forme talmente complesse, da non permettere a nessuno di comprendere la forma del disegno finale della sua interiorità.
In una società dove l'arte sembra essere tanto pericolosa quanto proibita, quelle che per alcuni sono inutili erbacce, per altri si tramutano in meravigliosi fiori.
[musician!Adrien | violinist!Marinette | alternatesociety!AU | human!Plagg | AgedUp!characters]
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Adrien Agreste/Chat Noir, Marinette Dupain-Cheng/Ladybug, Nuovo personaggio, Plagg
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Nota: le parti in corsivo (escluse citazioni), sono tutti flashbacks. Le illustrazioni sono dell'artista Pak JiWoon.
 




















 

«L’uomo è l’essere che non può uscire da sé,
che non conosce gli altri se non in se medesimo, e che,
se dice il contrario, mente».

Marcel Proust, À la Recherche du Temps Perdu


 

 
You roll the window down enough to dream and make-believe
Our lights knocked out, turned upside down
And I'm just a stupid motherfucker
Can't figure it out

(Pierce the Veil - Floral & Fading)



 
 
Cos’è un’immagine? La forma visiva che possono assumere dei concetti? L’insieme di contorni e colori combinati insieme? Una modalità di rappresentare segni o simboli? Magari, la manifestazione grafica di un’idea, un concetto o l’interiorità umana? Probabile. O forse no. La stragrande maggioranza della popolazione non riflette mai su quale sia il vero valore di un’immagine. Eppure, essa è lo strumento principale di cui la società dispone, oltre che la prima caratteristica fisica a saltare all’occhio umano. Alcuni, ne hanno fatto un culto vero e proprio. Sacrificandoci la propria esistenza, sfruttandone la forma per raggiungere uno scopo più alto: la bellezza. Immagine e bellezza sono come due volti della medesima medaglia, spesso è addirittura impossibile scinderli. Eppure, alla fine dei conti, dietro lo sfarzo delle meravigliose tele barocche, dei complessi dipinti cubisti e delle eteree composizioni impressioniste, cosa rimane? Cos’è davvero un’immagine? E che potere ha?
Adrien Agreste era solito porsi domande del genere almeno una volta al giorno, appena le sue iridi riuscissero a posarsi s’una superficie riflettente. Restituendogli il riflesso dei contorni di due occhi dalla tagliente forma felina, forse appena più grandi della media europea. Profondi come una foresta coperta dal manto notturno, privi di stelle e gelidi come le acque immobili di un lago a mezzanotte. Incrociare il suo sguardo procurava generalmente due sensazioni diverse, in chi osasse avventurarsi in una simile impresa. Solitamente, si trattava di un lacerante senso di disagio, che costringeva a distogliere immediatamente gli occhi, fissandoli su qualcosa di meno penetrante e distaccato, neutro. Oppure, quelle due stille di smeraldo liquido risvegliavano un vivido interesse, nell’anima che esse avessero di fronte. Sentimento che spingesse la persona a voler orbitare negli stessi anelli di polvere di stelle che egli sembrava avere intorno al capo, senza rendersene conto.
Adrien era un pianeta solitario, che non si accorgeva nemmeno della presenza dei satelliti attorno ad esso, troppo preso dall’osservare il mondo, per farci caso. La sua immagine l’aveva sempre crucciato, dipingendo un cipiglio insoddisfatto proprio in mezzo alle sue fini sopracciglia ad ali di gabbiano, perennemente nascoste dai ciuffi scomposti della sua frangia disordinata. La cui disciplina variasse a seconda dei suoi stati d’animo. I quali subivano una metamorfosi giornaliera e mensile, riflettendosi l’una sul suo umore e la sua arte, e l’altra sui suoi capelli. Il suo, era un animo complesso ed articolato come un’opera di Mozart. Un Requiem capovolto, un inno alla vita con così tanti strumenti discordanti, da risultare quasi cacofonico, all’orecchio inesperto di chi prestasse ascolto alla sua esistenza a cuor leggero.
Lo spazio fisico che egli occupava, nell’universo, era esimio. Un gracile e minuto corpo dalle fattezze sottili e delicate, alto non più di un metro e settanta. Dall’incarnato eburneo così chiaro, che le vene sui suoi polsi creavano ghirigori articolati come le radici degli alberi, sotto il bianco velo della sua pelle. Affogava il suo fisico in abiti più larghi di quanto avrebbero dovuto essere. L’unico vezzo estetico che si permetteva, era una singolare predilezione per i pantaloni a sigaretta. Rigorosamente neri. Strappati in più punti. Consumati ad arte. Come i tratti del suo volto. Mirabilmente armonici, delicati e così aggraziati, da sembrare quasi efebici; se non fosse stato per quel cipiglio rude nello sguardo, e la mascella squadrata. Adrien Agreste sarebbe potuto benissimo passare per uno dei capolavori di un ignoto ed abilissimo creatore di bambole di porcellana, e trascorrere la sua vita fermo all’interno di una teca, immobile nel tempo. Peccato che i suoi piedi e il proprio cuore lo spingessero sempre a non sostare mai più di un mese nello stesso luogo, avvertendo il bisogno del cambiamento quasi come un’impellenza fisica. La stessa che spingeva alcuni animali a disfarsi periodicamente della propria pelle, ormai vecchia e inservibile.
La sua vita era un sisma continuo. Un perenne stato di oscillazione, a tratti violento, volto a scuotere una per una tutte le ossa tenute insieme all’interno del suo corpo. Proprio come marionette mosse dai fili di una mano sapiente, la quale s’intratteneva facendole danzare al ritmo di una melodia in costante mutamento. Adrien esprimeva la sua precarietà esistenziale attraverso il proprio corpo, secondo le migliaia d’insicurezze che s’inseguivano l’un l’altra allacciandosi come maglie di una catena; trovando una manifestazione fisica e tangibile nei testi che egli stesso scrivesse. Era un artista, un cantautore che parlava in rima, scandendo i tempi e la metrica attraverso le dita del proprio corpo e quelle della musica stessa, i tasti di un pianoforte. Quello strumento era, per lui, un diretto prolungamento della sua stessa essenza. Si sarebbe potuto dire che, con ogni nota, egli respirasse. La musica era ossigeno per i suoi polmoni, usualmente costretti dalla cappa insalubre del millennio dell’indecisione e dei compromessi.
Si esibiva in piccoli locali una volta a settimana, a patto che la location avesse lo spazio necessario ad ospitare almeno una pianola e che disponesse di un discreto piano bar, da supervisionare alla fine di ogni esibizione. Adrien odiava la fama. Non era nato per la popolarità e lo sapeva. Ragion per la quale, avesse sottoscritto un contratto con una casa discografica assolutamente anonima, che gli permettesse di scrivere testi nel modo in cui più gli piacesse, e di organizzarsi gli eventi come meglio credesse. Non aveva pressioni, né restrizioni. Solo qualche mero accorgimento volto a preservare l’immagine pubblica, ma erano per lo più inezie.
Ecco per quale ragione egli fosse seduto in una saletta che somigliava molto ad un ripostiglio delle scope, di giovedì sera, intento ad osservare la sua immagine riflessa in uno specchio consumato in alcuni punti e perfino opaco in altri. Da lì in capo ad una trentina di minuti, avrebbe dovuto esibirsi. Ma si sentiva particolarmente malinconico, quella sera. E le melodie al pianoforte che la sua playlist di Spotify creata ad arte stesse diffondendo nello spazio circostante, non aiutavano a migliorare il suo stato d’animo. Anzi, le azzurre note struggenti sembravano ammaliare i ricordi con il loro suadente aspetto e le sonorità profonde, adescando gli eventi più disparati che si nascondessero nei recessi della sua mente confusa. Un passaggio particolarmente articolato gli proiettò, nella scatola cranica, l’immagine nitida del giorno in cui le sue piccole dita affusolate si erano strette attorno ad una penna, e l’inchiostro aveva sugellato la sua appartenenza all’etichetta sotto la quale producesse tutt’ora. E chiuse gli occhi. Lasciandosi trasportare.


 
 
 

 

Just wanna be alone and watch
Why can't we be alone and watch?

(Pierce the Veil Floral & Fading)
 
 

«Non ho mai visto né sentito niente di simile, amico. Sei diplomato al conservatorio?»
«No. Ho imparato come autodidatta e compongo di getto».
Il giovane fissò il suo sguardo attento sull’esile figuretta che gli stava dinanzi, la quale era intenta a rigirarsi un bicchiere di vodka liscia fra le mani, facendo oscillare il liquido trasparente all’interno delle pareti di vetro. Una serie di movimenti circolari, casuali, volti ad occupare lo spazio lasciato vuoto dalle parole.
Plagg adorava scoprire nuovi talenti. Non era una semplice passione. Ne aveva fatto addirittura una vocazione, consacrandole ogni venerdì sera che Dio mandasse in terra, impiegandolo a saltare da un live pub all’altro. Aggrappandosi con le unghie alle lancette dell’orologio, finché le dita dell’aurora non avessero deciso di dipingere di rosa il cielo. Segno che il tempo a disposizione per la sua estasi mistica fosse esaurito, e che fosse ormai tempo di tornare alla vita di tutti i giorni. Ovvero, alle pratiche burocratiche del suo studio di registrazione, oppure, raramente, alla ludica attività del comporre testi per il suo privato piacere personale, divertendosi ad armeggiare con mixers ed harmonizers, rinchiudendosi in sala registrazioni oltre l’orario di chiusura. Egli era il proprietario di un’etichetta assolutamente indipendente, insieme a suo cugino Felix. I loro artisti erano definiti “gli astri splendenti dell’underground”, nomi che accedevano più di una lampadina nelle menti degli “addetti ai lavori”, ma le cui abilità fossero troppo particolari per poter incontrare gusti popolari. Per fortuna. Plagg impiegava la stessa devozione dei praticanti di culti religiosi, alla causa dell’imbattersi in sonorità talmente singolari da non essere classificabili. Ed ecco spiegata la ragione principale delle sue spedizioni settimanali.
Quella sera in particolare, i suoi piedi l’avevano guidato in un buco sperduto di Montmartre, verso un locale la cui insegna al neon avesse una lettera spenta e altre due sfarfallanti, trasformando la parola “live” in un ammiccante “lie”. Era entrato senza aspettative di alcun tipo, decidendo che, se le sue orecchie non avessero scovato dell’oro entro massimo dieci minuti, se ne sarebbe andato. Non avrebbe mai potuto immaginare che quel ragazzo che gli stava dinanzi, dall’aspetto così dimesso da sembrare anacronistico, si sarebbe seduto ad un banalissimo pianoforte a coda. Per poi cominciare a pigiare le dita sui tasti in maniera così avvincente, da inchiodargli le suole al pavimento e gli occhi al palco. Ascoltando incastri di rime particolarmente complessi e realizzati in un linguaggio talmente elegante, da comunicargli l’immagine di un gentleman vestito in completo elegante. Intento a creare il più grosso e pittoresco dei graffiti, sporcandosi le dita di varie tinte. Quella, era l’immagine che la musica di Adrien Agreste dipingeva, un ossimoro così potente da dare assuefazione. E Plagg non avrebbe potuto lasciarselo scappare, neanche fosse stata la sola ed unica esibizione che avrebbe ascoltato per tutta la serata. Aveva atteso la fine dello spettacolo, registrandone perfino una piccola parte e mandandola a suo cugino via chat. Ottenendo un’immediata risposta che lo esortasse a scritturarlo, al grido di “Mozart dev’essere nostro”. Caso volle che il malinconico pianista avesse la non poi così salutare abitudine di spendere più di quanto fosse necessario al piano bar, dopo essersi gettato in pasto ad un pubblico solitamente molto più silenzioso e selettivo, rispetto agli standard a cui molti artisti erano abituati. E ciò aveva permesso a Plagg di pagargli il primo giro di alcolici, usando la scusa più vecchia del mondo, per attaccare discorso. La musica. Adrien Agreste era un individuo schivo e di poche parole, da come aveva potuto constatare. E non aveva conseguito alcun tipo di studi, per imparare a pestare le proprie falangi in maniera tanto abile su quei tasti. Era tutto frutto del suo genio.
«Per quale ragione ti esibisci? Fama? Soldi?» Aveva tentato il ragazzo, sorbendo un sorso del suo shot di tequila, tenendo d’occhio il quieto pianista. Lo vide stringersi nelle spalle con un movimento casuale. Una virgola all’interno di un discorso. Una minima pausa d’incertezza.
«La musica mi rende libero» rispose l’altro, mantenendo lo sguardo sul bordo del bicchiere. «Mi capita spesso di sentire il peso dell’esistenza sulle spalle. È qualcosa che non dipende né dagli altri, né da me. Succede e basta. Tuttavia, mi sono reso conto che, ogni qualvolta mi sieda dietro al pianoforte e cominci a parlare a ruota libera, la pressione inizia a svanire. Si scioglie tutto, come i cubi di ghiaccio nelle bevande».
«Quindi non c’è alcun fine edonistico, nella tua arte?»
«Non direi. È più un dispensarmi dalla sofferenza del mio stesso secolo. Non sto cercando di essere il prossimo Lang Lang o di dimostrare di avere l’estensione vocale di Sinatra. Non sto nemmeno provando a raccontare una storia, perché sono ancora occupato a cercarne, per poterne produrre di mie. Ho solo bisogno di sradicare queste erbacce che mi crescono dentro».
«Se ti dicessi che non si tratta affatto di erbacce, bensì di bellissimi fiori… cosa mi risponderesti?» Chiese Plagg, di punto in bianco. Adrien sollevò finalmente il suo sguardo dal silenzioso bicchiere incolore, per rivolgerlo al volto del suo interlocutore. Un viso dai lineamenti marcati, decisamente maschili, seppur affascinanti. Con quei capelli biondo grano che ricadevano sul volto in maniera studiata, gli occhi socchiusi nella penombra del locale e le labbra carnose piegate in un mezzo sorriso, sembrava il ritratto di una promessa sconosciuta. La versione più sapiente e matura di se stesso, una proiezione del futuro prodotta da uno slittamento anomalo della linea temporale. Un’opportunità incolta, incisa in inchiostro invisibile sui tratti del giovane, che aveva l’aria di sapere molto più di chiunque altro.
«Che sei pazzo» commentò il pianista, mandando giù un sorso di vodka senza fare una piega, mentre il liquido incendiario si faceva strada dall’esofago allo stomaco, incenerendo la pelle lungo il suo cammino.
«Può darsi» convenne, annuendo. «Però, potrei anche rivelarmi un genio», aggiunse, sorridendo.
Adrien non capiva dove volesse andare a parare. Sulle prime aveva pensato che quello sconosciuto avesse avuto intenzione di proporgli una collaborazione musicale, per il semplice gesto dell’avergli offerto da bere attaccando discorso con “le abilità tecniche di Yiruma”. Ma poi, qualcosa nella postura, nel modo di dialogare e porsi nei suoi confronti, gli aveva lasciato intendere che il suo fine ultimo non fosse quello. Cercava altro. Ma cosa? Possibile che volesse solo parlare?
«Ascolta» riprese quest’ultimo, dopo una breve pausa. «Io sono Plagg Kwami» si presentò, protendendo una mano nella sua direzione. Il pianista l’osservò per qualche istante, processandone la forma grande e nodosa, dalle unghie curate e la pelle priva d’imperfezioni. Poi, gliela strinse, osservandolo guardingo. «Sono il proprietario di un’etichetta discografica indipendente, la Miraculous Records. L’amministro insieme a mio cugino e…»
«La conosco» l’interruppe Adrien, rendendosi conto che quello sconosciuto produceva metà degli artisti presenti nel suo iPod. Era sinceramente colpito da quanto giovane potesse essere. Per riconoscere talenti così eclettici, si sarebbe immaginato quantomeno uno strambo trentacinquenne con i capelli afro e la fissa per gl’indumenti dai colori fluo. Non un ventiquattrenne biondo, dall’aspetto avvenente e i vestiti neri, che si esprimesse con l’accento di Bordeaux e gli venisse a parlare di fiori. Lo vide ridere alla sua affermazione, annuendo.
«Ottimo» convenne Plagg, lasciandogli la mano. «Non ci avrei mai scommesso, ma fa piacere sentirlo», aggiunse. «Voglio scritturarti, Adrien. Trovo che le tue erbacce sarebbero dei meravigliosi fiori nel mio giardino» disse, ed entrambi risero silenziosamente, creando una complicità immediata che il giovane pianista faticava ad instaurare perfino con le persone che conoscesse da tempi immemori.
«Deve proprio piacerti, buttare il tuo tempo» commentò il biondo, facendo nuovamente oscillare la vodka nel proprio bicchiere. Firmare un contratto. Trasformare la sua catarsi in una possibile fonte di guadagno, al di fuori dei lavoretti di fortuna che egli avesse svolto fino a quel momento per pagarsi da vivere. Poteva farlo? Voleva farlo? Ma poi, alla fin fine, che ci sarebbe poi stato, di male? La fama cambiava gl’individui, ma solo quando questi ultimi glielo permettevano. Adrien era così instabile da non sapere nemmeno se lo fosse, un vero e proprio individuo. Come si poteva cambiare forma a qualcosa che non l’aveva, in partenza?
«Io lo chiamo “investire”. Fino ad ora, mi sono sempre trovato bene col mio istinto. Non vedo perché dovrei cominciare a sbagliarmi proprio adesso» rispose l’altro, dandosi un tono. Passarono altri attimi di pregno silenzio, in cui entrambi finirono ad osservare le proprie bevande senza pensare a niente, ascoltando distrattamente il suono della canzone mainstream che proveniva dagli altoparlanti del locale. Una ballata pop con una sovrastruttura ritmata dai bassi rutilanti, studiata di proposito per scavarsi una strada nelle menti di chi l’ascoltasse. C’era arte, in quel brano musicale? C’era anima, in quel freddo studio della disposizione delle note lavorate ad hoc? Plagg iniziò a chiederselo, comparando le proprie produzioni a quelle, domandandosi dove finisse l’inventiva e dove cominciasse il business, per il mondo dell’intrattenimento di massa.
«E sia» disse Adrien, interrompendo il monologo interiore del giovane al suo fianco, il quale gli regalò un’occhiata piacevolmente sorpresa. «Le mie erbacce andrebbero buttate in ogni caso. Se proprio vuoi ricavarci qualcosa di utile e bello, allora… perché no», convenne, un mezzo sorriso ad animargli le dolci labbra color pesca. Il produttore annuì, entusiasta. Gli fece scivolare un biglietto da visita sul bancone. Era semplice, serigrafato in caratteri eleganti ed essenziali, con le informazioni giuste stampate nel retro. Nulla di eccentrico o pretenzioso, proprio come quello che Adrien intuì dovesse essere il suo carattere.
«Ci vediamo domani in studio. Passa quando vuoi, dalle nove di mattina alle otto di sera. Mi troverai lì».

 
 




 

«La nostra personalità sociale è una creazione del pensiero altrui».

ㅡ Marcel ProustÀ la Recherche du Temps Perdu

 

Caught in a phrase, an echo in our minds
A flash, a flood, and it's burned into our eyes

(Hands Like Houses - Developments)

 
 

La sua avventura era cominciata proprio in quel modo. Parlando di fiori. Mai avrebbe immaginato che quel giovane singolare sarebbe diventato uno dei suoi amici più cari, una spalla su cui contare. Ed a qualsiasi ora del giorno e della notte.
Egli non si era aspettato molto da quell’episodio. Non ne era riuscito a convincersi al cento percento che stesse facendo la scelta giusta, nemmeno quando l’inchiostro nero della penna a sfera nello studio di Felix aveva suggellato il patto fra la sua arte e il nome della Miraculous Records. Gli sembrava ancora piuttosto inverosimile che, qualcuno di così importante, avesse trovato interessanti i suoi soliloqui musicali. Oltre ai suoi punti di vista e, soprattutto, le sue incertezze. Perché, alla fin fine, era di quello che parlavano i suoi testi. Di confusione. Di esperienze poco chiare, di confini labili o inesistenti; di possibilità così varie e vaste, da abbracciare due orizzonti opposti. Adrien Agreste era una creatura dalle molte, infinite sfaccettature caratteriali. L’abissale grandezza della sua interiorità gli causava non pochi problemi, a partire dalla sua psiche. Calato in una realtà dove possedere un impiego fisso e una carriera stabile, in una qualsiasi delle professioni “onorevoli” messe a disposizione della contemporaneità, essere un artista non era certo una passeggiata. Tantomeno, avere idee chiare sul futuro. I suoi amici del liceo avevano già tutti chiaro quale percorso intraprendere, mentre lui, alla domanda “cosa farai, uscito di qui?”, si stringeva nelle spalle. Avrebbe voluto solamente rispondere “suonare il pianoforte”, ma chi l’avrebbe più considerato seriamente?
Lui non sapeva cosa gli piacesse davvero fare. Non si conosceva così a fondo. Si giudicava come un inesauribile fondale marino. Alcuni dei recessi del suo stesso carattere, gli riuscivano così oscuri da spaventarlo. Il suo cuore era talmente silenzioso da risultare imprevedibile e le sue pulsioni artistiche non facevano eccezioni. Aveva smesso di chiedersi cosa fosse normale o meno, perché aveva finalmente capito che la “normalità” propriamente detta, non esisteva. La parola stessa, era una contraddizione.
“Norma”, in latino, voleva dire “regola”. Di conseguenza, “normale” indicava ciò che fosse secondo la regola. Ma regola di cosa? Stabilita da chi? Gli esseri umani erano tutti uguali. Di conseguenza, per quale ragione il parere di un suo simile avrebbe dovuto valere più del proprio? Tanto più, che nemmeno la legge gli vietava di perseguire le proprie esperienze in libertà. Le norme, gli stavano strette. Sentirsi limitato, laddove egli stesso non avrebbe saputo piantare un paletto neanche volendo, lo faceva sentire ferito. Come se gli avessero strappato un arto di cui nemmeno conoscesse l’esistenza, ma del quale avvertisse la mancanza. Accettare il proprio eclettismo, nella società culturale in cui era calato, era stata una lunga e sanguinosa lotta con lo specchio, il cuore e la mente. Una guerra durata anni, a causa della quale i suoi sentimenti avevano subito ingenti perdite e la sua psiche riportato crepe ben visibili, proprio come quelle sugli antichi vasi cinesi.
Aveva dovuto constatare, stringendo i denti, che nessuna etichetta vera e propria sarebbe bastata a contenere il suo nome. Che una pellicola in bianco e nero non sarebbe mai stata in grado di catturare tutte le sfumature della sua interiorità. Capacità che invece riusciva naturale alla sua musica. Le note accoglievano le sue dita senza giudicare: che lui preferisse suonare o lavorare, non aveva importanza. Le sue mani erano sempre le sue mani, e le melodie che avrebbero composto sarebbero state l’emanazione diretta del suo malessere interiore, tramutato in qualcosa di bello e godibile. Proprio come Plagg gli aveva insegnato. Poco sarebbe importato, se i suoi testi avessero scandalizzato qualche orecchio o due. Lui non costringeva nessuno a prestargli il proprio udito.

 

 

If the heart is heaven
Tell me would the mind then be hell?

(Paper Route - Two Hearts)


 

Adrien fissava dritto davanti a sé con un’espressione di lieve incertezza. La quale era stampata sul suo viso di porcellana, negli stessi colori dell’ansia e della sensazione di contrattura che solo l’ignoto era in grado di regalare. Dietro al foglio bianco che egli guardava con apprensiva insistenza, un parecchio assorto Plagg leggeva il testo che egli avesse appena composto. Sul quale si sarebbe messo a lavorare presto, per poi rilasciarlo come singolo digitale. Era un brano di denuncia nei confronti della ristrettezza di vedute del mondo contemporaneo. Una critica mossa alla realtà dello spettacolo, al sistema scolastico. Più in generale, a tutto l’universo di fittizie regole, che si sentivano in dovere di definire il metro di giudizio con cui gli individui dovessero misurarsi giornalmente. Il pianista era particolarmente fiero del suo operato, sebbene fosse in pena per l’opinione del suo producer. Il quale gli aveva assicurato libertà creativa entro certi limiti, veramente risibili. Tuttavia, comunque presenti.
Dopo quelli che gli parvero anni, Plagg mise giù il foglio. Poi, gli riservò una penetrante occhiata, mentre s’infilava una mano nella tasca e ne estraeva un pacchetto di sigarette, portandosene una alle labbra con gesti consumati. Si prese tutto il tempo di accenderne l’estremità e di inspirarne la prima, generosa boccata. Trattenendo il fumo per alcuni istanti, prima di espirarlo in silenzio.
«Adrien» l’interpellò, con tono casuale. «Dimmi, è forse illegale poter scegliere che strada prendere? C’è una legge che vieta a te, adulto, di andare a destra, piuttosto che sinistra?» Gli chiese, distendendosi sullo schienale della sedia e sfilandosi la sigaretta di bocca, stringendola fra indice e medio, mentre si mordeva distrattamente l’unghia del pollice. Il pianista si strinse lentamente nelle spalle, scuotendo piano la testa.
«Non mi sembra» rispose.
«Ottimo» convenne l’altro. «Allora dimmi, per quale ragione mi stai fissando come se fossi sul patibolo da almeno dieci minuti? Vedi forse una scure, nelle mie mani? È per caso compito mio, tagliarti questa bella testolina che ti ritrovi, soltanto perché preferisci pestare le dita su una tastiera e non su un registratore di cassa? Questo ti rende meno valoroso, ai miei occhi?» Gli domandò, senza alcun giro di parole. Quell’interrogazione così a bruciapelo, esercitò un vivo stupore su Adrien. Quasi come se gli avessero rovesciato un secchio d’acqua ghiacciata proprio sul capo, senza avvertimento alcuno. Plagg aveva compreso il punto focale del testo dopo averlo solamente scorso per una volta. Non era certo così esplicito, come messaggio. Tuttavia, una mente ben allenata e che non fosse troppo ingenua, avrebbe trovato di cosa riflettere, in un passaggio o due. Proprio come quella del produttore avesse fatto. Gettando Adrien in uno stato di shock che disseminò l’ordine dei suoi pensieri al vento, sparpagliandoli come foglie in una giornata di ottobre. Vedendo che l’artista non rispondeva, l’altro decise di prendere nuovamente parola, per aiutarlo.
«Ammettiamo che, questa tua arte, sia un problema» esordì. «Qualcosa di clinicamente sbagliato, quasi come un disturbo della personalità. Anzi, consideralo proprio così. La tua idea di lavoro è volta ad una professione complicata, pericolosa, peggio delle spie del KGB, okay? Nessuno abbastanza sano di mente la sceglierebbe. Mettiamola così. Chiara l’idea?» Chiese, e il pianista annuì. «Bene. Adesso, devi sapere che non sei solo. Anch’io ho un problema. Si chiama “accidia”. Sai che cos’è?» Seguitò, e vide il suo interlocutore muovere il capo in un cenno d’assenso, lentamente. «Io non ho problemi ad ammetterlo. So bene che mi piace stare tranquillo a riposare. Forse anche troppo. Come i gatti. Ed ecco perché, il mio problema più grande, è proprio il sonno. Devo dormire almeno due al giorno, altrimenti impazzisco. Vado in crisi d’astinenza, sai, come gli eroinomani. Non riesco a star fermo per più di due minuti, iniziano a prudermi le mani e divento intrattabile» spiegò, sotto gli occhi attoniti di Adrien. «Come se avessi una mortale fame atavica, che mi corrodesse dall’interno. Ma non proviene dallo stomaco. Mi arriva dal corpo. Sono schiavo delle mie stesse pulsioni. Potresti dire che sono la prova tangibile del fatto che l’uomo altro non è che una bestia, addomesticata dai suoi stessi simili, nel disperato tentativo di distanziarsi dalle scimmie. La coscienza è una balla. Nel profondo, anche noi siamo animali».
«Perché mi stai dicendo questo?» Ebbe solo il coraggio di domandare il moro, osservando attonito il suo producer prendere un ampio tiro dalla sigaretta. Per poi scuotere la cenere in eccesso nel posacenere abbandonato in un negletto angolo della scrivania, dando al filtro un colpetto col pollice.
«Perché devi imparare che chiunque, all’interno del mondo, ha la propria biancheria sporca. “Dirty laundry”, come usano chiamarla gl’inglesi. Mi riferisco a tutti quei piccoli segreti di cui possiamo più o meno vergognarci. Ma che fanno comunque parte del nostro essere e sono una caratteristica peculiare della nostra identità come individui. E, a meno che non coinvolgano la violenza, i soprusi e tutto ciò che la legge bandisce in modo esplicito, non devono essere una fonte di disagio, per te. Devi imparare a conviverci, perché tu sei anche la tua musica, così come io sono anche la mia accidia».
«Ma non vedi che la società bandisce l’arte? Che la dipinge come il reato numero uno, l’imperdonabile?»
«Si fotta la società! È lei che ti darà le più grandi soddisfazioni della tua vita, o quel che ti piace fare? Non puoi vivere così, Adrien. E, credimi, non sarai né il primo, né l’ultimo. Quanti artisti vivono meravigliosamente, oggi? Non siamo più ai tempi del mecenatismo, sai. Dove chi aveva un dono, non era capace di vivere per esso e provvedere da solo alla propria sopravvivenza. Ma andiamo avanti. Prendi Eminem? Un ragazzino problematico che i professori definivano stupido. Un bianco che ha voluto imporsi in un mondo quasi esclusivamente nero, come quello del rap. Beh, guardalo adesso, dov’è arrivato, con la sua musica. E non farmi nemmeno parlare di tutte queste nuove generazioni di fenomeni contemporanei, perché potrei finire domattina. Il mondo dell’arte è saturo di gente confusa che non sa dove sbattere la testa, passando le proprie giornate a domandarsi chi dei due sia più corrotto, se loro o il sistema. Non fare la loro stessa fine, Adrien. Collabora con la tua dirty laundry, rendila indumenti di classe A. Non c’è niente per cui sentirsi inferiori o sbagliati, sai?»
«E il pubblico? Felix, l’opinione dei fans…?»
«Ti sembra forse che me ne sbatta qualcosa, di tutti e tre?» Chiese Plagg, spegnendo la cicca nel posacenere, con un mezzo sorriso ad animargli le labbra. «Se avessi voluto creare delle belle bamboline con cui sfamare le pance malate di chi vive della superficialità di tutti i giorni, avrei aperto una filiale della Universal. Facendo morire di fame i miei artisti, minando la loro creatività con numeri ed introiti. Uccidendo la loro psiche con continue sessioni di allenamenti, inculcandogli modelli di bellezza estetica e comportamentale che non potrebbero essere più lontani dalla realtà» spiegò. «Non me ne frega un cazzo, di queste puttanate. Io voglio gente vera. Ti incazzi perché il mondo pensa che tu sia di serie B, visto che sei un artista? Ben venga. Se non fossi così schifosamente calato, in questo settore musicale, ti guarderei da YouTube e penserei “cazzo, questo qui ha proprio ragione”. E poi tornerei a dormire. Perché sai, il sonno è più importante» aggiunse, dipingendo un sorriso divertito sulle labbra del suo interlocutore. «E adesso, fila in studio. Questo brano è una bomba. Non voglio più vederti qui, se non a progetto ultimato», lo congedò, rendendogli il testo e cominciando a scartabellare in altri fogli disseminati sulla sua scrivania. Adrien si prese del tempo per osservarlo, in silenzio. Plagg gli aveva appena dato la lezione più grande ed importante della sua vita, probabilmente senza nemmeno rendersene conto.
«Piantala di fissarmi, ti ho detto che sono troppo pigro per le rivoluzioni» lo apostrofò il producer, cercando di mantenere un’espressione distaccata.
«Quelle sono morte coi proletari russi, ormai è tardi» ribatté l’altro, uscendo dalla stanza e sentendo il giovane ridacchiare, sottovoce.

 
 





 
 

«Fra tutti i modi di produzione dell'amore, fra tutti gli agenti disseminatori del male sacro, certamente uno dei più efficaci è questo gran soffio di agitazione che a volte passa su di noi. Allora l'essere col quale in quel momento ci piace stare, il dado è tratto, sarà lui che ameremo. Non c'è neanche bisogno che finora ci sia piaciuto più di altri, e neppure altrettanto; bisogna solo che il nostro gusto per lui sia diventato esclusivo. E la condizione si è verificata quando — nel momento in cui è mancato — alla ricerca dei piaceri che ci dava il suo fascino si è sostituito improvvisamente in noi un bisogno ansioso, che ha per oggetto quel medesimo essere, un bisogno assurdo, che le leggi di questo mondo rendono impossibile da soddisfare e difficile da guarire, il bisogno insensato e doloroso di possederlo».

ㅡ Marcel ProustÀ la Recherche du Temps Perdu

 
 

Every circle was a line
Just connected by design

(Paper Route - Two Hearts)


 

Il brano che ebbe risvegliato quei ricordi nella mente del giovane terminò, lasciando spazio ad una più timida e cristallina melodia, che gli fece aprire gli occhi. Una sonorità discreta, chiara e sinuosa. Che sarebbe potuta essere associata facilmente ad un volto. Il quale possedeva dei lineamenti armonici e ben delineati. Che danzarono rapidi dinanzi all’occhio della mente del pianista, piegando le sue labbra in un dolce sorriso.

 

 

You just sing, and I'll take you home
(Paper Route - Two Hearts)

 
 

«Dimmi» scandì una voce femminile morbida e limpida, che manifestò immediatamente nella mente del pianista l’immagine di uno scampolo di velluto, nero come la notte. Scivolando attraverso il suo orecchio come un sussurro, suadente ed impalpabile. «Di che colore è la tua anima?»
Adrien aveva alzato la testa di scatto, sollevando un sopracciglio. Non era certo che quelle parole avessero davvero preso forma nella sua testa, o che una voce potesse averle realmente modulate nell’aria. Girò il capo verso la figura che si era appollaiata sullo sgabello di fianco al suo. Si trovava al consueto piano bar dell’ennesimo locale in cui avesse scelto di esibirsi, per la sua rassegna settimanale di catarsi musicale.
Il suo sguardo esaminò la sconosciuta partendo dal basso, individuando un paio di vissute scarpe nere e degli skinny jeans strappati ad arte in più punti, dalla stoffa lievemente stinta qua e là. I quali fasciavano delle lunghe gambe dalla forma tonica e soda, mollemente piegate in una posizione rilassata; usufruendo degli appoggi in metallo dello sgabellino. Adrien processò un’anonima maglietta scura dal disegno irriconoscibile al buio, uno stretto torace dalle larghe spalle ben diritte poi salì al volto. E la sua realtà si spaccò in due metà esatte. Il prima, e il dopo. Poiché era sicuro che, dopo aver stampato nella memoria quei tratti, la propria vita non sarebbe stata più la stessa.
La sconosciuta sembrava avere dipinta, in volto, la più bella poesia che le dita di un abile canzoniere fossero mai state in grado di produrre. Traducendo le parole in forme, colori, linee. Definire “bello” un volto simile, avrebbe significato soltanto sminuirlo. Il pianista non riusciva ad associare qualcosa a quel viso angelico, lo guardava senza speranza, completamente. Cercò qualsiasi elemento che avrebbe potuto fungere da termine di paragone, o da classificazione, ma invano. Semplicemente, non ce n’erano. E non vi sarebbero mai stati. Quello in cui i suoi occhi si stavano specchiando, era un capolavoro compiuto da un artista ignoto con un dono divino. Pelle d’alabastro e sguardo di cielo, labbra vellutate dello stesso colore dei tulipani e probabilmente dal sapore di ciliegia. Lisci e fini capelli color pece, i quali ricoprivano quasi interamente la fronte, incorniciando quei lineamenti fuori dal comune e poi dividendosi in due piccole code alla base del collo. Guardare un simile viso, pensò Adrien, poteva forse corrispondere all’ascoltare la Primavera di Vivaldi per la prima volta nella vita. Una rivelazione, una potente frattura che avrebbe gettato una luce nuova e diversa su qualunque avvenimento si fosse succeduto in seguito. E, quando la sconosciuta gli sorrise, egli si sentì strappare via il cuore dal petto. Brutalmente, un dolce dolore sordo scavato a fondo nelle costole.
Pensò ad una parola inglese che amava molto, ma della quale non era ancora riuscito a trovare una degna traduzione. “Mesmerizing”. Ella era mesmerizing. Qualcosa di molto simile ad “incantevole”, ma reso nel senso di frantumare il proprio essere in mille minuscoli frammenti, per poi lasciarglieli rimettere insieme secondo il suo gusto personale, ricomponendo l’intera figura. Adrien sarebbe volentieri crollato in pezzi per gli occhi dolci di quella ragazza dall’ignota identità, al solo fine di sentire la pressione delle sue dita su di sé, nel momento in cui essa si sarebbe accinta a rimetterlo in ordine.
«Bianco» rispose il pianista, distrattamente, ricordandosi appena della sua stramba domanda. La vide portarsi un dito indice al mento, distogliendo lo sguardo e modulando un’espressione a metà fra il pensieroso e lo stupito. Lui non riusciva a staccarle gl’occhi di dosso, non ne sarebbe stato in grado neanche volendo. Era stato perfettamente stregato.
«Che strano» commentò la sconosciuta, e Adrien riconobbe una leggera cadenza linguistica non propria del suo paese natale, la Francia. Con ogni probabilità, quella ragazza era stata allevata dai raggi del sole e dal verde delle splendide colline, lontano dalla città. Eterna nella sua purezza rurale. «Sei il primo che mi risponde in questo modo».
«E cosa c’è di male?» domandò il pianista, allontanando il bicchiere di whisky e puntellando il gomito sul bancone, appoggiando il viso sulla mano chiusa a pugno. La sua interlocutrice scosse rapidamente la testa, sorridendo. I capelli ondeggiarono, seguendo quel fluido movimento del capo. Una fuga di violino. Il guizzo di uno sbaffo di pittura sulla tela.
«Nulla, nulla» precisò. «È solo che… il bianco è assenza di colori. Quindi, si potrebbe dire che non si tratti di una vera e propria tinta. Sarebbe il risultato tangibile di una mancanza», spiegò, seria. Adrien si prese qualche istante per riflettere sulla risposta da darle, e osservò una goccia di condensa scivolare lungo la parete di vetro ghiacciato del suo bicchiere. In silenzio.
«Non necessariamente. Tu la vedi in questo modo», ribatté. «Per me, è come se invece si trattasse di un’enorme tela. Bianca, appunto. E chiunque può dipingerla con i colori che vuole, a patto che ne abbia voglia. Avvenimento piuttosto raro, per la verità. Io non ho un colore, né una forma. Sono gli altri a darmeli, a seconda di come si pongono nei miei confronti» disse. Poi, sorrise. «E tu… qual è il tuo colore?»
La ragazza abbassò lo sguardo, mentre gli angoli delle sue labbra si volgevano verso l’alto, sapientemente.
«Il rosso».

 
 
 





 

«Cercate di conservare sempre un lembo di cielo sopra la vostra vita, fanciullo mio, aggiungeva voltandosi verso di me. Voi avete un'anima bella, d'una qualità rara, una natura d'artista, non lasciatele mancare ciò di cui ha bisogno».

ㅡ Marcel ProustÀ la Recherche du Temps Perdu

 

If you want I can take you home
And you'll sing to the radio
I need you to know you are the only one that I'll ever love
Just look what's been done, two hearts beat as one
It's never easy but the two are now one

(Paper Route - Two Hearts)

 

 
La sconosciuta si chiamava Marinette Dupain-Cheng. Ed era entrata nella vita di Adrien nello stesso modo in cui le macchie di colore si allargavano sulle tele: prima in maniera minima ed impercettibile, per poi diventare sempre più vaste e dai toni accesi, occupandone buona parte dello spazio. Rivoluzionando la base neutra che li accogliesse.
Da quella volta, proprio come Adrien aveva intuito, non si erano più separati. Orbitavano l’uno attorno all’altra, attraendosi a vicenda senza neanche accorgersene. Erano come due emanazioni di uno stesso corpo. Il pianista continuava a guardarla, come se fosse stata la creatura più preziosa che gli fosse mai piovuta fra le braccia; senza stancarsi mai di ripercorrere con i suoi occhi quei lineamenti angelici, ricreando ogni volta ritratti differenti nella sua mente. Dal canto suo, la giovane aveva sviluppato la necessità fisica di stringerlo fra le sue braccia, giudicando ogni momento in cui un’estremità del suo corpo non fosse in contatto con quella di Adrien, come tempo sprecato.
Impararono a conoscersi, scoprendo pian piano le storie dei passati di entrambi, illuminando gli angoli bui dei ricordi con la torcia della consapevolezza che li avrebbero affrontati insieme. Marinette era una ventunenne di Versailles, che frequentava l’ultimo anno di conservatorio. Si stava specializzando nel suonare il violino, e spesso e volentieri il pianista la lasciava provare a casa sua, godendo di quei momenti d’intimità quotidiana scandita dalle note eleganti dello strumento della ragazza. Ella abitava in un loft poco lontano dal luogo in cui studiava, molto più vicino rispetto all’appartamento al sesto piano dove viveva Adrien. Ma a lei non importava. Non avrebbe mai scambiato i minuti di vantaggio sull’inizio delle lezioni per una sola nottata in un letto che non fosse stato quello del biondo. Era più giovane di lui di ben tre anni ed aveva un singolare modo di vedere la vita. Sembrava osservare il mondo attraverso un paio di lenti più colorate rispetto al normale, dove le tinte pulsavano più vivide e i sorrisi delle persone brillavano in modo più genuino. Marientte era ciò che Plagg avrebbe definito un’anima bella, uno spirito vivace e dalle forme talmente complesse, da non permettere a nessuno di comprendere la forma del disegno finale della sua interiorità. Per certi versi, lei ed Adrien si somigliavano. Dove le insicurezze del giovane dalla pelle di carta cominciavano, le certezze della ragazza dagli occhi d’azzurro colmavano i burroni generati dall’ignoto. Ella era il sottile filo scarlatto che sembrava tenere in piedi il corpo minuto del pianista, vibrando e dardeggiando a seconda dei movimenti che l’altro effettuava.
La giovane nutriva una sorta di passiva ammirazione, nei confronti del pianista. Il biondo non poteva vederla, ma ella trascorreva sempre buona parte dei suoi pomeriggi ad osservarlo suonare il pianoforte, con un sorrisetto stampato sulle labbra, mentre i suoi pensieri si lasciavano cullare dalle delicate armonie che le dita del suo ragazzo componevano di getto. Se la mora avesse potuto scegliere una melodia, come colonna sonora della propria esistenza, avrebbe senza dubbio indicato uno degli arrangiamenti che udiva giornalmente dal soggiorno. Vivere con Adrien la faceva sentire libera, seppur ella stessa avesse deciso di cucire il proprio cuore a quello del giovane, suturandolo con un filo infinitamente più fragile ed insieme resistente di quello chirurgico. La relazione casuale che era cominciata accidentalmente in un bar, alla fine di un’esibizione musicale, era divenuta la più grande lezione di educazione sentimentale che entrambi avrebbero mai potuto ricevere, dalla vita. Un’improvvisa giornata di primavera nel bel mezzo di un lungo e gelido inverno.
Marinette ed Adrien camminavano mano nella mano per le strade di Parigi, come se la città fosse divenuta una pittoresca estensione del mondo, di loro proprietà. Frequentavano mostre d’arte insieme, sostando abbracciati dinanzi ai quadri, osservandoli e commentandone le forme, i colori, le immagini. Occupavano sempre gli ultimi posti, nelle sale cinematografiche. Spendendo buona parte del tempo in effusioni, lotte con il cibo o commenti sulla pellicola; seguendo lo spettacolo con una mano del pianista casualmente abbandonata sulla coscia della giovane, la quale ormai sembrava non farci nemmeno più caso. Così come alle sue dita intrecciate a quelle di lui, pezzi perfetti di un puzzle destinato a combaciare da prim’ancora che avessero potuto prenderne coscienza. Cucinavano insieme, guardavano gli stessi programmi demenziali alla televisione e la ragazza finiva sempre per scovare una pessima serie tv, ad un certo punto della serata. Dalla trama schifosamente romantica e scontata, per la quale avrebbe sicuramente pianto. Immancabilmente stretta fra le braccia di uno Adrien singolarmente divertito da quelle sue reazioni così emotive. Non dormivano spesso. Ma, quando capitava, erano sempre avvinti l’uno all’altra, come se altrimenti non fossero mai riusciti a riposarsi per davvero.
Tuttavia, nulla era mai tanto semplice. In maniera quasi direttamente proporzionale, più erano memorabili e felici i momenti che i due trascorressero insieme, più dannosa era ripercussione che quella relazione avesse sulla carriera di Adrien. Ma non nei confronti del pubblico. Il disagio risiedeva in altri e più alti piani del business.
Da quando il suo famoso brano di critica contro la società avesse fatto il proprio debutto nell’underground, pareva sorta una sollevazione di popolo. Il video aveva guadagnato numeri senz’altro notevoli di views e parecchi bloggers di rilievo avevano cominciato ad inserire il suo nome qua e là nei propri post. Spesso, non senza affiancarlo ad un sentito elogio. Ai suoi concerti, l’uditorio, che prima poteva essere identificato con un numero ristretto e piuttosto selettivo, aveva invece subito un’impennata. Senza volerlo, Adrien era stato eletto come portavoce di un mondo silenzioso e profondamente turbato, al quale veniva negato anche il diritto di avere un’identità e che avrebbe voluto urlare per anni. Ma che fosse stato invece ridotto al silenzio da mani più potenti e pesanti delle proprie.
Il pianista non se lo sarebbe mai aspettato. Non aveva scritto quel brano, aspettandosi una simile risonanza. D’altronde, il suo scopo primario era quello di “estirpare le erbacce”. E invece, quei rampicanti indesiderati avevano assunto proprio la forma di splendidi fiori, agli occhi altrui. Come Plagg aveva preannunciato. Eppure, perché voltarsi indietro e osservare quanta strada avesse fatto, faceva ancora così male? Perché non tutti erano in grado di osservare il mondo attraverso la stessa ottica del suo producer.


 

 

It's darkest before the light, if we shut our eyes to see
The things that we have lost inside the lines between

(Hands Like Houses - Developments)

 
 
 

Adrien protese una mano verso la superficie lignea e socchiusa dinanzi a sé, la quale delimitava l’ingresso a quello che il biondo produttore definisse “il proprio regno”. Fu lì lì per lasciar andare un paio di piccoli colpetti con le nocche, ma qualcosa l’immobilizzò sul posto. Voci. Due, per l’esattezza. E discutevano fra loro, a volte impiegando toni anche molto accesi. Il pianista riconobbe il profondo timbro vocale di Plagg, lievemente arrochito da anni di tabagismo e l’altro, più dolce ed elegante, di suo cugino. Sembravano nel bel mezzo di un alterco, e il giovane artista non poté fare a meno di ascoltarli, non visto.
«Questa cosa ci sta sfuggendo di mano, Plagg, ed è tutta colpa tua!» Esclamò Felix, coprendosi il volto con le dita, nascondendo i suoi signorili tratti principeschi agli occhi del mondo.
«Colpa? Quale colpa? Io non ne vedo proprio nessuna» ribatté l’altro, accendendosi quella che, probabilmente, fosse l’ennesima sigaretta della giornata.
«Avresti potuto dirmelo che Adrien era così socialmente impegnato… che aveva intenzione di…»
«Far cosa? Si comporta esattamente come te e me, che avrei dovuto riferirti?»
«Lo sai» commentò il giovane, liberando il viso dalla prigione di dita e lanciandogli uno sguardo risentito.
«No, invece» rispose Plagg. «E sai cos’altro non so? Come tu faccia a vivere con i tuoi pregiudizi del cazzo, in un secolo come quello in cui siamo adesso» aggiunse, tagliente come l’affilata lama di una katana. Il pianista continuava a non comprendere il punto della loro discussione, ma sentiva che non avrebbe dovuto immischiarsi. D’altronde, aveva giudicato da sempre più che saggio rimanere fuori dalle questioni familiari dei propri conoscenti. Figurarsi dunque per quelle dei suoi datori di lavoro.
«Non sono pregiudizi. È pericoloso, esporre atteggiamenti tanto sovversivi in questo preciso momento del nostro tempo. Un conto è che lo faccia un rapper, perché è ormai risaputo che le loro battaglie sono partiti presi, nessuno da’ loro più il credito che vorrebbero. Diverso è il caso di un musicista che dovrebbe solamente pigiare le sue dita sul pianoforte e parlare d’amore, come ci si aspetta da individui come lui» disse Felix, in tono fermo. «E tu cosa fai? Non solo scritturi un artista ribelle, ma promuovi anche i suoi testi fuori di senno, producendoli addirittura come singoli! Ciò che più mi turba, è che stanno anche avendo successo! Chissà quale idea si saranno fatti, tutti, della nostra casa discografica. Sicuramente, che produciamo sovversivi» concluse, funereo. Un sinistro silenzio calò sulle spalle di entrambi, minacciando di tirarli entrambi con esso giù nell’abisso. Plagg si limitò solamente a rifilargli un’occhiata così carica di giudizio che, se solo avesse potuto, l’avrebbe volentieri appeso al muro assieme ai suoi tanto adorati quadri astrattisti.
«Ma ti stai ascoltando? Hai idea delle cazzate che stai sparando?» Chiese solo, sfilandosi con rabbia la sigaretta dalle labbra. «Svegliati, Felix! È ora che la facciate tutti finita con la vostra fobia sociale e questo fottuto bisogno di puntare il dito contro i nostri stessi simili! Ne ho piene le palle, capisci? Non ho fondato questa etichetta discografica per farmi fare la morale su quanto tutti i nostri artisti debbano essere timorati, prima di poter far uscire i loro dischi. È una stronzata, e tu lo sai» esclamò, con foga. «Da quando la musica ha un ruolo, o un orientamento politico? Da quando abbiamo deciso di etichettare le emozioni? Siete un popolo di bigotti, Felix, e la vostra chiusura mentale sarà ciò che vi porterà a picco. Credevo che avessi cominciato ad ampliare le tue vedute, ma mi rendo tristemente conto che non è così» aggiunse, infilandosi nuovamente la sigaretta in bocca. Per poi allungare il braccio verso la giacca di jeans abbandonata sullo schienale di una sedia. «Fammi un fischio, quando deciderai di smuovere quel tuo fottuto culo cieco dal divano della paura, e inizierai a comprendere che le persone che discrimini tanto, sono di gran lunga migliori di te».
«Ma Plagg…» lo richiamò il cugino, ma fu inutile. L’altro aveva già infilato la porta.
«Vaffanculo» ribatté, indossando la giacca e affrettandosi a frapporre quanta più distanza potesse fra sé e quella stanza. Senza nemmeno far caso alla presenza di Adrien, ancora immobile accanto all’infisso.
 


 






 
 
 

«Calma non può esserci nell'amore, perché quel che si ottiene è sempre solo un nuovo punto di partenza per desiderare di più».

ㅡ Marcel ProustÀ la Recherche du Temps Perdu

 
 
 
 
Black hearted angels sunk me
With kisses on my mouth
There's poison in this water
The words are falling out

(Nothing But Thieves - Honey Whiskey)

 

Dopo quell’episodio, i cugini Kwami non si erano parlati per una settimana. Finché, in una calda serata di fine aprile, Felix non si fosse presentato alla porta di Plagg con la coda fra le gambe. Armato di due birre e un’espressione rassegnata in volto. Dichiarandosi disposto ad accettare l’impegno sociale di Adrien, a patto che, in seguito, il biondo l’avesse messo a parte in anticipo delle particolarità dei loro artisti. E, da allora, i giorni si erano succeduti gli uni agli altri, fondendo insieme le loro estremità. Mentre maggio cominciava e producer e pianista spendevano parecchio tempo insieme, in sala registrazione.

 

 
I know, you know
I will never need again
I am infinite

(Paper Route - Two Hearts)

 


 

Appena avvertì la gentile pressione di una mano sul tessuto della sua maglietta, Adrien aprì gli occhi. Focalizzando, nello specchio, l’immagine della sua ragazza che gli cingeva le spalle con le braccia, chinandosi ad appoggiare la testa contro la sua. Lo baciò dolcemente sulla guancia, mentre le mani del pianista raggiungevano le sue, intrecciando le dita.
«Sei agitato?» Gli chiese la giovane, sussurrando. «Fra venti minuti vai in scena», gli ricordò, guardandolo attraverso lo specchio. Aveva preso l’abitudine di passarlo a salutare nel backstage prima di ogni esibizione, per poi rimanere lì e godere di una visuale migliore. Dato che, ai suoi concerti, le prime file erano sempre in sovraffollamento e lei volesse rendere a quei momenti la giusta attenzione. Essere in ottimi rapporti con la famiglia Kwami, a volte, aveva i suoi vantaggi.
«Non lo sono mai, quando sei con me» ribatté il biondo, sentendola soffocare una risata fra i suoi capelli.
«Cheesy» commentò, citando una parola inglese che avevano scoperto di recente, e che indicasse qualsiasi cosa di schifosamente dolce o romantico, proprio come la frase appena pronunciata dal pianista.
Eccoli lì, ad un anno e mezzo dal loro primo incontro e a ben due da quando il biondo avesse firmato per la Miraculous Records, erano ancora insieme. Al di là degli impegni sociali, della differenza d’età, delle crepe che la loro relazione avesse guadagnato e che poi fossero state riempite con la colatura d’oro, come usavano fare i cinesi nei confronti delle loro porcellane rotte.
Si diceva, in quel lontano paese, che i vasi rotti e, successivamente, rimessi insieme avessero più valore di quelli intatti. Perché possedevano una storia, ed erano sopravvissuti a svariati traumi. Ecco perché si tendesse ad evidenziare la crepa con l’oro liquido, rendendola ancora più visibile. Un po’ come le cicatrici di guerra. Erano un simbolo di fortezza. Proprio come la relazione fra Adrien e Marinette. Un piccolo vaso di porcellana, pieno di fratture, ma di altrettanti sprazzi d’oro. La bianca tela del pianista si era lentamente riempita di sprazzi colorati nei punti più disparati, di ogni sfumatura dell’arcobaleno.
Ed ecco anche perché, osservando entrambi allo specchio, il biondo sentì di non avere più nulla per cui crucciarsi. Aveva finalmente trovato la dimensione ideale in cui classificare forme e colori. L’immagine che la superficie gli restituiva di sé, in quel momento, combaciava perfettamente con i suoi canoni di bellezza ed appartenenza. Che avevano il suo stesso sguardo sereno, e la dolcezza del sorriso di Marinette.



 





 


✿ Ibuki's little letter: LFDM è una storia un po' particolare. Ammetto di non sapere neanche come ho fatto, a scriverla. Le parole si sono impresse da sole sul foglio di word, secondo un loro preciso ordine e scegliendosi accuratamente le sfumature. Oserei dire che non ho altri scritti simili a questo, nei meandri del mio pc. E vi sono estremamente legata, soprattutto alla figura di Adrien. Forse perché gli ho cucito addosso le caratteristiche peculiari di un amico a me molto caro, o perché le sue battaglie per l'arte sono un po' anche le mie... non saprei. In ogni caso, eccola per voi. Anche qui, Plagg è umano. Sembro non riuscire proprio a restituirgli la sua forma originaria di Kwami, anzi. Gli affianco OC come se piovesse. Pazzie estive.
Anyway, prendete LFDM come una OS senza pretese, il cui unico scopo è portarvi lontano con la fantasia, come una fuga di pianoforte. Ringrazio chiunque vorrà dedicare un minuto del proprio tempo a leggerla o, eventualmente, recensirla! I vostri pareri sono sempre ben accetti, lo sapete! Per chi la segue, ci vediamo su Black Flag! Altrimenti, arrivederci alla mia prossima follia nel fandom di Ladybug!
   
 
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