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Autore: Voss    09/07/2017    2 recensioni
Siamo nel 1945, la fine della guerra si avvicina e nell'accerchiata Konigsberg vite, con storie da raccontare e animi sciupati dal dolore combattono o si arrendono al proprio destino. In questo contesto un vecchio soldato perso negli infiniti intrecci della vita cerca inconsciamente la sua strada negli ultimi giorni di resistenza della sua città.
Genere: Drammatico, Guerra, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Guerre mondiali
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Figli di Prussia

Capitolo I

Cosa fiorisce a marzo?

 

29 marzo 1945                        Est Prussia, Konigsberg

 

 

Oltre un altopiano, nell'antica terra del medievale ordine dei cavalieri teutonici che un tempo forgio l'onorevole Regno di Prussia che infine unì la Germania dei Kaiser, splendente tra lo scuro Mar Baltico e i campi di grano cresce una città chiamata Konigsberg. La città dei Re, simbolo di Prussia e orgoglio dell'Europa dell'Est.

 

06:34 di mattina

Piano si muovevano le foglie dei recentemente fioriti alberi, sotto di essi una colonna di soldati in una stanca marcia quasi si trascinavano verso il mare.

«Soldati fermi!»

Un giovane ufficiale dei capelli rossi e dai lineamenti leggermente asiatici si fermò girandosi verso la colonna che, nonostante si potesse notare un certo ritardo nell'eseguire quell'azione così improvvisa e fastidiosa si era fermata. «Siamo arrivati al campo, potrete mangiare e fare rifornimento di munizioni se avete fucili o pistole. E poi rimettetevi in sesto sembrate un branco di argali che non si lavano da settimane».

La colonna di privati soldati entrò a fatica nel malridotto accampamento, ovunque barellieri e infermiere accudivano feriti, mentre dalla maggior parte delle tende verde oliva uscivano grida e lamenti di ogni genere.

Con l'odiata metodica il capofila della colonna si girò nuovamente e alzando la mano fece fermare i soldati per l'agognata pausa.

 

Un ufficiale stava a guardare la penosa scena degli uomini sfiniti che con tutta probabilità non riposavano da giorni, stando appoggiato a un palo della tenda da campo fece un cenno al giovane ufficiale che si stava avvicinando togliendosi il verde berretto.

«Comodo il viaggio Karensky?»

Il giovane ma sveglio ufficiale controbatté

«Sicuramente ho dormito meglio di te vecchio compagno Levkiy, o sbaglio?»

Levkiy posò la tazza di caffè caldo e abbracciò lo stanco Karensky.

«Hai proprio ragione, quella maledetta artiglieria continua a sparare, da giorni, 50kg di tritolo, bottiglie o merda che sia! Ma non durerà ancora a lungo, proprio come questa guerra.

Il Maggiore Yuliy ti stava aspettando da un pezzo, se tardavi ancora una mezza giornata ti avrebbe conciato peggio di un tappeto»

Karensky guardò il compagno mentre si toglieva i guanti appoggiandoli al tavolino in centro alla tenda

«Hai provato a mandarlo a fanculo anche solo per vedere che direzione devo dare ai tedeschi? Ho cercato i camion per tutta Lublino, Varsavia, Lyck e Angerburgo poi mi sono reso conto che erano tutti destinati alla “Grande Offensiva di Berlino” e ho maledetto quei dannati bombardieri e quei diavoli dei tedeschi per la loro devastazione ferroviaria! Alla fine ho optato per l'unico mezzo che mi veniva in mente, anche se sono stato tentato di chiamare l'aviazione per il trasporto, ma erano troppo occupati a farsi abbattere dagli ultimi due trabiccoli tedeschi che ancora volano»

Levkiy si riscosse e allontanando il caffè dalla bocca domandò

«Già, cosa ci hai portato? Sei tornato alla nostra Stalingrado per reclutarli?»

Karensky ridacchiò

«Ma no quella città ormai è solo polvere e macerie, non ci abitano più nemmeno quei grossi e succosi topi dell'inverno del '41, ricordi? Io ti porto carne fresca! Polacchi! Anzi, duecentocinquanta polacchi!».

Levkiy guardò a terra.

«Si ride per non piangere vero Karen? Ancora qui dopo cinque anni di torture e migliaia di migliaia di compagni a terra»

Karensky si era messo a osservare la città grigia e tetra. Non uno dei vecchi edifici si teneva in piedi, solo macerie su macerie, qualche campanile o edifici troppo resistenti per crollare completamente. Una scena vista infinite volte da quegli occhi azzurri e giovani. Rimase in silenzio.

«Avevamo vent'anni Karen, sono passati quattro anni e siamo ancora qua. Lontano dalla vecchia scuola, dal porto sul Volga, dal nostro quartiere, lontano dalla nostra stazione. Due ufficiali dell'armata rossa, ne sono morti migliaia come noi e io credevo, dopo Varsavia di vedere qualcosa di diverso, e invece ieri Yuliy mi dice che devo “pulire i campi”. Siamo come loro.»

Karensky appoggiò il binocolo sul tavolo di fronte a lui

«Smettila di parlare della vecchia Stalingrado, ti prego, quella città non esiste più, ora esistono solo la posizione mitragliatrici numero 117,121 e 125. O le buche, i tanti solchi creati dai millemila pezzi d'artiglieria, ti ricordi? Quello di mio padre era il 61. Centrato in pieno da una bomba da 500kg di uno Stuka»

L'ufficiale cadde a sedere pulendosi gli occhi da lacrime involontarie.

 

 

Poche ore dopo in una tenda vicino ad una grande roccia cinque ufficiali conversavano animatamente sopra ad una cartina.

«Sono asserragliati come topi! E quei dannati anticarro coprono tutta la brughiera a nord, qualunque carro si osa muovere oltre la linea di confine tracciata da quei bastardi viene distrutto con rapidità spaventosa!»

L'ufficiale pelato e magro muoveva il dito sul tavolo indicando le vie di attacco già tentate dai carri

«Si calmi capitano Gavriin, sono sicuro che possiamo trovare un punto cieco nei loro cannoni anticarro. In quanto ai nuovi polacchi stanno già prendendo posizione sul margine del confine sergente Levkiy?»

Ci fu solo un “si” secco come risposta senza spostare gli occhi dalla cartina.

«Qualcosa la turba sergente? E' troppo intento a pensare alla famiglia e si è dimenticato che è di fronte ad un ufficiale superiore?»

Il sergente evitò la provocazione e rialzò la testa fissando il corposo Yuliy

«No di certo signore, la risposta non poteva che essere affermativa, stavo osservando la cartina. Abbiamo perso i t-34 in punti ben precisi, i tedeschi ci hanno imbottigliato e infine distrutto i carri.»

Yuliy osservò la mappa e le direttive di attacco dei mostri di metallo, quando infine giunse il responso

«Ha ragione sergente, muovendo i carri più a ovest potremmo ottenere meno perdite e una decina di metri di punto cieco. Nel pomeriggio è prevista una sortita, avremo modo di osservare il funzionamento della nuova direttiva d'assalto. Rompete le righe»

 

 

 

 

 

 

 

Più si invecchia e più ci si convince che Sua Sacra Maestà il Caso fa i tre quarti del lavoro in questo miserabile universo.”
Federico II di Prussia

 

In quella che un tempo fu una bianca e bella casa in una delle migliori e più trafficate vie di Konigsberg è ora un colabrodo di macerie e sogni infranti, una dolce ragazza è ritratta in una foto appoggiata alla porta, se qualcuno fosse andato a osservare dietro a quel vecchio pezzo di pregiato ciliegio che sbarrava la via a chiunque volesse entrare in quel rudere si sarebbe scoperto che ancora i ricordi di quella giovane donna e della sua famiglia si trovavano la dentro. Ma chi avrebbe potuto andare a cercarli? Il marito di quella tedesca era morto in una battaglia cruenta quanto inutile a 3000 chilometri da Konigsberg, nel mattatoio di Rzhev o Ržev, provocandogli infinito dolore, lo stesso che l'avrebbe portata nel '44 a cadere in una depressione profonda, la donna avrebbe curato sempre meno quel giovane bambino che l' amore aveva generato pochi anni prima della guerra, quando tutto sembrava così distante e la città così gioiosa e bella anche se isolata dalla Grande Germania.

Quella donna era ora a Colonia, in un campo profughi alleato, dove morirà il 21 luglio, lasciando solo il piccolo Lenz, che dopo la guerra verrà preso in cura dalla zia nella vecchia Stettino. Quella famiglia si chiamava Kurtin.

Una famiglia distrutta dalla guerra, come tante in Prussia, alcune radicalmente spazzate via, insieme alla loro “razza” o “stirpe” come ad alcuni piace chiamare le culture dell'uomo.

Non rimane niente di quelle famiglie come della cultura Prussiana, già scomparsa da secoli prima della seconda guerra mondiale?

E della famiglia Kurtin qualcuno rimane nella città dove per generazioni essa ha vissuto e prosperato?

 

 

 

Un'anziana figura guardava il vecchio dipinto, debole come un legno marcio ingiallito da anni di intemperie, ossessionato da qualcosa di impercettibile nel volto della donna, disturbato dai passanti armati e dagli sguardi ostili che lo ritraevano come un vecchio sporco, egli era seduto per terra ad un bordo della strada a guardare dall'altro lato di questa.

Una sirena di sottofondo, seguita da interminabili spari e da un megafono in fondo alla via fecero risvegliare il malconcio tedesco, lo costrinsero ad entrare dentro al suo bar preferito, la “Caffetteria dell'Est”, ora chiuso e presidiato da un distaccamento di Volkssturm.

 

«Hai paura delle bombe vecchia scodella di piscio?»

L'ufficiale del distaccamento, un uomo di mezza età che con tutta probabilità prima di finire lì rubava e un brutto giorno rubò a chi non doveva rubare. Chiamato Lotendorf per chi lo degnava di avere un nome, per gli altri era “Carogna”. Da vero cinquantenne Lotendorf sfoggiava una grassa forma fisica, mani callose da operaio, un grande doppio mento, occhi marroni e capelli ormai parzialmente grigi, indossando una divisa grigia con un cappellino da marconista, tipica nel suo ruolo di Gruppenfürer.

L'anziano combattente non lo degnò nemmeno del minimo sdegno e proseguì verso il bancone su cui per metà riposava Ulric, un operaio che dal '37 era in pensione, richiamato al servizio per “fornire l'appoggio alla Germania”, dalla folta barba e capelli biondi con due occhi marrone chiaro e vestito in abiti raffazzonata con la fascia identificativa del Volkssturm.

Mentre dall'altro lato due vecchi soldati malconci detti “Fratelli Orlin” che furono costretti ad imbracciare le armi dopo che la loro casa in cui vivevano insieme alle mogli fu distrutta dalle bombe, entrambe le donne ora sono seppellite fuori città. Queste due figure ormai sui settant'anni,vestite in gilet marrone con in testa una coppola grigia per uno e nero per l'altro, con capelli neri e gli occhi azzurri parlavano con un ragazzino che avrà avuto quindici anni al massimo, raccontandogli di come insieme ad un terzo camerata ormai sotto terra costruirono la loro grande abitazione nella periferia della città.

Il Ragazzino, che si chiamava Karl e aveva 15 anni,vestito anch'egli in abiti popolari, con una chioma non curata di capelli neri e con occhi azzurri. Era estasiato da quei racconti che lo facevano volare lontano dalla guerra, lontano dall'odio, dal terrore, dalla morte.

 

L'alcool scendeva ancora lungo la gola dell'anziano milite quando Emma, la volontaria della Croce Rossa di Germania gliela strappò di mano,

«Franz, questo non è per te, in ospedale ne hanno sicuramente più bisogno»

Una donna allegra, di un'allegria malata di dolore. Il suo volto era delicato e i suoi occhi verdi speranzosi, il tutto incoronato da una stropicciata chioma di capelli castani che le ricadevano fino a metà schiena.

Franz fece per bestemmiare, poi si ricordò dell'enorme lista di motivi per cui quella donna doveva necessariamente essere protetta e assecondata che chiuse la bocca e si trattenne, alzandosi a fatica e raggiungendo nuovamente la porta del locale.

 

Il cielo era grigio e zuppo di sangue in quella giornata di marzo, per strada colonne di paramilitari marciavano con i fucili in spalla cantando le canzoni della nuova gioventù, molto distanti dai combattenti regolari della Wehrmacht che stavano pulendo la strada dall'edificio a sinistra di Franz, una vecchia palazzina ora spalmata sulla strada, il Panzer IV dietro di loro aspettava pazientemente di passare mentre il capocarro osservava la cartina e il pilota fumava una sigaretta. Quel mezzo doveva aver visto decine di scontri e molte volte l'officina, lo si capiva dalle numerose righe bianche sul cannone usurato dal calore, dalle Schürzen mimetizzate con vere foglie e fango solido e dai vari fori di proiettile che non erano riusciti a perforare lo scafo frontale.

Ad un tratto, dalla strada un soldato regolare, sui trent'anni al massimo sbucò da un vicolo con della carta in mano, un fucile a tracolla e una sigaretta nell'altra mano. Entrò nel bar.

«Soldati porto cattive nuove»

Si stravaccò ad uno dei tavoli e lasciò cadere i fogli sul tavolo.

«Il resto del distaccamento dov'è? Dobbiamo muoverci verso la periferia est, hanno oltrepassato lo sbarramento degli anticarro con cinque t-34, dobbiamo distruggerli prima che arrivino alle fortificazioni in costruzione. Sono solo un piccolo gruppo, sono passati sicuramente per puro caso»

Diede un'altra boccata alla sigaretta, poi si mise le mani fra i capelli

«Franz, Ulric, Karl andate a cercare dei panzerfaust, entrò 10 minuti al ponte nord-est, muoversi»

Quel giovane soldato si era arruolato volontario quattro anni prima, finendo a combattere a Stalingrado con la 14° Armata Panzer, in poco tempo era riuscito a scalare la gerarchia, diventando Gefreiter, ovvero caporale. Il suo nome era Eber e rappresentava la gioventù, alto e dimagrito dalla guerra e dal razionamento, due occhi scuri e stanchi che terminavano in un naso leggermente storto, probabilmente per via di una vecchia rissa.

 

 

Esistono strade e sentieri, quale dei due seguire dipende da persona a persona. Chi segue i sentieri segue il suo cuore, i suoi idoli e le persone da cui trae esempio.

Chi cammina lungo le strade invece segue la via che i potenti hanno preparato per lui, la più comoda, la meno pericolosa, chi segue la strada si vende coscientemente o no alla propaganda, perché anche se sceglie la strada con la più totale naturalezza un giorno si troverà a fare i conti con chi la creata, che con certezza l'aveva creata per opprimere e comandare, direttamente oppure no.

 

Franz fu da sempre troppo stanco per seguire un sentiero, ma ora ciò che un tempo era la strada dei potenti era diventata una stretta via sterrata, un sentiero in una foresta di sogni, ancora pieno di significato per chi continuava a seguirlo.

 

 

Periferia di Konigsberg 16:21

La lunga strada che conduceva alle campagne, sempre affollata e popolata da ogni genere di persone appartenenti ad ogni classe sociale era ora silenziosa e lungo essa intere facciate dormivano, solo nel giorno del giudizio, quando sarebbe stato firmato il trattato di pace si sarebbero rialzate mostrando ancora le loro colorate facciate, o forse cambiando esistenza per sempre.

Rasenti al muro di una casa sulla sinistra tre soldati grigi avanzavano ingobbiti con in mano un panzerfaust ciascuno, dall'altra parte della strada l'occhio attento di Ulric li osservava

«Gut, i panzergranatieri della 14° Divisione Panzer hanno quasi presidiato tutti gli edifici dall'altro lato. Noi siamo in posizione Franz?»

L'interpellato scosse la testa

«Abbiamo sbagliato edificio, qui dobbiamo lasciare le armi per Eber, per poi proseguire, noi dobbiamo presidiare la “Trattoria da Vincent”, un vecchio locale da cui dobbiamo colpire il quarto dei carri in entrata»

Ulric si fece scappare una bestemmia, seguita da un successivo

«Muoviamoci allora!»

 

Pochi minuti i cinque t-34 tanto attesi si stavano muovendo in colonna ad una distanza di cinque metri circa l'uno dall'altro. Tutt'intorno seguivano reclute, male armate e mal' equipaggiate, per proteggere le bestie da eventuali cacciatori negli edifici circostanti.

Dalla torretta del carro di punta fuoriuscì un'ufficiale con un binocolo tra le mani, che puntò rapidamente in fondo alla strada.

«In fondo alla via non vedo cannoni, continua con questa velocità».

 

La calma era oppressiva e troppo piatta. L'aria pesante amplificava il cigolare dei carri e i passi della fanteria, ad un tratto tutto si ruppe.

Una fiammata seguita da un'esplosione assordante invase il primo corazzato, il cui capocarro rientro prontamente all'interno. Dai tetti delle abitazioni parallele al terzo carro due MG42 cominciarono a vomitare fuoco, riempiendo la strada di piccoli solchi.

Le bestie si arrestarono sul posto, la prima squarciata dalla mina che gli aveva nettamente diviso il cingolo destro rimase immobile per qualche secondo, poi si sentì un grido

«Indietro!! Tutta indietro!!»

Il pilota eseguì l'ordine senza sapere ciò che era successo al carro.

Dall'edificio a destra del primo carro tre soldati si affacciarono velocemente ad una delle finestre, facevano parte della 103esima armata Panzergranadier della 14° Divisione Panzer. Il “pugno d'acciaio” partì perforando in pieno il fianco del carro che esplose come una fontana di fuoco.

Il secondo mezzo aveva già cominciato a girare la torretta verso la mitragliatrice alla sua destra, quando da una delle finestre un grosso soldato della riserva della 103° armata si affacciò con un panzerschreck mirando direttamente alla stiva munizioni del carro, come se potesse vederla attraverso il metallo. Un'altra esplosione bruciò l'aria.

Nello stesso momento da due vicoli sul fondo della strada fecero la loro comparsa i reparti Volkssturm, comandati dalla Carogna essi si misero in centro alla strada, scaricando violente raffiche di fuoco alla fanteria sui fianchi.

Alla fine uno dei fratelli Orlin sbucò da una delle porte con un panzerfaust, puntando al mezzo di coda. Il colpo errò di traiettoria, rimbalzando sulla corazza laterale del mezzo che nell'attimo precedente aveva ruotato di pochi gradi anche se sufficienti ad angolarlo perfettamente. Esplose la facciata dell'edificio di fianco ai Volkssturm, facendo cadere rovinosamente cemento sui miliziani al centro della strada.

Pochi attimi dopo intervennero due soldati sempre della 14° Armata Panzer anche se questa volta della 108° Panzergranadier, che fulmineamente spalancarono la porta di uno degli edifici e salirono sul mostro di coda, appoggiarono un grappolo di granate sulla piastra del motore del veicolo e con la stessa velocità tornarono da dove erano venuti. L'esplosione fu accecante ma ottennero solo l'incendio del mezzo in questione. Che lanciando una fiammata degna di uno spettacolo di uno sputafuoco mosse a tutta velocità indietro. Investendo alcune Volkssturm e finendo la sua corsa dentro uno degli ex-negozi di dolciumi della via, dando fuoco a metà di esso.

Franz e Ulric dalla loro precaria posizione a terra calibrarono il tiro del panzerfaust e infine mandarono a fuoco anche il quarto mezzo, da cui fuoriuscirono i membri dell'equipaggio, che vennero prontamente falciati come la fanteria di supporto dal fuoco incrociato delle due MG42.

L'ultimo mezzo, ovvero il terzo nella fila decise di non arrendersi nonostante fosse circondato dalle carcasse dei carri distrutti. Girò velocemente su se stesso evitando per miracolo due panzerfaust lanciati da posizioni sopraelevate che alzarono una coltre di fumo intorno ad esso.

Il t-34 si trasformò in un ariete da trenta tonnellate, che andò rovinosamente ad infrangersi contro l'edificio alla sua destra, su cui appollaiati vi erano 7 uomini tra addetti alle mitragliatrici e addetti ai mezzi anticarro. L'Edificio crollò seppellendo i loro corpi insieme al carro nemico, mentre il resto dei soldati poté osservare solo una fitta nebbia di polvere diramarsi dall'edificio.

 

 

15 minuti dopo circa

 

«Unteroffizier Kest!»

Una staffetta correva verso il piccolo forte di cemento distante qualche centinaio di metri dallo scontro, sul cui tetto tra le mitragliatrici il sergente Kest stava osservando i cieli con un binocolo sporco.

«Riferisca prego»

La staffetta si mise sull'attenti una volta raggiunto il tetto e riferì

«Dal Gefreiter Eber: 16 morti, 5 feriti, 5 panzerfaust utilizzati, 1 razzo, 2 casse di munizioni per MG42. Materiale perso: 1 MG42, circa altri 5 panzerfaust, 1 panzerschreck, 10 granate modello 40 e circa 3 casse di munizioni. Materiale recuperabile tramite riparazioni: 2 panzerschreck.»

Kest guardò preoccupato i lampi dei cannoni sovietici dai boschi attorno alla città poi disse

«Riferisca al caporale Eber i miei ordini: Ritirarsi con i feriti, lasciar perdere i dispersi. Sta per piovere»

 

 

Dal 30 marzo al 5 aprile piovve acqua amara.

Uno sbarramento a tappeto dell'artiglieria sovietica continuato assediò la città per 6 giorni, nonostante il completamento dei bunker negli ultimi giorni di marzo la città subì il crollo totale degli edifici civili, già colpiti dai bombardamenti alleati nel '44 e dei sovietici lo stesso anno.

 

 

 

 

Emma si avvicinò al vecchio soldato portando garza e un antidolorifico, era disteso su di un lettino in una grande sala piena di letti improvvisati e paramedici che eseguivano una spola fra i letti.

«Come va oggi Osvald?»

L'anziano milite alzò la testa poi rassegnato ricadde coricato, così l'infermiera si avvicinò posando la garza e aprì la siringa.

«E' finita la guerra? Che giorno è oggi?»

L'infermiera ribatte pazientemente

«Per nostra sfortuna no, in quanto al giorno oggi è il 4 aprile 19...»

Non fece in tempo a terminare la frase quando un urlo squarciò l'aria

«No!! No!! NO!! Basta! Lei è qui per aiutarmi? No! Lei è qui per vedermi soffrire, non mi infilerà di nuovo quella cosa nel braccio! Io voglio morire non voglio rimanere qui con questi bastardi! I Rossi mi scuoieranno vivo, qualcuno deve uccidermi prima che arrivino! Io li odio, li odio, li vorrei ammazzare tutti! Fino all'ultimo!»

Il soldato si gettò giù dal letto, gridando per l'acutissimo dolore e in preda al panico strisciò velocemente sotto il letto del camerata ricoverato vicino a lui utilizzando solo il braccio di sinistra, l'unico funzionante.

Un soldato della 1°divisione fanteria corse subito verso Emma e aggirò il letto in questione. In poco il cinquantenne fu di nuovo sul letto, sedato e dormiente.

Il soldato poi rassicurò l'infermiera

«Osvald è duro come l'acciaio, ce la farà, supererà anche questa guerra. Se ripenso a cinque anni fa, stavamo combattendo insieme, in Francia. Mi salvò da un proiettile di artiglieria che mi avrebbe centrato in pieno» rise piano

«Mi trattò come un figlio, e ora è giunto qui, merita un posto in paradiso. Se devo morire in questa guerra, mi piacerebbe farlo vicino a lui»

Emma guardò il giovane soldato, poi mossa da una compassione e da un'emotività fuori dal comune gli confidò

«Morirà entro due giorni al massimo, mi dispiace, ho fatto tutto quello che potevo, ma le schegge gli sono entrate troppo in profondità. E' meglio che tu lo sappia»

Poi si strinse al soldato che si era accovacciato al letto, rimasero li, a piangere, mentre fuori cominciò un altro bombardamento, un altro allarme, ancora una volta l'artiglieria sarebbe parsa insaziabile, altri soldati sarebbero morti tra atroci sofferenze.

   
 
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