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Autore: AintAfraidToDie    13/07/2017    5 recensioni
Lo sconosciuto - Sherlock - aveva quindi sorriso, e John non aveva potuto fare a meno di sorridere a sua volta. Era andato proprio così, il loro primo incontro, e quel che era avvenuto poi era stato semplicemente un susseguirsi di eventi per la maggior parte scontati; John che entrava a scuola perché era ovvio, non avrebbe mai bigiato il primo giorno, nemmeno per un tipo come Sherlock Holmes. John che però non era in grado di prestare attenzione neanche ad un misero quarto d’ora di lezione poiché troppo impegnato nel pensare a quello strano ragazzo che aveva approcciato lui; lui!, davvero, un tipo così ordinario da poter essere catalogato quasi come ‘invisibile’. John che usciva dall'istituto nel primo pomeriggio, a quel punto quasi convinto di aver avuto un’allucinazione mattutina, ed invece trovandoselo inaspettatamente davanti di nuovo.
“Hai qualche altro inutile impegno, John Watson?”
[Johnlock] [1950s]
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Molly Hooper, Sherlock Holmes
Note: AU, Lime | Avvertimenti: nessuno
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“Drive

In

Me.”

 

Era Autunno, nel Maine, la prima volta in cui baciò Sherlock. Un venerdì sera già di per sé fantastico, ma che dopo quel tocco di labbra si elevò tranquillamente allo status di memorabile. Non che la vita di John Watson fosse stata costellata da una vasta gamma di momenti elettrizzanti, prima di conoscere quel ragazzo enigmatico dagli spessi capelli scuri come la pece: aveva sempre vissuto un’esistenza tranquilla, forse mediocre sotto svariati punti di vista; ma lui la reputava non male, ecco. Si era sempre accontentato, John, senza nemmeno dispiacersene troppo.

Comunque quella sera era quasi mezzanotte, ed il suo coprifuoco era inevitabilmente sforato di una buona mezzora. Il film che si erano goduti dall’interno della Cadillac nera di Sherlock era ormai arrivato ai titoli di coda ma, come al solito, il moro non dava segni di volersene andare.

“Alle nove ti vengo a prendere, John.” gli aveva detto quello stesso pomeriggio, aspettandolo all’uscita del doposcuola. Sherlock non partecipava mai a quegli incontri che appellava con non troppo gentili termini che andavano dal ‘noioso’ al più specifico e cruento ‘atto di lobotomia legalizzata’. Ma era lì ogni lunedì, ogni mercoledì ed anche ogni venerdì. John varcava sempre la porta principale dell’istituto pervaso da una vaga euforia, certo di poter scorgere quella usuale figura appoggiata sul cofano della sua costosa macchina, con una perenne sigaretta incastrata tra le labbra.

“Alle nove? Lo sai che non posso fare tardi, la sera.” era stata la sua iniziale e moralistica reazione.

“Oh, andiamo, John. Hai davvero sedici anni oppure ne hai quattro?” Sherlock lo aveva schernito di rimando, infilandosi al contempo dentro la macchina ed iniziando ad avviarsi.

John non riusciva a ricordare il quando ed il come si fosse instaurata quella piacevole routine, fra di loro. Molto probabilmente la naturalezza con la quale si era venuta a creare avrebbe dovuto destargli qualche senso di timore o di preoccupazione; la realtà era che l’unica cosa che riusciva a pensare in quel periodo riguardava la prepotenza con cui Sherlock Holmes era entrato nella sua vita cambiando tutto, sì, ma sicuramente in meglio: a partire dalla mezzora di bicicletta per andare e tornare da scuola che gli risparmiava con i suoi passaggi, fino ad arrivare alla particolare e strana contentezza che ormai lo pervadeva ogni giorno sin dal suo risveglio. John Watson non si era mai svegliato così arzillo alla mattina, proprio no.

 

 

***

 

 

Oh, Sherlock era davvero un tipo strano, di certo non passava inosservato. John ne era rimasto colpito subito, quel primo giorno di scuola del suo secondo anno che oramai gli sembrava distante anni luce; ed invece erano appena passati soltanto due miseri mesi, questa consapevolezza aveva un che d’incredibile. Comunque aveva notato prima la sua auto, piuttosto che lui stesso, doveva essere sincero: da amante dei motori quale era, come non potersi fermare a rimirare quel gioiellino della meccanica verniciato di nero brillante? Era estremamente raro, il vedere certe macchine in paese, figuriamoci davanti al suo liceo.

“Hei, cerca di non sbavarci sopra, quattrocchi.” aveva udito alle sue spalle dopo attimi interminabili di osservazione, quella mattina, e tale voce lo aveva indotto a girarsi di scatto trovandosi davanti colui che altri non poteva essere se non il proprietario di quella favolosa Cadillac serie 62: uno spilungone dai capelli perfettamente impomatati, munito di quella tipica giacca in pelle nera che tanto andava di moda nel ’55 ma che John disprezzava con tutto sé stesso poiché non se la sarebbe mai potuta permettere; proprio mai, eh. In più gli mancava l’atteggiamento giusto per indossarla, credeva.

“Scusa, ma è veramente fantastica.” era arrossito parlando, solo un poco, ma quel tanto bastava per fargli abbassare lo sguardo e battere in ritirata all’istante verso l’ingresso dell’istituto.

“Aspetta!” si era sentito richiamare dalla medesima voce, ma con un tono molto meno acido e tagliente. Quindi, quasi d’istinto, si era voltato ed aveva riportato lo sguardo sul volto dell’altro ragazzo. “Ti va di farci un giro?” aveva continuato il moro, ed un “eh?” sconcertato gli era uscito fuori dalla bocca ancor prima che le sue sinapsi fossero capaci di creare un collegamento cognitivo.

“Non mi va di entrare a scuola.” aveva spiegato lo sconosciuto, accendendosi un Marlboro rossa con fare svogliato. John in quel momento non aveva proprio potuto evitarsi il riflettere su quanto fosse scontato il trinomio composto da abbigliamento di marca, macchina di lusso e sigaretta alla bocca. Ma stranamente non lo aveva infastidito, anzi.

“Ti ricordo che è il primo giorno di scuola, e poi non so neanche il tuo nome.” gli aveva risposto dopo qualche secondo di silenzio riflessivo.   

“Noioso.” si era limitato a sillabare l’altro, inspirando tabacco, e John aveva sgranato evidentemente gli occhi. “Sei noioso, John Watson.”

“Come fai a sapere il mio nome?” gli aveva chiesto, con sincera e quasi sconcertata curiosità.

“La tua adorabile cartella ricamata dalle mani di tua madre, ovvio. Una casalinga, suppongo.” il moro gli aveva regalato un’altra occhiata vagamente sorpresa, vedendolo pendere dalle sue labbra. “Vuoi che continui?”

John aveva semplicemente esalato un flebile ed inevitabile “sì”.

“Hai una sorella, maggiore, direi. I tuoi accessori di seconda mano, la bicicletta dalla struttura femminile. Tuo padre è un militare, oppure un marine, sicuramente un uomo appartenente alle forze armate, comunque.” gli aveva elencato tutto a ripetizione, indicandogli con qualche cenno di mano prima la bici, poi il golfino sformato che indossava ed infine la medaglietta militare che portava al collo ma che veniva nascosta dal colletto della sua camicia a quadri. “Ho sbagliato qualcosa, John?”

“No.” lo aveva continuato a guardare fisso e basta, sinceramente sconvolto. “Straordinario.”

Lo sconosciuto - Sherlock - aveva quindi sorriso, e John non aveva potuto fare a meno di sorridere a sua volta. Era andato proprio così, il loro primo incontro, e quel che era avvenuto poi era stato semplicemente un susseguirsi di eventi per la maggior parte scontati; John che entrava a scuola perché era ovvio, non avrebbe mai bigiato il primo giorno, nemmeno per un tipo come Sherlock Holmes. John che però non era in grado di prestare attenzione neanche ad un misero quarto d’ora di lezione poiché troppo impegnato nel pensare a quello strano ragazzo che aveva approcciato lui; lui!, davvero, un tipo così ordinario da poter essere catalogato quasi come ‘invisibile’. John che usciva dall’istituto nel primo pomeriggio, a quel punto quasi convinto di aver avuto un’allucinazione mattutina, ed invece trovandoselo inaspettatamente davanti di nuovo.

“Hai qualche altro inutile impegno, John Watson?” gli aveva detto subito con tono scaltro e no, certo che non lo aveva, certo che voleva provare quella bomba di macchina, certo che voleva passare del tempo con quel tipo eccentrico dallo sguardo strano. Quindi  John era montato sulla sua macchina ed essa era partita all’istante, senza cognizione di meta o di tempo, semplicemente andando. Così viveva Sherlock Holmes, in fondo, anche se lui non lo sapeva. John Watson non sapeva niente, ancora.

 

 

***

 

 

Sherlock Holmes puzzava sempre di sigarette e di gelatina per capelli; John odiava questi due odori  sin dall’infanzia, davvero, ed era certo del fatto che non si sarebbe mai abituato ad essi. Imparò a conviverci, diciamo. In realtà il passare del tempo con Sherlock implicava il convivere con un sacco di cose, oltre che con il suo smisurato ego.

In primis, non vi erano dubbi, stare con Sherlock significava ascoltare musica quasi ventiquattr’ore su ventiquattro. Sherlock era musica alle sette di mattina, alle cinque del pomeriggio ed anche alle undici di sera. Per John, che fino ad allora aveva al massimo udito qualche cassetta di suo padre durante i viaggi in auto più lunghi delle vacanze estive, tutto ciò non poteva che essere davvero insolito: non aveva mai ascoltato così tanta musica in tutta la sua vita, e mai si sarebbe immaginato di farlo. Perlomeno all’inizio della loro conoscenza, comunque. Poi ne fu inevitabilmente affascinato perché Sherlock non si limitava ad ascoltare o fischiettare motivetti, Sherlock cantava.

Anche quel venerdì sera d’inizio Novembre, in quel drive-in che ormai frequentavano abbastanza assiduamente, John sapeva bene che sarebbero stati gli ultimi a rimanere nel parcheggio. Sapeva che avrebbero fatto tardi, sapeva che Sherlock non avrebbe messo in moto la macchina finché il grosso schermo del cinema all’aperto non si fosse oscurato completamente.

Lui, e quei suoi film strani. John conviveva anche con i suoi gusti assurdi, e con quelle abitudini impossibili da modificare o da levigare almeno un poco. ‘Quarto potere’, s’intitolava così, la pellicola proiettata quella sera; alla regia un tale Orson Wells presentatogli da Sherlock come un ‘visionario futurista’. John si era impegnato, davvero, ma quando a circa metà film si era reso conto di non averci capito letteralmente niente aveva semplicemente lasciato perdere, spostando la sua attenzione su altro.

Su Sherlock, in realtà, che non distoglieva mai lo sguardo dall’enorme schermo posto davanti a loro. Il sedile fatto scivolare completamente all’indietro, le gambe totalmente distese nel senso contrario; anche John se ne stava così, ma non riusciva ad avere lo stesso portamento, la medesima naturalezza. Sherlock Holmes, nonostante la sua eccentrica personalità, non era mai fuori luogo. Anche quando cantava; John al suo posto si sarebbe vergognato tantissimo, ma Sherlock no, e non ne aveva davvero motivo. Sherlock cantava, cantava sempre, qualunque cosa facesse ed in qualsiasi posto si trovasse.

Anche i film gli piacevano, certo, ma ciò che più apprezzava di essi era la loro conclusione; quando la canzone più importante della colonna sonora si prendeva il suo spazio personale accompagnando i titoli di coda. Parole su parole che comunque Sherlock leggeva e che poi, quasi magicamente, ricordava a memoria. John si era sempre chiesto come diavolo facesse, ma aveva già appurato questa sua abilità attraverso vari interrogatori di sfida.

Quindi quando si recavano al drive-in rimanevano sempre lì, fino alla fine, e di solito il moro gli canticchiava il motivetto di turno per tutto il tempo del tragitto fino a casa. Non accadeva troppo spesso, ma quando succedeva le cose tendevano ad andare così.

“È stato meraviglioso, John.” gli disse Sherlock quella sera, quando ancora lo scorrere incessante di nomi e di sigle accompagnate da una sinfonia classica non era giunto al suo termine; e questa loquacità precoce era strana, in realtà. “I flashback, le immagini, i suoni disturbanti, ed infine Bach..” fischiettò appena, sorridendo con un angolo della bocca. “Fantastico, non trovi?”

“Credo di non averci capito niente, ad essere sincero.”

Sherlock rise all’istante, una risata incredibilmente di gusto; a John piaceva davvero tanto l’idea di rendersi ridicolo o di sminuirsi, se farlo significava guadagnarsi l’automatica visione di tali reazioni.

“Oh, John. Mio piccolo e tardo Watson.”distolse lo sguardo dallo schermo, guardandolo con due occhi profondi, ma chiari come ghiacciai. “Sei tu ad essere meraviglioso, John.”

Ecco, quella frase John non se l’aspettava, proprio no; tutto ciò non era ‘il solito’, tutto ciò non accadeva mai. Tutto ciò gli fece contrarre le budella, e forse fu per questo che si avvicinò mantenendosi in silenzio, con uno Sherlock immobile intento ancora nel fissarlo. Il suo sguardo seguiva perfettamente il movimento d’avvicinamento delle sue labbra: John guardava i suoi occhi, ma i suoi occhi guardavano la sua bocca; la guardarono per tutto il tempo, finché non fu troppo vicina. Finché, semplicemente, non lo baciò.

 

 

***

 

 

Fu John, a baciarlo, quindi. Sherlock non se lo sarebbe mai aspettato, davvero, ma la verità era che l’unicità di John Watson risiedeva soprattutto nella sua capacità di sorprenderlo sempre; sorprenderlo come mai nessuno aveva fatto prima. C’era riuscito sin dall’inizio, e per tale motivo l’aveva scelto e se lo era preso. L’aveva preso, sì, perché lui ciò che voleva lo otteneva: andava così da sempre, la sua vita da giovane ribelle di buona famiglia. Un paradossale gioco di parole che però descriveva al meglio la sua inusuale situazione. Sherlock Holmes, un ricco viziatello dai modi sgarbati e munito di una bella dose di sfacciataggine; così lo descriveva spesso suo fratello, mal celando una vena disprezzo. In realtà, gliene importava ben poco.

Ma John gli era sembrato davvero così piccolo, quella mattina in cui l’aveva visto osservare la sua auto come se fosse stata la cosa più bella del mondo. Un ragazzo semplice, quasi ancora un bambino, vestito con abiti d’infima qualità piuttosto ben tenuti e nascosto dietro occhiali dalla montatura scura con spesse lenti da miope. Un folto strato di capelli dorati gli incorniciava il volto e Sherlock, ogni volta che si ritrovava a ricordare tale immagine, non poteva evitarsi una leggera leccata di labbra.

Desiderare John Watson era stata la sensazione più esaltante di tutta la sua vita. Desiderare, sì, senza mai ottenerlo. Senza mai possederlo.

Eppure ‘possedere’, per Sherlock Holmes, era davvero una bella parola: uno come lui, sempre pieno di desideri, voleva possedere subito le cose. L’ultimo LP di Presley, l’ennesima giacca di pelle borchiata, un’intera collezione di prodotti igienici per la sua macchina; che differenza poteva fare? Lui chiedeva, e poi otteneva.

Il possedere, Sherlock lo aveva capito col tempo, gli arrecava però una grandissima tristezza: ottenere qualcosa significava arrivare a considerarla propria in una maniera quasi ovvia; all’improvviso non c’era più quel senso di eccitazione, quella spinta del desiderio che lo aveva inebriato in precedenza. Quindi, inevitabilmente, non era mai sazio.

Sherlock era un mostro vorace che si cibava di aspettativa e di attesa, perché ogni cosa che voleva la otteneva, e dopo averla ottenuta si ritrovava ogni volta a desiderare altro, qualcosa di nuovo, qualcosa di più.

Sherlock non era mai stufo delle sigarette, in primis. Avrebbe fumato volentieri per un’eternità intera, se questo non gli avesse assicurato un brutto malanno polmonare ogni Inverno. Anche il guidare la sua auto non lo stancava mai; lo rilassava più di ogni altra azione al mondo, e se a ciò si aggiungeva l’ascolto di musica, il binomio che si veniva a creare era in grado di mandarlo direttamente in Paradiso. Non che credesse in alcuna religione, certo, ma un suo personale Eden mentale esisteva, eccome se esisteva. Solo che era particolarmente difficile da raggiungere.

Sherlock non era mai sazio dei ragazzi, e questa sua tendenza l’aveva compresa molto prima dei suoi sedici anni. Era affamato, davvero: gli piaceva divertirsi in quella maniera un po' sporca che gli dava un certo senso di pericolo, un brivido freddo di eccitazione. Si poteva tranquillamente ammettere che Sherlock Holmes amasse poche cose, nella vita, ma una di quelle era sicuramente il sesso; il sesso con giovani ragazzi carini. Ragazzi da rendere follemente innamorati, ragazzi da conquistare velocemente e da consumare, consumarli completamente. Seguendo la regola secondo la quale non si dà da mangiare al pesce che si è pescato; ma senza cibo, lo sapeva bene, al pesce di turno rimanevano soltanto due possibilità: morire o scappare. A lui, qualsiasi cosa accedesse, non importava. Non gli importava niente, di quei giovani ragazzi carini. Ragazzi come John.

Ma John Watson era diverso, lo era stato sin da subito. John non voleva essere guardato; John era così bello, ma non voleva essere guardato, Dio, come faceva a pensare questo? Sherlock non se lo spiegava. Ed anche se aveva osservato la sua macchina esattamente come avevano fatto i cinque ragazzi che si era scopato prima di lui, in quei suoi occhi spalancati era riuscito a leggere qualcosa di completamente diverso: non l’invidia, non l’avidità, non la malizia. Meraviglia, sola e genuina meraviglia.

Quindi aveva fatto sì che non arrivasse per mesi, quel momento: l’attimo in cui John si fosse dato a lui in maniera palese, donandogli sé stesso e quei sentimenti che Sherlock ovviamente vedeva, ma che ignorava volutamente. La verità era che a Sherlock piaceva davvero, essere amico di John in quella maniera particolare che si era praticamente creata da sola con semplice e bellissima naturalezza. Gli piaceva guidare con lui accanto, scorrazzandolo ovunque senza mai avere un fine, se non quello di stare insieme. Gli piaceva cantargli le canzoni di Presley, domandandogli d’indovinare il cantante, ed anche se era sempre lo stesso lui immancabilmente non ci azzeccava. Ma proprio mai, eh.

E poi gli piaceva come John lo guardava. Con degli occhi, in certi momenti. Occhi adoranti, quasi.

John si tirava su gli occhiali spingendoli con il dito medio in prossimità della zona degli occhielli, quando pensava cose sconce su di loro. Poi arrossiva leggermente e non incrociava più il suo sguardo. Era terribilmente carino e Sherlock avrebbe sinceramente voluto vederlo così per sempre: sedicenne, quasi completamente glabro e vergine. Un sogno.

John arricciava anche il naso, ogni volta che lo vedeva portarsi una sigaretta alla bocca. Distoglieva gli occhi e per qualche secondo si zittiva, qualsiasi discorso stesse facendo. Gli piaceva anche questa sua espressione contrita di routine, quasi standardizzata, ma adorava molto di più il sentirlo parlare. Quindi, quasi senza accorgersene, diminuì gradualmente la quantità di cicche fumate ad un pacchetto al dì.

Sherlock lo voleva baciare, davvero, lo aveva voluto subito. Ma la verità era che aveva paura; sì, Sherlock  Holmes aveva provato la sensazione del terrore per la prima volta in tutta la sua vita. Aveva timore che tutto si sarebbe rovinato, provava disgusto davanti alla prospettiva che lui sarebbe stato quel qualcuno capace di devastare ogni cosa così come aveva sempre fatto, in fondo: stancandosi dei suoi giocattoli, oggetti o persone che fossero. Smettendo di dar da mangiare al pesce, così faticosamente pescato. Uccidendolo, quel pesce. Ammazzando John.

Questo aveva pensato per mesi, non aspettandosi affatto ciò che realmente avvenne: il non riuscire a riflettere su cosa ci fosse di meglio al mondo rispetto al baciare John Watson. Niente, davvero, dopo quel bacio al drive-in non ci poteva essere niente di più, né niente di meglio. Dopo quell’attimo, dopo quelle labbra che aveva osservato avvicinarsi millimetro dopo millimetro, quasi terrorizzato, sicuramente col cuore che batteva a mille. Nient’altro.

Solo John Watson.

Quindi John lo baciò per primo, ma Sherlock prese il controllo dell’atto subito dopo, tramutando quel tocco di labbra in una pomiciata vogliosa. Infilandogli la lingua in bocca con uno scatto feroce, come se la sua libido gli stesse facendo pagare il conto di tutti quei mesi d’attesa. La bocca di John era vergine, calda, pulita: il piccolo Watson era un autentico maniaco della pulizia e delle buone abitudini. Sherlock si era sempre chiesto cosa ci avesse trovato in lui, un essere così inquadrato nella società e nei principi morali come John.

Eppure eccolo lì, il candido Johnny, intento nel risucchiargli la lingua in bocca soffocandogli ansiti pronunciati direttamente in gola. E Sherlock ci pensava, ci rifletteva, già lo credeva, sì, ma in quel momento ne ebbe la conferma: non si sarebbe mai stancato di John Watson. L’unico timore che iniziò a pervadergli l’anima, da quel momento in poi, fu la dolorosa consapevolezza che molto probabilmente sarebbe potuto succedere il contrario.

 

 

***

 

 

L’Estate del 1956 fu veramente e straordinariamente calda, nel Maine. John non ricordava di aver mai sperimentato un’afa talmente asfissiante in diciassette anni di vita. Sherlock, come suo solito, non aiutava: nonostante il torrido calore esterno lo persuadeva ad uscire lo stesso, impossibilitato nel rinunciare al suo scorrazzamento in auto giornaliero e facendogli fare dei bagni di sudore non indifferenti.

“No, oggi mi rifiuto, Sherlock. Saranno quarantacinque gradi all’ombra, mi vuoi forse uccidere?” gli disse quel pomeriggio, ancor prima di salire nella macchina che ormai accomunava più ad un forno a legna, parlandogli dal finestrino abbassato.

Sherlock lo guardò inizialmente in maniera torva, mantenendosi in silenzio, per poi occhieggiarlo con un preciso sguardo diverso che John aveva imparato a catalogare con il termine ‘pericoloso’.

“Allora andiamo da me.”

John acconsentì dopo qualche secondo annuendo e basta, rincuorato dalla consapevolezza della presenza di vari ventilatori sparsi quasi in ogni stanza della villa del moro; in realtà ne aveva visti giusto due o tre, prima di entrare in quella casa per la prima volta. L’abitazione di Sherlock era quasi un vero e proprio palazzo monumentale, enorme ma discreto, rallegrato dalla presenza di un’anziana governante che palesava sempre la sua presenza con un ottimo the e buonissime fette di torta di mele. Quel pomeriggio, però, ciò non accadde.

La camera di Sherlock era, a suo personale dire, un disordine ordinato: su ogni superficie disponibile erano poggiati libri, posacenere sempre stracolmi e vestiti stropicciati. Il moro amava incondizionatamente lo starsene disteso sul letto, in silenzio, perdendosi nei suoni prodotti dal giradischi di buona fattura che il suo strano fratello gli aveva regalato per il suo compleanno; solo in tale occasione John ebbe la possibilità di ascoltare parole benevoli da parte di Sherlock nei confronti di quel Mycroft che, purtroppo o per fortuna, non aveva ancora incontrato. Dopotutto anche i suoi genitori parevano essere continuamente in viaggio e quella casa era sempre vuota, maledettamente vuota.

Sherlock era solo. Sherlock era pieno di cose e di oggetti, tanti regali e tanti soldi.

Ma era solo. Terribilmente.

Allora quel pomeriggio salirono le scale ed entrarono nella sua camera. Sherlock si mise subito a rovistare in una delle tante colonne di dischi in vinile presenti, tirandone fuori uno.

“È nuovo.” disse, semplicemente. “È fantastico.” aggiunse, posizionandolo nel lettore. 

John si limitò a sorridere, mettendosi a sedere sul bordo del letto. La verità era che non aveva alcuna voglia di ascoltare musica, ma non importava. Sherlock fece partire la canzone, per poi accasciarsi sul materasso con non molta grazia: si distese sulla schiena, piegando le ginocchia ed invitandolo ad appoggiarsi; non glielo disse a voce, certo, ma non ve ne era bisogno. John quindi si posò sui suoi stinchi e per un istante chiuse gli occhi. Poi la voce di Presley, e John ormai aveva imparato a riconoscerla, invase il perimetro della stanza.

 

Well, since my baby left me

Well, I find a new place to dwell

Well, It’s down at the end of lonely street

At Heartbreak Hotel

Where I’ll be

Where I get so lonely, baby

Well, I’m so lonely

I get so lonely, I could die..

 

Sherlock cantò, ovviamente, sussurrando quasi in realtà ma per John fu più che udibile; anche se gli dava le spalle, anche se la sensazione che più avvertiva distintamente era il vibrare delle sue ginocchia secche. Quel che sapeva, o che perlomeno credeva di sapere, era il fatto che Sherlock non fosse realmente lì, lì con lui: Sherlock era sicuramente dentro la canzone, all’interno della sua melodia, nell’incantesimo creato dall’intreccio di quest’ultima con le parole pronunciate. Come sempre.

Allora si staccò dal loro contatto facendo leggermente forza sugli addominali, ruotando di poco il busto. Il suo sguardo finì inevitabilmente su quello sterno nudo, poiché Sherlock si era tolto la sua usuale canotta bianca con l’intento di patire meno caldo; provò a non sbirciare, davvero, ma non riuscì proprio ad evitarlo. Quindi si scosse volontariamente, alzando gli occhi in un battibaleno ed arrivando al volto: due occhi stranamente spalancati lo colsero di sorpresa. Quelle pupille che lo fissavano; Dio, a John mancò il respiro. Sherlock continuò a canticchiare, non distogliendo gli occhi e legandolo a sé in maniera intensa, quasi come se stesse pronunciando un incantesimo.

 

Well, though it’s always crowed

You still can find some room

For broken-hearted lovers

To cry there in the gloom

And they’ll be so lonely

They’ll be so lonely, baby

They’ll be so lonely, they could die..

 

If you leave me, John. Well, I’ll be so lonely, baby. I’ll be so lonely, I could die.” intonò alla fine, andando a prendergli le mani con le proprie per mezzo di movimenti lenti e calibrati, ma stringendogliele poi con una presa forte e palesemente caratterizzata da tensione.

John, sul momento, non potette proprio credere a ciò che i suoi sensi gli avevano appena fatto registrare. La sua vista che gli poneva davanti l’immagine di uno Sherlock mezzo nudo, intento nel fissarlo e basta. L’udito che gli aveva fatto sentire le parole, quella specie di dichiarazione inaspettata ed anche fin troppo romantica, conoscendo gli standard del moro.  Poi il tatto, che continuava a fargli avvertire quegli arti sudati attorcigliati fermamente ed il battito cardiaco dell’altro; forti e ritmici colpi accelerati direttamente sul suo palmo, il cuore di Sherlock nella sua mano. Gli mancò il fiato, semplicemente.

John Watson non si aspettava niente di tutto ciò, quell’afoso pomeriggio d’Agosto del ’56. John non si aspettava mai nulla, anche se erano passati quasi trecentosessantacinque giorni da quando la sua vita era stata completamente rivoluzionata da quel tornado denominato ‘Sherlock Holmes’. Eppure quell’evento atmosferico umano riusciva a conquistarlo sempre, ogni giorno un po' di più; era veramente incredibile e razionalmente inverosimile, il modo in cui ogni ambito della sua vita ruotasse intorno a Sherlock. Ma nonostante ciò, sentiva di non meritarselo. Credeva di non essere abbastanza. No, non lo era.

John non riusciva neanche a permettersi di pensarlo, il fatto di essere in grado di sortire a Sherlock tutto quel che quest’ultimo era invece capace di fargli provare anche solo con  l’ausilio di uno sguardo più intenso. Era troppo, per John. Sherlock era sempre troppo in tutto.

Sennò non sarebbe stato lì, certo. Su quel letto, con quel caldo, appoggiato alle sue gambe lunghe e perennemente tese. Inspirò profondamente, senza trovarne giovamento: John odiava la camera di Sherlock, in realtà; puzzava come una ciminiera e l’areazione era sempre pari a zero, quasi soffocava a volte. Quello era uno di quei momenti.

Però sopportò, ovvio, non poteva far altro. Non poteva proprio far altro, già, se quegli occhi continuavano a guardarlo in quella maniera. Anche se sapeva che mai si sarebbe dovuto trovare lì, su quel letto, con quel caldo, in quella casa tremendamente grande e vuota, insieme a Sherlock. Sapeva pure che anche solo con i baci erano già andati troppo oltre; tutta quella saliva che ormai si scambiavano quasi settimanalmente, beh, era un guaio. Eppure era stato lui stesso a baciarlo per primo, dannazione! E l’aveva ribaciato molte altre volte, dopo la fatidica serata al drive-in. Gli era piaciuto così tanto, ci aveva pensato per notti intere. Anzi, si erano ribaciati, poiché gli era sembrato che Sherlock non stesse aspettando altro. Ed in quel momento, nel presente, cosa si aspettava? John se lo chiedeva sinceramente, ma non riusciva a trovare una risposta a tale domanda. Forse voleva una reciproca dichiarazione d’intenti?

Non lo sapeva, davvero. John non sapeva come reagire alle azioni del moro; ma non si sarebbe dovuto trovare lì, su quel letto, in quelle condizioni pietose, in quel preciso momento. Con Sherlock che gli provocava così tanto, così esageratamente troppo.

“Io non ti abbandonerò mai, Sherlock.” gli uscì fuori dalla bocca alla fine, quasi in maniera inconsapevole, stringendogli le mani con forza mentre il giradischi era ormai muto da interminabili secondi. Perché in fondo John Watson era così: un ragazzo capace di perdersi in migliaia di elucubrazioni, ma che poi agiva principalmente mosso da semplice e puro istinto.

“Tutti se ne vanno, John.” Sherlock gli rispose quasi all’istante, guardandolo ancora dritto negli occhi, mal celando però una certa freddezza che riuscì quasi a fargli male.

“Io no.” lo esalò piano, senza aggiungere altro, poiché non voleva più parlare se farlo significava rischiare di rovinare un momento così raro e bello. La scelta delle parole da usare con Sherlock a volte non era facile, davvero. Quindi, molto spesso, era meglio il silenzio. Anzi, meglio ascoltarlo cantare. O baciarlo.

John lo baciò, quindi; forse era davvero quasi sempre lui, il primo ad avvicinarsi in quel senso, pensandoci un po' su. Ma la verità era che tale riflessione gli sovveniva alla mente in contemporanea con l’atto stesso, per cui la lucidità per rimembrare risultava essere ampiamente insufficiente. Infatti si dimenticò di tutto nel giro di pochi secondi, andando a sovrastare il corpo di Sherlock con il suo. Poco gli importò del caldo e del sudore: gli aprì le gambe facendo forza sulle sue cosce candide con entrambe le mani e ci scivolò nel mezzo, infilandogli la lingua in bocca ed abbassando le palpebre. A quel punto Elvis cantava ‘I was the one’, ma John la musica non la sentiva proprio più.

Sentiva piuttosto il calore del fisico dell’altro che andava ad aumentare esponenzialmente il suo. A John non sarebbe dovuto piacere il fisico asciutto di Sherlock, ne era consapevole, eppure amava toccare i suoi ossi sporgenti, soprattutto quelli in prossimità dei fianchi: aveva osato sfiorarli appena e poche volte, da nudi, ma in quel momento li arpionò e ne gustò appieno la consistenza. Un brivido gli percorse la spina dorsale all’istante, ed allora pensò ancora che Sherlock Holmes non gli sarebbe dovuto piacere così tanto, dannazione; non in quel senso così sbagliato.

Eppure eccolo lì di nuovo, John Watson, a leccargli le labbra con un’ingordigia inopportuna. Nessuno gli aveva mai fatto quell’effetto, nessuno. Nemmeno Mary, l’unica fidanzata che aveva avuto all’inizio del primo anno, una storiella di due mesi giunta al suo epilogo ancor prima che lui potesse accorgersene. Non aveva mai parlato di lei con Sherlock, non perché non avesse voluto, semplicemente non ci aveva proprio più pensato: ma a John era piaciuta davvero Mary, ai tempi. Gli era piaciuto anche baciarla, prenderla per mano e, per quell’unica volta, affondare il volto nella sua abbondante seconda di reggiseno.

Ma Sherlock. Dio, Sherlock.

Sherlock era troppo. Sherlock era tutto.

 

 

***

 

 

Se John Watson voleva di più, Sherlock glielo avrebbe elargito più che volentieri. Non aspettava altro, era vero. Non voleva altro, avrebbe anche potuto ammetterlo con tranquillità, se il suo adorato biondino avesse soltanto avuto l’ardire di chiederglielo. Ma John non chiedeva mai nulla, non era il tipo: John pensava, desiderava in silenzio, fremeva. John poi, di punto in bianco, si muoveva e scattava. Si avvicinava e lo baciava con un carico d’intensità talmente elevato che avrebbe mandato in tilt chiunque, persino uno come Sherlock Holmes.

Quindi inizialmente lasciò che John esplorasse la sua cavità orale in maniera passiva, inebriandosi ed approfittandosi di quel momento d’esplosiva passione. Poi, quasi preso da una strana frenesia, ribaltò le posizioni con un colpo di reni deciso e John sussultò visibilmente nel ritrovarsi sotto di lui, divampando in risposta.

“Che cosa vuoi, John?” glielo soffiò sulle labbra, andando ad intrappolargli i polsi sopra la testa con un movimento lesto e sentendolo contrarsi nervosamente.

“Baciarti.” lo sentì mormorare dopo qualche secondo; ma Sherlock non si poté di certo ritenere soddisfatto di tale risposta, per cui fece scivolare la sua gamba mezza nuda su quell’inguine già un po' gonfio e lo frizionò appena.

“E poi?” gli alitò sul viso, scatenando un evidente tentativo di divincolamento.

“Sherlock..” un mesto ansito da parte di John, che poi si spinse in avanti soltanto con l’ausilio del collo, prendendosi la sua bocca con irruenza.

Sherlock però si staccò subito, aumentando la distanza tra i loro visi.

“Voglio prendertelo in bocca, John.” glielo disse guardandolo negli occhi, osservando con gusto le sue guance arrossare ed il suo respiro mozzarsi all’improvviso.

In testa aveva ancora quelle sensazioni amare, quella paura di essere abbandonato anche dall’unica persona che contava; l’unico essere al mondo capace di farlo sentire amato, unico, non sbagliato, semplicemente speciale. Come faceva John, a non vedere tutto il male che albergava in lui? Come poteva rimanere al suo fianco nonostante tutti i contro che inevitabilmente vi erano?

Sherlock, forse per la prima volta nella sua vita, non sapeva. Ignorava, semplicemente, ed in più temeva che pure John Watson non possedesse risposte chiare a quelle importanti domande. C’era quasi sempre confusione, negli occhi chiari e limpidi di quel ragazzo che teneva in pugno la sua stessa esistenza senza neanche rendersene apparentemente conto.

Ma non in quel momento, su quel letto, con quel fottuto caldo. C’erano sempre quei due occhi splendenti, certo, ma ormai erano piuttosto vacui e liquidi, un po' combattuti e visibilmente annebbiati da un desiderio che Sherlock decise all’improvviso di sfruttare a suo pro. La realtà, per quanto subdola e meschina, era che voleva legare John a sé con ogni mezzo e con qualsiasi stratagemma possibile: con l’amore, con il sesso, con qualsivoglia metodo che conosceva e che aveva sempre funzionato con gli altri; perché non avrebbe dovuto essere performante con John?

Quindi fece scorrere le sue mani sotto la maglietta del biondo in maniera lasciva, saggiando la pelle morbida e liscia del bassoventre.

“Voglio leccartelo, John.” continuò a far scivolare le dita in prossimità del bordo dei pantaloni di leggero cotone usurato, trattenendogli lo sguardo puntato addosso. Stava per cedere, lo vedeva. Allora gli sganciò i piccoli bottoni che trattenevano l’indumento senza doverci prestare anche solo un minimo di attenzione. Era suo, quasi; ancora un leggero tocco, ancora un lieve sussurro in più.

“Voglio succhiarti il cazzo, John.” lo disse, alla fine, avvertendo un mezzo sorriso di vittoria affacciarsi direttamente sul suo stesso volto.

E magari fu proprio quell’accenno, l’errore più grande. La spavalderia dell’aver pensato che ce l’aveva fatta; che John era alla sua mercé e che gli avrebbe preso quell’uccello vergine in bocca, dando vita ad uno dei momenti più belli passati insieme. Non andò così.

Nella realtà John si divincolò velocemente sfuggendo alla sua presa con poca difficoltà poiché Sherlock, in essa, non ci aveva realmente messo forza neanche per un attimo.

“Sherlock, fermo.” biascicò alzandosi dal letto e ricomponendosi con gesti nervosi. “Io.. io dovrei andare.” aggiunse poi, senza guardarlo e con un tono davvero fievole, ma che a Sherlock sembrò quasi un urlo nel silenzio più assoluto.

E non riuscì a dire niente, davvero; il vuoto, dentro la sua testa. Un oblio che gli pervase la mente, nonostante lo sforzo sovrumano che attuò nel riflettere su un modo per risolvere immediatamente quel disastro da lui stesso creato. Ma John infine gli lanciò un’occhiata esitante, poco prima di fiondarsi fuori dalla sua stanza senza più proferire alcunché. Lo lasciò lì, da solo, inginocchiato su quel materasso, con quel caldo che ormai gli donava quasi un sollievo se confrontato al gelo siberiano che aveva invaso i suoi lombi ed il suo cuore. Nel mentre, Elvis intonava le ultime strofe di ‘I forgot how to forget’, e tutto ciò gli sembrò quasi un maligno scherzo del destino.

 

 

***

 

 

John rivide Sherlock soltanto tre giorni dopo quel pomeriggio in camera sua, e non nella maniera in cui si sarebbe sicuramente aspettato. Non che non avesse avuto voglia di chiarirsi con lui prima di allora, ma per forza di cose non aveva proprio avuto modo di andare a trovarlo: Sherlock era sparito completamente e casa sua era stata invasa dai parenti del Tennessee. Se n’era proprio scordato, di quella visita estiva in realtà programma da mesi. In più si era anche guadagnato uno schiaffo a cinque dita da suo padre, quel tardo pomeriggio in cui era tornato a corsa da casa di Sherlock, entrando trafelato dalla porta sul retro e trovandosi davanti zie e zii, cugine e cugini inevitabilmente sconvolti dalla visione di lui completamente madido di sudore ed allibito da quelle presenze inaspettate. Che misera figura, davvero.

Sherlock non si era più presentato, comunque. John, nonostante il suo essere chiuso in casa in ostaggio dei doveri familiari, se ne era stato tutto il giorno in prossimità della finestra, regalando occhiate frequenti alla strada in cui sperava sinceramente di vedere apparire una conosciuta Cadillac nera. Ma ciò non avvenne, neanche il dì seguente.

Al terzo e per fortuna ultimo giorno di visita dei parenti, sua madre lo esortò a portare sua cugina Molly a fare un giro in paese. Una cara ragazza, niente da dire, però che noia. Sorrise di fronte a questo pensiero accomunandolo a Sherlock, ma in ogni caso accettò di buon grado, entusiasmato anche solo dalla prospettiva di prendere una buona boccata d’aria pulita. Decise di portarla da Finn, un piccolo fast food rinomato soprattutto per gli ottimi milk-shake.

“Milk-shake? Cosa sono?” gli chiese in maniera meravigliata la ragazza, un attimo prima di entrare dentro al locale. John abbozzò un leggero sorriso tirato, impegnandosi mentalmente nel trovare le parole adatte per spiegare ciò che per sua cugina pareva essere un arcano mistero: frullato di latte, vari gusti di gelato, un po' di panna, se ti va. Insomma, gli sembrò di parlare con una bambina, ma il sentirsi per una volta il più intelligente della situazione non gli dispiacque affatto. Almeno per i primi dieci minuti scarsi.

Poi gli sembrò sinceramente che il tempo si fosse come fermato, iniziando a scorrere ad una lentezza quasi disarmante. Forse tornava indietro, in realtà. Un buco temporale, un corto circuito di tutti gli orologi del mondo. Molly parlava, parlava ed ancora parlava: la stalla del bestiame, i campi di cotone, le pecore nel prato; wow, quant’è buono questo milk-shake alla fragola!

Sua cugina Molly era veramente dolce, su questo non vi erano dubbi o incertezze. Era anche carina esteticamente e vestita piuttosto bene per gli standard di una contadina del Sud: capelli lunghi e bruni, sorriso perfetto ed un fisico niente male. Anche il milk-shake al caramello che stava sorseggiando avidamente era buono; John gli adorava da sempre, i frullati di Finn, ma da quando Sherlock era entrato nella sua vita non aveva più messo piede in quel posto: il moro odiava andare per locali e la sua perenne inappetenza non aiutava di certo, poi. Sinceramente non gli era importato, alla fine. Non ci aveva neanche più pensato.

Anche in quel momento, riflettendoci quasi inconsapevolmente, avrebbe volentieri barattato quel milk-shake squisito con un rewind temporale fino al momento in cui aveva lasciato la stanza di Sherlock, sconvolto dalle sue stesse pulsioni e da tutto il turbinio di sensazioni che il moro gli aveva provocato con quel suo sfrontato comportamento.

Sfacciato, sì. Sherlock era un dannato sfacciato senza vergogna. Come aveva potuto dirgli quelle cose così, guardandolo dritto negli occhi? Come aveva potuto toccarlo in maniera talmente lasciva, senza esitare neanche per un solo secondo? Dio, lo aveva mandato completamente fuori di testa. John aveva esitato sul limite, quel pomeriggio. Un limite che si era imposto di non attraversare; perché cosa c’era, dopo di esso? Era una domanda difficile, era una domanda pericolosa. Per qualche attimo se ne era completamente dimenticato, con un meraviglioso Sherlock Holmes posizionato in prossimità del suo bassoventre, ma poi la consapevolezza di tutto ciò gli era crollata addosso come un pesante macigno e l’unico atto d’istinto che gli era sovvenuto in maniera spontanea era stato quello di scappare.

Scappare da sé stesso, non da Sherlock. Quella sua espressione ferita aveva complicato le cose, aveva aggiunto un tassello al puzzle intricato denominato a caratteri cubitali col suo nome. John non poteva che sentirsi una merda, ricordandolo, ma aveva avuto paura, una fottuta paura: terrore di sé stesso, dei suoi pensieri; di quella incredibile voglia di infilarglielo davvero, quel suo cazzo vergine in gola. Che assurdità.

Gli mancava. Gli mancava con ogni fibra del suo corpo, ma anche con ogni grammo della sua anima. Gli mancava più di quel milk-shake che non si gustava da quasi un anno. La verità era che non era riuscito a pensare ad altro, durante quei tre lunghissimi giorni: il suo pene nella bocca di Sherlock. Sherlock che succhiava la sua asta. Sherlock che tirava fuori la sua lunga lingua e..

E poi Sherlock entrò nel locale.

Fu strano. Sherlock Holmes varcò la soglia e l’attenzione di tutti i presenti fu immediatamente catalizzata su di lui, quasi fosse un essere soprannaturale vagante. Beh, in un certo qual modo lo era, lo era sempre. Con la sua bellezza oggettiva, con quel suo abbigliamento perfetto; poi la camminata, il portamento, la sigaretta in bocca, persino.

Anche Molly lo guardò, seppur gli desse le spalle. Si girò e lo osservò attentamente, seguendolo con gli occhi mentre si sedeva ad un tavolino poco distante dal loro, subito raggiunto da una giovane cameriera sui pattini che congedò con due parole nette.

“Lo conosci?” gli chiese sua cugina dopo qualche secondo, cogliendolo sinceramente di sorpresa.

“No.” fu la sua risposta istantanea. “Perché?” aggiunse poi, incapace però di concentrare la sua più completa attenzione su di lei.

“Ti sta fissando da quando è entrato, John.” ecco, forse Molly non era una poi così grande sprovveduta, alla fine. Un minimo d’acume le apparteneva.

O magari era vero. Anzi, lo era, punto e basta: quegli occhi che apparivano stanchi, ma che lo divoravano palesemente da non troppo lontano, seguendo ogni suo minimo movimento ed espressione. Con quei suoi capelli stranamente scompigliati e la bocca tirata in una smorfia apparentemente stoica, ma in realtà evidentemente nervosa. Lo vide spengere la sigaretta, ma subito se ne accese un’altra.

“Forse è meglio se torni a casa, Molly.” disse a sua cugina dopo circa cinque miseri minuti, che in realtà gli parvero un’eternità. “Io dovrei passare in biblioteca, credo farò troppo tardi.” inventò sul momento.

Non sapeva proprio che altro dire ma Molly, oltre che essere più sveglia di come l’aveva ingiustamente giudicata, si comportò anche in maniera molto discreta ed accettò il frettoloso congedo senza fare alcuna domanda. Uscirono dal locale insieme, sempre sotto lo sguardo quasi persecutorio di Sherlock, e si salutarono in prossimità dell’incrocio più vicino. Sapeva che ciò che si apprestava a fare era l’ennesimo errore: suo padre si sarebbe davvero arrabbiato, vedendo Molly tornare a casa da sola. Ma non gli importava. Non poteva fare altrimenti.

Si nascose un poco dietro la macchina di Sherlock, individuata con scontata facilità nel parcheggio del locale, e non si stupì affatto nel vederlo uscire dalla porta dello stesso nel lasso di neanche un minuto netto.

“Hei.” lo chiamò subito, quasi inconsapevolmente. Sherlock si girò immediatamente, abbagliandolo col suo sguardo, nonostante fosse leggermente rabbuiato da due profonde occhiaie.

Il moro si portò l’ennesima sigaretta alla bocca e l’accese con un scatto, raggiungendolo a passi calibrati. Gli arrivò davanti, osservandolo attentamente, ma non disse una parola.

“Andiamo a fare un giro, Sherlock.” fu quel che si decise di dire alla fine. “Però guido io.”

Non era affatto sicuro del preoccupante quantitativo di nicotina presente nel sangue di Sherlock. Quest’ultimo comunque non obbiettò, e John prese il suo silenzio per un tacito sì, porgendogli immediatamente il suo palmo destro aperto. Sherlock gli ci appoggiò nel mezzo le chiavi del veicolo, quindi montarono in macchina e partirono. Senza meta, come sempre, ma stavolta con un preciso fine.

 

 

***

 

 

John lo stava lasciando, era evidente, e quei tre giorni appena passati erano stati soltanto il preludio dell’Inferno che si apprestava a dover vivere. Tutto, aveva rovinato tutto: scontato, in un certo qual modo. Devastante in tutti gli altri ambiti possibili. Ma non se lo sarebbe davvero mai potuto immaginare, il vederlo uscire da casa sua con quella insipida ragazzetta evidentemente di campagna. Tra loro vi era una certa freddezza, era pur vero che parevano essersi conosciuti da poco; quindi cosa ci faceva nella sua abitazione, constatando questo fatto? Non riusciva proprio a spiegarselo. 

Poi l’aveva portata da Finn, e Sherlock sapeva perfettamente quanto il biondo adorasse quel locale, anche se non vi si erano mai recati insieme. Sherlock odiava i milk-shake e quel loro stucchevole gusto: in essi riusciva a vedere solo carie ai denti assicurate entro due o tre anni. Per John ci sarebbe andato, comunque, se solo glielo avesse chiesto. Ma John non chiedeva mai, John non chiedeva niente.

John aveva preferito portarci una ragazza, semplicemente. Era logico, era capibile, in fondo. Forse era meglio così in generale, per John Watson e per la sua stessa vita. Sherlock formulò questo freddo ed al tempo stesso doloroso pensiero da seduto, irrigidendosi nel seggiolino da passeggero della sua macchina, mentre John guidava in maniera concentrata e decisa. Gli piaceva sinceramente osservarlo guidare, ma in quel momento tale visione fu solamente in grado di ferirlo: non avrebbe visto ciò mai più. Mai più.

“Non è come pensi, Sherlock.” fu così che l’altro ruppe il pesante silenzio che si era venuto a creare dopo qualche kilometro di viaggio senza meta, non distogliendo lo sguardo dalla strada resa incredibilmente rossastra dalle forti luci del tramonto.

In risposta abbassò il finestrino e si accese l’ennesima cicca.

“Quanto hai fumato in questi giorni?” fu il monito istantaneo di John.  

Inspirò avidamente e non rispose, mentre il paesaggio intorno a loro diveniva sempre più boschivo e deserto.

“Sherlock, parlami, dannazione!” sbottò il biondo, quietandosi subito dopo. Lo sentì respirare profondamente. “Mi dispiace, ok? La verità è che ho avuto paura, io non sono come te, Sherlock. Anche la mia famiglia non è come la tua, e lo sai.” John interruppe il suo monologo per qualche secondo, ed allora gli osservò di sottecchi le mani, trovandole quasi tremanti nello stringere convulsamente il volante. “Lei è mia cugina Molly, ho parenti a casa da quel pomeriggio, tu poi sei sparito. Perché non sei più venuto?”

Sherlock non rispose. Buttò la sigaretta arrivata solamente a metà e se ne accese subito un’altra.

“Sherlock, ascoltami, ho pensato molto, in questi giorni. Io..”

Ecco. Il fatidico momento era arrivato.

“Stai zitto.” lo chetò ancor prima che potesse terminare la frase, artigliandosi il ginocchio destro con forza e bisbigliando appena. Lo sguardo di John si spostò immediatamente su di lui, quasi sconvolto, ma poi lo riportò sapientemente sulla strada.

“Cosa hai detto?”

“Ho detto che devi stare zitto, John.” lo disse alzando il tono della voce. “Non voglio ascoltarti, non voglio più sentirti.” ripeté, continuando a non voltarsi verso il biondo.

John virò all’improvviso, cogliendolo di sorpresa ed accostandosi in prossimità di una piazzola sul ciglio della strada. Spense la macchina velocemente, per poi arpionargli la mano sinistra al mento, costringendo la sua testa a ruotarsi leggermente.

“Guardami, per favore. Non hai capito niente, Sherlock.” sibilò tra i denti, e Sherlock a quel punto avrebbe voluto chiudere gli occhi, chiuderli per sempre, perché non lo voleva proprio più vedere quel volto che aveva il potere di ferirlo in una maniera così atroce. Ma non li chiuse, e John continuò a parlare. “Ho pensato che archiviare questa cosa tra me e te sarebbe la via più facile da prendere, è vero, lo ammetto.”

La presa sulla sua bazza si intensificò e Sherlock deglutì inspirando aria dal naso, poiché la sua bocca era serrata in una stretta intensa e nervosa.

“Ma non posso, Sherlock. Non ce la faccio e non ce la farò mai. Io..” lo vide abbassare lo sguardo per un attimo, per poi indirizzarlo di nuovo direttamente dentro i suoi occhi. “Io ti amo, Sherlock Holmes. Io ti amo da impazzire.” esalò piano, e Sherlock sentì distintamente il suo cuore che perdeva un battito all’istante.

“Ridillo.” gli disse sussurrando, poiché gli mancava il fiato sufficiente per parlare a dovere.

“Ti amo.”

Oh, che dolce melodia per le sue orecchie.

“Dillo di nuovo.” ripeté, quasi con voce tremante.

“Ti amo, ti amo, ti amo, ti a-”

Si lanciò su John, non permettendogli di continuare quel rosario d’amore che lui stesso gli aveva richiesto. La mano sul suo mento allentò la presa nel medesimo momento in cui la sua bocca andò a poggiarsi su quella di John, spingendola ad aprirsi con una punta di lingua urgente e frettolosa. Lo baciò come se fosse il loro ultimo bacio, sfogando in esso tutta la viva disperazione che aveva provato in quei tre giorni; giorni in cui si era chiesto ripetutamente come avesse potuto vivere tutto quel tempo senza lui e, soprattutto, come avrebbe fatto a sopravvivere privo John per tutto il resto della sua misera vita. Misera, sì, perché senza John Watson niente avrebbe più avuto valore: anche la musica aveva perso la sua magia, durante quelle settantadue ore insonni che si era costretto a passare in camera sua, fumando e camminando davanti alla finestra con la speranza di poter scorgere all’orizzonte quella figura umana più che conosciuta. Ma ciò non era avvenuto.

“John, credevo che tu mi volessi lasciare.” gli confessò direttamente sulla bocca, tenendolo stretto alle spalle per mezzo di un abbraccio possessivo. “Credevo.. credevo che lei fosse la tua nuova ragazza.” si vergognò un poco di tali parole, ma la verità era che voleva essere rassicurato ancora, di nuovo, per sempre. 

Il terribile groppo in gola che gli aveva fatto compagnia sin da quando John era scappato dalla sua camera non l’aveva ancora abbandonato del tutto e se il biondo non fosse stato tra le sue braccia, in quel momento, molto probabilmente si sarebbe acceso un’altra cicca.

“Sei uno stupido.” John lo baciò con spavalderia e Sherlock pensò che non lo aveva mai visto così, in quella versione talmente sicura, quasi adulta. Sul momento riconobbe a malapena il ragazzino che per la prima volta aveva visto nel parcheggio della scuola, colui che gli aveva inizialmente sortito ilarità ed un certo senso di quasi meschina superiorità; ormai tutto ciò gli sembrava passato remoto.

La verità era che John lo aveva completamente fottuto sin dal principio, e Sherlock se ne era accorto troppo tardi, quando ormai non vi era più alcun modo di tornare indietro e custodire il salvabile. Non vi era proprio niente, di salvabile.

“Ed io sono più stupido di te.” aggiunse il biondo poco dopo, abbozzando un sorriso. Sherlock si distanziò di qualche centimetro, quel tanto che bastava per far sì di poterlo guardare negli occhi.

“Non ti dirò mai più cose di quel genere, John, te lo prometto.” glielo voleva dire il prima possibile, quindi lo esclamò tutto d’un fiato.

Il pensiero di aver scatenato tutto quel che era successo per colpa di quella che ai suoi occhi era stata soltanto una piccola provocazione lo aveva assillato quasi fino alla pazzia. Ma se John era ancora così frenato ed impaurito, lui si sarebbe sicuramente mosso di conseguenza, non vi erano dubbi a riguardo. Non gli faceva schifo, non lo voleva abbandonare per una scialba ragazzina di campagna; John lo amava, Dio, lo amava. Davvero, bastava questo a renderlo assurdamente felice e contento.

“Che intendi?” gli chiese di rimando, sbattendo le palpebre più volte con un’espressione un po' attonita. Per poco non gli scappò da ridere, osservandolo faccia a faccia da pochi millimetri di distanza, ma la tensione era ancora troppo forte e l’unico suono che gli uscì dalla bocca fu uno schiarirsi di gola leggermente soffocato.

“Quelle frasi sul volertelo prendere in bocca, è ovvio, no?” spiegò, non riuscendo a trattenere il suo tipico tono saccente d’accompagnamento. Certi atteggiamenti si manifestavano in maniera naturale, volente o nolente. Comunque vide John arrossire vistosamente all’istante, mordendosi la guancia destra dall’interno. Sherlock si sorprese alquanto ed avvertì l’accelerazione dei battiti del suo stesso cuore davanti alla visione di tale inaspettata reazione.

“Non voglio che tu mi prometta una cosa così, Sherlock.” lo sentì dire, guardandogli le labbra mentre scandiva la frase con un filo di voce. Non potette credere ai suoi orecchi, quindi spostò lo sguardo agli occhi, trovandosi davanti due pozzi di pupille dilatate e liquide.

Si eccitò nel pensare che tutte quelle reazioni fisiche erano state provocate dalla sua tiepida sillabazione, composta da poche e misere parole che per lui erano niente, ma che per John evidentemente rappresentavano molto altro. Ecco, a quel punto di fronte a lui rivide il suo piccolo e dolce Johnny, e si meravigliò ancora della quantità di sfaccettature che sfumavano e rendevano incredibile la personalità di John Watson. Quasi un enigma vivente, per Sherlock.

“Perché?” gli chiese quindi in maniera volutamente candida, continuando a fissarlo ma facendo scivolare le mani lungo tutta la sua schiena.

“Perché vorrei che tu lo facessi.”

Così lo prese in contropiede, sul momento. Non se lo aspettava affatto, ma un sorriso di malizia gli nacque sul viso, senza poterlo evitare in alcun modo.

“Cosa, John?”

John distolse lo sguardo, ma poi lo riguardò con fermezza, mentre le sue mani premute sullo sterno gli sudavano direttamente sulla pelle. Non disse niente.

“Voglio ed ho bisogno di sentirtelo dire, John.” gli disse con assoluta onestà, poiché glielo doveva, punto e basta. John dilatò le narici del naso respirando profondamente e gli occhiali gli scivolarono leggermente sul setto.

“Voglio che me lo lecchi, Sherlock.” mormorò alla fine e Dio, Sherlock non aspettava altro, ma si trattenne ancora.

“Quando?”

“Adesso, ora.” il suo pomo d’adamo si mosse vistosamente. “Immediatamente.”

John Watson era sicuramente munito della voce più bella che avesse mai avuto il piacere di poter udire. Quella precisa nota di desiderio e di sicurezza che ascoltò in quel momento lo deliziò e gli fece venire i brividi sulle braccia.

L’abitacolo della macchina era ormai invaso dal buio; chissà che ore erano. In realtà non gli importava perché a casa non aveva nessuno ad attenderlo, la sua casa era John. Questo pensiero fu in grado di fargli contrarre lo stomaco ed il desiderio venne oscurato dall’amore; un sentimento così intenso, così totalizzante da farlo quasi commuovere, e tutto ciò era strano: non era riuscito a piangere in quei giorni in cui pensava d’averlo perso per sempre, ed in quel momento sentiva di essere in procinto di belare dalla gioia di averlo di nuovo. Era una sensazione incredibile, ma allo stesso tempo terrificante; era come se fosse morto e rinato nel giro di poche ore. Era morto, sì, e poi grazie a John era rinato.

 

“Well, John, if you leave me

I’ll be so lonely

I’ll be so lonely, I could die.”

 

Non cantò, non parlò. Fu solo un lontano pensiero, quasi un déjà-vu che percorse la sua mente con velocità estrema, accompagnandolo nel suo chinarsi sul bacino di John. A quel punto, chiuse gli occhi.

Chiuse gli occhi, inibì il vorticare continuo della sua mente e non pensò più a niente.

John era lì. John lo amava. John voleva che glielo prendesse in bocca.

Beh, tutto ciò gli bastava, davvero.

Tutto ciò, a Sherlock Holmes, sarebbe potuto bastare per sempre.

 

 

 

 

THE END

 

 

 

Note:

Salve, eccomi tornata con questa creatura narrativa come mio solito molto particolare. Doveva essere una Greaserlock a tutti gli effetti, con dinamiche scolastiche, con un intreccio di situazioni più ampio, ma alla fine non so cosa sia successo dentro la mia mente. Fatto sta che questo è il risultato, e credo di esserne comunque soddisfatta: l’ambientazione è quasi del tutto assente, ma mi sono documentata sia sulla macchina di Sherlock, che sulla canzone di Presley (è contenuta in un LP del ’56, insieme alle altre due citate). Il film l’ho scelto perché c’è Bach nella colonna sonora e perché credo che potrebbe essere davvero una pellicola capace di attrarre i gusti del nostro detective, ma è del ‘49. :) Mi è piaciuto molto scrivere di loro due in questa maniera, anche se di solito non vengo attratta dalle ff adolescenziali, ma questa direi che è difficile catalogarla del tutto in quel senso. Ovviamente mi stava andando sul porno, ultimamente non riesco a far altro, ma mi son voluta limitare. Anche l’incursione di Molly in veste di cugina del Sud non me la so spiegare, ma si vede che doveva andare così. Comunque avrei potuto continuarla, in realtà, perché questo universo mi ispira. Ho anche altre idee, quindi fatemi sapere se vi potrebbe piacere un seguito, potrebbe darmi quella spinta in più che mi serve. :)

Che altro dire? Nonostante l’ambientazione non credo di essere andata OOC, ditemi un po’ le vostre opinioni, che in ogni caso mi fanno davvero un gran piacere. Spero che sia stata una lettura gradita!

A presto,

 

AintAfraidToDie

  
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