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Autore: MarcyNico    14/07/2017    0 recensioni
[Metro 2033]
Dopo essersi riunito alla sua nuova famiglia, il Piccolo Oscuro è ancora ansioso di imparare cose sugli uomini. Prima di partire, e lasciare Mosca, fa un incontro interessante...
Genere: Malinconico, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments, Otherverse | Avvertimenti: Incompiuta, Spoiler!
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L’orsa mutante si alzò per intimidire i custodi.
I suoi occhi fissi su di loro e gli artigli pronti, l’orsa voleva solo difendere i cuccioli dietro di lei. Quei due si erano messi a giocare con un bidone arrugginito e avevano fatto rumore. erano spaventati e piagnucolavano. Sapevano che la mamma li avrebbe protetti, eppure i custodi facevano paura. Erano in sei (mi muovevano sempre in branco) e li stavano circondando. I loro mantelli si erano dipinti dei colori primaverili, abbandonando il bianco sporco dell’inverno. Ora avevano il pelo rossiccio, marrone in alcuni punti; qualcheduno era nero. Le mandibole sporgevano verso l’alto, come quelle dei bulldog, e le orecchie erano piatte, incassate nel cranio.
L’orsa ruggì, li minacciò e quelli indietreggiarono.
Nascosto dietro un albero rinsecchito, il Piccolo Oscuro osservava la scena e rimuginava. Con i suoi occhi grandi, d’un verde bioluminescente, penetrò nel cuore degli animali. Ciò che ognuno di essi provava, egli lo percepì come un colore: blu per i cuccioli spaventati, rosso l’orsa arrabbiata e rosso, quasi azzurro, per i custodi. I custodi ci stavano ripensando: i loro cuori viravano al blu della paura.
Istintivamente, il Piccolo preferiva l’orsa ai custodi. Forse perché essa difendeva i cuccioli, forse per quel nuovo concetto che aveva imparato, “empatia”, ovvero “vedersi come l’altro”. Il Piccolo si dipingeva come uno degli orsetti; perciò le diede un aiuto. Nessuno si sarebbe fatto male oggi, decise.
Facendo appello ai suoi poteri, svanì in uno sbuffo di fumo e riapparve vicino ai custodi. Fu tanto rapido, che essi non se ne accorsero. Con la sua lunga e magra mano dalle cinque dita toccò il primo dei custodi e gli instillò una visione; gli fece vedere l’orsa ancora più grande, ancora più minacciosa. Percepì subito il colore del custode virare, deciso, sul blu. Percepì la sua paura contagiare il resto del branco. Allontanò la mano e si teletrasportò al sicuro.
Era stanco: aveva abusato dei poteri e doveva riposare. quando fosse diventato adulto, come suo zio, forse avrebbe potuto giocare di più con i poteri.
Si godette la scena: dai custodi si allontanava il rosso e si insinuava il blu. I loro ringhi divennero guaiti, i loro movimenti, incerti.
Lì, in piedi, l’orsa li guardò, finché essi non virarono e sparirono, con le loro code da ratto, fra le macerie.
Quando vide l’ultima coda inabissarsi, l’orsa si calmò. Il suo cuore lasciò il rosso e sfumò sul verde. Era amichevole, ora. I cuccioli la leccarono e ripresero a giocare.
Il Piccolo Oscuro avrebbe voluto far parte di quella famiglia. Quel che è fatto è fatto, si disse. guardò gli orsi spostarsi (la mamma chiamò i cuccioli) fino a scivolare nella foresta. Gli alberi mutati bevevano la pioggia radioattiva.
Il Piccolo respirò. I suoi polmoni assorbirono l’aria venefica e la trasformarono in energia per le cellule. Chiuse gli occhi alle nuvole e aprì la mente. Coi suoi poteri, sondò la posizione degli adulti. Erano sulla strada, molto lontano. Il Piccolo era rimasto indietro: non se la sentiva proprio di lasciare gli uomini, ma sapeva che avrebbe dovuto raggiungere la sua specie. Ricordava il tempo passato sottoterra, nei tunnel degli uomini, travestito da bambino. Ricordava il calore con cui uno di loro aveva risposto al suo saluto, ma anche che un uomo, una volta visto il suo vero aspetto, lo avesse chiamato “mostro”!
Cosa fare con loro? Aveva imparato tanto da Artyom; aveva salvato lui e gli altri umani “buoni” dall’attacco degli umani rossi e ora voleva dar loro il tempo per riprendersi. Voleva, con tutto il cuore, che Oscuri e umani riuscissero a vivere insieme. Il mondo era abbastanza grande e gli uni avrebbero tratto benefici dagli altri e viceversa. Artyom gli aveva insegnato la pietà, l’amicizia, la lealtà; lui voleva aiutare Artyom facendolo uscire dai tunnel, facendolo vivere all’aria aperta.
L’aria, che per noi è buona, per loro è veleno, pensò. Per loro, pensare era uguale a parlare. Le loro menti erano sempre connesse, perciò lo zio sentì quelle “parole” e gli rispose: troveremo un modo.
Il Piccolo lasciò l’albero e corse da lui. Era veloce, si arrampicava come un ragno, saltava e, ogni tanto, si teletrasportava, per poi riprendere fiato. Era l’unico della sua specie a indossare dei vestiti. Agli Oscuri non servivano: i loro corpi erano nati per adattarsi alle stagioni nucleari, ma il Piccolo era curioso e gli piacevano le nuove abitudini dei vecchi umani. Aveva trovato un paio di pantaloni (larghi per lui) delle bretelle e un gilet. Si portava la sua borsetta a tracolla e la riempiva di cose. Aveva trovato un oggetto particolare, fatto dagli uomini, ma rotto. Non sapeva come ripararlo.
Arrivò dallo zio e gli sfiorò la mano. Si trasmisero amore a vicenda. Lo zio era un adulto, una forma nera e snella, con le braccia lunghe e le dita magre. Gli altri si trovavano un po’ più avanti, in cammino, verso una nuova mèta. Camminavano in mezzo ai rottami e ai monumenti. Evitavano i custodi e gli alati, percependoli ancora prima che quelli vedessero loro.
Il Piccolo, in un certo senso, faceva agli adulti da maestro. Essi erano rimasti per molto tempo addormentati, chiusi, dagli uomini, in un tunnel segreto del sottosuolo. Quando li aveva svegliati, erano come bambini: non sapevano niente del mondo. Aveva insegnato loro ciò che Artyom aveva insegnato a lui. Aveva detto loro della Guerra del Giudizio, di come gli uomini fossero riusciti a distruggersi e a distruggere il pianeta.
Era bello guardare il sole, anche per poco. Le nuvole lo coprivano, rovesciavano pioggia, e se ne andavano per un po’.
Quanto doveva mancare agli uomini?
Il Piccolo seguì lo zio verso l’ignoto. Giù, nei tunnel, gli era piaciuto molto travestirsi da bambino umano. Era un trucco che poteva fare con la mente e che serviva a non spaventarli. Ma ora gli Oscuri erano in marcia e non sarebbero più tornati da loro per molto tempo. La nostalgia del Piccolo era così grande, che volle vedere il mondo prima della Guerra del Giudizio e si concentrò.
Le rovine si trasformarono in un edificio imponente, dalle cupole dorate ai margini di una grande distesa di pietra livellata piena di gente. La gente rideva, mangiava… gelati (un’altra parola insegnatagli da Artyom) portava in braccio i bambini, portava a spasso creature che lui non aveva mai visto. La gente era felice. Il suono delle loro risate era come una bella canzone, che gli ricordò suo padre. Il padre del Piccolo aveva provato a comunicare con gli umani con quelle immagini e loro gli avevano sparato. Con la loro tecnologia, riuscivano a imbrigliare il potere del fuoco e a spararlo dalle mani. Erano stati i loro… missili? Sì, ecco la parola! Erano stati i loro missili a distruggere la sua famiglia.
Ci sono degli uomini, comunicò lo zio. Gli oscuri lo seppero all’istante e cambiarono rotta. Si spostarono più a destra, come un esercito di formiche, per evitare ogni contatto.
Il Piccolo usò il suo potere per individuarli. Sono tre, pensò, e c’è anche un bambino fra loro. I due adulti erano azzurri, mentre il bambino era d’un verde amichevole.
Voglio andarci, comunicò.
È pericoloso, non possiamo permetterlo, risposero gli adulti. Lo zio strinse forte la sua mano.
Devono imparare e io devo imparare, pensò il Piccolo. Il bambino non avrà paura di me! Lasciò la mano e sparì.
 
«Papà, guarda!»
«Oddio, Max, è un bambino!»
Maksim Akuto lo vedeva, il bambino, vestito con una cerata gialla più grande di lui. Correva agitando le maniche e saltando nelle pozzanghere.
«Ehi, piccolo!» chiamò, «Vieni qui!»
Il bambino saltellò fino a una decina di passi da loro, per poi fermarsi, incerto.
«Papà! Non ha la maschera! Posso toglierla anch’io?»
«Non ce l’ha ed è uno stupido. E non puoi toglierla, capito?»
«Ascolta tuo padre, Blanka.»
Ma Blanka era felice per il nuovo arrivo e si sentiva ridicola, con quella maschera antigas e quel filtro che sembrava una lattina di zuppa. Saltò e sgusciò via dalle mani della madre.
«Ehi, signorina! Non scatenarti o consumerai tutto il filtro» la rimproverò questa. Il padre allungò una mano e prese la bimba per il polso.
«Aspetta» le disse, «dobbiamo capire chi sia questo bambino. Ehi, tu, che ci fai fuori senza maschera?»
Il bambino sorrise e salutò, scatenando una risata di Blanka.
«Sei matto!» disse Max, guardandolo. «Da che stazione vieni?»
«Noi veniamo dal Reich» s’intromise Blanka, «ma siamo scappati.»
«ssst zitta, tesoro.»
«Ma Mamma!»
«Non sappiamo chi sia.»
«È un bambino» disse Blanka. Il bambino sorrise e, adagio, aprì la borsa.
«Ehi, fermo, fermo! Cosa fai?» Max alzò la mitragliatrice, ma Blanka si mise in mezzo.
«Mettila giù!» disse al padre. La madre si allarmò, alla vista della figlia davanti all’arma.
«Blanka! Via da lì!» le disse. La bambina scosse la testa.
«No, se Papà non la mette giù.»
«Okay, Papà la metterà giù, ma tu spostati.»
«Blanka, non sappiamo cos’abbia nella borsa» disse Max.
«Guarda! Ecco cos’ha: è un orologio rotto.» Blanka indicò l’oggetto fra le mani del bambino. Il bambino carezzò l’orologio, poi glielo tese. Le mani si sfiorarono per un attimo, un attimo in cui Blanka vide il bambino per chi era veramente e capì cosa voleva.
«Papà, non sa cosa sia un orologio!» esclamò.
«Cosa? Che stai dicendo?»
Blanka mostrò l’oggetto al padre.
«Vuole che glielo ripari. Lo sai fare? Ti prego, ti prego, ti prego!»
«Non è possibile, non qui. È pericoloso.»
Blanka scosse la testa.
«Invece non è pericoloso per niente. Ti prego, riparagli l’orologio.»
Max allungò lo sguardo, facendolo ballare sulle rovine. I mostri potevano nascondersi ovunque: dietro quella chiesa, nella carcassa di quel camion…
Il bambino aveva una faccia simpatica e curiosa. Come molti suoi simili, riusciva a sorridere anche in mezzo alla devastazione e ciò rincuorava Max. finché i bimbi fossero stati curiosi c’era speranza per l’umanità.
«Okay, ma mettiamoci su quella pietra. sei fortunato che abbia qui i miei attrezzi.» Maksim parlò prima alla figlia e poi al bambino.
«Mio papà è un ingegnere. Prima vivevamo all’Ameria: la conosci?»
Il bambino sorrise, ma scosse la testa. Tu non hai paura di me?, chiese a Blanka. Lei sorrise e scosse la testa. Fece anche un saltello.
«Coraggio, voi due!» intervenne la mamma, invitandoli a spostarsi verso la pietra piatta. I bambini ci arrivarono saltellando e trovarono Maksim già lì, in piedi.
«Tanya! Prendi il fucile e stai in guardia» disse, consegnando l’arma alla moglie. Lei annuì e lo afferrò con mani tremanti. Poi l’uomo tirò fuori la sua borsa degli attrezzi e si sedette. Mise l’orologio davanti a sé e cominciò a lavorare.
Non ci poteva credere! Perché stava riparando l’orologio di quel bambino là in mezzo? La superficie era una zona mortale: se non ti uccideva l’aria, lo facevano i mostri, allora perché?
I suoi attrezzi erano molto piccoli e specifici. Li aveva usati per creare mitragliatrici e altri aggeggi da guerra. Era la prima volta che li usava per un orologio.
Blanka e il bambino si erano messi a pancia in giù e lo guardavano, con le mani sotto il mento. Blanka rideva, appannando il vetro della maschera; guardava il suo nuovo compagno di giochi e rideva.
«Ecco!» disse, dopo un po’, Maksim. Sollevò l’orologio e ne girò una piccola ghiera. «Te l’ho riparato. Ora guarda: questa è la lancetta dei minuti e questa, delle ore. Quella che corre veloce, è la lancetta dei secondi. L’orologio è importante, perché misura il tempo… il tempo serve per sapere se è giorno o se è notte o anche se il tuo filtro sta per esaurirsi… benché tu sembri non averne bisogno…»
Max allungò la mano e le dita del bambino si chiusero attorno all’orologio. L’uomo sentì un fremito, qualcosa che si riflesse nella sua espressione come un dubbio, ma solo per un attimo. Eppure, da qualche parte nella sua testa, all’uomo sembrò di sentire un “grazie” a cui rispose con: «Prego.»
Il bambino guardò l’orologio e, per qualche istante, fu rapito dal cammino delle lancette.
Il tempo…, pensò, il tempo sta trascorrendo e il futuro è già il passato.
«Ora ce ne dobbiamo andare» disse Maksim. Si alzò e prese la mitragliatrice dalla moglie.
«Allora, vieni con noi?» domandò al bambino.
Lui scosse la testa.
«E dove andrai?» s’intromise Tanya. Il bambino indicò dietro di sé. Videro una figura alta e snella: un uomo. L’uomo avanzava, adagio, fra le rovine e più si avvicinava, più riuscivano a distinguerne il viso e i vestiti.
Aveva gli occhi leggermente a mandorla e una bandana rossa sulla fronte. Aveva i capelli grigi legati in una coda e una barba a punta, annodata all’estremità. Indossava un giubbotto di pelle foderato con del pelo sporco.
Non aveva un’arma né una maschera.
Max alzò la mitragliatrice e tirò indietro la leva. «Fermo!» disse.
L’uomo salutò, ma continuò a camminare.
«Fermo o sparo!» gridò Max. Si sentì tirare per una manica, guardò giù e vide gli occhi di Blanka spuntare dalla nebbia della maschera.
«Papà, quello è suo zio» disse lei. Maksim deglutì e corrugò la fronte.
«La sua famiglia è laggiù. Lascialo andare!» disse Blanka. Tuttavia, Maksim era bloccato: fermo come una statua con la mitragliatrice in mano. Sua figlia tirò la giacca della madre.
«Mamma! Dillo tu a Papà!»
Tanya, seppure a disagio, annuì e toccò la spalla del marito. Allora Max si scosse come da un sogno; guardò il Piccolo Oscuro e disse:
«Ma certo… certo. Va’ da tuo zio, va’!»
   
 
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