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Autore: BrokebackGotUsGood    15/07/2017    3 recensioni
Una raccolta di OS teenlock per quando si ha bisogno di un po' di tenerezza :3
Genere: Fluff, Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Bonjour mes amis! Ho deciso di pubblicare questa raccolta di brevi, leggere e non-impegnative OS teenlock, tema con cui sono particolarmente fissata negli ultimi periodi, e...niente, spero che sia di vostro gradimento. Buona lettura!


 
I know you like dancing




 
Loro non erano amici.
Si incontravano (scontravano) qualche volta in corridoio prima delle lezioni, si scambiavano qualche parola in biblioteca o in palestra e una volta era capitato che mangiassero insieme in mensa, ma nulla di più.
Loro non erano amici, non si era mai lasciato ingannare da una simile illusione.
Gli amici di John Watson erano i membri della squadra di rugby, che lo abbracciavano e gli davano amichevoli pacche sulle spalle dopo l'ennesima partita vinta grazie a lui, o Mike Stamford, che, nonostante non fosse particolarmente affascinante o brillante, era più ricco di William d'Inghilterra.
Poi c'era Greg Lestrade, con cui usciva per una birra almeno tre volte a settimana....e poi Sarah Sawyer.
Bella, popolare, decisamente in forma (cosa ci si potrebbe aspettare da una cheerleader?), apparentemente gentile e palesemente cotta di John da mesi.
E dal modo in cui John non mancava mai di sorriderle, Sherlock temeva proprio che l'interesse fosse reciproco, anche se doveva ammettere che a tutti gli studenti, popolari, secchioni o sfigati che fossero, era sempre riservata un po' di gentilezza watsoniana, la stessa che aveva catturato Sherlock e che, a quanto pareva, non gli aveva lasciato via di scampo.
L'intera scuola era pazza di John, ma per arrivare a guadagnarsi la sua amicizia ci voleva ben altro, e questo ormai Sherlock avrebbe dovuto saperlo.
Cosa aveva lui da offrire? Chi era in confronto ai giocatori di rugby, a Mike, a Greg e a Sarah? Un arrogante genio che sapeva leggere la vita delle persone con un solo sguardo, che nessuno voleva avere attorno, che rubava arti umani dal laboratorio di anatomia per i propri esperimenti, che tutti credevano non sapesse provare emozioni.
Loro non erano amici.
Eppure, per qualche assurdo motivo, Sherlock si era ritrovato a sperare che John non solo gli rivolgesse la parola al ballo di fine anno, ma che avesse addirittura voglia di tenergli compagnia per qualche minuto.
Solo ora, mentre lo guardava ballare con Sarah sulle note di una canzone particolarmente movimentata, si era reso conto di quanto fosse stato stupido.
Non avrebbe nemmeno dovuto andarci, a questo inutile ballo: aveva già programmato di chiudersi in camera col suo microscopio, lontano dalla musica, dalle risate e dalle coppiette che si facevano gli occhi dolci in pista, ma...beh, la speranza di riuscire a trascorrere un po' di tempo con John aveva avuto la meglio su di lui.
E ora eccolo lì, da solo (come sempre), seduto sui gradini dell'ingresso della palestra adibita a discoteca improvvisata.
Idiota, idiota, idiota.
L'unica cosa che lo tratteneva dal levare le tende era la splendida, eterea ed abbagliante visione di un torso forte e compatto coperto da una camicia bianca, due occhi blu zaffiro e una lucente chioma di capelli biondi.
Dio, si era trasformato in una di quelle ragazzine in piena crisi ormonale che sbavavano dietro a John pur essendo consapevoli di non avere speranze.
Sospirò stancamente e si passò una mano tra i ricci ribelli, per poi costringersi a guardare altrove con finta noncuranza quando John e Sarah gli passarono davanti per dirigersi al tavolo delle bevande.
Non appena decise che se ne sarebbe andato una volta giunto l'inevitabile e romantico momento del lento (a cui non voleva proprio assistere, grazie mille), ecco partire una canzone che si rivelò subito fin troppo sdolcinata, e qualche istante dopo le coppie erano già un ammasso di braccia aggrovigliate e teste appoggiate sulle spalle.
Sherlock fece per alzarsi e girare i tacchi, facendo appello a tutte le sue forze per ignorare l'amaro che aveva in bocca, quando sentì una voce familiare schiarirsi di fianco a lui, facendolo sussultare.
Alzò lo sguardo e chi si trovò davanti con un bicchiere di aranciata in mano, se non John Hamish Watson?
Il moro spalancò gli occhi e boccheggiò alla ricerca di aria e di parole di senso compiuto, rinunciandoci subito dopo.
Dio, ogni volta che lo vedeva da vicino non riusciva a non meravigliarsi di quanto fosse incredibilmente bello. 
«Hey. Non credevo che venissi» disse John, sorriso gentile e voce dolce come il miele.
Sherlock lo guardò sedersi accanto a lui e poi distolse timidamente lo sguardo, fissandolo sulla punta delle sue scarpe. «Nemmeno io credevo che sarei venuto» rispose, sperando di essere riuscito a farsi sentire.
John posò il bicchiere sul gradino, appoggiò i gomiti sulle ginocchia e rise sommessamente, guardando gli studenti che dondolavano lentamente in pista. «Non ti saresti perso gran ché. Non è divertente come gli altri anni».
Sherlock non riusciva a capire se volesse semplicemente fare conversazione o se stesse cercando di convincerlo ad andarsene, anche perché non gli sembrava proprio che non si stesse divertendo, fino a qualche minuto prima.
«Non avevi compagnia?» chiese con malcelata irritazione.
«Sarah? Oh, l'ho semplicemente intrattenuta fino all'arrivo del suo ragazzo».
Sherlock si trattenne dal fare una risatina sarcastica, scuotendo la testa all'adorabile ingenuità del ragazzo accanto a lui (davvero non si era accorto di piacere a Sarah? Beh, era un buon segno. Significava che di certo non si era accorto di piacere anche a lui).
Piacere. Che stupido eufemismo.
John non gli piaceva. John lo privava di qualsiasi capacità di deduzione, era il centro del suo universo e, se proprio doveva essere banale e sdolcinato, gli faceva battere il cuore come se avesse corso ininterrottamente per prati sconfinati.
«Tu sei qui da solo?» chiese l'oggetto dei suoi pensieri.
«Ovviamente» rispose Sherlock.
Come se potesse essere altrimenti.
Con la coda dell'occhio vide il giocatore di rugby fissarlo intensamente, per poi alzarsi e scendere i gradini, e fu allora che Sherlock pensò "Ecco, si è già stufato. La prossima volta prova a durare più di un minuto, che dici?".
Ma John non se ne andò.
Gli porse una mano.
«Beh, ora non più. Andiamo».
Sherlock alzò la testa di scatto e lo guardò con la fronte aggrottata, non capendo immediatamente le sue intenzioni.
«Dai, lo so che ti piace ballare» lo incoraggiò John con un sorriso divertito.
Oh. Mio. Dio.
John Watson lo stava invitando a ballare. Un lento. Loro due. In mezzo alla folla di studenti.
Il moro, battito a mille e respiro mozzato, deglutì e sbatté le palpebre una decina di volte, preparandosi a vedere l'immagine di John scomparire come una visione. Cosa che fortunatamente non accadde.
Già. Gli piaceva ballare. Se l'era lasciato sfuggire quella volta in mensa, accidenti a lui.
"Beh, allora cosa aspetti, idiota?".
Cercando di contenere l'uragano di emozioni che si stava scatenando nel suo stomaco, si alzò dai gradini e prese cautamente la mano di John, sussultando alla scarica di improvviso calore che gli attraversò l'intero corpo.
John, senza distogliere lo sguardo dal suo, lo condusse in pista sotto lo sguardo sorpreso degli studenti; prese entrambe le mani di Sherlock e le appoggiò sui propri fianchi, per poi avvolgere le braccia attorno alle sue spalle, eliminando qualsiasi spazio tra i loro corpi.
Sherlock non si preoccupò nemmeno del fatto che in questo modo John avrebbe sicuramente percepito il tamburellare impazzito nel suo petto, e quando iniziarono ad ondeggiare appena percettibilmente sulle dolci note della canzone, l'intero mondo attorno a loro scomparve, compresi i ragazzi e le ragazze che li fissavano a bocca aperta.
I loro volti erano vicinissimi, i loro occhi incatenati gli uni agli altri.
Sherlock si lasciò avvolgere dal delicato profumo di John e dal suo caldo respiro, non riuscendo a credere che tutto quello stesse accadendo davvero e non in uno dei sogni ad occhi aperti che faceva in classe al posto di seguire le noiose e scontate lezioni dei professori; non si era mai sentito così vivo e così felice, non credeva nemmeno che uno come lui avrebbe mai avuto l'occasione di provare questo tipo di sensazioni.
«Va tutto bene?» gli chiese John sussurrando.
Sherlock, non fidandosi della propria voce, si limitò ad annuire, e per poco le ginocchia non gli cedettero quando John appoggiò la testa contro la sua guancia.
Perché si stava comportando in quel modo con lui? Aveva forse perso una specie di scommessa coi suoi amici? 
Dio, non ne aveva idea e non aveva nemmeno importanza, almeno per ora.
Naturalmente, come tutte le cose belle (non che a Sherlock ne capitassero molte), il ballo finì troppo presto; l'ultima nota della canzone riecheggiò per la palestra e Sherlock si ritrovò catapultato nel mondo reale, circondato da occhi che lo guardavano sorpresi, curiosi o invidiosi.
John non lo lasciò andare, anzi, sollevò lentamente il volto per incrociare di nuovo il suo sguardo e con una mano prese ad accarezzargli i ricci che gli ricadevano sulla nuca.
Sherlock sentì la testa girargli vorticosamente. 
«John» disse con un filo di voce tremante, e John, per tutta risposta, eliminò la distanza tra i loro volti e lo baciò con una delicatezza quasi dolorosa.
La palestra esplose tra applausi, urla e fischi entusiasti, ma Sherlock non fece caso a nulla di tutto ciò, essendo troppo impegnato a ricordarsi come respirare e ad impedirsi di scoppiare a piangere.
«È dall'inizio dell'anno che aspettavo di per poterlo fare» confessò John, le labbra che ancora sfioravano quelle di Sherlock.
Quest'ultimo spalancò gli occhi dall'incredulità. «C-cosa...?»
«Non so che opinione tu abbia di te stesso, Sherlock Holmes», disse il biondo con un sorriso, «ma posso assicurarti che sei la persona più incredibile, interessante e affascinante che abbia mai incontrato».
Sherlock sentì la gola stringersi a tal punto di impedirgli di deglutire e, completamente privo di parole, gettò le braccia al collo di John e affondò il viso nella sua spalla, stringendolo forte a sé, e per la prima volta in diciotto anni permise a se stesso di credere in quei sentimenti di cui aveva sempre diffidato.

   
 
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