13
Cenere
- Baldur, gli elfi... gli
elfi sono tornati davvero? -
La voce di Melwen tremava, per quanto si sforzasse non riusciva
renderla salda. Intorno a loro la tensione era alle stelle, densa e
soffocante come fango nelle narici. I nani, tutti, sia quelli che erano
presenti nel tempio sia quelli che erano rimasti fuori, stavano
tornando alle loro case a passo di marcia, sospinti dalla fretta e
dalle guardie che tentavano di mantenere l'ordine. I bambini si
tenevano stretti alle gonne delle loro madri, i più piccoli
nascondevano il viso nei seni, raggomitolandosi tra le loro braccia,
mentre gli altri, i loro padri, i loro fratelli più grandi,
avanzavano facendosi largo tra la folla per arrivare il più
in fretta possibile alle loro abitazioni.
Baldur strinse la mano di Melwen e la prese in braccio prima che una
famiglia fin troppo numerosa la travolgesse.
- Ce la caveremo, non preoccuparti. -
Melwen appoggiò il viso sulla sua spalla e si avvolse il
mantello attorno alle spalle. Era un incubo, doveva esserlo. Si diede
un pizzicotto e serrò forte le palpebre, inghiottendo il
sapore acido e la consistenza grumosa della bile che sentiva risalirle
in gola.
“Non di nuovo... dei, vi prego, non di nuovo.”
Tenne gli occhi chiusi ancora un po', tentando di convincersi che i
suoni che sentiva, le urla, le parole intrise di paura, non fossero
altro che frutto della sua mente. Quando trovò il coraggio
di guardare, Alabastria era ancora lì, assieme al caos e al
terrore.
Zefiro era in braccio a Myria e la fissava. Melwen sapeva che anche lui
stava pensando le stesse cose, eppure manteneva il contatto visivo con
lei. Sembrava dire “sono qui, non me ne vado” e il
suo debole sorriso era l'unica cosa che riuscisse a vedere
distintamente. Sorrise a sua volta e si strinse a Baldur, che nel
frattempo aveva aumentato il passo.
Stavano procedendo sulla stessa strada dell'andata, ma in quel momento,
con tutte le persone assiepate le une contro le altre, Melwen aveva
l'impressione che si fosse ristretta, che le case si fossero spostate
dalla loro posizione e che si stessero chiudendo su di loro. Era
così concentrata a tenere sotto controllo il respiro che
nemmeno si rese conto di ciò che accade.
Improvvisamente un'onda d'urto li scaraventò a terra e
l'aria divenne rovente, irrespirabile. Melwen ruzzolò
sull'acciottolato, rotolò per qualche piede e poi si
fermò, supina. Il cielo sopra di lei si era rannuvolato, il
sole era tenuto prigioniero dietro un'accecante coltre di nubi bianche.
Chiuse gli occhi, tastandosi la tempia lì dove sentiva
dolore. Quando ritrasse la mano, la punta delle dita era insanguinata.
Si rialzò a fatica, confusa, traballando sulle ginocchia
molli. La testa le girava e la vista era appannata, sfarfallava come
una candela sotto un vento mutevole e incostante. Persino i suoni, il
marasma cacofonico di mormorii, borbottii e preghiere che aveva udito
fino a quel momento, si erano tramutati in un fievole e indistinto
brusio. Con le mani sulle ginocchia, alzò il capo e si
guardò intorno. Baldur era a terra e Nordri lo aveva preso
sottobraccio per aiutarlo a tirasi su; Mirya stringeva forte Zefiro,
gli occhi spalancati fissi davanti a lei e la testa di suo figlio
appoggiata alla spalla. Melwen seguì la traiettoria del suo
sguardo con un strano senso di oppressione nel petto, quando alle sue
narici il vento portò un intenso e stomachevole odore di
legno e carne bruciata.
- L'armeria... è saltata l'armeria! - urlò una
voce di donna dietro di lei.
- I feriti! Dobbiamo tirarli fuori dalle macerie! -
- No, non avvicinatevi, rimanete vicini. -
- Lì davanti c'erano mio marito con mia figlia! -
- Che qualcuno spenga il fuoco! -
Una colonna di fumo si alzava da un edificio sventrato a destra,
spiraleggiava verso il cielo e lo anneriva. Una nube fuligginosa
ricopriva ogni cosa, ostruendo la visuale, e soltanto quando si
depositò a terra tutti poterono vedere la moltitudine di
cadaveri che giaceva ai piedi di ciò che rimaneva
dell'armeria. Erano riversi al suolo, le fiamme che ne divoravano la
carne e i vestiti.
Melwen li osservò senza capacitarsi di come fosse finita
lì, quasi all'imbocco della strada, poiché
ricordava che Baldur l'aveva presa in braccio ben dopo che si erano
lasciati alle spalle il tempio. Indietreggiò fino ad andare
a sbattere contro Nordri, senza riuscire a staccare gli occhi da
quell'orrore. I sopravvissuti, coloro che non erano morti schiacciati
dalle macerie, si aggiravano qua e là smarriti, come
fantasmi; tenevano le braccia in avanti, piene di schegge, mentre si
trascinavano verso la folla attonita, gli occhi ridotti a grumi neri
nelle orbite e la pelle a brandelli. Erano così sfigurati e
gonfi che non si capiva se fossero uomini o donne. Molti avevano perso
gli arti e arrancavano come potevano chiamando i nomi dei loro cari,
pregando per avere aiuto, specialmente acqua, ma nessuno osò
avvicinarsi. Nelle case vicine, le finestre erano esplose e le fiamme
ne lambivano i tetti e i camini a una velocità
impressionante.
Un'altra esplosione fece tremare la terra. Baldur strinse Melwen a
sé. Nordri si fece largo fino a Myria e la
trascinò a ridosso di una casa, sotto la tettoia che era
sopravvissuta all'onda d'urto.
- Cosa... cosa sta accadendo? -
- Non lo so, qualcuno ha fatto saltare l'armeria. - il mercenario si
voltò in direzione della seconda colonna di fumo e
rinserrò la presa sull'ascia, - Qualsiasi cosa sia,
è dentro la città. -
“Non può essere, Alabastria è
inespugnabile!” avrebbe voluto urlare Melwen, ma la
realtà era lì a prendersi gioco delle sue
aspettative. Guardò le facce dei nani che ancora gremivano
la strada, le loro espressioni attonite. C'era chi tentava, invano, di
aprirsi un varco verso il tempio, qualche guardia che accorreva sul
posto per capire cosa fosse successo e come intervenire, ma i
più erano pietrificati e nei loro occhi Melwen lesse lo
stesso stupore e la stessa paura che le gelavano il sangue.
C'era anche qualcos'altro, però, un'energia debole che
pulsava all'interno dell'armeria distrutta, sotto la roccia spaccata,
al di sotto del pavimento.
- Dobbiamo trovare Nyi. -
La voce di Baldur, sebbene ancora attenuata, riuscì a
riscuoterla. La folla retrocesse e i sopravvissuti avanzarono, con le
mani protese in avanti. Le labbra, o quel che ne rimaneva, si muovevano
senza riuscire ad articolare le parole. Persino le guardie cittadine
esitarono ad andare loro incontro. Il fuoco non si estingueva,
continuava ad ardere e a divorare la struttura dell'armeria.
Melwen comprese subito di cosa si trattava: il Respiro del drago. Ne
aveva sentito parlare, ma non credeva che qualcuno avrebbe avuto il
coraggio di usarlo. Nessuno, se non un mago, avrebbe potuto estinguere
quell'incendio.
- Dobbiamo andare. - le intimò Baldur.
Le afferrò il polso e girò lo testa verso una
stradina incuneata tra due case. Nordri fece lo stesso con Myria, la
sospinse gentilmente per farle capire di muoversi e la donna
obbedì. Melwen si domandò perché
tenesse in braccio Zefiro, perché non lo avesse
già messo a terra. Sarebbe stato più semplice
avanzare, avrebbero potuto anche correre, così da arrivare
il più in fretta possibile a casa, dove, ne era certa, Nyi
avrebbe risolto tutto, dando loro una spiegazione razionale, talmente
semplice che tutti ne avrebbero riso per non esserci arrivati prima.
Alabastria era un baluardo inattaccabile, imprendibile, e quello che
stava accadendo era una tragedia legata a una dimenticanza di qualche
soldato. Sì, doveva essere così, e anche Zefiro,
quando si fosse svegliato, avrebbe concordato con lei.
Un grido risuonò nell'aria. Baldur si voltò di
scatto e sfoderò l'ascia. Nordri spinse Myria nel vicolo e
puntò lo sguardo in mezzo alla folla, dove un uomo fissava,
tremante, le figure che emergevano dalle macerie in fiamme. Il fumo ne
sfumava i contorni, ma Melwen seppe istintivamente cosa fossero,
perché la paura che provava era la stessa di quel giorno.
Come spettri emersi dai suoi peggiori incubi, gli elfi si fecero strada
tra architravi e mattoni sbriciolati, le spade che brillavano sotto la
luce grigia e opaca del sole e l'armatura che da nera passava a un
verde sempre più intenso. Uno di loro si guardò
intorno e quando posò lo sguardo su di lei, Melwen ebbe la
netta sensazione che fosse lì per lei, per ucciderla.
Il loro capo, un elfo più alto della norma, si
avvicinò a uno dei sopravvissuti all'esplosione, un nano
senza più abiti addosso e con i muscoli e le ossa della
mandibola esposti. Lo trafisse da parte a parte e lo tiro su come un
maiale sullo spiedo. In mezzo alle fiamme che ardevano sotto i suoi
piedi, lambendo gli schinieri senza attecchire, l'elfo sembrava un
mostro partorito dalla mente allucinata di un folle. Osservò
il nano dibattersi, annaspare in cerca d'aria, gli occhi nascosti
dall'ombra dell'elmo fissi in quelli della sua vittima. Riusciva a
tenerlo alzato con la sola forza di un braccio, quello che impugnava la
spada, mentre il sinistro era attorno al suo collo. Melwen
udì lo scricchiolio della spina dorsale ancora prima che
gliela rompesse. Quando l'elfo buttò a terra il cadavere del
nano, tutti gli altri elfi che erano alle sue spalle si gettarono sulla
folla.
Il terrore dilagò come una malattia e il caos, fino a quel
momento trattenuto, esplose. Le urla dei primi caduti si unirono a
quelle dei fuggitivi, che, ormai incuranti di tutto, spingevano per
allontanarsi, buttando a terra i più deboli, calpestando gli
anziani, i bambini lasciati incustoditi, mentre gli elfi fendevano il
muro di corpi, disperdendoli a colpi di spada. Uno di loro
afferrò un nano che incespicava trascinando la gamba ferita
e gli aprì uno squarcio sulla schiena che lo fece rovinare a
terra. Non si soffermò a vederlo morire, lo
scavalcò in fretta e si gettò addosso a una donna
con un neonato in braccio, che correva a perdifiato verso una viuzza
secondaria.
Una guardia tentò di fermare due elfi. Non fece in tempo a
menare un colpo d'ascia che un affondo lo raggiunse da sinistra,
sfondò l'armatura e penetrò nel fianco. Il
braccio rimase sospeso a mezz'aria, come se il tempo si fosse fermato.
Non ebbe neanche modo di gridare, perché un attimo
più tardi la sua testa rotolò sull'acciottolato.
La lama elfica descrisse un semicerchio di gocce rosse e il sangue
schizzò sugli astanti.
L'elfo che aveva incrociato lo sguardo di Melwen passò oltre
il capo mozzato, incurante della pozza di sangue che si allargava
insozzando i capelli e la barba, e si diresse verso di lei. Melwen
rimase paralizzata, gli occhi incatenati ai suoi: erano rossi come
quelli di un Drow e su tutta la sua persona, lo sentiva, c'era una
forte aura magica.
- Andiamo! Via, via, via! -
Baldur l'agguantò per un braccio e cominciò a
correre. Imboccò la strada dove Myria li attendeva e subito
anche lei lo seguì, con Nordri che li seguiva in coda.
Melwen lo vide liberarsi dal mantello e lanciarlo contro il loro
inseguitore, che però lo schivò. Era veloce e
aveva le gambe lunghe, troppo.
“Devo... devo fare qualcosa.”
Melwen strinse i pugni. Aveva ancora le orecchie tappate, ma la paura
era un carburante che risvegliava il suo potere.
- Lascialo fluire. È sempre lì, a portata di
mano, tu devi solo dirigerlo. -
La voce di Nyi presente nei suoi ricordi riecheggiò nella
sua mente. Era più dolce, più calorosa, sembrava
quella di suo padre. Un fremito familiare le percorse le braccia e si
concentrò nelle sue mani. Una scarica elettrica si
accumulò nel palmo della sua mano. Si allungò
oltre la spalla di Baldur e mirò a un barile rotto,
abbandonato lì in mezzo a paccottiglia e spazzatura.
Aprì la mano e, concentrandosi, lo scagliò
addosso all'elfo. Il legno andò in frantumi e l'inseguitore
sbatté violentemente contro il muro.
- Non so cosa tu abbia fatto, ma, se puoi, continua. - le
sussurrò il nano senza fiato.
Girarono l'angolo e imboccarono una strada in salita. Si misero in fila
indiana, obbligandosi a mantenere la stessa andatura. Myria mise un
piede in fallo, e sarebbe finita a terra se Nordri non l'avesse
afferrata in tempo. La sostenne finché non riuscì
a raddrizzarsi e poi riprese a correre, la testa di Zefiro riversa
sulla sua spalla. Il bambino aveva perso il capello di feltro e sul
collo della tunica si era espansa una grossa macchia di sangue. A
quella vista, Melwen si sentì morire. Si morse le labbra e
con un enorme sforzo riuscì a ricacciare indietro le
lacrime: non poteva abbandonarsi allo sconforto, non ora che poteva
fare qualcosa per aiutarli ad arrivare a casa.
Cambiarono direzione spesso, evitando più che potevano la
ressa delle strade principali. In più di un'occasione Baldur
si dovette fermare bruscamente per imboccare un'altra via, molto
più piccola, più stretta, più
claustrofobica. Melwen mantenne la concentrazione sul suo potere, i
sensi vigili e i muscoli tesi.
Un elfo li intercettò. Sgozzò la guardia con cui
stava combattendo e si gettò all'inseguimento.
Afferrò una freccia dalla faretra sulla schiena e
incoccò. Melwen aprì i pugni e stavolta due sassi
volarono contro di lui: uno lo colpì sul naso, l'altro
rimbalzò contro l'elmo. L'elfo indietreggiò
coprendosi la parte lesa e abbassò l'arco, il sangue che
colava copioso tra le dita.
“Non è abbastanza.”
Melwen trasse un profondo respiro. La ferita alla tempia pulsava, i
suoi sensi acuiti dal potere percepivano il bruciore che si irradiava
fin dentro l'orbita, ma si impose di ignorare il dolore e la paura e di
mantenere la calma. Richiamò altro potere, lo
lasciò fluire nel palmo della mano e lo sospinse con la
forza di volontà come Nyi le aveva insegnato. Quando
però tentò di spingerlo fuori dal suo corpo, esso
rimase sotto pelle, mentre la stanchezza le ghermiva le palpebre e le
mordeva gli arti. Senza che potesse fare nulla, le braccia ricaddero
inerti contro la schiena di Baldur.
- Maledizione... -
Il nano aveva il respiro mozzo e correva sempre più piano.
La casa era vicina, Melwen aveva percorso quella strada già
un paio di volte con Zefiro, dieci minuti al massimo e sarebbero
arrivati, eppure nessuno, lei compresa, era più in grado di
muovere un passo.
L'elfo ghignò, ripose l'arco e sguainò le spade,
lunghe lame ricurve percorse da un tripudio di simboli luminescenti.
Baldur rinserrò la stretta su Melwen, spostando febbrile lo
sguardo dall'ascia al loro nemico, poi a Myria. Non potevano rimanere a
combatterlo e allo stesso tempo non potevano nemmeno continuare a
scappare, non con un inseguitore tanto rapido alle spalle. Il
mercenario si morse l'interno della guancia, combattuto sul da farsi.
Melwen poteva avvertire la sua indecisione.
“Ti prego, non lasciarci...”
Le parole restarono incastrate in gola, i muscoli della bocca immobili,
come atrofizzati. Il sangue le colava sugli occhi e le appiccicava i
riccioli alla fronte, si sentiva sempre più debole, stanca
come non lo era mai stata e, sebbene desiderasse pregare Baldur di
rimanere, non riuscì a fare altro che a abbandonarsi con il
naso così vicino alla sua barba da poterne inalare il
profumo.
Nordri agì. Strappò l'ascia dalla mano del
mercenario e si fece avanti. Aveva il viso segnato e i capelli
scompigliati, tanto da sembrare una criniera grigia. Impugnò
l'arma senza fatica, e con una tale sicurezza che Melwen quasi non lo
riconobbe come il gentile e premuroso padrone di casa che si era preso
cura di loro fino a quel giorno: con la tunica strappata e
l'espressione determinata sul volto, sembrava un vecchio leone tornato
sul campo di battaglia.
Baldur esitò, allungò il braccio come per
trattenerlo, ma poi chiuse la mano a pugno e se la batté sul
petto in silenzio, prima di voltarsi, afferrare Myria e riprendere a
correre. Melwen si sforzò di tenere aperti gli occhi, di
seguire lo scontro. Man mano che si allontanavano la figura di Nordri
sbiadì sempre più, sfumando assieme al suono
metallico delle armi.
Quando girarono l'angolo, l'ultima cosa che udì fu un
gorgoglio e un raspare disperato di piedi, seguito da uno scalpiccio e
da degli ordini in elfico.
Giunsero finalmente a casa. Baldur era così stanco che quasi
si trascinò per gli ultimi passi. Senza più la
sua amata ascia, aveva avvolto anche il braccio destro attorno al corpo
sfiancato di Melwen.
- Skjaldi, Far, Fili che qualcuno ci apra! - urlò sfiatato.
Myria abbatté il pugno contro la porta, la voce rotta dalla
paura. Zefiro non aveva ancora ripreso i sensi e il sangue era colato
sulla spalla della madre.
Dopo qualche secondo, dall'interno rimbombarono dei passi e Skjaldi
fece capolino sulla soglia. Aveva una spada insanguinata tra le mani e
la camicia era strappata in vari punti.
- Entrate, presto! -
Non appena furono tutti al riparo, Far e Fili chiusero velocemente la
porta e la serva personale di Myria li scortò nella sala da
pranzo. Le finestre erano state sprangate e il corridoio e tutte le
stanze erano illuminate solo dalla luce delle candele.
Baldur ripose Melwen su una sedia e le posò una mano sulla
spalla. Un'altra mano le toccò la fronte e, quando la
bambina racimolò la forza per aprire gli occhi, si
ritrovò il viso del suo maestro a un palmo dal naso, che la
scrutava con cipiglio critico. Un rumore di qualcosa che veniva
trascinato attirò l'attenzione di Melwen, ma Nyi le
impedì di distogliere lo sguardo. Aveva la tunica bruciata
sulle maniche, un occhio tumefatto e un brutto livido sulla guancia,
tuttavia mentre la controllava non si lamentò mai.
- Ti avevo detto di dosare il potere, adesso non potrai praticamente
muoverti. - le spostò una ciocca di capelli per controllare
la ferita alla tempia, per poi rivolgersi a Baldur, - La ferita non
è grave, potrei guarirla, ma mi ci vorrebbe del tempo. Di' a
Far di tamponarla, mentre io... -
- Me ne occupo io, tu alza il culo e fai qualcosa per Zefiro. -
La preoccupazione traspariva dagli occhi e dalla voce di Baldur. Melwen
inclinò la testa per vedere dove fosse il suo amico, ma
qualsiasi movimento facesse, anche il più piccolo, si
tramutava in una fitta al cervello.
Nyi indugiò un momento, poi le diede le spalle e si
avvicinò al lungo tavolo di quercia al centro della sala
dove Myria aveva disteso Zefiro. Nella luce tetra delle candele il suo
viso appariva senza vita, una funeraria maschera di cera bianca.
- Nordri dov'è? - sentì Skjaldi chiedere con
apprensione.
Anche Nyi alzò il capo, in attesa di una spiegazione. Myria
parve afflosciarsi e Baldur si limitò a scuotere la testa.
Non ci fu bisogno di aggiungere altro, il silenzio valeva
più di qualsiasi parola. La nana rinserrò la
presa sulla spada e si stropicciò gli occhi umidi, i denti
piantati nel labbro inferiore. Far e Fili sbatterono le palpebre,
dapprima increduli, ma quando la consapevolezza di cosa era successo si
fece strada nella loro coscienza non riuscirono a trattenersi. Piansero
in silenzio, poche lacrime e nessun gemito Melwen quasi non lo
udì e nonostante il dolore non si fecero fermare: si
tirarono su le maniche e si affaccendarono, stando dietro agli ordini
di Nyi, mentre Skjaldi teneva sott'occhio la porta della sala.
- Mi... mi dispiace. - esalò Melwen.
- Non è colpa tua, piccola. - la consolò Baldur.
Prese un pezzo di stoffa e lo imbevette con del vino, conservato in una
delle tante bottiglie che erano state spostate sul tavolo. Un profumo
speziato permeò l'aria, un effluvio stuzzicante di bosso e
di ginestra così dolce che Melwen non poté fare a
meno di associare al viso rubicondo di Nordri, quando durante una delle
loro prime cene nella sua casa aveva stappato la sua “annata
migliore” per dar loro il benvenuto. Una lacrima le si
impigliò nelle ciglia.
- Non piangere, non l'avrebbe voluto. -
Il nano le tamponò la ferita e l'intorno con delicatezza,
come se si stesse occupando di un animale ferito.
- Diceva spesso che gli sarebbe piaciuto essere ricordato mentre
mangiava i suoi amati cannoli o mentre se ne stava spaparanzato a
leggere un libro davanti al camino acceso. Più di una volta
l'ho sentito dire che le uniche lacrime che vale la pena versare sono
quelle di felicità. Sono certo che se adesso ti vedesse
così, te lo ripeterebbe. -
Melwen tirò su col naso e si asciugò il moccio
con il bordo della manica.
- Zefiro...-
- Lui ce la farà. -
- Come fai a esserne sicuro? -
- Perché non te ne vai se hai una promessa da mantenere. -
Baldur puntò il suo sguardo in quello di lei e la bambina vi
lesse tutto il dolore e la sicurezza che aveva impresso in quelle
ultime battute. Non le stava regalando una falsa speranza, credeva
davvero che Zefiro sarebbe sopravvissuto, e Melwen si
aggrappò con tutta se stessa a quelle parole, che
nell'istante in cui tutto, ogni cosa, sembrava crollarle addosso,
costituivano il suo unico, possibile appiglio per non sprofondare nello
sconforto.
- Come facciamo ad andarcene da qui? -
- Forse potremmo aspettare i rinforzi. -
- Rinforzi? Quali rinforzi, Fili? Anche se Lotka decidesse di
intervenire, quando le truppe arriveranno sarà ormai troppo
tardi. -
- E allora cosa possiamo fare? -
- Posso portarvi via io. -
Skjaldi, Myria, Fili e Far si girarono verso Nyi. Il Dominatore era
salito su una sedia ed era chino su Zefiro, la destra posata sopra la
sua mano e l'altra che si muoveva a ritmo, come se stesse dirigendo
un'orchestra.
- Conosci incantesimi di teletrasporto? -
Anche Melwen era sorpresa quanto Baldur. Suo padre era stato capace di
qualsiasi cosa, se lo rammentava bene, ma durante le loro lezioni Nyi
le aveva ribadito più e più volte che la
capacità di manipolare gli elementi di un Dominatore non
sempre può competere con quella di un Arcanes, soprattutto
quando si tratta di incantesimi che coinvolgono più persone.
- Ne conosco più d'uno, ma il punto è un altro.
Oltre a me stesso, posso portare solo altre quattro persone, non una di
più. -
Un silenzio denso come melassa calò in tutta la sala. Tutti
si lanciarono delle occhiate furtive e per un bel po', Melwen non seppe
quanto, nessuno osò parlare.
- Inoltre, ho bisogno di concentrazione per fare una cosa del genere:
ci teletrasporteremo a un paio di miglia di distanza da qui, quindi non
saremo al sicuro: una volta fuori, rischieremmo comunque di morire, non
sappiamo quanti sono là fuori. -
- Stai... stai dicendo che qualcuno dovrà rimanere qui? -
mormorò Fili.
Nyi annuì con aria cupa.
- La figlia di Copernico verrà con me, perciò
rimangono solo tre posti. - aggiunse e saltò giù
dalla sedia, scrutandoli uno per uno, - Vedete voi chi, ma fate in
fretta, non ho intenzione di aspettare che altri elfi vengano per
ammazzarmi. -
Melwen avrebbe voluto urlare, ma la paura e la stanchezza la tenevano
incollata alla sedia, la paralizzavano da capo a piedi senza che lei
potesse fare nulla se non osservare la scena che si stava consumando
davanti ai suoi occhi: Zefiro steso sul tavolo, ancora privo di sensi
con il torace che si alzava e si abbassava lentamente, sua madre che
singhiozzava, Far e Fili che giravano inquieti per la stanza, Skjaldi e
Baldur che si scambiavano delle strane occhiate, in un dialogo muto
portato avanti dagli occhi e non dalle bocche. Se soltanto non avesse
esagerato con il suo potere, forse avrebbe potuto fare qualcosa,
aiutare Nyi, salvare tutti.
“No, anche nel pieno delle forze sarei stata inutile. Non
sono che una bambina di dodici anni che si è appena
approcciata alla magia.”
L'evidenza della logica era lì, davanti a lei,
materializzata nella figura del suo maestro, che con una serie di
eleganti movimenti delle braccia, quasi fossero dei passi di danza,
aveva dato corpo all'aria e la stava plasmando in una cornice ovale e
fumosa che pian piano andava allargandosi. Non era una cosa di cui
Melwen sarebbe stata capace, eppure non riusciva a darsi pace, ad
arrendersi all'ovvietà dei fatti: si sentiva impotente e
quel sentimento glaciale la stava scorticando da dentro.
- Io rimarrò qui. - esordì Skjaldi.
La voce era incerta e le tremavano le spalle, persino la presa sulla
spada non sembrava più così salda. Strinse l'elsa
a due mani e si parò davanti a Baldur, che la
guardò boccheggiando.
- Tu non puoi morire, Pugno d'Acciaio, la parte dell'eroe non ti si
addice più da un po', ormai. - lo prevenne la serva e gli
diede un buffetto sulla guancia, le lacrime che già le
bagnavano il colletto della camicetta, - Non sei un soldato a nessun
bardo piace cantare le gesta di un mercenario con un cuore tenero. Le
dame di corte lo troverebbero banale. -
- Rimaniamo anche noi. - Fili si fece avanti, tirando per il polso
anche suo fratello, - Il nostro signore è morto qui, non
possiamo andarcene. Sapete come si dice, no? Il capitano affonda con la
sua nave. -
- Non... non è giusto. - Myria si alzò e
accarezzò la guancia di Skjaldi.
- Lo so, strei, lo so, ma non vi chiederei mai di rimanere. Nordri
avrebbe voluto che tu e i bambini vi salvaste e noi dobbiamo esaudire
le richieste del nostro signore fino alla fine, anche e soprattutto
rispettare i suoi ordini quando lui non c'è. - la nana le
sfiorò la mano e si voltò per fissare i due
fratelli, per poi gettare un'occhiata triste a Zefiro, - Potreste
dirgli di ricordarsi di sorridere sempre e che alle donne piace vedere
il proprio uomo sorridere? -
- Lo farò. -
Myria fece un passo indietro e si asciugò una lacrima: - Non
so davvero come ringraziarvi... -
- Non sei obbligata, Skjaldi, né tu né i ragazzi
lo siete. - intervenne Baldur.
- Sì che lo siamo. - si intromise Far, - Tutto
ciò che avevamo era questa casa. Se sopravvivessimo, non
riusciremmo a ricominciare. Abbiamo dei doveri, sia nei vostri
confronti sia verso i nostri morti, abbandonarli qui... non
è qualcosa che possiamo fare. -
- Inoltre, Baldur, tu sei l'unico che può difenderli fuori
di qui. Io saprò maneggiare una spada, ma non ho mai voluto
fare la vita del soldato: sono una cameriera, niente di più
niente di meno. - Skjaldi gli mise una mano sulla spalla e si
sforzò di sorridere, - Ognuno ha i suoi doveri, il tuo
è quello di proteggere Myria, Zefiro e Melwen. -
A quel punto, la serva estrasse da una tasca del grembiule il libro di
fiabe di Melwen e le si accostò per porgerglielo.
- Tieni. L'ho trovato nella biblioteca privata di Nordri. Volevo
portartelo in camera, ma poi è scoppiato il finimondo,
così... -
Melwen lo accettò grata, un sorriso appena accennato sulle
labbra. Accarezzò il libro come se fosse una reliquia rara.
La pace ebbe breve durata. Dei colpi e poi il rumore dei cardini che
cedevano interruppero la conversazione. Skjaldi si mise in posizione,
mentre Fili e far si armarono con due attizzatoi. Baldur
afferrò l'ascia che stava sopra il camino, un'arma
ornamentale, inutilmente pesante, ma con una lama che rifulgeva
minacciosa nella luce tremolante delle candele.
- Myria, prendi i bambini e spostati vicino a Nyi. - le
ordinò affiancandola.
La donna assentì e piano. Tenendogli la testa sollevata,
appoggiò Zefiro alla parete a pochi passi dal Dominatore.
Quando si avvicinò a Melwen, un altro colpo fece tremare le
porte del salone. I vetri della cristalliera tremarono e andarono in
frantumi quando la lama di un'ascia trapassò il legno. Ne
seguirono altre subito dopo. Non c'era nessun vociare dall'altra parte
e il silenzio era interrotto solo dallo spostamento d'aria che
precedeva l'impatto dell'arma.
- State pronti. - sibilò Skjaldi.
Quando la cristalliera cadde a terra e la porta cedette, tutti
trattennero il respiro. Dall'ombra emersero le figure di tre elfi, i
primi due armati con due asce, l'altro con delle lame ricurve. Dalla
sua pozione, Melwen riuscì a intravedere gli occhi nascosti
dall'elmo: erano rosso sangue.
*
Lusil correva verso le gallerie assieme ai sopravvissuti della sua
famiglia e agli altri membri della popolazione, quei pochi che erano
riusciti a scampare al carnaio. Sua moglie Terna gli strinse il braccio
e Lusil di riflesso fece lo stesso, infilando una mano nella chioma
scura di loro figlio Serin.
Era successo tutto così in fretta: dapprima le guardie
avevano loro ordinato di tornare nelle loro case, poi, sulla via del
ritorno, la caserma era saltata in aria e gli elfi erano sciamati nelle
strade. La sorpresa era stata così tanta che nessuno,
nemmeno le guardie cittadine rimaste, era riuscito a reagire, non
subito almeno, e i loro nemici, il loro peggior incubo, avevano fatto
una carneficina. Lui, Terna e Serin erano riusciti a mettersi in salvo
solo perché erano lontani dall'esplosione e avevano avuto il
tempo per scappare. La loro casa era troppo lontana e per arrivare
avrebbero dovuto attraversare mezza città, così
Lusil aveva condotto la sua famiglia verso gli ultimi terrazzamenti,
quelli che aggettavano sulle miniere, con il proposito di fuggire
attraverso le gallerie d'emergenza alla cui costruzione lui stesso
aveva preso parte.
Purtroppo però, non era stato l'unico ad avere quell'idea:
giunti alle miniere, avevano trovato una marea urlante di uomini,
donne, bambini e anziani che si spintonavano per entrare, in un caos
che nemmeno le guardie cittadine riuscivano a domare, troppo occupate a
pattugliare le strade da cui potevano arrivare gli elfi.
Lusil continuava a guardarsi alle spalle. Aveva militato nell'esercito
di Balor per una decina d'anni e, sebbene la vita del soldato non
facesse per lui, si sentiva nudo senza un'arma tra le mani. L'unica
cosa che lo rinfrancava era che, fino a quel momento, i pochi nemici
che avevano assaltato la folla erano stati respinti dalle guardie.
Cullò Serin e gli schioccò un bacio sulla guancia
paffuta, inspirando il profumo di pesca della sua pelle. Il cuore
rallentò la sua corsa e i polmoni compressi si distesero
appena, richiamando l'aria che fino a quel momento era rimasta
incastrata in gola.
“Ce la faremo. Le guardie stanno resistendo e il re combatte
qui fuori: non appena ne avrà la possibilità,
manderà qualcuno a darci man forte.”
Scambiò una lunga occhiata con la moglie. Terna
arricciò le labbra in un mezzo sorriso e
intrecciò le dita con quelle di lui, traendo a sua volta un
profondo respiro.
- Tra poco saremo al sicuro. - affermò convinta e Lusil
annuì.
Un elfo sbucò da sopra le scale e le saltò
caricando a testa bassa, mentre un altro incoccava due frecce, mirando
verso il cielo.
- Muovetevi! -
Le guardie, un manipolo di una decina di nani ben corazzati,
alzò gli scudi. I dardi sibilarono, percorsero una
traiettoria a parabola e rimbalzarono contro il metallo. Il nano dietro
Lusil lo spinse con una tale forza che quasi lo mandò a
terra, se non fosse stato per la presa salda di Terna.
- Sbrigatevi, presto! - la voce stentorea di Smar riecheggiò
sui muri, - Uomini, mantenete la posizione! -
L'elfo era a pochi piedi di distanza, avanzava rapido e feroce come una
pantera, l'armatura verde giada che rifletteva la luce del sole. Altri
dardi piovvero su di loro, stavolta non solo dall'elfo in cima alle
scale, ma anche da sopra di lui e dalla sua sinistra. L'anziana davanti
a Lusil cadde a terra, trafitta da parte a parte da una freccia, e
così anche il suo vicino, un nano dalla barba bionda e gli
occhi scavati dalla paura: l'asta gli trapassò il cranio e
la punta fuoriuscì dall'occhio, facendo esplodere sangue e
materia cerebrale sugli astanti. Una donna urlò e alle sue
grida se ne aggiunsero altre, ancora più impaurite, ancora
più terrorizzate, simili a quelle delle pecore al macello.
Uno dei soldati sfoderò la balestra che aveva al fianco. Si
tenne nascosto dietro il muro di scudi e, quando l'ebbe caricata,
mirò. Il dardo fendette l'aria e l'elfo, il primo ad essere
apparso, cadde al suolo in mezzo al prato di aste impennate alle sue
spalle.
Lusil ricacciò in gola l'impulso di vomitare e
scavalcò i corpi dei caduti. Quando percepì la
carezza dell'umidità sulla pelle, si abbandonò a
un sospiro di sollievo: non importava quanti ce ne fossero davanti a
loro, erano salvi.
- Retrocedere! -
Qualcuno gli diede una gomitata, un altro ancora tentò di
spostarlo per passare avanti, ma Lusil lo spinse dietro di
sé e aumentò il passo, pestando i piedi ai
più lenti o a chi non riusciva a procedere abbastanza in
fretta. Le pareti di roccia si chiusero sopra di loro e la luce
diminuì man mano che avanzavano, Lusil però
conosceva quelle gallerie come le sue tasche e sapeva dove condurre la
sua famiglia. Sì, ce l'avrebbero fatta, a breve avrebbero
fatto crollare il passaggio e...
L'esplosione alle loro spalle fu così forte da farli cadere.
Lusil rovinò a terra, Serin ancora stretto tra le braccia.
Riuscì a lasciare la presa sulla mano di Terna in tempo per
proteggere la testa del piccolo. Quando riuscì ad alzarsi,
con il sapore della polvere in bocca si guardò intorno,
completamente spaesato. Alle loro spalle, da dietro il muro di pietre
che ostruivano l'entrata, udirono le grida delle guardie e dei
cittadini rimasti fuori. Non comprese cosa stessero dicendo, un timpano
gli era scoppiato e un rigolo di sangue gli scivolava fuori
dall'orecchio, ma la poca luce che traspariva attraverso le fessure
illuminò il viso preoccupato di sua moglie.
- Perché hanno fatto crollare l'entrata prima che fossimo
tutti dentro? -
- Bastardi, ridatemi i miei bambini! - una donna si scagliò
contro quel muro, graffiando le pietre fino a farsi sanguinare le dita,
- Ridatemeli, ridatemeli! -
Altri si unirono al suo lamento funebre, tentando in tutti i modi di
spostare i massi. Ma erano troppo grossi e loro, a parte le mani, non
avevano attrezzi per spostarli. Dall'esterno le urla aumentarono
d'intensità, così tanto da sopraffare gli ordini
delle guardie. I sibili delle frecce fendevano l'aria a ritmo
cadenzato, sembrava stesse piovendo.
“Non ce n'erano così tanti prima, ci hanno
raggiunti...”
- Dobbiamo andare. - tirò su sua moglie e levò la
voce in modo che tutti udissero, - Avanti, proseguite! -
- Non possiamo lasciarli, dobbiamo... dobbiamo spostare i massi per
permetter loro di entrare. - si opposero subito alcuni, spaventati per
la sorte dei cari al di là della barriera di massi.
Lusil scosse la testa: - Non possiamo fare nulla, sono già
morti. -
La caduta di altre pietre ridusse tutti al silenzio. Il nano si
voltò e chiuse gli occhi, concentrandosi per capire se ci
fosse pericolo di frana. Il rumore di qualcosa che strisciava gli
mandò il cuore in gola, ma nel buio non era in grado di
individuarne la direzione.
- Lo hai sentito anche tu...? - mormorò Terna, avvicinandosi
a lui.
Lusil stava per risponderle, quando le grida provenienti dalle file
più avanti ruppero la stasi. Si irrigidì,
deglutì e accarezzò suo figlio per calmarlo. A un
tratto, della bava gli gocciolò sulla spalla.
Sollevò lentamente la testa, solo per imbattersi in otto
occhi gialli che lo fissavano famelici dal soffitto. Lusil rimase
paralizzato a studiare la sua chiostra di zanne di quella creatura, il
suo corpo vermiforme. Non ebbe tempo di emettere un singolo suono prima
che la cosa gli staccasse la testa.
*
Balor infilò le staffe nei reni del Dizit e lo
incitò: - Più veloce, più veloce! -
La bestia sbuffò infastidita, ma aumentò
l'andatura. Dietro di lui, i settecento membri che aveva scelto come
scorta e truppe di rincalzo diedero di sprone per stargli dietro.
Un elfo gli si parò davanti, tentò di colpire il
Dizit alle zampe, ma il re gli separò la testa dal collo con
un unico, fluido gesto del braccio. Il sangue schizzò sul
muro di una casa e il corpo si afflosciò a terra come una
bambola. I due nani che gli cavalcavano poco più indietro
lanciarono una rapida occhiata al cadavere, per poi tornare a guardare
la schiena del loro signore, le aste lunghe strette tra le mani.
La notizia di quello che stava accadendo in città era
arrivata fino a loro. Balor li aveva mandati all'interno delle mura per
raccogliere informazioni e, non appena aveva saputo della mattanza in
atto, aveva affidato il comando a Negan, Hagan e Rekkr, ordinando loro
di far ripiegare l'esercito. Aveva dovuto reprimere l'istinto di dare
le spalle alle sue truppe per precipitarsi al Castello di Ferro. La sua
famiglia era in pericolo, ma se avesse lasciato i suoi uomini allo
sbaraglio sarebbe stata la fine per Alabastria stessa.
Una freccia sibilò a un palmo dal suo viso. Balor
alzò lo sguardo: due elfi, entrambi armati di arco, si erano
appostati sopra una casa, le loro figure parzialmente coperte dal
comignolo. Il primo, quello che aveva appena tentato di ucciderlo,
incoccò di nuovo, mentre l'altro prendeva la mira.
- Proteggete il re! -
Il generale Andavari e altri tre nani si portarono ai suoi fianchi e
alzarono gli scudi. I dardi si infransero contro l'acciaio temprato,
spezzandosi in due.
Balor strinse i denti e serrò la presa sulle redini nel
tentativo di tenere la freno la rabbia: eccoli lì gli
assassini del suo popolo, gli elfi che per anni aveva combattuto e dai
quali ora doveva fuggire.
Altri colpi, stavolta tre, alla sua sinistra. Il nano vicino a lui, con
la barba nera e ispida come quella di un'istrice, grugnì,
sforzandosi di mantenere lo scudo alto, mentre altre frecce piovevano
contro di lui. Con la coda dell'occhio intravide uno dei suoi incoccare
l'arco per rispondere al tiro, udì la corda tendersi e poi
il sibilo del rilascio. Un grido seguito da un'imprecazione lo fece
sorridere e gli diede coraggio.
- Non abbandonate le vostre posizioni. Se gli elfi si pareranno sulla
nostra strada, uccideteli, ma non perdete tempo. - ordinò
con voce stentorea, sovrastando lo scalpiccio degli zoccoli dei Dizit e
dei cavalli in corsa.
Il caos era tanto e le urla provenivano da ogni direzione. Balor
sperava che la maggior parte dei cittadini fossero riusciti a fuggire
attraverso le gallerie scavate nelle miniere. In cuor suo pregava che
gli dei avessero avuto misericordia almeno dei bambini, ma una parte di
lui, quella più fredda e razionale, continuava a domandarsi
se non fossero stati proprio quei cunicoli a permettere agli elfi di
penetrare in città.
“Ma come? Nemmeno Lysandra li conosceva.”
Scosse la testa e relegò quel pensiero in un angolo del suo
cervello: non doveva abbandonarsi allo sconforto, non doveva distrarsi.
L'unica cosa che contava era portare in salvo la sua famiglia.
Si fecero largo tra le strade ingombre di gente, uccidendo gli elfi
quando ostruivano loro il passaggio. Le guardie sopravvissute lo
acclamarono quando lo videro arrivare e i suoi soldati aggredirono gli
assalitori con così tanta furia che, alle volte, Andavari
dovette richiamarli all'ordine.
Nonostante cercassero di non farsi fermare, spesso dovettero combattere
per aprirsi la strada. Gli elfi erano tanti, ma meno dell'esercito che,
da fuori, premeva contro le loro mura. Balor perse un battito quando
vide il profilo delle loro macchine d'assedio, trabucchi ed elepoli di
legno rinforzato, farsi sempre più vicine. Gli uomini
rimasti sui camminamenti correvano da una parte all'altra, caricando
baliste e onagri sotto gli ordini urlati dai loro comandanti, mentre
altri combattevano sulle scale, respingendo l'assalto degli elfi.
Il primo colpo d'ariete fece tremare il ponte levatoio e
sembrò scuotere la città fin dalle sue
fondamenta. Gli arcieri cominciarono a scoccare e quelli più
vicini ai merli rovesciarono calderoni di olio e pece bollente sulle
truppe ammassate sotto le mura.
- Resistete! -
Continuarono a risalire le strade fino alla parte più alta
della città. Quando giunsero al Castello di Ferro e
trovarono il ponte levatoio divelto a terra e in fiamme, il cuore di
Balor mancò un battito.
- Di qua! Con me! -
Saltò giù dal Dizit e assieme agli altri soldati
fece irruzione nella sala principale. I mobili stavano ancora bruciando
e i corpi della servitù giacevano contro i muri o sul
pavimento, alcuni con il viso così deturpato dal fuoco da
renderli indistinguibili ammassi di carne bruciata senza volto e senza
identità.
Prima ancora che potesse fare un passo, come se li avessero aspettati,
un drappello di elfi si affacciò dalle scale. Le frecce
piovvero su di loro, precise, letali, attaccando al suolo chi non
riuscì ad alzare in tempo gli scudi.
- Avanzate! -
Balor era circondato dai suoi uomini. Uno di quelli più
indietro gli passò uno scudo e poi tornò nelle
retrovie, imbracciando il piccolo arco che portava nella faretra.
Procedettero, passo dopo passo, sotto la tempesta di frecce.
Metà dei soldati tenevano gli scudi rivolti verso l'alto,
gli altri con le lance in resta, mentre quelli più lontani
rispondevano al fuoco, ribattendo colpo su colpo per quanto lo spazio
poco ampio glielo permettesse.
Non appena la maggior parte dei suoi uomini riuscì a entrare
nella grande sala, Balor ordinò la carica. Nello stesso
momento, dalle scale scesero gli elfi. A capeggiarli era una donna: non
indossava l'elmo e i capelli rosso sangue le ricadevano languidi sulle
spalle, appena scompigliati. Attorno a lei orbitava una barriera
evanescente dai riflessi bluastri e, quando un arciere tentò
di colpirla, il dardo rimbalzò su di essa.
“Deve essere un incubo.”
- Ferma i tuoi uomini, Balor. -
- E perché mai dovrei farlo? - ringhiò il re di
rimando, l'ascia ben stretta in pugno.
L'elfa sorrise, mettendo in mostra i canini leggermente affilati. Fece
un cenno a qualcuno, forse un elfo rimasto nascosto su per le scale.
Dopo qualche istante, Eliria e i suoi tre figli cominciarono a
scendere. Thraed zoppicava, a malapena riusciva ad appoggiare il piede
a terra, sebbene si sforzasse di mostrarsi fiero, la testa alta e le
spalle indietro. Aveva la mascella slogata e l'occhio tumefatto. Non
appena vide suo padre, l'ombra di un sorriso di sollievo gli
attraversò il viso, per poi tramutarsi in una smorfia
sofferente.
- Cani! Come avete osato! -
Balor fece un passo verso di loro. La donna afferrò Eliria e
le puntò un pugnale alla gola, il braccio ben serrato sulle
sue spalle.
- Non oseresti... -
- Non esistono regole in guerra, caro re. - il suo tono era irridente e
i suoi occhi brillavano, accesi da un sadico divertimento, - Non
farmelo ripetere, di' ai tuoi uomini di abbassare le armi. -
Il re esitò. Tentò di raccogliere i pensieri, ma
la logica sembrava svanita, così come la sua
capacità di ragionare razionalmente, seppellita sotto
l'immagine di sua moglie morta, dei suoi figli massacrati. Si morse
l'interno della guancia e, semplicemente, alzò la mano e la
fece ricadere lentamente lungo il fianco. In silenzio, tutti i soldati
obbedirono.
- Bene, adesso ordina a tutti di entrare e di sbarrare le porte. -
spostò lo sguardo sulle sue truppe e ghignò, -
Tutti quelli che possono, almeno. Gli altri e gli arcieri, fuori. -
- Mio signore, non possiamo lasciarvi qui, è... -
- Obbedite. -
Andavari aprì la bocca, ma Balor non lo voleva ascoltare, e
comunque non ci sarebbe riuscito. La sua attenzione era calamitata
dalla sua famiglia, i vestiti macchiati di sangue di sua moglie, le
dita rotte di Soryan e Neall. Se mai fossero uscite vive,
pensò, avrebbe dovuto chiamare i migliori cerusici di
Esperya per far tornare le loro mani com'erano prima.
- Obbedite, fate quello che vi ha detto di fare. - ripeté,
imponendosi di mantenere la voce ferma.
Andavari annuì. Prese un profondo respiro e fece un cenno ai
soldati. Piano, molto piano, si ritirarono. Man mano che la scorta
fluiva fuori, coloro che erano rimasti ammassarono tutto ciò
che c'era di integro vicino alla porta: pezzi di legno, mezzibusti di
statue, tutto. Quando chiusero le porte, il silenzio divenne assoluto,
pesante come pietra.
- Veniamo al punto. - esordì allora l'elfa, sollevando
trionfante il mento, - Alabastria è nostra, avete perso: i
vostri soldati possono combattere quanto vogliono, ma siete in netta
inferiorità numerica e i cittadini sono imprigionati nelle
gallerie d'emergenza. Quello che vi chiedo è una resa
incondizionata: se sarete ragionevole, vi lascerò quel
manipolo di uomini che vi rimane e la vostra famiglia. -
- Che garanzia ho che manterrete la vostra parola? -
- Nessuna, ma se rifiutate darò l'ordine ai miei di
uccidervi tutti ora. A me non cambierebbe molto, ma... -
lasciò la frase in sospeso e tracciò una lieve
linea rossa sulla gola di Eliria, - Non penso abbiate il fegato di
giocare così con la vita dei vostri familiari. -
Sua moglie digrignò i denti. Cercò di mostrarsi
forte, eppure tremava come una foglia tra le braccia dell'elfa. Neall e
Soryan tenevano il capo basso, senza degnarlo di uno sguardo,
singhiozzando in silenzio.
Balor serrò i pugni e gettò un'occhiata alle sue
spalle, ai duecento uomini che si erano disposti attorno al muro con le
armi abbassate. Lo fissavano seri e nei loro occhi il re non lesse
nessun rimprovero, nessun biasimo: erano lì per lui e per
lui sarebbero morti. Poteva udire anche gli altri all'esterno, che
rumoreggiavano appena come se volessero preservare il silenzio luttuoso
che, come un velo, stava inesorabilmente avvolgendo la
città. Le urla erano lontane, così come il rumore
dell'ariete che colpiva il ponte levatoio e gli ordini dei soldati
sulle mura. Di tanto in tanto, un'esplosione faceva tremare la terra,
ma la confusione che c'era fuori scoloriva, sbiadendo in una eco
lontana. L'unica cosa reale era quell'elfa e il pugnale puntato alla
gola di sua moglie, assieme all'odore intenso e penetrante di alcol che
permeava la sala. Era così intenso da fargli lacrimare gli
occhi.
- Accetto. -
Non era la sua voce, quella, era troppo bassa, troppo roca.
- Inginocchiati e butta a terra la corona, Balor. - gli
intimò l'elfa.
Il suo corpo si mosse da solo. Mentre i suoi uomini gli aprivano un
varco per permettergli di passare, il re tenne la testa alta e gli
occhi fissi davanti a sé. Un passo dietro l'altro,
arrivò proprio ai piedi delle scale, sotto l'elfa e sua
moglie. Eliria lo guardava con espressione supplice e Balor
poté leggere nei suoi occhi che lo stava pregando di non
farlo. Si concesse un momento per osservarla e imprimersela nella
memoria, e quasi gli parve di sentire i suoi capelli tra le dita.
Portò le mani alla testa e chiuse gli occhi, rievocando
altri ricordi: Soryan che ballava con Neall, le mani intrecciate e gli
sguardi complici, belle come la loro madre, la luce che aveva
illuminato le sue giornate; Thraed che montava il suo primo Dizit, la
sua risata scanzonata, l'orgoglio dei suoi occhi; Eliria che sorrideva
sotto i cipressi del suo giardino e il suo profumo dolce di cannella,
fiordalisi e nontiscordardime.
Le dita sfiorarono il metallo e le spalle si accasciarono.
Sconfitto.
La corona cadde con un rumore sordo.
Balor riaprì gli occhi e si scontrò col ghigno
vittorioso dell'elfa.
- Ops. Ho mentito. -
Un secondo più tardi affondò la lama del coltello
e tagliò la gola a Eliria. Contemporaneamente, gli altri
elfi pugnalarono a morte Thraed e le sue figlie. Quando il corpo della
regina cadde a terra, una fiamma proruppe delle mani dell'elfa e la
stanza si trasformò in un inferno di fuoco.
*
La testa gli pulsava e il dolore si propagava da un punto preciso
dietro la nuca, poco sopra l'altezza del collo. Zefiro portò
la mano lì a fatica e toccò appena i bordi gonfi
della ferita. Non sanguinava, almeno non gli sembrava, ma faceva
davvero male, così tanto che non appena la sfiorò
ritrasse la mano in un basso gemito sofferente.
Un rumore improvviso lo fece sussultare. Ansiti, sibili, grugniti...
aprì piano gli occhi e si sforzò di penetrare la
nebbia che gli ostruiva la vista. Sette figure indefinite,
più ombre che altro, si muovevano nel suo campo visivo: tre
impugnavano delle lunghe lame, le altre tre avevano armi diverse ed
erano molto più basse
Il dolore lo costrinse di nuovo a chiudere gli occhi e Zefiro si
trovò di nuovo a brancolare in un'oscurità di
puntini colorati, dove oltre al buio erano presenti anche le immagini
di ciò che era accaduto – almeno di quello che
presumeva fosse accaduto. Provò a soffermarsi sui frammenti,
a ricomporli per dare un senso a quel caotico mosaico, ma
più si sforzava più il dolore aumentava
d'intensità e gli si conficcava nel cervello come un milione
di aghi.
Una mano si strinse attorno alla sua e una voce, la voce di sua madre,
penetrò nel buio.
- Sei vivo... -
C'era sorpresa in quelle due parole, sorpresa e sollievo. Zefiro
inclinò appena la testa. Avrebbe voluto parlare, ma le
labbra erano impastate da una sostanza appiccicosa mista di sangue e
saliva.
- Andrà tutto bene. - mormorò Myria e gli cinse
piano le spalle, - Andrà tutto bene, piccolo mio,
andrà tutto bene. -
Un tonfo e un urlo risuonarono nell'aria. Myria si staccò da
lui e Zefiro aprì gli occhi di scatto, spaventato. Era come
se quel grido avesse aperto uno squarcio nella nebbia.
La sala da pranzo era tutta in disordine, c'erano mobili e bottiglie a
pezzi ovunque, mentre il tavolo, il lungo tavolo dove di solito
mangiavano, era chiazzato di sangue. A pochi passi c'era Nyi e davanti
a lui una specie di specchio fumoso a grandezza d'uomo. Skjaldi, Fili e
Far combattevano contro due elfi. Erano ricoperti di ferite, i visi
stanchi e sfiancati, mentre Baldur era schiena al muro, il respiro che
gli raschiava la gola e lo sguardo stralunato.
- Melwen! - gridò il nano. e Zefiro cercò la sua
amica con lo sguardo.
Era accoccolata su una sedia, con la testa inclinata languidamente
sulla spalla. Dormiva tranquilla, con un libro stretto al petto, ignara
dell'elfo che si stava avvicinando. Impugnava una spada dalla lama
ricurva nella sinistra. A Zefiro mancò il respiro quando
vide che aveva gli occhi rossi.
“Fenrir.”
Quel nome emerse dalla sua memoria e si inabissò, soppresso
dalla rabbia e dalla paura di cosa ciò significava. Zefiro
tentò di alzarsi. Si puntellò sulle mani e
ordinò alle gambe di issarlo, di correre, ma il dolore lo
aggredì e lo inchiodò alla parete.
“Devo fare qualcosa.”
Per quanto ci provasse, non riusciva a muovere nemmeno un muscolo,
mentre l'elfo era sempre più vicino.
Nyi si voltò, il viso imperlato di sudore. Aprì
le bocca in un urlo che Zefiro non udì e lo specchio
tremolò pericolosamente, la superficie si incrinò
come se si stesse per rompere e il Dominatore dovette distogliere lo
sguardo.
“Alzati, dannazione!”
Non seppe dove trovò la forza, non se ne curò
nemmeno. Conficcò le dita nel muro e si mise in piedi, gli
occhi fissi in quelli dell'elfo, sulla sua lama arrossata. Il dolore
rese i colori, i suoni e gli odori più vividi, li
amplificò e Zefiro quasi ne rimase frastornato.
Sbatté le palpebre e trasse un profondo respiro, inebriato
ed eccitato da quella nuova realtà.
“Posso farcela.”
Riaprì gli occhi e scattò. In un istante fu
addosso all'elfo e affondò i denti nel collo con una
facilità disarmante, penetrando fino alle labbra. Il suo
sangue sapeva di ferro e sarebbe dovuto essere disgustoso, ma sul suo
palato assumeva un retrogusto dolciastro, tanto, troppo piacevole.
L'elfo mollò la spada e gli afferrò la testa, si
dimenò, menando gomitate in preda al dolore. Zefiro
affondò ancora di più e strinse ancora
più forte lo spallaccio a cui si teneva. Il cuoio si
piegò, si deformò come se fosse fatto di carta.
Per un momento il bambino si domandò come fosse possibile,
ma presto la coscienza si addormentò, soppiantata da un
elettrizzante senso di potere, che permeò ogni fibra del suo
corpo. Il dolore era sparito, la ferita non bruciava più,
c'erano solo lui e l'elfo che si contorceva in preda all'agonia.
Andò a sbattere contro la parete e lo schiacciò
contro di essa fino a togliergli il respiro. Zefiro provò a
mantenere la presa, ma gli mancava l'aria. L'elfo lo
agguantò per la nuca, si scostò appena e lo
scaraventò su una sedia con una tale violenza che Zefiro
sentì le ossa della cassa toracica rimbalzare contro la
pelle.
- Kopel rivvil. - sputò, rivolgendo a
Zafiro un gelido sguardo assassino.
Baldur lo buttò a terra con una spallata. Le trecce della
barba si erano sciolte e il sangue sgocciolava dal labbro spaccato.
Zefiro osservò la sua figura sdoppiarsi, triplicarsi, mentre
il dolore tornava a farsi vivo. I suoni si attenuarono, divennero un
unico miscuglio che gli si infilava nel cervello e lo raschiava come se
volesse strapparglielo.
Con le forze che svanivano e il sapore del suo sangue sul palato e
sulle labbra, si mise supino e poi a gattoni, cercando di raggiungere
Melwen. Ma la sua amica non era più sulla sedia.
Udì qualcuno gridare un ordine e mosse la testa a destra e a
sinistra nel panico. Qualcun'altro lo prese sotto le ascelle e lo
sollevò prima che potesse reagire. Zefiro si
ritrovò faccia a faccia con il volto umido di lacrime di sua
madre. Fiutò un forte odore salino, che si
amalgamò a quello del sangue e del sudore. Alle sue spalle
c'era Nyi con Melwen in braccio, svenuta.
Myria rimase immobile un istante, quindi si voltò e
iniziò a correre verso lo specchio fumoso. L'elfo
colpì Baldur alla tempia e si accanì su di lui
finché non andò a terra, poi scattò
verso di loro. Ma il nano riuscì ad afferrargli le gambe e a
farlo cadere.
- No! - urlò Zefiro, - Baldur! -
Il sorriso tronfio di Baldur fu l'ultima cosa che vide prima di
oltrepassare il portale.
Angolo Autrice:
Hello folks!
Allora, nemmeno io ci credo, ma siamo giunti a metà ** Eh,
sì, questo è il 14esimo capitolo e quindi
sì, siamo a metà. Sono emozionatissima, non
potete capire ** Comunque... come sempre mi faccio sentire per
comunicarvi un paio di cose ( in realtà una, ma still...):
visto che ad agosto conto di andare in vacanza (finalmente) non
aggiornerò. Tornerò per i primissimi di ottobre (
diciamo attorno al 10 ottobre) con i nuovi capitoli. Purtroppo sono
lenta, lenta, lenta a scrivere i capitoli, ma capitemi, ce la metto
davvero tutta >-< Quindi, come al solito, vi rimando alla
mia pagina
FB dove però posterò spoiler di vario
genere (ne ho uno che è molto, molto pieno di feels) e poi
vi segnalo una storia che ho cominciato a pubblicare negli ultimi mesi:
il titolo provvisorio è Summer tale, presto lo
cambierò in Fighting Fire. Anche questa è ferma
fino a settembre, però comunque mi sono interrotta in un
punti abbastanza di cesura. SE voleste passare e dirmi cosa ne pensate
ne sarei felice, dal momento che è la prima volta che mi
cimento in una storia con ambientazione da "La Mille e una notte." Vi
lascio il link,
così se siete curiosi potete andare a sbirciare.^^
Un bacione e grazie di esistere a tutti!
Hime