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Autore: Sui    15/07/2017    2 recensioni
« Sai, Roma, in un’altra vita saremmo potuti essere fratelli.»
« Non lo sai, Cartagine, che anche i fratelli si uccidono ? »
Genere: Guerra, Slice of life, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Antica Roma
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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« Sai, Roma, in un’altra vita saremmo potuti essere fratelli.»

« Non lo sai, Cartagine, che anche i fratelli si uccidono ? »


146 a.C.

C’era fuoco e sangue, c’era fumo e morte,  c’era sale e disfatta.
Augustus inspirò a lungo.

L’aria era così pregna e pesante, pungente e scura che portava con facilità lacrime agli occhi degli uomini e fastidio alla gola, restava attaccata nelle vie respiratorie, vi faceva il suo nido, vi imprimeva il suo tremendo sapore – capì già allora che l’avrebbe ricordata per sempre.
Gli uomini immaginavano la fine vittoriosa di una guerra nella luce brillante di un desiderio a lungo covato nel caldo dei loro petti, combattevano per essa e nel mentre la innalzavano in alto ricoprendola di uno splendore luccicante e etereo, essa infondeva speranza che si spargeva da uomo in uomo, da cuore in cuore, come il profumo del fiore trascinato dalla brezza leggera.
C’era però in Augustus la pratica consapevolezza che la vittoria non arrivava come un dorato dono concesso dalla mano benevola degli Dei, che la speranza era sì una valida linfa a cui attingere ma non era la madre da cui la vittoria sarebbe stata generata come figlia tanto attesa; il trionfo vittorioso giungeva in maniera sottile con il sudore delle braccia e col sangue e le decisioni degli uomini, con la pelle sporca di terra e versi sofferenti, con la fatica e la cattiveria dei mortali.
Vivere o morire, questo era l’imperativo, a questo si riduceva ogni guerra.
E Roma, adesso, viveva.
E Roma, adesso, vinceva.

Tra i fumi e la distruzione, la bellezza di Cartagine svaniva dal mondo con lentezza e platealità, quella che era stata una città tanto splendida quanto ricca adesso diventava polvere secca e sale sporco dinnanzi agli occhi del mondo tutto.
L’ordine era stato dato, Scipione1 aveva lasciato il destino del lungo nemico di Roma al saccheggio e alla distruzione permettendo che una macchia nera e bruciata si creasse là in quel punto delle coste africane che mai più avrebbero conosciuto lo splendore di un tempo.
Augustus inspirò a lungo.

Insana euforia scorreva sotto la sua pelle bruna, scura perché sporca, scura perché bruno lui che sotto al Sole del mediterraneo ci aveva messo casa. Occhi troppo vivi e larghi, troppo dorati e ardenti, il petto troppo pieno di un’aria fumosa e pesante – guardava infine lo sconfitto con eccitante immobilità delle membra. Non sentiva la stanchezza che gli faceva tirare i muscoli, non si curava del sangue là dove esso colava caldo e denso sulla propria carne là dove era stata tagliata; non udì le parole degli uomini, il rumore della legna e paglia che veniva unita assieme per creare una pira al cui centro svettava un alto palo.
Non vide e udì altro che gli ultimi attimi della vita del proprio nemico, ogni respiro, ogni rantolo soffocato, ogni movenza leggera di un corpo già martoriato e sconfitto. Lo osservava con insistenza quasi che si aspettasse di vederlo alzarsi dalle proprie ceneri da un momento all’altro, tenendosi pronto a metter di nuovo mano alla lama che tinta di rosso pendeva al suo fianco in un dovuto riposo.
L’aveva ammirato, l’aveva invidiato e infine odiato con l’intensità pari a quella di un Dio immortale e vendicativo, desiderando bruciare l’ombra che gettava su di sé con costanza pericolosa. Catone2 l’aveva detto tempo addietro, mettendo tutti in guardia da quel fiorente nemico la cui mano non era poi così lontana come credevano – era troppo potente, un’insidia troppo grande da ignorare e il tempo aveva dato preoccupante ragione alle sue parole.
E quanto c’era voluto per giungere a quel giorno, quanto era stato perso e come aveva tremato il suo cuore dinnanzi alla possibilità della morte che aveva soffiato leggera sul suo collo perché vicina nella sua eterna freddezza; lui che era il figlio di Marte era stato scosso dal timore mortale come un qualsiasi uomo cambiandolo per sempre.
La paura divenne rabbia, la rabbia divenne azione, il Fato scelse ancora una volta Roma e la volle vittoriosa nella maniera più tremenda possibile.
Augustus inspirò a lungo.


Cartagine era lì dinnanzi a lui, piegato e silente, legato con rozza corda a quel palo che solo con la sua lignea resistenza lo reggeva in piedi su gambe ormai troppo stanche per adempiere al loro dovere; il capo piegato da un lato, i capelli sporchi attaccati alla pelle bruna, solo gli occhi tradivano un barlume di vita ancora non spento, una fiammella resistente alla tempesta – Roma desiderò di vederla estinta per sempre in un moto furente che lo scosse tutto.
Lo toccò sulla fronte, sui capelli, vi cosparse sopra del sale grezzo con la solennità di chi consapevole di vestire i panni della morte, con la crudeltà nel cuore nel sapere che essa non sarebbe stata né veloce né indolore : ogni attimo, ogni respiro finale sarebbe stato calda tortura delle carni. Lo baciò sulla fronte in maniera rude, labbra si schiusero, parole segrete vennero sussurrate tra quei due uomini così simili un tempo, così diversi adesso.
Fu lui ad accendere la pira.

Augustus inspirò a lungo.
Cartagine moriva nel fuoco e nel sale con lo strazio e la pena di urla disumane poi inghiottite dalle fiamme ardenti, consumate come consumata era la carne e i muscoli tutti che si laceravano, accartocciavano, bruciavano affinché diventassero nient’altro che polvere e cenere.
Moriva Cartagine e con lui, alle sue spalle, moriva il suo popolo.
Che il mondo guardasse! Che il mondo ricordasse!
Che fosse, quel giorno, monito per chiunque si dicesse nemico dei romani poiché l’aquila dorata si bagnava nei suoi fumi gravi per emergerne più spietata e più forte.
Vittoriosa.




Note:

1) Siamo alla fine della terza guerra punica, l'anno è 146 a.C quando Publio Cornelio Scipione Emiliano dà finalmente l'ordine di attaccare Cartagine ormai assediata da tempo, la città venne espugnata ed è noto che il comandante romano la lasciò in mano ai soldati che si diedero al completo saccheggio prima che la radessero sistematicamente al suolo arrivando a passare l'aratro e spargere sale sul terreno affinché il terreno fosse poco fertile.
2) Catone il censore - nato Marco Porcio Catone - è passato alla storia per la celeberrima frase «Carthago delenda est» con cui invitava i senatori di Roma ad agire contro il nemico cartaginese con il quale non era possibile scendere a patti e che era una minaccia troppo grande, troppo vicina.


Salve a tutti! Il titolo CINERES PATRIAE è un palese richiamo alla fine di Cartagine avvenuta mediante la distruzione fisica della città ma in questo caso anche di colui che rappresentava un così ricco e abile popolo che la storia ci ha tramandato come giurato nemico di Roma. Mi ha sempre affascinato pensare all'evolversi critico del rapporto tra queste due personalità arrivando a questo ultimo critico momento della loro relazione di cui ho provato a dare una mia versione.
Ringrazio in anticipo tutti coloro che leggeranno e/o recensiranno questa mia one-shot.
Sui.

 
  
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