Fanfic su artisti musicali > EXO
Ricorda la storia  |       
Autore: polytlas    17/07/2017    3 recensioni
( Storia dell’Amore. )
̀
Il cuore di Kyungsoo andava a ritmo di ogni suo respiro; smetteva di respirare Jongin, smetteva di vivere lui.
̀
_______
– Kaisoo;
Genere: Angst, Fluff, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: D.O., D.O., Kai, Kai
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
   >>
- Questa storia fa parte della serie '「 The Broken Hallelujah. 」'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Angolo Adeloso: e per come promesso, eccomi qui, puntuale come sempre.
Nah, nah, non vi libererete facilmente di me, ve l’ho detto. “Chiuso” il doloroso capitolo di The Winter Song, prima di procedere, è bene fare qualche passo indietro per cercare di capire. Questo è il turno della Kaisoo, perché chiunque s’è chiesto che diamine sia successo a quella patata di Jongin. Cioè, uno scricciolino simile può davvero aver fatto qualcosa di così spregevole come stuprare? Lo volete sapere?
Bene, leggetevi questi quattro, preziosi capitoli.
Non lo dico tanto per, ma preparate fazzoletti e feels, perché comunque, se avete un po’ inquadrato la figura di Jongin, capirete bene che questa storia non potrà essere nulla di duro, o privo di sentimenti.
È una storia che sento mia in modo inverosimile, sia per le tematiche trattate, sia per il carico emotivo presente.
Comprenderò, da un lato, se non vi piacerà.
Andrà bene comunque, anche se vi chiedo di leggere bene i pensieri dei protagonisti e di guardare oltre, e soprattutto di capire. Ci sono una serie di risposte, vi tocca solo trovarle.
Jongin è un personaggio che io amo tantissimo, e all’interno dell’intera storia ha un ruolo importantissimo, quindi spero davvero possiate amare ogni frammento di lui.
Ci sono solo quattro capitoli questa volta, e considerato il fatto che non siano tantissimi, questa volta posterò solo una volta la settimana: ogni lunedì, sempre alle 16. In questo modo, vi darò anche la possibilità di metabolizzare meglio anche tutte le varie scene. Per carità, nulla di atroce, ma probabilmente il punto è proprio questo, ahahah!
È stata maggiormente ispirata dalla bellissima canzone di Zara Larsson, Uncover appunto, da cui ho preso il titolo. Be’, vi consiglio vivamente di ascoltarla, sia mai che non piaccia anche a voi. Poi, se ci riuscite, o se non vi dà fastidio, vi consiglio di metterla in sottofondo durante la lettura: si apprezza meglio. ~
Detto questo, buona lettura!
 
Adele. ~
 










 
 
Uncover.
(Storia dell’Amore.)
   








 
This is not a Love story.
This is a story
about
Love
.
 
 










 
#1. to cure.
 
 
 
 
 
 
nobody sees, nobody knows.
 

 
Chissà cosa succede nella mente delle persone.
Chissà cosa avviene nei meandri della psiche nella durata di tutta una vita. Chissà cosa comporta certi atteggiamenti, certe azioni. Chissà cosa possa condizionarle, comandarle, o frenarle.
Che mondo inesplorato è la ragione umana, quanti anfratti non saranno mai esplorati. Un po’ come tutte le stelle in cielo, se ci si pensa bene: solo una parte di loro può essere vista, studiata, ammirata. Una parte minima, se si pensa all’immensità dell’universo, pieno di galassie, di corpi incandescenti, di buchi neri che sembrano poter essere metafora di tutte quelle menti inarrivabili, che implodono anziché esplodere, che risucchiano in mondi sconosciuti anziché uscire allo scoperto.
 
E dentro un buco nero pensò di esserci finito Kim Jongin, quando al momento del parto, qualcuno – perché forse chiamare medici certi macellai non sarebbe stato corretto nei confronti di chi avrebbe svolto con Amore quella delicata professione -, un tale, un essere, lo tirò fuori dal grembo materno servendosi di un forcipe.
Per quei tempi si poteva considerare una pratica comune, ma servivano mani delicate. E quelle che si occuparono di Jongin non lo erano state minimamente.
 
Lo strumento pressò violentemente prima contro la nuca, stringendola. Poi gli manomise la laringe e qualche zona del cervello ma, lì per lì, nessuno seppe decretare di quale si trattasse.
E se solo avesse potuto, il piccolo Kim Jongin gli avrebbe urlato di smetterla di fargli male, a lui non piaceva quel tipo di dolore e – fantastico! Che bel benvenuto!
Poi tutto divenne nero e criptato. Non appena aprì gli occhi e vide le luci del mondo per la prima volta, sentì il suo piccolo petto dolere e non riuscì a compiere il primo gesto più naturale di tutti: piangere.
 
Non ci riuscì.
Lui, nel suo piccolo, l’avrebbe fatto; voleva piangere, quelle luci e tutte quelle voci gli davano troppo fastidio, ma non ce la fece.
Il resto divenne un continuo rumore fastidioso di macchinari, troppo muco da espellere, troppi fili attorno a sé. Ma questa parte Kim Jongin non poteva di certo ricordarla. Lui si limitava a dormire e a tossire quando il fiato non pareva più riuscire a passare dalle sue cavità respiratorie. Al resto pensavano i dottori della neonatologia. Alle lacrime, invece, pensavano mamma e papà Kim.
 
Lacrime di pura frustrazione, principalmente. Perché nessuno, durante i primi giorni, riuscì a dir loro cosa avesse quel pargolo. Alcuni sostenevano sarebbe rimasto paralizzato per sempre, altri provarono a tranquillizzarli, dicendo loro che in realtà la sua condizione non era poi così pessima.
Finché un giorno, quando le sue condizioni non furono più così critiche, riuscirono a sottoporlo a vari esami che rilevarono determinate lesioni sparse per il cervello e la laringe: quest'ultima risultava esser stata deformata, e per via di questo danno, Kim Jongin non avrebbe mai potuto parlare correttamente.
Le lesioni cerebrali, invece, riguardarono – per fortuna? – solo la parte cognitiva: avrebbe camminato e sarebbe stato autosufficiente, ma quanto si poteva dire indipendente un ritardato mentale?
 
Ma data da un lato la loro cristianità, considerati i loro titoli, e probabilmente anche un po’ d’Amore nutrito nei confronti di quella creaturina, pensarono di tenerlo e di non rinnegarlo. Alla fine che colpa poteva mai avere quell’esserino che, inerme, respirava a fatica, che aveva le stesse labbra di sua madre e gli occhi di suo padre?
Che colpe avrebbe mai potuto avere? Restava il frutto del loro Amore, era un dono di Dio, e non andava buttato per nessuna ragione al mondo.
 
Così, dopo un anno e mezzo, Kim Jongin venne dimesso dall’ospedale e poté finalmente conoscere casa sua. Una villetta a due piani, con un delizioso giardino, in una bellissima strada su cui si affacciavano tutte quelle coloratissime ville a schiera, ubicata in una zona abbastanza facoltosa di Seul.
La stanza di Kim Jongin era azzurra e bianca, e la sua culla era grandissima, sempre dei medesimi colori. Quando mamma Kim lo sistemò lì dentro, si ritrovò a sorridere teneramente, perché Jongin sembrava ancora più piccolo ed indifeso in mezzo a quel lettino forse troppo spazioso.
 
Crescerà mai?, si chiedeva puntualmente.
È cieco?
Veramente potrà camminare?
Quanto grave potrà essere il suo ritardo mentale?
Migliorerà?
Peggiorerà?
Ci sarà qualcosa che gli permetterà di vivere quasi normalmente?
Se non potrà parlare, come farà a dire se ha qualche fastidio?
La sua salute sarà cagionevole?
Verrà accettato dai compagni di scuola?
Varrà la pena mandarlo a scuola?
Morirà presto?
Mi riconoscerà? Riconoscerà la sua mamma?
 
Quelle domande la tormentarono per tanto tempo, poiché non appena qualcuna di loro trovava risposta, se ne aggiungevano altre cento più fastidiose delle prime. Ed era un continuo scrutare, un continuo vivere con l’angoscia del ‘e se?’, una continua rabbia.
Perché Jongin crebbe normalmente, in quei due anni di vita.
Aveva i suoi piccoli problemi, non parlava, tendeva ad affogarsi di continuo – motivo per cui mamma Kim cominciò a comprare tante, tantissime cannucce - , ma a primo impatto non pareva esserci nulla di anormale in lui.
 
Restava un bimbo solo leggermente più alto rispetto agli altri, tutto qui. Se poi, invece, lo si osservava per più di un secondo, si cominciavano a notare quelle piccole anomalie che lo rendevano diverso.  Una lampante era legata al suo continuo sbavare: non era ancora in grado di controllare la propria salivazione, per cui si ritrovava perennemente imbrattato e i suoi genitori non perdevano mai tempo ad asciugargli le labbra per renderlo presentabile.
 
Se poi lo si interpellava, be’, i suoi disagi diventavano fin troppo palesi: Jongin non era neanche capace di dire mamma, o di pronunciare il proprio nome. Niente.
Dalla sua bocca uscivano solo versi sconnessi, neanche minimamente simili a qualche parola. E questo era frustrante.
Dannazione se lo era.
Dover comprendere, volta dopo volta, richiesta dopo richiesta, pianto dopo pianto, cosa volesse dire quello scricciolo. Tant’è che, stremati dalle continue prove, gli insegnarono ad indicare ogni cosa di cui avesse bisogno. Non sempre, però, pareva sapere cosa volesse: era pur sempre un bambino, no? E il suo ritardo mentale probabilmente aggravava ancora di più quella situazione.
 
Si ritrovarono a dover andare avanti così: a tentativi. Finché un giorno, quando Jongin compì nove anni, il medico di famiglia fece riferimento ad un discorso che mamma Kim non aveva assolutamente preso in considerazione.
 
« Perché non prova a fare un altro figlio? »
 
Un altro?
Avere un altro figlio avrebbe comportato tantissime cose, ma soprattutto avrebbe richiesto tantissime attenzioni. E Jongin? Chi si sarebbe preso cura di lui?
Andava controllato continuamente, in più non avevano idea di come avrebbe potuto reagire: e se fosse diventato violento? Se avesse voluto ucciderlo?
L’idea la terrorizzava.
 
« Un altro? Perché mai? »
 
« Vede, signora Kim, in casi come quelli di suo figlio, si ricorre ad una tecnica che viene chiamata emulazione: solitamente i ragazzi che hanno dei lievi disagi, tendono ad emulare i fratellini che stanno bene. Jongin frequenta la scuola? »
 
La signora scosse il capo, con lo sguardo basso. Si vergognò come una ladra al pensiero che no, non lo aveva mandato perché aveva il terrore che venisse schernito dal mondo. Era troppo indifeso.
Forse un fratellino lo avrebbe aiutato veramente.
 
« Allora direi che un fratellino o una sorellina potrebbero solo essere un grande aiuto. Alla fine Jongin risponde, quindi non è completamente assente. Ha solo bisogno di stimoli continui, non trova? »
 
« Ma io e mio marito ci preoccupiamo di stimolarlo in ogni modo e – .»
 
« Non sarà mai la stessa cosa. Le spiego: nella mente  dei bambini possono istaurarsi meccanismi legati alla competizione, dunque cercheranno di volersi superare sempre l’un l’altro. Nelle situazioni “normali” potrebbe esserci il rischio di episodi di violenza, ma nel caso di Jongin lo escludo a priori: è un bambino buono, anche considerati i suoi problemi.
Lui, al massimo, potrebbe solo voler assomigliare sempre e solo di più a questo ipotetico fratello, o a questa sorella. Quindi tenderebbe, inconsciamente, a migliorarsi. »
 
La donna annuì e accennò un sorriso, sistemando i capelli del figlio che sorrise, probabilmente senza capire di cosa stessero parlando quei grandi.
 
Papà Kim parve un po’ incerto sul da farsi, non si ritrovò estremamente convinto di quella scelta, ma essendo un consiglio del loro medico, accettò suo malgrado.
 
Nove mesi dopo, arrivò Kim Kyungsoo.

 
Mamma Kim s’era immaginata di tutto.
La sua mente era stata capace di produrre film così drammatici da essere degni di numerosi Oscar.
Aveva pensato in quanti, orribili modi Jongin avrebbe potuto far fuori quel neonato. Quel neonato bellissimo, nato regolarmente e completamente normale, a cui si era già immensamente affezionata.
 
Chissà, che atrocità avrebbe prodotto quella mente ancora inesplorata.
Chissà cosa sarebbe accaduto.
 
Ebbene, ciò che avvenne probabilmente non lo aveva calcolato nessuno. Perché quando Kim Jongin vide per la prima volta il suo fratellino, tanta fu l’emozione che cominciò a piangere per la gioia e non riuscì neanche a trattenere la pipì per quanto si ritrovò ad essere felice.
Cominciò a battere le mani e a fare versi rumorosi che, però, indicavano tutto il suo entusiasmo.
 
Mamma e papà rimasero interdetti, perché avevano pensato a così tante tragedie che un’immediata accettazione riuscì a spiazzarli del tutto.
Dormirono in totale tranquillità, quello fu certo.
La signora Kim si preoccupò di coinvolgere Jongin in tutto ciò che comportasse la cura di Kyungsoo: l’aiutava a fargli il bagnetto, a vestirlo, a controllarlo mentre dormiva, a giocarci quelle volte in cui era sveglio. E Jongin collaborava felice, perché lui era così, lui era una fetta di pan di spagna, perché quegli occhietti scuri non avrebbero mai potuto far del male a qualcuno.
 
Si divertiva a guardarlo mentre sua madre lo allattava, e a volte tentava di chiederle come mai poteva lei e non lui, ma probabilmente la sua mamma non comprese mai quella domanda. Si convinse del fatto che quello era un compito delle mamme, i fratelli dovevano fare altro.
Tipo insegnare ai più piccoli a camminare.
 
Durante il pomeriggio, Jongin e Kyungsoo erano soliti giocare sul grande tappeto del salone. La mamma aveva scelto quella stanza perché in quel modo poteva controllarli anche mentre lavorava, perché sì, Jongin era un bambino buono, ma continuava a reputarlo, dopo undici anni, un soggetto imprevedibile. Anche se, di fatto, non le aveva mai dato modo di pensare ciò: non c’erano mai stati episodi che potessero averla condotta a produrre quei pensieri.
C’era solo Jongin che di tanto in tanto si affogava mentre mangiava, o batteva le mani – da quando era arrivato Kyungsoo non aveva più smesso di farlo – quando era felice, qualsiasi fosse il motivo e rilasciava versetti che risultavano inusuali per il resto delle persone. Persone che, comunque, spesso e volentieri continuavano a vederlo come un pericolo.
Ma quello era un altro, doloroso discorso.
 
Un pomeriggio di autunno, Jongin gattonava in giro per casa insieme a Kyungsoo, facendo attenzione che non mettesse in bocca nulla di pericoloso. Di tanto in tanto, aiutava suo fratello ad alzarsi e gli faceva da appoggio per farlo camminare – quegli esercizi li aveva visti fare ad alcuni terapisti quando, il pomeriggio, andava con sua mamma dalla logopedista, al centro disabili.
Quella volta, mentre lo aiutava a fare qualche passo, si staccò immediatamente per togliere un giocattolo dal percorso di suo fratello. E Kyungsoo restò sospeso sulle sue gambette, con gli occhietti spaesati, e Jongin piegò il capo di lato mentre si preoccupò di metabolizzare quanto accaduto.
 
Tese le braccia a Kyungsoo e questi diede il primo passo verso di lui. Jongin sgranò gli occhi e trattenne il respiro.
Rilasciò il solito verso che aveva la funzione di richiamare l’attenzione di sua madre perché voleva farle vedere cosa era riuscito a fare, voleva mostrarle quanto era stato bravo e quanto era stato bravo Kyungsoo.
 
Ma la vita di Jongin era ingiusta, lo sapevano un po’ tutti. Forse l’unico ignaro di ogni cosa era proprio lui, troppo ingenuo e innocente per quel mondo malato.
Perché proprio nel momento in cui sua mamma fece ingresso nel salone, Kyungsoo si sbilanciò. Jongin, prontamente, lo afferrò fra le braccia, ma il piccolo, spaventato da quell’improvvisa mancanza di equilibrio, cominciò a piangere.
 
Jongin si preoccupò, ma prima che i suoi occhi si potessero riempire di lacrime per l’apprensione, lo fecero per colpa del dolore causato dallo schiaffo che sua madre gli mollò.
Ingiustamente.
Del tutto ingiustamente.
 
« Perché diavolo stai stringendo così forte tuo fratello, eh? Vuoi soffocarlo per caso? »
 
E glielo strappò via dalle braccia.
Jongin tentò, a modo suo, di spiegare che non gli aveva fatto alcun male, anzi, lo aveva salvato prima  che potesse sbattere contro pavimento, ma come fare quando non si è capaci di parlare?
Si limitò a singhiozzare sul posto e a doversi sentir dire inoltre qualcosa come « questa sera sei in punizione, niente musica prima di andare a dormire ».
 
E passò la notte così, rannicchiato su se stesso, a piangere, mentre un unico pensiero si faceva strada nella sua mente smaliziata.
 
Scusa, Kyungsoo.

 
A volte succede, però, che per quanto ingiusta, la vita sia in grado di riscattarsi nel modo più puro che esista. Non è una consuetudine, non avviene giornalmente, ma più qualcosa è rara, più è preziosa, no?
Kyungsoo e Jongin erano così: rari, ed infinitamente preziosi.
Preziosi l’uno per l’altro, indispensabili l’uno per l’altro.
 
Quando Kyungsoo cominciò a parlare e ad acquisire una buona proprietà di linguaggio, i guai di Jongin si azzerarono d’improvviso.
Era Kyungsoo a parlare per lui, era Kyungsoo  a prestargli attenzione. Sebbene avesse appena nove anni e lui diciannove.
 
Jongin aveva la mente di un bambino di due anni, Kyungsoo l’aveva capito. Aveva capito che suo fratello aveva bisogno d’aiuto, aveva capito che probabilmente avrebbe avuto bisogno di qualcuno al suo fianco per sempre. Sapeva che Jongin doveva bere con la cannuccia, che doveva mangiare le cose spezzettate per bene, o sarebbe soffocato.
Sapeva che non andava a scuola perché era disabile, sapeva anche che non ci sarebbe mai andato e non riuscì mai a capire quella decisione dei loro genitori.
 
Lui, dal canto suo, suo fratello lo amava immensamente.
Perché Jongin aveva un potere speciale, qualcosa come una specie di secondo cuore che riusciva a farlo amare così tanto.
Jongin lo aspettava quando tornava da scuola, era sempre felice di vederlo, lo abbracciava in silenzio quando qualcosa andava storto, era sempre lì ad ascoltarlo anche se non riusciva ad afferrare ogni singolo discorso.
Jongin sgattaiolava nel suo letto quando il buio diventava troppo spaventoso, Jongin riusciva a renderlo speciale come nessun altro e gli dava tutto l’Amore che un migliore amico avrebbe potuto dare, se non addirittura di più.
 
Giocavano insieme, combinavano le marachelle insieme – e spesso era sempre Jongin a prendersi tutta la colpa.
Era sempre stato così, da quando Kyungsoo riuscì a gestirsi da solo.
Da quando riuscì ad urlare a sua madre di smetterla di prendersela con Jongin, ché lui non faceva nulla di male, e se lo faceva, era comunque Kyungsoo stesso a coinvolgerlo nelle bravate da ragazzini.
 
Così finivano in punizione insieme, ma fin quando restavano insieme, era bello anche vedere la mamma furiosa.
In più, nei momenti in cui era in punizione, Kyungsoo ne approfittava per insegnargli sempre qualcosa: dalla postura da assumere – Jongin tendeva a camminare piegato su se stesso, ma osservando Kyungsoo muoversi con le spalle dritte, si sistemava subito e si ergeva per tutto il suo glorioso metro e ottantacinque –, a come doveva allacciarsi le scarpe, alle paroline da poter dire, o almeno, provare a dire. Perché ‘umma’ Jongin si rifiutò sempre di dirlo.
La prima parola di Jongin spiazzò un po’ tutti, ancora una volta.
 
« Hyung. »
 
Lo disse in modo cristallino, indicando Kyungsoo.
E in mille modi provarono a fargli capire che non era corretto chiamarlo in quel modo, perché sarebbe dovuto essere Kyungsoo a chiamarlo così, ma se ne fregò altamente. In verità dire ‘Kyungsoo’ era troppo complicato, ‘hyung’ era molto più semplice per la sua laringe deformata.
 
La seconda parola che disse fu ‘Nini’. Kyungsoo lo chiamava così, perché Jongin era diventato Jonginnie, e a sua volta si era trasformato in Nini. Nini era semplice da dire, e lo imparò in breve tempo.
Così, tutte le volte che voleva raccontare qualcosa di bello che coinvolgesse lui e suo fratello, esordiva con un: « Hyung, Nini, yeeeee! »
A Kyungsoo, tutte le volte, scappava un risolino e si preoccupava di aggiungere tutti i dettagli che Jongin non avrebbe potuto raccontare.
 
Kyungsoo, poi, parlava tranquillamente di suo fratello davanti ai suoi compagni di classe: non se ne vergognava, non aveva paura di dire di avere un fratello ritardato, semplicemente perché Jongin era così adorabile e buono che non poteva essere nascosto.
Il più giovane pensava sempre che le cose brutte andassero celate, non quelle dolci. Jongin era dolce, perché doveva essere nascosto? Perché non sapeva parlare?
Tanta gente parlava senza cognizione di causa, dicendo stupidaggini a raffica;  zitta avrebbe fatto sicuramente più figura. Non potevano essere le persone stupide ad essere nascoste?
Jongin voleva solo giocare, chiedeva solo coccole e un grammo di considerazione. In cambio era capace di donare tutto l’Amore del mondo, quello così puro e bello che probabilmente, il mondo, sarebbe stato capace solo di migliorarlo.
 
Ma alla fine la triste realtà rendeva meravigliosi gli stupidi e orrendo suo fratello. Una volta, ad esempio, a scuola, durante la recita di fine anno, a Kyungsoo venne affidato uno dei ruoli principali perché era molto bravo a cantare.
Non appena Jongin lo vide salire sul palco e cominciare a cantare non riuscì più a contenere la propria gioia e cominciò ad esultare sonoramente, battendo le mani e urlando ‘Hyung!’ davanti a tutti, che cominciarono a schernirlo e a ridere. Mamma Kim, non riuscendo a calmarlo, si ritrovò ad abbassare lo sguardo mortificata, subendo tutti i commenti cattivi da parte di quei genitori che no, non avrebbero capito mai cosa si provasse ad avesse un figlio come Jongin.
 
Kyungsoo, notata la scena dal palco, lo fissò dritto negli occhi e si portò l’indice sulle labbra, suggerendogli di fare silenzio con uno ‘shh’ a dir poco impercettibile. Jongin ripeté il gesto, in silenzio, portandosi l’indice davanti le labbra e sussurrando anche lui « shh! »
Dentro la sala rimasero tutti interdetti, forse mortificati dinanzi il gesto maturo di Kyungsoo che era tornato a cantare con un sorriso e con gli occhi sempre puntati dentro quelli del fratello.
 
Successivamente, fu solo una piacevole risalita. Qualsiasi cosa facesse Kyungsoo, Jongin cercava di imitarla, perché “il suo hyung” era estremamente bravo in tutte cose. Ed era vero, i loro genitori erano fieri del figlio minore, così come parevano esserlo anche di quello maggiore, che a piccoli passi, cercava di rendersi migliore imitando l’altro.
 
Ma c’era qualcosa che non andava, qualcosa che impediva mamma Kim di restare completamente serena.
Qualcosa che le corrodeva lo stomaco tutte le volte che li vedeva insieme, che li vedeva giocare, che sentiva Jongin chiamare sempre  e solo suo fratello, che lo vedeva pendere dalle sue labbra. C’era, in cuor suo, qualcosa di marcio tutte le volte che Kyungsoo preferiva restare a leggere fiabe a suo fratello piuttosto che uscire a giocare con gli altri bambini, o tutte le volte che a tavola gli si sedeva accanto, gli tagliava a piccoli pezzi il cibo e gli asciugava gli angoli della bocca ogni qual volta si sporcasse o gli capitasse di sbavare. O tutte le notti che passavano a dormire insieme, estate o inverno che fosse.
Sosteneva non fosse sano quel legame: due fratelli dovevano competere, non divenire dipendenti l’uno dall’altro, glielo aveva detto anche il medico.
 
Kyungsoo pareva aver sacrificato tutta la sua vita per il proprio fratello, e Jongin pareva comunque, in qualche modo, qualsiasi modo, avergliela migliorata. Perché alla domanda Perché non vai a giocare con gli altri bambini?, lui rispondeva che non aveva voglia di giocare con quei tizi che non avrebbero voluto anche Jongin perché li spaventava. Così preferiva stare con lui, e a mamma Kim non era mai capitato di sentirli litigare: li sentiva ridere, giorno dopo giorno.
Cosa avessero, poi, di così divertente da raccontarsi, era un mistero per tutti. A volte era come se bastasse solo un piccolo sguardo per intendersi, come se Kyungsoo avesse imparato a parlare in silenzio per il fratello.
Perché non esci un po’ e ti fai qualche amico?, gli aveva chiesto qualche volta, ma Kyungsoo rispondeva puntualmente che Jongin, oltre che ad essere suo fratello, era in assoluto il suo migliore amico. E cos’altro dire dopo risposte simili? Si dovrebbe solo restare estasiati dinanzi tanta sensibilità e tanto Amore.
 
Non era, però, il caso della loro mamma, che in penombra li scrutava e si urlava che quei legami sarebbero stati distruttivi per tutti, loro due compresi. Avrebbero annullato Kyungsoo, e Kyungsoo era troppo pieno di talenti per limitarsi a suo fratello Jongin, che probabilmente manco comprendeva pienamente la grandezza del suo fratello sano.
 
Loro, invece, restavano ignari di tutto e nel candore continuavano a vivere in simbiosi perfetta. Un rapporto magico, che nell’opinione generale tendevano ad assumere i gemelli, perché da sempre considerati fratelli speciali.
A loro non era servito essere gemelli, non era servito nulla. Ci aveva pensato l’Amore a legarli così tanto che il cuore di Kyungsoo andava a ritmo di ogni suo respiro: smetteva di respirare Jongin, smetteva di vivere lui.
 
Ma nessuno parve mai capirlo davvero.
Né i genitori, né la gente.
Probabilmente, neppure lo stesso Amore.
far from the other, close to each other.
 
 
 

 









 
Angolo Adeloso: prima di dire ogni cosa, faccio una piccola premessa perché una parte di me sa che questa domanda arriverà. Ovvero: Ade, ma perché nelle tue storie, o Jongin o Kyungsoo sono quasi sempre disabili?
Volete la verità?
Bene.
Non lo so! *7*
Cioè, mi ispirano per questo genere di cose. Ma poi il Jongin di questa storia non poteva che essere interpretato da lui. So che nell’immaginario collettivo, Kai sia visto come un omaccione super sexy, ma nella mia testa cretina, resta un bambino tanto alto che ha bisogno di coccole e tanto Amore.
Ma è bene che io non cominci a parlare del bias o vi scrivo una ff qui nelle note e forse è meglio che #no – che poi non è bellissimo con quei mini dread in testa? Vero che è bellissimo? VERO? -.
Andiamo alla storia: Nini è stato vittima di un errore medico, ecco perché è così “piccolo” mentalmente. Nei tempi in cui “andava di moda” il forcipe, di danni simili ce ne sono stati parecchi, quindi purtroppo Nini non è il solo. TT
Di base però resta un cucciolino prezioso, un pan di spagna, che appena si ritrova ad avere un fratellino, BOOM!, eccolo che esplode di felicità. In Jongin  non esistono sentimenti cattivi, spero vivamente che questo sia chiaro. Insomma, guardatelo. e e
E altra cosa che penso specificherò ad ogni capitolo, è che, per come ho scritto sopra, questa non è una storia d’Amore, ma la storia dell’Amore. E sono cose completamente differenti. Confido nel vostro intelletto e nella vostra capacità comprensiva. u w u Che saprà essere più comprensiva di quella di mamma Kim, non trovate?
Okay, ho blaterato troppo, adesso attendo le vostre recensioni, reazioni, qualsiasi altra cosa. Spero siano parecchie! ><
Ah, volevo dirvi che se non ho ancora risposto alle ultime di TWS… vi chiedo scusa, ma fino a pochi giorni fa ho dato l’ultimo esame della sessione che mi ha letteralmente risucchiato l’anima, e ora mi trovo dalla nonna, in montagna, in mezzo al nulla, senza uno straccio di connessione – al momento sono a casa di una mia cugina per postare -, quindi se tarderò anche con le risposte non è perché sono una sassy queen, bensì .. sono stata e sono momentaneamente impossibilitata. Ma le leggo e rileggo sempre tutte, perché mi fa strapiacere sapere che vi piacciono le mie storie. /sends love/
A lunedì!
 
Adele. ~
 
   
 
Leggi le 3 recensioni
Ricorda la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > EXO / Vai alla pagina dell'autore: polytlas