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Autore: Hotaru_Tomoe    17/07/2017    6 recensioni
Raccolta di oneshot ispirate dalle fanart o prompt che ho trovato in rete su questa bellissima serie. Per lo più Johnlock centriche, con probabile presenza di slash.
Aggiunta la storia I'll be home for Christmas:Sherlock è lontano da casa per una missione, ma durante questo periodo il legame con John si rinforza. John gli chiede di tornare a casa per Natale, riuscirà Sherlock ad accontentarlo?
Questa storia, in versione inglese, partecipa alla H.I.A.T.U.S. Johnlock challenge di dicembre.
Genere: Angst, Generale, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Lestrade, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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La H.I.AT.U.S. challenge di questo mese mi ha creato qualche problema, perché i prompt erano tutti carini, sono stata indecisa fino all’ultimo su quale scegliere e ho perso del gran tempo XD
Alla fine ho optato per questo:
“Da bambino o da ragazzo, Sherlock o John sono coinvolti in un incidente e vengono temporaneamente trasportati nel futuro. Qui hanno modo di vedere che disastro sono diventate le loro vite dopo TFP, quindi decidono di agire diversamente, una volta tornati indietro. Sherlock o John decidono di incontrarsi molto prima che nella originale linea temporale.”

DA CAPO

Il tuono fece tremare le alte vetrate del museo e la luce tremolò.
La guida alzò gli occhi verso i lampadari e poi rivolse un sorriso incerto alla scolaresca di liceali.
“Ah, forse è meglio sbrigarsi. Se volete seguirmi, vi mostrerò la ricostruzione della camera d’albergo dove Tesla trascorse i suoi ultimi anni di vita.
Gli studenti seguirono ordinatamente la guida; Reginald si guardò intorno alla ricerca del suo amico Sherlock, e lo trovò seduto sul davanzale di una delle finestre, intento a guardare la pioggia che batteva sui vetri, perso in chissà quali pensieri.
“Sherlock, la guida ci ha detto di andare.”
Il sedicenne sospirò, ma non si mosse.
“Dammi un attimo di tregua, Reginald. Ho le orecchie che mi fanno male a furia di ascoltare le sue scemenze.”
“Secondo me è carina” ridacchiò l’amico, e Sherlock aggrottò la fronte.
“Cosa c’entra il suo aspetto fisico con le sue competenze?”
Reginald alzò gli occhi al cielo.
“Niente, era così per dire. Dai, muoviti.”
“Vai avanti, vi raggiungo all’uscita.”
“Come vuoi.”
Il Tesla Museum era pregevole, ma la loro guida ce la stava mettendo tutta per rendere la visita noiosa. E Sherlock non era interessato alla vita dello scienziato, oltretutto aveva già notato che la ricostruzione della stanza d’albergo era imprecisa e piena di anacronismi.
Invece la sezione del museo che riproduceva i numerosi brevetti di Tesla attirava molto di più la sua curiosità: alcune delle macchine funzionavano davvero, e quella stupida guida vi aveva dedicato solo pochi minuti.
Assicurandosi di non essere visto da nessuno tornò indietro, mentre un lampo squarciò le nubi nere e un tuono risuonò sinistro lungo il corridoio deserto.
Negli ultimi anni della sua vita Tesla aveva esposto delle teorie molto bizzarre, compresa quella che fosse possibile viaggiare nel tempo, e per questo era stato osteggiato e ostracizzato dalla comunità scientifica; qualcuno lo aveva definito senza mezzi termini un pazzo visionario. Forse non sarebbe mai stato possibile realizzare tutte le invenzioni teorizzate da Tesla, ma lo scienziato aveva posseduto l’invidiabile capacità di pensare al di fuori degli schemi, ed era un incompreso, proprio come lui, e per questo motivo Sherlock lo sentiva simili a sé.
Il ragazzo entrò in una delle sale, dove era esposta una delle macchine costruire da Tesla in persona durante gli anni trascorsi a Colorado Springs, composta da una grande turbina d’acciaio che aveva all’interno delle spirali di rame e tre sfere elettrostatiche. Secondo la didascalia, Tesla era convinto che si potesse viaggiare nel tempo grazie a quel macchinario. Sherlock vi poggiò sopra la mano e in quel momento un fulmine micidiale colpì la cupola del Tesla Museum: la corrente elettrica corse lungo tutti i cavi elettrici dell’edificio, attivando involontariamente il macchinario che il ragazzo stava toccando.
Sherlock fu investito da un muro di luce e si ritrovò a fluttuare nello spazio, invisibile, senza più un corpo, era un essere composto di puro pensiero.
Attorno a lui, delle immagini iniziarono a fluire, come fotogrammi di un film proiettato ad alta velocità.
Era il film della sua vita, che lo vedeva finire il liceo, studente cupo e annoiato, e iniziare l’università ancor più irrequieto, la scoperta delle droghe, qualche attimo di pace seguito dal calvario della dipendenza e della riabilitazione, l’idea di farla finita, perché il mondo era talmente vacuo e insopportabile che non valeva la pena viverci.
Ma nel fotogramma successivo era nel laboratorio del Barts e Mike accompagnava un suo vecchio amico in cerca di un coinquilino, John Watson.
Mike li presentò, le loro dita si sfiorarono e in quel momento cambiò tutto, il giovane Sherlock-pensiero lo vide con chiarezza, la vita assunse una nuova prospettiva e tornò ad essere attrattiva.
Furono diciotto mesi di felicità incondizionata, avventure e adrenalina e il rapporto con John diventava sempre più importante e fondamentale per lui: lo Sherlock-pensiero non si limitava a guardare se stesso crescere, percepiva anche le sue emozioni, e capiva che Sherlock si era innamorato di John.
Ma poi…
Il grande inganno, la caduta, il ritorno, ma qualcosa si era spezzato, non era più come prima, e tutta la felicità che aveva provato vivendo con John, scomparve il giorno del suo matrimonio con Mary e non tornò più.
Da quel momento fu solo una lunga sequela di errori, bugie, rabbia e rancore, una sorella psicopatica (una sorella? Ah… sì, ora ricordava), un casino, un casino, solo un fottuto casino che peggiorava sempre più.
E alla fine quel meraviglioso miracolo che era stato il loro rapporto morì.
Sherlock e John, due rottami, due estranei, due foglie morte che galleggiavano sulla superficie del mare in tempesta in direzioni diverse e che non si sarebbero trovate mai più.
“Non voglio - urlò lo Sherlock-pensiero - non voglio questo! John…”
Cercò di stendere le braccia verso di lui, anche se non aveva un corpo, poi fu di nuovo il buio.
Sherlock aprì gli occhi, ma non era più al Tesla Museum, e non era composto più di solo pensiero, era di nuovo nel suo corpo, un corpo pesante che faticava a rispondere agli ordini della sua mente.
C’era un neon azzurrino sul soffitto e una flebo di soluzione salina alla sua destra.
Un ospedale?
“Sì è svegliato!”
Il viso dei suoi genitori, terreo e stanco, apparve nel suo campo visivo. Sembravano invecchiati di dieci anni e Sherlock provò a dedurre il perché. Aprì la bocca, ma suo padre lo fermò.
“No, hai un sondino in gola per l’alimentazione. Aspetta, chiamo i medici e vediamo se lo possono rimuovere, okay?”
Sondino? Da quanto tempo era lì? Si sentiva molto confuso.
“Due mesi, Sherlock - suo fratello Mycroft si accostò al letto - Un fulmine ha colpito il Tesla Museum durante la tempesta, hai preso una forte scossa e sei qui da allora. Ricordi qualcosa?”
Quindi la vita che aveva visto era stato solo un sogno?
Impossibile.
In quel momento i medici entrarono nella stanza per sottoporlo ai controlli del caso: stava bene, non aveva riportato danni permanenti e dopo aver seguito un periodo di riabilitazione, avrebbe potuto tornare a casa.
I suoi genitori e Mycroft restarono con lui tutto il giorno, ma dentro di sé Sherlock non vedeva l’ora di poter restare da solo e riflettere su quanto gli era accaduto, e fu con un certo sollievo che li salutò quella sera.
Non credeva di aver avuto una allucinazione a causa del fulmine, quello che aveva visto era reale, quasi palpabile, e poi era stato Tesla in persona, il genio incompreso, a costruire la macchina che aveva toccato.
Sì, di questo Sherlock era convinto: aveva viaggiato veramente nel tempo e aveva visto il futuro, tutto il suo futuro.
I ricordi della vita trascorsa davanti ai suoi occhi erano così tanti che ora faticava a ricordarli e a visualizzarli uno ad uno, solo uno era chiaro e indelebile.
John Watson.
Anche se era giovane, Sherlock conosceva bene se stesso, sapeva di essere diverso, di non avere gli stessi interessi e la stessa mente degli altri ragazzi della sua età, e sapeva che, per questo, sarebbe sempre stato solo. Vedersi come un drogato non lo aveva stupito più di tanto: anche se non aveva ancora provato nulla, nemmeno a fumare erba, dentro di sé sapeva che prima o poi sarebbe arrivato alle droghe per mettere a tacere il caos nella sua mente.
Ma John Watson… John Watson lo aveva stupito di sicuro. Trovare una persona che lo capisse, che lo apprezzasse nonostante le sue bizzarrie, che restasse al suo fianco quando tutti gli altri scappavano e lo additavano come un mostro, era stato un miracolo.
Lo Sherlock-pensiero aveva visto se stesso innamorarsi di John Watson, e se era innamorato a sua volta, anche se ancora non lo conosceva.
Ma lo Sherlock del futuro aveva commesso dei gravi errori, aveva dato John per scontato e aveva finito per perderlo.
Inconcepibile.
C’era una sola cosa da fare: trovare John Watson il prima possibile ed evitare di ripetere gli errori di cui era stato testimone.
Gli elementi a sua disposizione erano molto pochi, ma sufficienti: John aveva studiato medicina e frequentato il laboratorio del St. Bartholomew Hospital: tra di loro c’erano cinque anni di differenza, questo significava che quando lui avesse iniziato l’università, John sarebbe stato all’ultimo anno.
Non aveva molto tempo, ma doveva assolutamente riuscire a incontrarlo prima che John si arruolasse nell’esercito e andasse all’estero. Doveva riuscirci, non doveva dare per scontato un rapporto così prezioso.
E non era l’unico problema di cui doveva preoccuparsi.
Dio, la sua famiglia era un tale disastro...

Un mattino Mycroft entrò nel suo ufficio e vide Sherlock seduto sulla sua poltrona girevole, intento a leggere dei documenti in una cartellina azzurra: non aveva l’autorizzazione di entrare nell’edificio e aveva eluso almeno tre livelli di sicurezza per arrivare fin nel suo ufficio.
Mycroft alzò gli occhi al cielo: aveva da poco iniziato a lavorare in politica, l’ultima cosa di cui aveva bisogno erano i colpi di testa di suo fratello adolescente.
“Devo elencarti tutte le leggi che hai violato per entrare qui? Mamma ne sarà sconvolta.”
“Credo che mamma e papà abbiano ben altri motivi per essere sconvolti” osservò Sherlock, così serio che Mycroft lo guardò con attenzione: non era stata una bravata, suo fratello era lì per un motivo importante. Da quando si era svegliato dal coma, Mycroft aveva sempre l’impressione che ci fosse qualcosa di diverso in lui. Se di positivo o negativo, ancora non riusciva a capirlo.
“Sei cambiato” disse, ma Sherlock non rispose.
“Da quando hai avuto quell’incidente, sei cambiato - insisté Mycroft - Sembra che tu abbia un pensiero fisso, in ogni istante della tua giornata.”
“E anche se fosse?”
Non negava, dunque.
“Come fratello maggiore è mio compito sapere di cosa si tratta e impedire che tu ti metta nei guai. Cosa sei venuto a cercare nel mio ufficio?”
Sherlock gli porse la cartelletta e guardò con estrema soddisfazione Mycroft impallidire e sedersi pesantemente sulla sedia più vicina, mentre l’ombrello cadeva a terra.
“Tu come? Non ricordavi, hai rimosso…”
“Ora ricordo ogni cosa. Raccomando un vero istituto psichiatrico per nostra sorella, e terapie diverse da quelle che sta seguendo.”
“Eurus è un caso particolare.”
Sherlock si morse la lingua: Mycroft sottovalutava ciò di cui era capace Eurus, e lui non poteva certo dirgli di essere stato nel futuro e aver visto gli orrori di cui si era macchiata, o sarebbe finito nella cella accanto alla sua.
A dire il vero, scoprire che Eurus esisteva davvero, era stato confortante: significava che era tutto vero, aveva viaggiato davvero nel futuro e John Watson esisteva sul serio.
“Quella ragazza è una bomba a orologeria pronta a esplodere: ha bisogno di medicine, molte medicine, non di una specie di Alcatraz personale. Potremmo farle visita tutti assieme ogni tanto, porterò il violino con me, penso possa aiutarla. E riconsegneremo le spoglie di Victor alla sua famiglia.”
“Sherlock, capisci bene che in questo caso ci sarebbero diverse cose da spiegare ai signori Trevor, e non penso che-”
“Era il mio migliore amico da bambino, merita qualcosa di meglio che marcire in fondo a un pozzo” lo interruppe Sherlock con voce gelida, prima di alzarsi.
“Ma non è questo il tuo pensiero fisso” disse Mycroft che, nonostante lo shock, non aveva perso lo spirito di osservazione.
“No, è qualcosa di più importante.”
“Più importante della tua famiglia?”
Sherlock ricordò un dialogo simile intercorso tra lo Sherlock futuro e Mycroft: “È una cosa di famiglia”, “Per questo John resta.”
“Vedi Mycroft, in un certo senso questo riguarda la famiglia, per me.”

Sherlock lasciò la sua valigia in camera e tornò in giardino, guardandosi intorno nella speranza di individuare John nella marea di studenti del campus. La notte prima non aveva chiuso occhio all’idea che finalmente lo avrebbe incontrato e non era riuscito a mangiare nulla a colazione, perché si sentiva sul punto di vomitare da tanto era nervoso: lo Sherlock futuro aveva impressionato John con una brillante deduzione sulla sua vita, e lui doveva riuscire a fare altrettanto, anche se le circostanze erano completamente diverse.
E questo rappresentava un abisso insondato: Sherlock aveva visto la sua vita futura, nella quale John era entrato solo al ritorno dall’Afghanistan, ma di come fosse la sua vita prima di allora, non sapeva nulla.
Cosa avrebbe fatto se a John non fosse piaciuto? Se il suo piano non avesse funzionato?
Gli veniva di nuovo da vomitare.
Si avvicinò a due ragazzi più grandi, chiedendo loro se conoscessero John Watson.
“Il capitano? E chi non lo conosce?”
“Capitano?”
“È il capitano della squadra di rugby dell’università, e conoscendolo sarà già sul campo ad allenarsi. Lo trovi in fondo a sinistra, dopo la mensa.”
Sherlock ringraziò e si avviò in quella direzione: spesso non riusciva a focalizzare tutti i dettagli del futuro che aveva visto, ma era certo che John non gli avesse mai detto che aveva giocato a rugby da ragazzo.
Erano diverse le cose che non gli aveva mai detto, probabilmente perché temeva che Sherlock lo denigrasse.
E lo Sherlock futuro era stato spesso crudele verso John.
Non c’era da stupirsi se John si era stancato di lui.
Ma adesso poteva rimediare.
Raggiunse il campo di allenamento, dal quale provenivano le voci dei ragazzi, dell’allenatore e di qualche tifoso seduto sugli spalti di legno.
Alcuni giocatori si stavano allenando sui passaggi, lanciandosi la palla l’un l’altro, ma John non era tra loro.
“Ehi, tu - disse una ragazza sugli spalti - Non puoi entrare in campo, è pericoloso.”
Sherlock la ignorò e camminò sul campo, cercando John con lo sguardo.
Lo trovò in un angolo, vicino agli spogliatoi, intento a fare delle flessioni senza alcuno sforzo apparente, era più biondo del reduce di guerra che Sherlock aveva visto nel futuro, con un sorriso fanciullesco e spensierato.
Mentre si alzava sulle braccia, i loro occhi si incontrarono.
Sherlock restò incantato, il suo cuore accelerò i battiti e capì di essersi innamorato di lui ancora una volta.
Tuttavia John si sbracciò nella sua direzione con uno sguardo preoccupato.
Perché mai?
“Ehi tu! Fai attenzione!” fu l’ultima cosa che Sherlock sentì, prima di essere investito da un camion (almeno così gli sembrò) e di perdere conoscenza (di nuovo?)
Questa volta non viaggiò nel tempo e rinvenne qualche minuto dopo nell’infermeria del campus, con qualcosa di freddo premuto contro la guancia. Aprì gli occhi e vide John sospirare di sollievo: gli stava tenendo la borsa del ghiaccio appoggiata sul viso.
“Ah, ti sei ripreso, menomale.”
“Cosa è successo?”
“Dovresti dirmelo tu - rise John - vagavi sul campo con aria sperduta e ti sei preso una pallonata in faccia.”
“È che non ti avevo mai visto giocare a rugby.”
John aggrottò la fronte.
“Certo che non mi avevi mai visto, noi non ci conosciamo.”
Sherlock si sentì morire: voleva impressionare John e invece aveva finito per fare la figura dell’idiota totale.
Abbassò gli occhi e mormorò un flebile “mi dispiace”, ma John sorrise e scosse la testa.
“Tranquillo, l’importante è che tu non ti sia fatto male. Io sono John Watson, e tu?”
“Sherlock Holmes.”
“Sei nuovo?”
“Sì, sono appena arrivato.”
“Hai ricevuto un benvenuto traumatico.”
John rise e Sherlock si scoprì contagiato, poi si alzò dal lettino e si rimise le scarpe.
“Grazie per avermi aiutato.”
“Nessun problema, ma la prossima volta che vuoi seguire gli allenamenti, resta sulle gradinate, intesi?”
“Sì.”
“Qual è la tua stanza? Se vuoi posso accompagnarti.”
“No, ora sto bene, grazie. La mia stanza è la 26.”
“Che coincidenza, è davanti alla mia. Allora ci vedremo spesso.”
Non era una coincidenza: Sherlock aveva hackerato il server della scuola e aveva fatto in modo di farsi assegnare proprio quella stanza, nella speranza di poter vedere John spesso, nonostante non avessero lezioni in comune, ma probabilmente adesso John pensava a lui solo come a un povero idiota.
Il giorno seguente Sherlock era di nuovo al campo di rugby. Si era appena seduto a guardare John impartire ordini agli altri giocatori, quando venne avvicinato da un ragazzo robusto che portava gli occhiali.
“Ciao, io sono Mike Stamford: la pallonata di ieri è stata colpa mia, mi dispiace. Ora stai bene o ti fa ancora male la faccia?”
“No, no, sto bene.”
Sherlock rivolse un breve cenno del capo a Mike e poi tornò a guardare John.
“Ti piace il rugby?” domandò Stamford.
Sherlock annuì, senza staccare gli occhi di dosso dal capitano.
“Qual è il ruolo migliore secondo te?”
Ruolo? C’erano dei ruoli nel rugby, come per gli attori?
“Uh, quello che passa la palla?” azzardò, ma aveva come l’impressione che non fosse la risposta giusta.
In quel momento John guardò nella sua direzione, lo riconobbe, alzò il braccio per salutarlo e Sherlock lo ricambiò.
“Capisco.”
Mike rise sotto ai baffi e si unì ai compagni d’allenamento, e sussurrò qualcosa a John, che sorrise.
Un’ora più tardi, John uscì dagli spogliatoi e si avvicinò a Sherlock, i capelli biondi ancora umidi dalla doccia, un asciugamano attorno alle spalle e un sorriso smagliante; Sherlock era consapevole che se voleva impressionarlo, doveva fare qualcosa di diverso che fissarlo come un ebete, ma la sua mente era in panne e non riusciva a fare altro. Dio, probabilmente John l’aveva rotto.
“Questo pomeriggio, dopo le lezioni, io e miei compagni andiamo a bere qualcosa in un pub qua vicino, ti va di venire con noi?”
Sherlock annuì rapidamente, ma in quel momento qualcuno urlò e un attimo dopo una ragazza corse verso il campo, chiedendo aiuto.
L’istinto di dottore di John scattò immediatamente e il ragazzo le corse incontro, afferrandola per le spalle.
“Susan, calmati. Cosa succede?”
“Miss Mayer… Miss Mayer…”
“L’insegnante di teatro? Cosa le è successo?”
“Lei è… - la ragazza puntò un braccio tremante in direzione del teatro - è morta!”
Mentre John e Mike cercavano di calmare Susan, che era sull’orlo dell’isteria, Sherlock corse verso il teatro, attirato dal delitto come una falena da un lampione.
Un inserviente aveva adagiato Miss Mayer al centro del palco e stava tentando una goffa manovra di rianimazione. Inutile, dal momento che la donna era rigida, morta da diverse ore.
“Perché ha spostato il cadavere?” lo aggredì Sherlock.
“Sto cercando di salvarla.”
“Razza di idiota, non vede che è morta? Ha compromesso le prove!”
“Chi diavolo sei ragazzino? Fuori di qui.”
“Lei è l’unico che deve andarsene, prima di causare altri danni.”
Una mano ferma si posò sulla sua spalla: era John. Il ragazzo salì sul palco e si avvicinò a Miss Mayer.
“Perdoni il mio amico, è molto sconvolto - mentì John - Comunque ha ragione: questa donna è già in rigor mortis, è morta da almeno quattro ore.”
L’inserviente si rialzò.
“Cazzo, devo avvertire la polizia, e anche il preside. Cazzo, cazzo… voi non fate entrare nessuno e non toccate nulla.”
Sherlock ignorò l’uomo e si rivolse a John, ancora inginocchiato vicino al cadavere.
“Qual è la tua diagnosi?”
“Sono ancora uno studente, non un medico” protestò lui, ma Sherlock scosse la testa.
“Hai già iniziato il tirocinio al pronto soccorso del Barts, so che ti sei fatto un’idea.”
“Tu come lo sai?”
“Ti prego - Sherlock si agitò - non abbiamo molto tempo prima dell’arrivo della polizia.”
“Va bene.”
John era combattuto: aveva delle remore morali a esaminare il cadavere, ma una parte di lui era intrigata, e alla fine si chinò sulla donna e la osservò senza toccarla, si avvicinò al suo viso e inspirò profondamente, infine scese dal palco.
“Come ti ho detto, non sono un medico…”
“Sì, ho capito. Quindi?”
“Il viso è gonfio, ci sono segni di orticaria sulla pelle e le labbra sono cianotiche. Secondo me è stato uno shock anafilattico.”
“Sai se era allergica a qualcosa?”
“Ah sì, praticamente a tutta la frutta a guscio: noci, nocciole, mandorle, arachidi... Si portava sempre il cibo da casa, e se qualcuno della compagnia teatrale portava delle torte o dei pasticcini per festeggiare, lei non li mangiava mai perché non si sentiva tranquilla.”
“Quindi lo sapevano tutti.”
“Sì. Perché lo chiedi?”
“Perché mi sembra strano che una persona così attenta alla sua allergia muoia proprio per uno shock anafilattico.”
“Stai insinuando che è stata uccisa?”
“Non ho ancora abbastanza elementi per una teoria, ma-”
In quel momento arrivò la polizia con i paramedici e i ragazzi furono fatti uscire.
Nel cortile antistante il teatro si era già riunito un nutrito drappello di persone, tra cui tutti i membri della compagnia teatrale.
“Stamattina non c’erano prove - osservò Sherlock - quindi perché la vostra insegnante era in teatro?”
Susan, che nel frattempo si era calmata un po’, disse che Josie, uno dei membri della compagnia, si era trasferita di punto in bianco ad Edimburgo con la famiglia, così Miss Mayer stava imparando la sua parte per la recita, perché non c’erano sostituti.
“È la maledizione! Quest’anno Miss Mayer aveva scelto di portare in scena il Macbeth, e lo sanno tutti che quell’opera è maledetta. Oltretutto la sua parte era proprio Lady M” disse Craig, uno dei giovani attori.
“Cose del genere non esistono” sospirò Sherlock alzando gli occhi al cielo. Dio, quel campus era una tale concentrazione di idioti…
“È la maledizione, ti dico! Ci sono stati altri incidenti, lei li ha ignorati ed ora è morta.”
Sherlock si fece più attento.
“Quali altri incidenti?”
“Ah sì - intervenne John - ne ho sentito parlare anch’io: qualche settimana fa è caduto un riflettore sul palco e solo per un caso nessuno è rimasto ferito, in seguito una botola ha ceduto e c’è stato un principio di incendio nel quadro elettrico.”
“Vedete? - insisté Craig - È la maledizione di Macbeth.”
Detto questo si allontanò, decisamente turbato, e non era l’unico a credere a quella teoria.
Sherlock insisté nel dire che erano tutte superstizioni idiote, e si guadagnò gli sguardi ostili degli altri ragazzi.
Come sempre.
“Nemmeno io penso sia una maledizione, ma ora sono tutti turbati” disse John a Sherlock, spingendolo lontano, e Sherlock non mancò di notare che era l’unico dalla sua parte.
“Tu cosa pensi, John?”
“Il teatro è piuttosto vecchio e necessiterebbe di una ristrutturazione: gli incidenti capitano.”
“O qualcuno li fa capitare” mormorò Sherlock, assorto.
Per un paio di giorni e di notti fu impossibile avvicinarsi al teatro, occupato dagli uomini della scientifica. Sherlock tentò di avvicinare l’ispettore che si occupava delle indagini, ma questi lo allontanò infastidito.
Qualche giorno più tardi l’autopsia rivelò che Miss Mayer era morta sul serio per uno shock anafilattico causato da frutta secca, e la polizia chiuse le indagini dicendo che si era trattato di una ingestione accidentale. Un banale incidente, insomma.
Ma Sherlock disse a John che non ne era convinto e nel frattempo continuò a raccogliere informazioni sulla vittima; quando la polizia tolse i sigilli al teatro, decise di tornare lì: era sicuro che avessero tralasciato delle prove importanti e comunque aveva bisogno di vedere di nuovo la scena del crimine.
Verso mezzanotte, uscì furtivamente dalla sua stanza; aveva sottratto a Craig una copia delle chiavi del teatro ed entrò senza difficoltà. Accese le luci e si arrampicò sulla struttura dietro al palco per raggiungere i riflettori e osservò il supporto del riflettore che era caduto sul palco.
A un certo punto la porta si aprì con un cigolio, Sherlock si nascose nell’ombra per vedere chi fosse il nuovo arrivato.
Era John.
“John!”
“Sherlock, dove sei?” Il ragazzo si schermò gli occhi per proteggerli dalla luce dei riflettori.
“Quassù.”
John si arrampicò sulla scaletta e lo raggiunse.
“Cosa ci fai qui?”
“Sono venuto a cercare indizi. E tu?”
“Ti ho sentito uscire dalla tua stanza e ti ho seguito - scrollò la testa - Non so perché, ma mi aspettavo che facessi qualcosa del genere.”
Non c’era rimprovero nella sua voce, piuttosto una nota divertita.
Sherlock si morse le labbra per nascondere un sorriso e poi indicò il supporto.
“È vecchio e arrugginito.”
“Quindi è stato davvero un incidente?”
“Questo sì.”
Scese la scaletta e si portò al centro del palco, inginocchiandosi per osservare la botola che si era aperta accidentalmente.
“Ma qui, sui cardini, ci sono segni di graffi, è stata manomessa. E il quadro elettrico che ha preso fuoco? Era stato sostituito sei mesi fa, piuttosto strano che si sia guastato così in fretta.”
“Molto.”
“E attorno alla serratura della porta d’ingresso ci sono segni simili, prova che è stata forzata. Diverse volte, presumo”
“Perché la polizia non si è accorta di niente?”
“Non hanno cercato alcun indizio: quell’idiota di ispettore si è subito convinto che Miss Mayer ha ingerito delle noci per errore.”
Sherlock andò sul retro ed esaminò i camerini, notando che le porte non avevano una chiave per chiuderli.
“I membri della compagnia si conoscono tutti da anni e non ci sono mai stati furti” spiegò John.
“Qui si sentivano al sicuro - mormorò Sherlock - Andiamo, non c’è più niente da vedere.”
Camminarono nel campus deserto verso il dormitorio, riflettendo sul delitto; a un certo punto John lo osservò con attenzione.
“Quindi, tu pensi che la polizia si stia sbagliando.”
“Non lo penso, lo so per certo: Miss Mayer era una donna attenta e scrupolosa e non avrebbe mangiato nulla che potesse contenere frutta a guscio.”
John si accigliò.
“Suicidio, allora?”
“Nemmeno. Aveva un ottimo lavoro, una relazione stabile e non aveva motivi per suicidarsi.”
John incrociò le braccia al petto: era evidentemente intrigato dall’ipotesi di omicidio e dai ragionamenti di Sherlock.
“Allora qualcuno ha giocato con la leggenda della maledizione di Macbeth, si sia divertito a provocare gli incidenti fino a spingersi troppo oltre?”
“No, no, è tutto fumo negli occhi, per distogliere l’attenzione dalla vittima e dai veri motivi di questo omicidio. Gli incidenti avrebbero potuto coinvolgere chiunque, ma la morte di Miss Mayer è diversa, è stata presa di mira specificamente da qualcuno.”
“E tu pensi di poter scoprire chi è l’assassino?”
Non c’era ombra di derisione nella voce di John. Sherlock sapeva di avere l’aspetto di un ragazzino sgraziato, magro e dinoccolato, senza tutte le rotelle al loro posto, e che le sue teorie potevano sembrare assurde. Ma questo giovane John lo guardava con innocua curiosità e forse con un pizzico di ammirazione, proprio come aveva fatto il John del futuro al loro primo incontro.
“Sì.”
“Posso aiutarti?”
“Nulla mi farebbe più piacere - rispose Sherlock di slancio, poi si rese conto dell’audacia della sua frase e corresse il tiro, ringraziando le tenebre che nascosero il suo rossore - Cioè, se ti va, mi farebbe piacere.”
John annuì.
“Sicuro. Cosa posso fare?”
“Dovrei conoscere qualcosa di più della sua vita quotidiana.”
“Io l’avevo tra i contatti di Facebook.”
“Posso vedere la sua pagina?”
“Sì, domani mattina.”
“Perché non adesso?”
“Perché sono quasi le due di notte.”
Lo Sherlock futuro si era sempre disinteressato di queste sottigliezze e non aveva esitato a chiedere a John di restare in piedi tutta la notte per risolvere un caso, dando per scontato che l’avrebbe fatto, ma ora si rendeva conto del suo errore.
“Va bene, domani mattina.”

“Sherlock… ehi, Sherlock.”
Qualcuno lo stava scuotendo per una spalla.
Sherlock sbatté velocemente le palpebre e uscì dal Mind Palace, tornando alla realtà.
“Cosa c’è?”
Davanti a lui John sospirò di sollievo.
“Menomale che mi hai risposto, stavo per chiamare un’ambulanza.”
“Perché? Sto bene.”
“È che… sei davanti al mio portatile da stamattina e non mi hai più risposto, nemmeno quando ti ho chiesto se volevi andare in mensa. Ci sono andato da solo, sono tornato ed eri ancora nella stessa identica posizione, sembravi in un altro mondo.”
“Stamattina? Perché, che ore sono?”
“Sono quasi le sei di pomeriggio.”
“Sì, vedi - Sherlock si stiracchiò - quando penso mi isolo completamente dal mondo esterno e dimentico il tempo che passa. Pensi che sia strano, vero?”
John portò una sedia vicina a quella di Sherlock.
“Non è una cosa che vedi tutti i giorni, ma non mi piace il termine “strano”, ha un’accezione negativa. Io direi piuttosto che è interessante: non ho mai visto nessuno concentrarsi come fai tu.”
“Davvero?”
“Sì, anche se è leggermente preoccupante.”
“Perché?”
“Perché ho idea che se anche scoppiasse un incendio, non te ne accorgeresti.”
“Non lo so, non mi è mai capitato.”
“E spero non ti capiti mai.”
“Però potresti aver ragione.”
“Allora dovrebbe esserci qualcuno sempre vicino a te, per impedire che ti succeda qualcosa di male.”
Sarei perso senza il mio blogger, aveva detto lo Sherlock del futuro, e ora il giovane studente annuì.
“Sì, dovrebbe.”
John si schiarì la gola, come se fosse imbarazzato, e puntò il dito contro lo schermo del computer.
“Hai scoperto qualcosa di interessante?”
“Ho risolto il caso.”
“Sul serio? Come hai fatto? Chi è stato?”
“Miss Mayer raccontava tutto di sé, compreso il fatto che di recente uno zio facoltoso era morto e l’aveva nominata erede. Miss Mayer non era sposata e non aveva figli, e in caso di sua morte, l’erede più prossimo dello zio era un suo cugino, Adam Mayer, che di recente ha perso molti soldi giocando in borsa.”
“E come ha fatto ad avvelenarla?”
“È stato piuttosto ingegnoso, lo ammetto.”
Sherlock cliccò su una fotografia scattata all’interno del teatro una settimana prima: c’erano Miss Mayer in compagnia del suo ragazzo nel suo camerino; ingrandì la foto e mostrò a John il tavolino dietro di loro, su cui c’erano i trucchi della donna.
“Il balsamo per le labbra di Miss Mayer è aperto ed è consumato per metà. Ho domandato a Susan e mi ha detto che i trucchi, così come i costumi di scena, venivano lasciati lì in teatro. Come hai osservato anche tu non c’erano mai stati furti, non c’era ragione di prendere delle precauzioni, purtroppo. Queste invece - gli fece vedere altre tre fotografie - sono state scattate dalla polizia scientifica all’interno del teatro: il balsamo per le labbra sul tavolo è nuovo, ha ancora il sigillo di garanzia.”
“Magari l’aveva finito.”
“In una settimana?”
John ci rifletté, poi annuì.
“Hai ragione, non è possibile.”
“Miss Mayer ha scritto dell’incidente con il riflettore, così suo cugino si è introdotto varie volte nel teatro per causare gli altri due incidenti, quello della botola e del quadro elettrico, per far credere a tutti che si trattasse della maledizione di Macbeth, o per concentrare i sospetti su qualcun altro. Infine ha intinto il balsamo in una pasta di nocciole o arachidi: mentre recitava ad alta voce la parte, Miss Mayer si sarà inumidita le labbra più volte e così facendo si è intossicata, il cugino ha aspettato nel backstage che Miss Mayer morisse e poi ha sostituito il balsamo per le labbra con uno nuovo, portando via l’unica prova del crimine.”
John non mise in dubbio la sua teoria nemmeno per un istante, non gli chiese nemmeno se era sicuro, disse semplicemente: “Devi avvertire la polizia”, e Sherlock si domandò per quale miracolo era riuscito a conquistare la sua fiducia ancora una volta.
“L’ho già fatto, ho mandato la mail a un detective. Non a quello del caso, a un altro, che spero sia meno idiota.”
“Sei stato incredibile, sono senza parole. È questo che vuoi fare, una volta finita l’università, il detective?”
Sherlock non era convinto che essere un consulente investigativo fosse una buona idea, questa volta: nel futuro che aveva visto, il suo lavoro aveva attirato l’attenzione di Moriarty e, per sconfiggerlo, aveva preso la decisione di mentire a John sulla sua morte. Pensava che questa volta avrebbe dovuto trovarsi un lavoro diverso, eppure eccolo lì, di nuovo catturato da un crimine, da un mistero da risolvere.
“Non credo” rispose bruscamente, e John ne fu sorpreso.
“Perché mai? Sei stato più in gamba della polizia.”
“È stato solo un caso.”
John incrociò le braccia al petto e scosse la testa, basito.
“Uno spirito d’osservazione come il tuo non è un caso, per me è un peccato sprecarlo. E se non vuoi essere un detective, cosa vuoi fare nella vita?”
Sherlock si strinse nelle spalle.
“Non lo so, qualcosa troverò.”
Era una risposta stupida e John sembrò restare deluso.
Sherlock si alzò velocemente dalla sedia per lasciare la sua camera, ma ebbe un capogiro; John si alzò e lo sorresse prontamente, dimenticandosi dei discorsi sul futuro.
“Non mangi nulla da ieri sera, quindi ora vieni giù in mensa con me a cenare, ordini del dottore.”
“Hai detto che non sei ancora un dottore.”
“Per te lo sono già.”
Sherlock sorrise e annuì.
Si sedettero a un tavolino appartato e John gli raccontò della sua famiglia e del tirocinio che stava facendo al pronto soccorso.
Non era come il miglior ristorante cinese della città, ma gli si avvicinava molto.

La mattina seguente, la foto di Adam Mayer che veniva portato via da casa sua in manette, era su tutti i notiziari e i giornali; John entrò in camera di Sherlock con una copia del Times, si sedette sul letto di fianco a lui e lesse ad alta voce l’articolo, mentre Sherlock cercava di non mostrarsi troppo compiaciuto.
“Il giornale parla di ‘una fonte anonima che ha aiutato a risolvere il caso’, quindi immagino tu non l’abbia detto a nessuno.”
“Mi sembra ingiusto però, dopotutto è merito tuo se hanno arrestato il colpevole.”
“Non mi interessa la notorietà. I miei genitori lo verranno a sapere perché di sicuro mio fratello glielo avrà già detto.”
“E alla tua ragazza non lo dici? Voglio dire… hai una ragazza?” domandò John, e la mente di Sherlock tornò inevitabilmente alla conversazione che aveva visto nel futuro. Buffo come certe cose non cambiassero mai.
“No, le ragazze non sono la mia area.”
Una scintilla di interesse si accese negli occhi di John.
“Allora hai un ragazzo? Non ci sarebbe nulla di male.”
“Lo so - rispose Sherlock, ma con voce più pacata di quella usata dal suo alter ego futuro - Ma non ho nemmeno un ragazzo.”
“Non hai legami, come me” disse John, leccandosi le labbra.
Questa volta Sherlock non replicò dicendo che era sposato con il suo lavoro, e non perché non aveva ancora un lavoro, ma perché il futuro gli aveva dimostrato che John sarebbe diventato infinitamente più importante di qualunque altra cosa nella sua vita, incluso il lavoro. Lo era già, anche se si conoscevano da pochi giorni.
“Sì, non ho nessuno - deglutì rumorosamente, si fece coraggio e aggiunse - finora.”
Lo sguardo di John si addolcì.
“Scegli me, scegli me - pensò Sherlock con tutta la forza che possedeva - ti prego, questa volta scegli me.”
Senza dire una parola, John passò una mano attorno alla vita di Sherlock, lo tirò a sé e lo baciò.
Scelse lui.

Sdraiati nudi sul letto, con la brezza leggera che entrava dalla finestra e accarezzava i loro corpi sudati, Sherlock e John sembravano incapaci di togliersi le mani di dosso.
Sherlock in particolare era affascinato dalla spalla di John che ancora non portava i segni della pallottola che l’aveva attraversata, e le mani di John erano parecchio interessate ai suoi capelli.
Il ragazzo più grande aprì bocca per dire qualcosa, ma all’ultimo ci ripensò, e scosse la testa, quasi fosse imbarazzato da se stesso.
“Cosa stai pensando?” volle sapere Sherlock.
“È stupido” borbottò John.
“Voglio saperlo lo stesso” insisté Sherlock, baciandogli la spalla.
“Normalmente non sono così sdolcinato e romantico, lo giuro, ma… fin dalla prima volta che ti ho visto, ho avuto come la sensazione che fosse destino che noi...”
“È così.”
John rise, una piacevole vibrazione che si diffuse lungo tutto il corpo di Sherlock.
“E di sicuro non pensavo che tu fossi un romantico.”
Sherlock non gli disse che aveva forzato la mano al destino per poterlo incontrare, nascose il viso contro il suo petto e si addormentò.

Da quel giorno divennero inseparabili, anche se, a causa delle lezioni e del tirocinio di John, si vedevano meno spesso di quanto Sherlock desiderava.
Una sera Sherlock gli fece una sorpresa e lo aspettò davanti all’ospedale: John salutò gli altri tirocinanti e i dottori e, quando lo vide sul marciapiede, il suo viso si illuminò Tuttavia, prima che potesse avvicinarsi a lui, un’infermiera prese John sottobraccio e sorrise.
“Anch’io ho finito il turno John, ti va di andare a bere qualcosa assieme?”
Sherlock non ebbe nemmeno il tempo di sentirsi geloso o ferito, perché John si liberò dalla presa della ragazza e lo indicò.
“Solo se viene anche il mio ragazzo.”
Il sorriso della donna si tramutò in una smorfia imbarazzata e si allontanò da John come se bruciasse.
“Oh… in questo caso non voglio disturbarvi: avrete sicuramente di meglio da fare.”
“In effetti è così.”
John raggiunse Sherlock e lo baciò sonoramente sulle labbra.
“Vogliamo andare?”
“Sì.”
John gli prese la mano e i due si incamminarono verso il campus, ma Sherlock era stranamente silenzioso, mentre di solito raccontava a John degli esperimenti scientifici che aveva in corso in laboratorio.
“Non dirmi che sei geloso - protestò John - Quella infermiera la conosco a malapena, è solo una collega di lavoro.”
Sherlock si fermò e scosse la testa.
“Non è questo.”
“E allora cosa c’è?”
“Tu sei sicuro?”
John si accigliò: non capiva. “Di cosa?”
“Di noi. Se… uhm… stai con me e continui a stare con me, ti priverai di diverse… alternative.”
Il John del futuro aveva sposato una donna, in fondo, e aveva avuto una figlia.
Stando con lui non ci sarebbe stata nessuna Rosie.
Forse quello che John desiderava sul serio era una famiglia tradizionale e lui era solo un capriccio, qualcosa di transitorio. Dopotutto era il ragazzo più popolare dell’università, avrebbe potuto avere chiunque.
John lo abbracciò e il suo viso divenne mortalmente serio.
“Io ho scelto te, Sherlock. Vuoi sapere perché?”
“Ti prego” sussurrò Sherlock, appoggiandogli le mani sul petto.
“Perché ti amo, e quando sto con te non esiste nessun’altra alternativa.”
“Ha scelto me” pensò Sherlock, mentre le loro labbra si univano.
“Ohi, prendete una stanza, voi due!” protestò un passante che li vide.
Sherlock arrossì, ma John rivolse allo sconosciuto un sorriso strafottente.
“È esattamente quello che voglio fare.”
Prese Sherlock per mano e corsero verso il campus.

Verso la fine dell’anno, però, Sherlock notò che John era diventato irrequieto e nervoso, e una sera, tornando dalle lezioni, lo trovò in camera sua seduto sul letto.
“Siediti Sherlock, c’è una cosa importante di cui voglio parlarti.”
Non ci fu bisogno di dire nulla, in realtà: Sherlock vide sul letto una lettera dell’esercito: John voleva arruolarsi, aveva fatto domanda per diventare medico militare e l’esercito aveva risposto positivamente.
John sarebbe diventato un soldato, come nel futuro che aveva visto. Averlo incontrato prima non aveva cambiato le cose.
“Tu vuoi arruolarti! No, non devi, è pericoloso!” urlò Sherlock.
“Sherlock…”
“Potrebbero ucciderti! Non devi andare!”
Che senso aveva averlo incontrato prima, se John partiva ugualmente per l’Afghanistan? Se tutto si ripeteva di nuovo?
John gli prese con dolcezza il viso tra le mani e lo costrinse a guardarlo.
“È pericoloso, hai ragione, ma dentro di me io mi sento un soldato e questa è la strada che voglio seguire, perché per me è importante e so che lo capisci.”
Certo, lo capiva, ma questo non significava che lo accettasse.
“Ognuno di noi dovrebbe inseguire i suoi sogni - proseguì John - anche tu.”
“Io non sogno niente.”
“Non mentire - lo rimproverò John - Tu vuoi diventare un detective… o qualcosa del genere.” “No.”
“Sì, invece: ho visto come brillavano i tuoi occhi quando hai risolto l’omicidio di Miss Mayer. Erano bellissimi e hanno contribuito a farmi innamorare di te.”
Anche nella vita futura che la macchina di Tesla gli aveva mostrato, John era rimasto subito colpito dall’abilità di Sherlock nel risolvere enigmi misteriosi.
“Ho detto che era pericoloso, ed eccoti qua.”
Quell’aspetto delle loro vite non era sbagliato, ma Sherlock, così concentrato nel non ripetere gli stessi errori visti nell’altra vita, così spaventato all’idea di perdere John di nuovo, stava combattendo alla cieca contro ogni cosa, anche contro ciò che loro due erano veramente.
Gli Sherlock e John che aveva visto nel futuro erano un consulente investigativo e un soldato, Sherlock era rimasto impressionato dalla prontezza e dall’assenza di esitazione di John, che aveva ucciso un uomo per lui, anche se si erano appena conosciuti, e John aveva una ammirazione sconfinata per la sua intelligenza.
Solo gli errori andavano evitati, ma rinnegare ciò che erano non avrebbe portato nulla di buono.
John aveva scelto Sherlock, accettandolo per quello che era: un uomo strambo e pieno di idiosincrasie che non rispettava le norme sociali.
Forse ora Sherlock doveva scegliere John per quello che era: un soldato che anelava raggiungere il campo di battaglia.
“Va bene. Se senti che questa è la tua strada, va bene, sono con te.”
John lo baciò sulla fronte.
“Grazie. So che per te non è facile e che probabilmente non capisci i motivi della mia decisione, ma grazie per essere al mio fianco ugualmente.”
“Sempre - mormorò Sherlock, abbracciandolo - Promettimi solo una cosa, che qualunque cosa accada, tornerai sempre da me.”
“Te lo prometto.”

Passarono gli anni, Sherlock si laureò in chimica e biologia, conobbe la signora Hudson e la aiutò a far condannare il marito, e in seguito conobbe Lestrade, anche se questa volta il poliziotto non gli salvò la vita da un’overdose di cocaina la prima volta che si incontrarono.
Nel frattempo c’erano le missioni di John all’estero, i congedi troppo brevi, le separazioni sempre dolorose.
Infine, uno Sherlock ventisettenne ricevette la notizia che John era stato ferito a una spalla. Era grave, ma era sopravvissuto e sarebbe tornato a casa.
Rispettò la promessa e tornò da lui.
E quando John scese dall’aereo, Sherlock era lì per lui.
“Ho paura, Sherlock - gli confessò John mentre passeggiavano a Regent’s Park - Non so cosa fare della mia vita ora che sono stato congedato.”
Nei suoi occhi era chiara la tristezza per aver perduto il suo campo di battaglia.
Sherlock gli strinse la mano, pronto a mostrargliene uno ancor più interessante.
“Ma io lo so. Ho messo gli occhi su un posticino in centro a Londra. Andrà tutto bene, fidati di me.”

John si fidò, e a fianco di Sherlock affrontò Jeff Hope, gli acrobati circensi e molti altri pericoli.
Infine un giorno, nel laboratorio del Barts Molly presentò loro Jim, il tecnico informatico, ossia James Moriarty.
Incredibile come l’ossessione che aveva provato lo Sherlock del futuro verso il consulente criminale, ora impallidisse davanti al rapporto che Sherlock aveva costruito con John: nulla era più importante del suo blogger, del suo uomo, del suo compagno di vita.
Avrebbe sconfitto Moriarty, ovviamente, perché era troppo pericoloso che un soggetto del genere restasse in circolazione, ma questa volta le cose sarebbero andate diversamente.

Tirava vento e faceva freddo sul tetto del Barts. Forse avrebbe nevicato prima di sera.
John aprì la porta e lo individuò subito, seduto sul cemento freddo a fumare una sigaretta; lo guardò e aggrottò la fronte: Sherlock aveva smesso di fumare tempo addietro e ora non si spiegava perché avesse ripreso.
Non poteva sapere cosa era accaduto su quel tetto in un altro futuro, o cosa sarebbe accaduto di nuovo, da lì a pochi mesi. Ma questa volta lo avrebbe saputo.
John si sedette di fianco a lui e gli passò una mano tra i capelli ricci.
“Ehi, qualcosa non va? Perché hai voluto vederci qui?”
Sherlock spense la sigaretta e lo guardò negli occhi.
“Ricordi quando ti sei arruolato nell’esercito e io volevo fermarti?”
“Sì, certo.”
“Tra qualche mese probabilmente dovrò fare qualcosa di altrettanto pericoloso.”
John si fece estremamente attento e lo strinse a sé.
“Si tratta di Moriarty, vero?”
“Sì.”
John strinse le labbra ed espirò pesantemente dal naso, teso e preoccupato: dopo l’exploit della piscina, Moriarty era tornato nell’ombra, ma John non si era fatto illusioni che avesse deciso di lasciarli in pace.
“Va bene. Sappi solo che non ti permetterò di fare nulla, se non sarò coinvolto anch’io.”
“Certo: è per questo che siamo qui.”
“Parla, ti ascolto.”
Sherlock gli spiegò il suo piano fin nei minimi dettagli, un piano che questa volta coinvolgeva anche John, anzi, si basava principalmente su di lui.
Era tranquillo e aveva la convinzione che sarebbe andato tutto bene, perché questa volta non gli aveva mentito e la catena di eventi che aveva portato John e lo Sherlock del futuro ad allontanarsi era stata spezzata.
Questa volta, anche Sherlock aveva scelto lui.

   
 
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