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Autore: Koa__    18/07/2017    18 recensioni
John Watson, un medico reduce di guerra finito nelle Indie Occidentali, cerca di sopravvivere a una vita di solitudine e senza un briciolo di avventura. Un giorno, John fa però un incontro straordinario e del tutto inaspettato. Nella sua monotona esistenza, entrano così Sherlock Holmes, pirata della peggior specie, e la sua stramba ciurma.
Genere: Angst, Avventura, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes, Victor Trevor
Note: AU, Lemon, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Let's Pirate!'
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Epilogo
 



 
Barbados, 29 gennaio.
Anno del Signore 1656

 
 


Martha Hudson era il ritratto della perfetta dama inglese. Pensandoci, a John Watson ricordava vagamente la balia sua e di Harrieth; una buona donna che lo aveva allattato e cresciuto e i cui ricordi di tanto in tanto riaffioravano. Sempre elegante, sebbene il luogo fosse dei più impervi e da quelle parti difficilmente notassero il buon costume, Martha riusciva a mantenere una qual certa compostezza nei modi di fare. Decisamente britannica, fine, posata, ligia ai dettami del buon Dio e a quelli dell’amato sovrano d’Inghilterra, ma anche profondamente legata ai propri cari ricordi, aveva sposato Frank Hudson in un tiepido giorno di primavera, ormai svariati anni addietro. A un certo momento, però, insoddisfatto da un’esistenza che reputava noiosa e poco propizia, Frank aveva espresso la volontà di cambiare del tutto vita. Insieme erano quindi partiti alla volta delle Indie Occidentali, in cerca di fortuna. Erano capitati a Barbados non per caso, ma più che altro per volontà. Avevano sentito da alcuni naviganti che quell’isola, molto più di tante altre, era un centro in grande espansione e che non esisteva luogo più civilizzato in tutto il nuovo mondo. Il che era assolutamente vero, Indian Bridge era ormai una cittadina di una discreta grandezza e tanto da non aver nulla da invidiare a Bristol o Cambridge. * Con una chiesa, strade, un buon porto marittimo e tutto quanto il necessario per una decente sopravvivenza, la città era il ritratto perfetto di come un inglese fosse capace di qualsiasi cosa, persino di vivere in un’isola tanto selvaggia e la cui natura era odiosamente impervia. Lì, i coniugi Hudson avevano aperto un bordellaccio malfamato, spacciato per taverna, situato ai margini più a nord della città. Lontano dai rumori e dai fastidi del porto, l’Hudders (questo il suo nome) era fondamentalmente un locale di puttane e ubriaconi, pirati mascherati da marinai. Tenuto magnificamente bene per essere una locanda infima gestita da una donna ormai vedova, aveva una cucina ben fornita, un buona quantità di alcolici e anche diverse stanze da letto al piano superiore. E proprio una di quelle, John Watson aveva occupato negli ultimi mesi. Otto, per l’esattezza. Otto mesi e dieci giorni lontano dai pirati de la Norbury e da Sherlock Holmes, il bianco pirata. Otto mesi d’inferno durante i quali non aveva fatto che sognarlo e figurarselo d’innanzi agli occhi, rendendosi conto con sempre più concretezza che, man a mano che il tempo passava, meno dettagli di lui ricordava. Quali erano le fattezze del suo viso? E i suoi occhi? Erano davvero stupefacenti come gli pareva di figurarseli talvolta? Ma soprattutto, la sua vita a bordo de la Norbury era stata reale? Perché c’erano dei giorni in cui dubitava persino di questo. Incertezze di cui si pentiva nell’attimo immediatamente successivo, sentendosi tremendamente sciocco.

John non aveva mai davvero capito perché lo avessero trasportato fin lì invece che curarlo a bordo de la Norbury, ma sapeva che a insistere per portarlo a Barbados era stato proprio il pirata bianco. Su diversi aspetti della vicenda, Mrs Hudson era stata assurdamente prolissa, raccontandogli per filo e per segno molti dei fatti di cui era venuta a sapere. Tuttavia pareva averne omessi degli altri e probabilmente di proposito. Era stata assai superficiale pesino nel suo ostinarsi a non rispondere alle fin troppe domande che John aveva tentato di porgli. Ad esempio, che fine aveva fatto Moriarty? E Sebastian Moran aveva davvero avuto la peggio nello scontro con Lestrade, come gli era parso d’intuire? Ma soprattutto, avevano trovato il tesoro? A questo non aveva mai risposto se non con un enigmatico: “Tutto a suo tempo, caro” che di solito lo irritava da morire. Ciò che si era limitata a dirgli riguardava la caduta perché, in effetti, del volo ricordava assai poco. Sapeva di essersi lanciato a capofitto giù dalla scogliera, e che poi aveva cercato con tutte le proprie forze di tenere la testa fuori dall’acqua per non annegare. A un certo punto, però, aveva perduto i sensi e da quel momento in avanti la sua memoria era piuttosto labile. Stando a quello che gli era stato riferito, nell’oceano doveva esserci rimasto per un paio di giorni o forse di più, e quando lo avevano finalmente trovato era preda di febbre e deliri. Ad aggravare la sua già precaria situazione erano le ferite provocate dall’impatto violento con l’oceano, che in quel momento doveva esser stato duro come pietra, tanto da provocargli una ferita profonda a una gamba e lacerazioni superficiali in tutto il resto corpo. Secondo il parere di Mrs Hudson, Sherlock doveva aver spinto la Norbury al proprio massimo della potenza e tutto per poter arrivare a Barbados il prima possibile. Nel frattempo, John era stato sottoposto alle cure del buon Mike Stamford, il solo a bordo ad avere qualche conoscenza di medicina. Probabilmente l’uomo a cui doveva per davvero la vita e che lo aveva riacciuffato per i capelli, assieme a capitan Holmes il quale aveva stupidamente rischiato il collo e soltanto per trasportarlo (rigorosamente in braccio) dal porto alla locanda. Da quel giorno ormai lontano, era trascorsa un’infinità di tempo e John Watson non aveva mai più rivisto il proprio grande amore, né nessun altro dell’equipaggio. Riprendersi era stato difficile, doloroso e alquanto impegnativo. Certe mattine pareva complesso persino l’aprire gli occhi, ma per quanto lo sconforto lo attanagliasse ogni giorno un po’ di più, era riuscito a guarire. Diavolo, non avrebbe augurato nemmeno al proprio peggior nemico, di dover imparare di nuovo a utilizzare una gamba così malridotta! Per le prime settimane era rimasto a letto, naturalmente, curandosi con erbe e medicinali che lenivano i dolori, ma una volta passata la febbre, rimarginate le ferite e passato quel male che aveva in tutto il corpo, era stato più facile pensare di poterci riuscire. Se fosse tornato in salute magari Sherlock lo avrebbe preso di nuovo con sé. Sapeva che era una vana speranza e che probabilmente capitan Holmes neanche stava pensando più a lui, ma doveva aggrapparsi a un qualcosa perché altrimenti sarebbe impazzito. Pertanto aveva ripreso a mangiare. Un boccone alla volta e permettendo al vigore di tornare quello d’un tempo, dopodiché si era sforzato di camminare e di riabituare la gamba al movimento con passeggiate ed esercizi. Il suo fisico aveva recuperato sorprendentemente bene ed era proprio la speranza di poter tornare su la Norbury a spingerlo a impegnarsi.
«Tornerà» gli ripeteva sempre Mrs Hudson le volte in cui lo sorprendeva particolarmente sconfortato. «Un giorno lo vedrai entrare da quella porta e non ti sembrerà trascorso un singolo giorno dall’ultima volta» continuava, infondendogli quella speranza che a John sembrava ormai di aver perduto per sempre. Fondamentalmente, “Hudders”, come la chiamava affettuosamente, gli piaceva. Era la madre premurosa che non aveva mai avuto e teneva a lei ben più di quanto avesse mai tenuto alla propria sorella. Martha gli voleva bene in una maniera genuina e sincera e pareva apprezzare per davvero la sua compagnia. Piuttosto spesso si intrattenevano a parlare o anche semplicemente a spettegolare di questo o quel cliente, ma le conversazioni che John preferiva erano quelle che riguardavano Sherlock Holmes. Mrs Hudson gli parlava spesso di quando si erano conosciuti e di come, grazie a uno stratagemma, il pirata bianco fosse riuscito a far impiccare Frank, autore di un atroce delitto e di una combutta con Bartolomeu il portoghese; tutti reati che gli erano costati il collo. ** Ad ogni modo e dopo così tanto tempo, ora si trovava lì, ad aiutare a servire ai tavoli, a mantenere l’ordine all’interno della rumorosa taverna e spesso a dare una mano in cucina, le volte in cui c’era più lavoro. Si dava da fare come poteva per tenersi impegnato, ma la realtà era che aveva l’impressione di morire poco a poco. Viveva con un forzato sorriso impresso sul volto, camminava ancora con una leggera zoppia che lo rendeva appena un poco claudicante e sussultava ogni qual volta che sentiva la porta del locale aprirsi. No, John Watson non aveva per davvero perduto la speranza che un giorno tornassero a prenderlo e sentiva così prepotentemente il bisogno di abbracciarlo, che neanche si vergognava più di ammettere che ogni qual volta che passeggiava per le vie di Indian Bridge, sollevava la testa cercando di capire se Sherlock non si stesse nascondendo tra la folla. Persino le ragazze che intrattenevano i clienti avevano pena di lui, spesso ridevano e scherzavano prendendolo bonariamente in giro. Eppure e con l'andare avanti dei mesi, persino loro avevano imparato a capire quanto potente fosse il sentimento che provava, e fino a che punto potesse dirsi dolorosa la sola idea di star lontano da una persona amata.
«Dirò alle altre di tenere gli occhi aperti.» Così gli aveva detto Sarah, un giorno di qualche settimana prima mentre John la ringraziava con un ampio e dolce sorriso. «Se qualcuna lo vede, sarai il primo a saperlo.» Erano brave donne, in fin dei conti e nonostante il lavoro che facevano erano gentili. Per i primi giorni si erano addirittura occupate di lui, portandogli da bere o da mangiare. Nemmeno si erano sognate di giudicarlo per il suo amore così diverso e peccaminoso nei confronti di un altro uomo, semplicemente lo accettavano. Un po’, John sentiva di dovere la vita anche a loro. Sì, proprio a un gruppo di baldracche dannatamente amorevoli. Aveva imparato a voler bene a tutte quante, come fossero sorelle e al punto che aveva persino insegnato loro a leggere e scrivere, con la giustificazione che un giorno magari sarebbe potuto tornare utile. La sua era gentilezza fine a se stessa, messa in pratica per il puro piacere di fare del bene a qualcuno. Ma d’altronde, tutte quante avevano fatto altrettanto. A iniziare da Sarah, che gli aveva terso la fronte dal sudore durante la febbre, Janine che lo aveva lavato o Janice che cantava per lui canzoni d’amore. Ciò che mai avrebbe creduto era che tanta gentilezza sarebbe stata ripagata.

Il fatto accadde una sera non molto diversa da tante altre. La taverna era così piena di gente, che il fracasso di risate e urla dei soliti avventori lo si poteva addirittura ritenere fastidioso. Sulla sinistra, accanto all’entrata, un gruppo di marinai sbarcato da un mercantile quel pomeriggio, si divertiva a bere e a giocare a carte. In un angolo, invece e vagamente in disparte rispetto agli altri, quel tale scozzese che vedeva spesso di recente, intonava la ballata del giovane Geordie e delle di lui disavventure. Mrs Hudson, tutta indaffarata, portava piatti fumanti e boccali di rum e whisky, e pareva così presa da non accorgersi di nulla se non dei propri passi messi frettolosamente uno avanti all’altro. E sì, fu proprio allora che successe. In maniera inaspettata ed esattamente nell’attimo in cui John si ritrovò a pensare che, tutto sommato, gli piaceva vivere lì. Nonostante la sera fosse già avanzata e ci fosse molto lavoro da sbrigare, se ne stava al piano di sopra, distrattamente appoggiato alla ringhiera. Con malavoglia e un velo di noia addosso, guardava giù di sotto. Al solito, perennemente in cerca di un volto di sua conoscenza spuntare miracolosamente tra la folla. Non avvenne, come sempre. In compenso un sorriso leggero gli nacque in viso, nell’esatto istante in cui fece caso alla maniera in cui Sarah aveva appena trattato un ubriacone. Perché era anche una puttana ma aveva una propria dignità; così aveva urlato mentre schiaffeggiava sonoramente il manigoldo, prima di roteare su stessa e andarsene oltraggiata. Già, fu allora che accadde, mentre rideva. Un refolo d’aria più fresca gli stuzzicò la pelle del viso, come in una carezza. Attirato da quella che reputava una stranezza, perché il caldo lì dentro era sempre molto intenso, si sollevò e portò lo sguardo più in là. Ed allora lo vide. Fermo sulla porta, giusto un poco dentro ma ancora indeciso sull’entrare o meno, Victor Trevor se ne stava immobile. Respirava sonoramente, con affanno e quasi fosse reduce da una lunga corsa. John non aveva avuto esitazioni di sorta, lo aveva riconosciuto subito e nonostante il saio che si era gettato addosso e che portava calato sopra la testa, aveva capito che era lui. Victor si guardava attorno con un miscuglio di speranza e aspettativa in viso; lo cercava pensò mentre i battiti del suo cuore acceleravano pericolosamente. Sbigottito e incredulo, rimase per un qualche istante a fissarlo e quasi stentasse a pensarlo come reale, con lo sguardo fermo e la bocca aperta in un sincero stupore, che già stava mutando in gioia. Dopo, a un certo momento, i loro occhi si incontrarono. Nella folla caotica di quella locanda, John Watson ebbe la piacevole sensazione che il suo cuore si stesse fermando del tutto e che la testa si fosse fatta più leggera. L’ultima cosa che vide fu il sorriso di Victor, il quale esplose in una fragorosa risata di felicità. Preso dall’impeto non badò ad altro e gli corse incontro. Senza pensare a nulla di concreto, si precipitò giù per le scale. Era come se ne dipendesse la sua stessa vita, quasi non avesse fatto altro che rimuginare e fantasticare su quel momento per tutto l’arco di mesi della sua forzata immobilità. Come se il dolore alla gamba non contasse più niente e tutta la sofferenza provata e gli sforzi per guarire e tornare in salute, avessero avuto lo scopo ben preciso di condurlo sin lì. Si trattava di una sciocchezza dannatamente sentimentale e tanto che Sherlock avrebbe disapprovato, di questo ne era certo, eppure non poteva fare a meno di dare un senso a tutto quello che aveva passato. Quando finalmente lo ebbe raggiunto, senza esitare o preoccuparsi di sguardi attoniti e occhiatacce curiose da parte degli avventori, John Watson lo strinse a sé. Abbracciò un tale vestito da monaco con la passione con cui avrebbe dovuto far proprie le grazie di una donna. Il loro trovarsi fu violento e quasi rabbioso. Di certo non gentile. Appena un poco doloroso (spiacevole per il cuore che gli faceva male, e ancora batteva all’impazzata), nel suo tirarlo a sé e poi stringerlo in un affetto sconfinato e che non concedeva tregua alcuna. Quando finalmente si allontanarono e subito dopo che John lo ebbe trascinato al di fuori, al riparo da tutti in quella che ormai era la buia notte di Barbados, si lasciarono entrambi cadere contro alle mura della locanda. Risero tutti e due, spezzando quel silenzio assordante di chi è troppo felice persino per parlare. Naturalmente fu Victor il primo a rompere gli indugi, tra tutti forse era il più sinceramente voglioso di metter parole e frasi tra loro.

«Ho pregato» esordì, accarezzandogli la guancia arrossata con la punta del pollice e prima di baciarlo appena sulle labbra, in un saluto lieve. Ne aveva patito troppo l'assenza, pensò John. Diavolo se ne aveva sentito la nostalgia, al punto che pesava tanto quanto l'assenza di Sherlock. Gli era mancata la sconsideratezza, ma anche i giochi, le battute da libertino impunito e persino quel loro discuter amabilmente di sconcezze come se niente fosse. Tutto di padre Trevor gli era mancato, anche l’ambiguità di quello sguardo che pareva triste e allegro al medesimo tempo. Persino la dolcezza di quei baci fraterni e colmi di un affetto, tanto grande da far male al cuore.
«Ho pregato ogni giorno» ripeté mentre John si lasciava andare a una ghigno silenzioso, ma divertito. Oh, cielo! Esclamò, tra sé. Da quanto tempo non rideva a quel modo? Otto mesi e dieci giorni. Gli ribadì, petulante, una voce nella testa mentre l’amarezza tornava in superficie, scacciata però via da un sorriso da perfetto idiota che non riusciva davvero a fare meno far sbocciare in viso.
«Tu?» scherzò «tu avresti pregato? Un prete? Un prete che prega? Tzé, non ci son più i santi monaci di un volta!» Di nuovo risate. Le loro. Le stesse di una volta, su la Norbury. Le medesime che anche allora e proprio come accadeva durante quelle occasioni in cui era in compagnia di Victor Trevor, scemavano in un silenzio leggero e delicatamente impalpabile. Poi, di nuovo, mille domande presero a vorticargli in testa e il bruciante desiderio di capire si fece largo, spazzando via tutto.
«Come…» si azzardò, ma subito venne fermato.
«Stanno tutti bene» lo interruppe «Moriarty è morto, Moran fu arrembato mesi fa. Ti racconteremo, ma non ti devi preoccupare. Ogni cosa è a posto adesso ed è questo l’importante.»
«Sei qui per portarmi via?» si azzardò a chiedere John, con, nell’animo, l’impeto e la foga di chi stava fremendo. Di chi non voleva altro se non fuggire via e andare lontano, oltre i confini del mare. Al di là dell’oceano e anche più in là, ad arrembare navi e a trovar tesori e isole deserte. «Ti prego, Vic, dimmi che sei qui per questo. Io voglio bene a Mrs Hudson e a tutte le ragazze qui, ma non riesco più a vivere. Un altro giorno e impazzirò.»
«Mi dispiace» mormorò Victor, stringendolo in un abbraccio questa volta più dolce «mi dispiace se ti abbiamo fatto aspettare così tanto, ma Mrs Hudson è stata categorica. Faceva rapporto a Rathbone tutti i mesi e ogni volta che ci arrivava un “no” come risposta, un po’ di tutti noi moriva. Ti aspettano tutti, a bordo. Hanno preparato una gran festa per il tuo ritorno.»
«Aspetta… Rathbone?» ripeté John, confuso allontanandosi quel tanto da poterlo guardare negli occhi. Si ricordava di Rathbone, ovviamente dato era uno dei pirati a servizio di capitan Holmes. Era nella scialuppa carica dei quindici uomini giunti sull’isola del tesoro; per tutto quel tempo era rimasto lì? E mai se n’era accorto? Come diavolo aveva fatto a non capirlo e a non rendersi conto di nulla?
«Proprio lui» annuì Victor «Sherlock lo ha lasciato a Barbados per tenerti d’occhio e per fare da ponte da te a noi della nave. Siamo sempre stati informati sul tuo stato di salute e se ora non fossimo più che certi che puoi venire con noi, non saremmo qui questa notte.»
«Saremmo?» ripeté, nuovamente confuso e lasciando a intendere di non aver affatto capito. Forse era che non voleva veramente crederci. Eppure perché il suo cuore adesso galoppava a quel modo? Non poteva pensare che quell’incubo avesse finalmente una fine, anche se ci aveva sperato ogni giorno. Tuttavia, altre ombre si affacciarono dentro di lui. Se erano lì per recuperarlo, dov’era Sherlock? Perché non era lì? E cosa intendeva parlando al plurale? Chi altri c’era con Victor e per quale motivo non si era ancora fatto vedere?
«Credi forse che sia venuto solo?» mormorò padre Trevor, stirando un sorriso sornione e furbo, prima di allontanarsi indietro di qualche passo e iniziare a guardarsi attorno. Che cosa diavolo andasse cercando, lo capì solamente più tardi.

«Ehi, hai intenzione di nasconderti ancora per molto?» urlò apparentemente in direzione del nulla più assoluto «no, perché qui c’è qualcuno che ha dannatamente voglia di parlare con te.» Dopo di quello, il silenzio cadde in quel minuscolo e buio vicolo, lì nel nord di Indian Bridge, fiorente centro a sud di Barbados. Poi, un fruscio e un tonfo lieve spezzarono la quiete. Victor non ebbe bisogno affatto di spiegare a chi si fosse rivolto e dal canto proprio, a John non servì chiederlo. Seppe solo che il suo cuore mancò un battito, lo stomaco si strinse come preda di una morsa e poi il fiato divenne corto. Infine, nella penombra, lo vide. Sherlock Holmes, avvolto nel nero della notte, camminava in sua direzione con passo posato e in apparenza tranquillo. Dio, se gli era mancato! Pensò. Tanto da morirne. Tanto da non rendersi neanche conto se tutto quello fosse un sogno o meno. Capì che era reale solo dopo che questi gli parlò. Di lui, aveva dimenticato persino la voce. Come aveva potuto scordarlo? Quel tono baritonale e profondo che tante volte lo aveva fatto ammattire e che arrivò al pari di un balsamo, a lenire i suoi nervi tesi.
«Salve, John» mormorò il pirata bianco, a mezza bocca. In un sussurro che celava timidezza dietro un’apparente indifferenza. No, John Watson avrebbe dovuto esser più posato. Lui di stirpe inglese da generazioni, nato e cresciuto nei favori di Londra e nel fervore della cricca medica più in vista di tutto il Regno Unito, avrebbe dovuto mostrar più sensatezza. Eppure non lo fece, e non pensò neanche per un momento a rimaner fermo dove stava. La corsa fu impetuosa, la stretta sulle sue braccia prepotente. Il bacio fu da togliere il fiato.
«Una promessa» gli chiese Sherlock, parlandogli sulle labbra pochi attimi più tardi «che non farai mai più una cosa simile, John. Ho bisogno di saperlo.»
«Mai. Non lo prometterò mai» negò, con vigore e ben deciso a farsi valere «a meno che tu non mi giuri la stessa cosa.» Quindi un altro bacio, ora più approfondito e passionale. E la consapevolezza di non poter più fare a meno uno dell'altro. Poi la risata, quella di un Victor mai tanto sincero e che adesso scuoteva la testa, perché erano due idioti e questo era quanto. No, nessuno di loro suggellò mai quel giuramento. Perché la verità era che, per quanto faticoso fosse stato il riprendersi e per quanto dolorosa la separazione, John Watson non una singola volta si era pentito di essersi lanciato giù dalla scogliera. Perché lo amava, e davvero non c’era altro da aggiungere.
 

 

oOoOo
 


La sera successiva già stavano viaggiando verso sud, a bordo di quel galeone spagnolo rubato chissà quando e preso nessuno sapeva bene dove, e che portava il nome della mai dimenticata Vivian Norbury. Viaggiavano col vento in poppa a far gonfiar il velaccio mentre Fortebraccio teneva il timone e gli strascichi di una festa li si percepiva ancora dal vociare leggero di risate in lontananza. Viaggiavano con le raccomandazioni di Mrs Hudson ancora a vorticar loro nella mente e le lacrime di Sarah impresse nel cuore di John. Viaggiavano mentre Donovan, dall’altro capo della nave, narrava a Victor storie di sirene e capitani incantati e Lestrade lo istigava a creder che fosse tutto quanto vero. Viaggiavano verso isole inesplorate, lidi ancora tutti da scoprire, verso mappe del tesoro che Mastro Stamford avrebbe analizzato e sulle quali il piccolo Archie avrebbe fantasticato. Viaggiavano con, nelle narici, l’odore del cibo di Angelo e gli ululati di Redbeard nelle notti di luna. Viaggiavano verso altri tesori che riempissero la stiva, così come “l’oro di John Watson” aveva fatto. Viaggiavano seduti a prua, distesi come potevano, uno tra le braccia dell’altro. In quell’angolo ristretto di nave tutto per loro e nel quale baciarsi era così dannatamente meraviglioso. Avevano appena finito di fare l’amore e John non aveva che voglia di ridere e sì, persino di cantare. Dopo tutti quei festeggiamenti e i cori in suo onore, dopo che era stato letteralmente ricoperto di gioielli, ancora non si sentiva stanco.
«A cosa pensi?» gli domandò Sherlock a un certo momento, rompendo il silenzio e trovando in sé il coraggio necessario per parlare mentre con le dita giocherellava con una tiara d’argento e rubini. Doveva essere difficile per lui abituarsi ad avere qualcuno accanto, pensò in un lampo di lucidità che subito scacciò via. Non era questo il tempo per riflettere su argomenti del genere. Ora era la volta di baciarsi e di raccontarsi favole di stupefacente bellezza.
«Penso che sono felice» replicò prima di far sue quelle labbra, ancora una volta. L'ennesima. A quel punto una sferzata di vento salmastro arrivò loro in viso, stuzzicandogli fastidiosamente gli occhi. Si separarono e risero, e quindi tornarono a baciarsi. Incuranti persino dell'aria da respirare. Mai stanchi e con, nel cuore, il desiderio di non far altro per il resto delle loro vite. Sì, Sherlock Holmes e John Watson su quella prua ci rimasero per tutta la notte. In attesa, un giorno non lontano, di trovare una nuova isola del tesoro.
 



Fine
 



*Indian Bridge, è l’odierna Bridgetown ovvero la capitale di Barbados. Venne chiamata “ponte indiano” dai primi coloni per via di un ponte costruito, appunto, dagli indiani.
**Bartolomeu il portoghese, è una figura enigmatica della pirateria. È realmente esistito. Ma le sue date di nascita e morte sono incerte. Si sa che fu attivo dal Messico alla Giamaica negli anni ’60 del 1600.

La canzone che cantano alla locanda è “Geordie”. Famosa in Italia perché De André ne ha fatto una propria versione. E forse anche Gigi d'Agostino? In realtà è un canto anglo-scozzese piuttosto antico e che ha diverse versioni.  

Ringrazio con tutto il cuore le persone che hanno sostenuto questa storia fin dall’inizio, pubblicato ormai sei mesi fa. Non mi aspettavo un riscontro simile. Permettetemi di ringraziare in maniera particolare tutti coloro che hanno recensito ogni capitolo, perché il vostro sostegno è stato davvero importante. So che in molti hanno delle domande, e arriveranno. Perché ci sono cose che non ho spiegato e che verranno approfondite nella storia dedicata a Victor.
Grazie a tutti.
Koa
   
 
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