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Autore: frenz    18/07/2017    1 recensioni
TERZO E ULTIMO CAPITOLO 01/08/17
Alba e Niger sono come il giorno e la notte. Eppure sono stati insieme, per tanto tempo.
A volte non è facile far coincidere tutto quello che è diverso da noi e può capitare che non funzioni.
Ma chissà che questo non sia il loro caso...
Genere: Drammatico, Romantico, Song-fic | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Fade Into Darkness
capitolo uno
 

Sto seduto sul tavolo come amava fare lei quando eravamo solo noi due in quella stanza, a penzolare le mie gambe nel vuoto e toccando con i miei piedi nudi il pavimento ghiacciato. Quest’estate in particolare il caldo è letale: non mi permette quasi di respirare ma gli impegni giornalieri son pronti ad attendermi al varco della porta. Nonostante la scorsa notte non abbia chiuso occhio e sia rimasto in quella posizione fino al sorgere del sole, non posso definirmi fisicamente stanco. La mia stanchezza deriva dall’arresa, dall’inettitudine di non poter recuperare quello che ore fa ho perso per sempre. È ora di staccarsi da quella superficie di legno, affrontare il gelo del suolo e camminare verso una nuova meta, ma il mio sedere è diventato un tutt’uno con quel tavolo, come l’opera d’arte di qualche scultore che vuole rappresentare l’uomo afflitto dai problemi. Con fatica e un po’ di coraggio riesco a farcela prima che il sole illumini il mio volto solcato da profondo colore viola intorno ai miei occhi. Mi dirigo nella stanza dove si trova il letto matrimoniale, ancora sfatto dalla notte prima di quella appena trascorsa. C’è un Bacio Perugina sul comodino, e senza pensarci, come ogni volta che ne vedo uno, lo scarto e lo mangio. Prendo il foglietto delle citazioni: adoro ridere riguardo alle stupidaggini o alle ovvietà scritte in quei biglietti trasparenti. Stavolta c’è scritto:  “Una fotografia è un segreto che parla di un segreto. Più essa racconta, meno è possibile conoscere” ed era una citazione di Diane Arbus.
 
«Una fotografia è un segreto che parla di un segreto. Più essa racconta, meno è possibile conoscere» disse una ragazza osservando il ragazzo con la Canon al collo.
«E questa chi te l’ha detta?»
«Non mi reputi abbastanza intelligente da poter creare una frase del genere? Guarda che quello che dicono delle bionde non è affatto vero!»
«E cosa si dice esattamente delle bionde?»
«Che sono stupide»
«A me l’unica cosa che sembra stupida qui è che sto parlando con una sconosciuta. Piacere, mi chiamo Niger»
«Che nome particolare! Piacere, io sono Alba»
«Disse la ragazza dal nome più comune di questo mondo»
Scoppiarono a ridere entrambi a crepapelle in quella tavola calda di periferia, seduti uno di fronte all’altro.


 Ho voglia di mangiare anche quel foglietto di carta: se fosse stato letale sarebbe già stato nel mio intestino. Lo accartoccio e lo getto fuori dalla stanza, facendolo rimbalzare vicino all’uscio della porta. Apro l’armadio per trovare giacca e cravatta, nonostante il caldo mi stesse uccidendo e quel cappio così tessuto elegantemente mi avrebbe soffocato lentamente. La camicia di lino bianca è ancora sull’asse da stiro, pronta per essere stirata per evitare le pieghe dell’ultimo minuto. Mancano solo le scarpe. Mi abbasso per prenderle sotto al letto e ne trovo un paio, che non sono mie: a punta, con piccoli fori vicino alle cuciture per dare un tocco di eleganza e dei sottili lacci da merceria. A meno che non esista una linea di calzature maschili che porta il nome di Primadonna collection, credo che quelle siano proprio delle scarpe femminili. E in realtà non lo sembrano: sono della mia misura, un 40. Ho sempre avuto il numero di scarpe piccolo, probabilmente dovuto alla mia bassezza, ma non ho mai avuto reali problemi.
C’erano certe regole: in casa, per esempio, non si parlava di malati, malattie o medicine ma nessuno aveva mai detto di indossare o no le scarpe dell’uno o dell’altra. Li provo per non perdere tempo: non credo che la gente si sarebbe messa a guardarmi le scarpe mentre attraverso da un capo all’altro la città, e se anche si fosse accorta di qualcosa di strano non si sarebbe resa conto che portavo le scarpe di una donna, ed esattamente della mia ex. Guardo l’orologio: segna le 8, e già a quest’ora dovevo essere fuori a consegnare quei fogli di carta che racchiudono il riassunto della mia vita da poter dare a qualche sconosciuto che mi avrebbe valutato solo per quattro righe messe nero su bianco in un foglio di carta riciclata dal colore ingiallito. Prendo la camicia stropicciata così com’era e me la metto addosso, afferro giacca e valigetta ed esco fuori casa.

Sooner or later
I’m gonna tell her
That I regret everything I have done

Con me ho portato il cellulare, ma le chiavi erano rimaste dentro casa. Per fortuna non erano le uniche copie esistenti al mondo, tanto la padrona dei mocassini che indosso mi avrebbe aspettato fin quando non le avessi restituito uno dei suoi beni più preziosi. Toh guarda, mi stava chiamando…
«Ci sei?»
«No, sono al bar!» le rispondo. Rispondevo sempre al telefono in maniera simpatica, nonostante questa non fosse l’occasione adatta per fare una delle mie solite battute. A volte risultavano tristi e la gente riusciva a smascherarmi perché non ho mai saputo mentire.
«Mister simpaticone, hai visto i miei mocassini?»
«Non ne sono sicuro» le dico guardandomi i piedi. Devo dire che mi stanno proprio bene.
«Devi esserne certo. Spero siano lì, sai quanto siano importanti per me: oggi ho un nuovo colloquio.»
«Facciamo così: io ti do i mocassini e tu mi apri la porta»
«Sei rimasto di nuovo fuori?»
Non dico una parola, mi avrebbe detto che sarei stato uno stupido.
«Ho capito, sei il solito stupido» mi disse, e mi staccò il telefono in faccia.

So I have to show her
That this here ain’t over
And I do want more than just having fun
   
 
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