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Autore: nuvolenere_dna    18/07/2017    14 recensioni
[Ambientata dopo la saga di Majin Bu | 3892 parole]
L’oltremare nei suoi occhi diviene ancora più cupo, simile all’oscurità brulicante degli abissi marini, dove nuotano nella solitudine dello spazio infinito creature che non hanno mai conosciuto la luce del sole.
« Noi siamo al sicuro, Vegeta. »
« Nessuno è mai al sicuro. »
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bra, Bulma, Trunks, Vegeta | Coppie: Bulma/Vegeta
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ciao a tutti, amici! :)
Non so cosa mi sia preso, probabilmente l’emozione derivante da una gita al mare - troppo intensa per una topolina di città come me! *ride* -  ma ho deciso di sfornare una seconda one-shot romantica ad ambientazione marina, come quella che pubblicai anni fa dal titolo “Le Onde”.
Non se qualcuno di voi la ricorda, sono passati ormai cinque anni, ma ne approfitto ancora per ringraziare chi ha recensito, chi l’ha inserita nelle preferite/ricordate e anche l’amministrazione per averla inserita nelle Scelte. Questa nuova one-shot potrebbe essere vista come un sequel di Le Onde, ci sono alcuni rimandi ad essa e riguarda in generale lo stesso tema, cioè l’accettazione di Vegeta della vita familiare, della paternità e del ruolo di marito; ma comunque è una storia a sé stante ed è leggibile indipendentemente da essa.
Spero che vi piaccia! Un abbraccio,
Nuvole
 
PS: La colonna sonora di questa one-shot è la canzone “Hymn For The Weekend” dei Coldplay, che potete ascoltare qui.
 
Dedicata a Zappa, perché non smettiamo di sperare
 
Oltremare
 
« Tu sai come illuminare il mio mondo
quando ero giù, quando ero ferito
sei arrivata per confortarmi
la vita è un drink e l’amore è una droga
oh adesso penso di essere davvero fuori di testa
quando ero un fiume in secca
sei arrivata come un’alluvione 
e hai detto ‘bevi da me’ »
 
Le ossidiane incastonate nelle iridi di Vegeta contemplano il blu scuro del mare, incupito dall’assenza del sole, divorato dalle nubi fameliche. La brezza fresca sferza implacabile sulle sue membra dure, frustandole, gonfiando la sua canottiera e facendola tremare. Il piccolo corpo di sua figlia Bra è appoggiato su una sedia da spiaggia, avvolto in un asciugamano, da cui sbucano soltanto i piedini sporchi di sabbia umida.
La bambina urla, il volto in una maschera rossa, rigata dalle lacrime che colano instancabili dai suoi occhi azzurri come il cielo terso, dimenando braccia e gambe con forza, eredità del sangue Saiyan ribollente nelle sue vene ancora acerbe. Vegeta fissa imperturbabile le sue pupille disperate, i lineamenti del suo viso contorcersi, deformati da un pianto acuto, interminabile, che supera in intensità il fragore delle onde che sciabordano mute nei suoi timpani.
«Che hai da piangere?» la rimprovera, nervoso, digrignando appena i denti. Bulma si è allontanata da qualche minuto per andare al bar insieme a Trunks, subito dopo averla allattata e cambiata.
 
Ti faccio paura?
 
La bambina non risponde, trascinata al silenzio dallo stupore per il suo tono adirato, per poi ricominciare a gridare un attimo dopo, tendendogli furiosa le mani.  
Si stupisce per quel pensiero, mentre un’ombra liquida perfora repentina i suoi occhi.
 
« E se ne nascono degli altri, noi Saiyan potremmo diventare gli unici padroni dell'universo. Nessuno riuscirebbe più a contrastare la nostra ascesa. »
« Ah, non dire sciocchezze. Una volta diventati adulti e super potenti, che cosa ne sarebbe di noi? Saremmo più deboli e ci eliminerebbero subito. »
 
Scuote la testa, come turbato dalla nausea, ustionato dalla vergogna che gli provoca rivivere quelle parole e ciò a cui lo hanno quasi condotto. Ricorda ancora il battito frenetico del suo cuore nell’attraversare, furtivo come un’ombra, i corridoi della Capsule Corporation.  
La porta della sua vecchia stanza da letto, abbandonata mesi prima alla sua partenza dello spazio.
La porta della stanza da letto di Bulma, socchiusa, da cui sfuggiva un timido arco di luce.
A pochi metri dalla sua, un’altra porta aperta, spalancata, dalla cui finestra semiaperta si insinuava il canto cadenzato delle cicale. Aveva rallentato, stringendo i pugni così forte da imprimersi il segno delle unghie nei palmi. Era stato un errore, un errore deplorevole, quello di permettere al suo seme nobile di schizzare fra le gambe di quella terrestre, di ingravidarla, di contaminare la sua razza con un mezzosangue che avrebbe potuto anche spodestarlo, un giorno.
Quelli erano stati i suoi pensieri, mentre colmava la breve distanza che lo separava dal lettino.
Non lo aveva mai visto.
Non sapeva nemmeno il suo nome.
E infine, con le interiora che si contraevano in uno spasmo, aveva guardato quel bambino, addormentato, avvolto da una tutina in ciniglia azzurra, decorata da un motivo di astronavi in velluto.
I piccoli pugni erano contratti vicino al volto, la coda fulva si muoveva piano, scossa leggermente nel sonno.  
L’eco di quella frase graffiava ancora dentro di lui, insieme alla superbia che aveva divampato acida nella sua voce mentre liquidava Nappa in pochi secondi, eppure non aveva potuto che giacere impotente di fronte a quel neonato, del quale osservava ipnotizzato le fattezze.
La sua forza spirituale era abnorme per essere un lattante.
Avrebbe dovuto ucciderlo subito... immediatamente, prima che diventasse una minaccia concreta al suo potere.
La sua mano omicida si era allungata decisa verso di lui, un serpente infido nel circondare il suo collo debole, le dita che affondavano nella pelle morbida e delicata, intrisa di un profumo dolce che gli aveva risalito le narici.
Eppure... non ne era stato in grado.
I suoi occhi azzurri avevano gridato molto più forte della sua gola, fauci spalancate verso un abisso divorante che lo aveva trapassato, dilaniato, fatto a pezzi, sobillando la presa dei suoi nervi, sempre più incerti. Trunks piangeva e si dimenava, terrorizzato dall’ombra nera che lo sovrastava, il viso lacerato da un pianto di angoscia che si amplificava in un’eco dentro di lui.
Vegeta non si era mosso, paralizzato, ipnotizzato dalla forma allungata dei suoi occhi, dal calore rovente del suo corpo, il cui tocco era stato corrosivo.
 « Vegeta? » la sua voce cristallina aveva frantumato la notte. Bulma lo aveva guardato insonnolita, avvolta in una camicia da notte con un motivo floreale.
« Si vede che è tuo figlio, ha i capelli di un colore ridicolo. » aveva risposto al suo volto incredulo, quasi allucinato di fronte a quello che credeva essere un miraggio notturno. Tuttavia aveva abbassato lo sguardo, ritraendo bruscamente la mano e facendo un passo indietro.
Non si era accorto che in quel momento era già stato corrotto, che una minuscola, periferica, insignificante radice del suo albero aveva iniziato a nutrirsi di nuova linfa.
Non le disse mai che quella notte si era presentato per assassinare il loro figlio.
Ma perché, perché non ci era riuscito?
Se lo era domandato a lungo, tormentandosi, nel corso del viaggio interstellare che aveva affrontato in completa solitudine nei sei mesi successivi, senza trovare mai alcuna risposta.
Lo sguardo di Vegeta percorre il viso della piccola Bra, ritrovando i lapislazzuli di quella notte, immaginando per un attimo di essere di nuovo su uno di quei pianeti sperduti, soffocato dalle grida del dolore che si infliggeva, prostrando il proprio corpo fino al limite del suicidio, affamato e ferito, le orecchie piene del proprio battito cardiaco, dominato dalle nubi che tuonavano, gonfie di morte.
Illuminato dalla luce di un satellite aveva guardato la propria ombra, l’ombra di un Saiyan, mentre vomitava sangue, assillato da quella sagoma sempre più incerta nella sua memoria.
Le grida di sua figlia occultano il fragore del mare, sempre più disperate. Sembrano chiamarlo, attrarlo alla riva come la terra attrae l’oceano, riuscendo a trattenere la sua frivolezza per pochi secondi per poi lasciarlo nuovamente sfracellarsi e fondersi in se stesso, per poi riprovare ancora e ancora, in un cerchio infinito.
Quella domanda era rimasta un forziere senza chiave fino al giorno in cui Mirai Trunks era morto, assassinato di fronte al suo sguardo indifferente. La chiave, incrostata di sangue, a quel punto aveva squarciato in lui un gioco di specchi, il cui risultato erano immagini proibite, da sempre ripudiate negli ossari della sua anima.
 
Forse... hai bisogno di me?
 
Le braccia di Vegeta si allungano timidamente, avvolgendosi con delicatezza intorno al corpo della piccola. La stringe poi al petto con determinazione, chiudendo il palmo della mano sulla sua testa, soffice e calda, adornata da capelli fini e morbidi.
È il primo bambino che stringe, di cui percepisce la fragilità, carne morbida e dipendente che brama vicinanza da tutti i pori, che lo fissa come se lui fosse tutto l’universo, come se il resto del mondo fosse soltanto colore e rumore privo di importanza, uno sfondo piatto su cui si stagliano le figure.
Il pianto di Bra si esaurisce, disciolto nel suo respiro quieto, le lacrime come gemme congelate fra le sue palpebre.
«Un, due, tre, un Saiyan è dietro di te.» gli sfugge dalle labbra, la gola bruscamente impiccata da un bolo di emozioni che lottano per salire in superficie. La voce di sua madre è uno spettro incerto, flebile, intermittente come i lineamenti del suo viso insolente, annacquato nel torbido della sua memoria.
Un sussulto scuote il suo corpo coriaceo, la forza vitale di Bulma arde a pochi metri di distanza.
Non sembra passato molto tempo dal giorno in cui si era nascosta su quella stessa spiaggia, in fuga dalla prospettiva di comunicare a Vegeta una seconda gravidanza, riempita fino all’orlo dalla paura irrazionale di essere abbandonata nuovamente. Lo stesso giorno in cui lui la aveva abbracciata, baciata, cullata, affondando nei suoi capelli chiari il volto, suggellando la presenza di un amore che ormai non aveva più bisogno di essere ipotizzato.
Gli occhi della donna, socchiusi dal vento, lo osservano ricolmi di tenerezza.
Ora le sue braccia possenti stringono lei, la loro bambina.
Una morsa le arpiona lo stomaco, inumidendole le ciglia, talmente delicata da sembrare quasi una carezza. Si trattiene dal correre e si avvicina con lentezza, sfiorando piano le punte dei piedi sulla sabbia tiepida, credendosi celata dallo sferzare del vento e dal fragore delle onde.
« Cosa canti? » gli domanda, divertita, sedendosi dietro di lui e divaricando le proprie gambe intorno ai suoi fianchi.
Ora è lei a circondarlo, a riempire il proprio campo visivo di lui, solo di lui, come se non esistesse al mondo nient’altro. Lo abbraccia piano, cingendo anche il corpo caldo della figlia, le dita che si intrecciano sinuose a quelle del marito.
« Una filastrocca che piaceva a mia madre. » mormora, serio, lo sguardo che oscilla nel mare scuro increspato dai flutti. In lontananza, dove l’orizzonte si disperde nell’ocra scuro di un tramonto violentato dalle nubi, si distingue una balena sorgere, leggiadra nell’innalzarsi verso il cielo per poi sprofondare nuovamente nel boato dell’acqua enigmatica, schiuma bianca che rifugge trasportata dalle onde impaurite.
« Ah ah! Non avrei mai detto che i Saiyan fossero tipi da filastrocche... »
Il sorriso di Bulma si apre divertito sul cotone chiaro della sua canottiera, il cuore che accelera all’improvviso, famelico di quel particolare della sua vita, uno dei pochi che lui le abbia mai rivelato.
« Non è il genere di filastrocca sulle stagioni o sugli orsetti che cantate voi terrestri. » ribatte lui, punto sul vivo, una vena sarcastica a tingergli la voce.
« Me la cantava sul campo di battaglia. »
 
Erano caduti nell’imboscata di Kenaz, un pianeta alleato che aveva deciso di manifestare il proprio tradimento nel corso di un’occasione diplomatica che coinvolgeva la famiglia reale e un cospicuo numero di soldati di seconda classe al servizio della corona.
Vegeta era stato colpito alle spalle, stordito dalla confusione della battaglia a cui non era ancora abituato. Non aveva ancora compiuto quattro rivoluzioni quando il suo corpo era stato profanato per la prima volta da mani nemiche. Aveva sentito la gamba squarciarsi, la carne viva che gridava, l’osso bagnato dall’ossigeno raro di un’aria sempre più tetra, impenetrabile.
Ma non vi era stata alcuna compassione per lui, al contrario il volto di sua madre si era scomposto in una smorfia sprezzante, i denti scoperti in un ghigno, le braccia piegate lungo i fianchi, mentre si chinava sul suo primogenito riverso a terra in una pozza di sangue, il piccolo viso straziato da un’espressione allucinata.
 
Un, due, tre, il Principe dei Saiyan è dietro di te.
Quattro, cinque, sei, del tuo sangue mi bagnerei.
Sei, sette, otto, del tuo dolore me ne fotto.
Nove, dieci...valete meno dei parameci.
 
Gliela aveva cantata, più volte, invitandolo a ripeterla con lei mentre con un filo d’acciaio penetrava i lembi della sua ferita e li cuciva con gesti rudi, soffocando le sue urla e le sue lacrime con la sola potenza dello sguardo, in cui vibrava un orgoglio cocente, talmente intenso da ipnotizzarlo.
Pochi minuti dopo, il latte di sua madre si era mischiato sul suo volto con il sangue schizzato dai corpi dilaniati delle vittime che la donna aveva appena massacrato.
«Ricordati che sei mio figlio.» gli aveva intimato, dura, incenerendolo con lo sguardo per poi voltarsi e ricominciare a sterminare la popolazione locale con un gesto disinvolto della mano.
Per i Saiyan, nobili o sudditi, di prima o di terza classe, adulti o bambini, esisteva soltanto il campo di battaglia. E sul campo di battaglia non vi era spazio che per il sangue e la morte.  
 
« Ti manca?» sussurra Bulma, in un soffio, le parole che trapelano appena dalle sue labbra, come se non osasse davvero pronunciarle per paura di invadere uno spazio che era sempre stato solo suo.
« Quella donna mi avrebbe strangolato con le sue stesse mani piuttosto che consegnarmi a Freezer. A mia madre della corona, del popolo e del pianeta intero non importava nulla. »
Un sorriso amaro si staglia sul volto malinconico di Vegeta, rapito dalla figura selvaggia e bestiale della regina dei Saiyan, ormai un ectoplasma sbiadito di cui ricorda a malapena le fattezze.
« Se avessi potuto scegliere, avresti preferito la morte? »
Si morde le labbra, accarezzando i capelli fini di Bra, scompigliati dalla brezza. Per un attimo immagina Vegeta al posto di sua figlia, gli occhi ancora innocenti, torturato da un gelo che gli impregna le ossa fino a spezzarle.
Vegeta non risponde, il mento alto, fieramente rivolto all’orizzonte, e lei si stacca dalla sua schiena, chinandosi in avanti per osservare nuovamente i suoi occhi impenetrabili.
La profondità del buio, smisurato dentro di lui, delle tenebre insondabili a chiunque altro, si rivela evanescente nella mascella contratta, nelle narici che si dilatano appena, nelle mani che stringono spasmodicamente il corpo delicato di Bra.
L’oceano scuro, di un blu oltremare, si riflette nelle iridi nere del Saiyan, liquefatte, consumate dagli spiriti. L’ebano delle sue pupille si scompone, frantumandosi in centinaia di cocci di luce, mormorando un’altra, l’ennesima, parola proibita.
 
Sì.
 
Il bambino immaginario muore, strozzato dalle mani ruvide di una donna, il collo spezzato come un fiore reciso.
Bulma, angosciata, torna piano ad appoggiare la fronte sulla sua nuca, colmandola di piccoli baci per poi abbandonarsi alla cantilena malinconica della onde.
 « Ti ricordi di quando siamo stati qui l’ultima volta? »
Vegeta annuisce appena col capo, vibrando un grugnito. Non potrebbe mai dimenticare la visione di Bulma, incinta e tormentata, che piangeva sulla spiaggia nel timore irrazionale che lui la abbandonasse di nuovo, come aveva già fatto alla notizia della sua prima gravidanza.
Gli occhi di Bra si chiudono lentamente, le ciglia si appoggiano aggraziate sul suo volto soffice. Cullata dal battito cardiaco di suo padre, le piccole braccia si avvolgono intorno al suo collo coriaceo, le labbra umide gocciolano saliva sulla sua canottiera.
« Bra è forte, ha uno spirito molto potente, addirittura più forte di quello di Trunks alla sua età. Ma io non voglio che combatta... voglio che lei resti al sicuro. »
L’oltremare nei suoi occhi diviene ancora più cupo, simile all’oscurità brulicante degli abissi marini, dove nuotano nella solitudine dello spazio infinito creature che non hanno mai conosciuto la luce del sole.
« Noi siamo al sicuro, Vegeta. »
« Nessuno è mai al sicuro. »
La quiete scarlatta del pianeta Vegeta, una pietra immutabile sin dalla nascita dell’universo, deflagrata nel nulla da un dito di carne, propaggine di una volontà capricciosa.
Il volto temerario di sua madre, quello inespressivo di suo padre, che giacevano freddati, la cui tomba era divenuta il cosmo interstellare, marchiati dall’insubordinazione verso un burattinaio che aveva tirato troppo forte i fili delle proprie marionette.
Nappa, l’attendente fedele e rispettoso di ventinove anni della sua vita, massacrato dalla propria ingenuità, gli occhi allucinati dal bagliore di un fuoco che credeva amico.
E infine anche lui, Freezer, annientato come un uomo qualunque, costretto a implorare pietà come un uomo qualunque, proprio lui che per centinaia di anni non aveva fatto altro che dondolarsi sulla vetta del mondo, oscillando le gambe serpentine nel vuoto e nutrendosi dell’immensità del proprio regno attraverso i tizzoni vermigli che ardevano sul suo volto.
Per non parlare di se stesso.
Ridotto in punto di morte da un Saiyan di terza classe che non avrebbe mai neppure considerato come un degno rivale.
Assassinato da Freezer, incapace di reagire, paralizzato da un terrore talmente antico da spezzargli le ossa dall’interno.  
Impotente di fronte a Cell, incapace di vendicare l’omicidio di suo figlio.
Doppiamente impotente di fronte a Majin Bu, che aveva tentato invano di sconfiggere al prezzo della vita.
Non è certo di poterli proteggere.
 
Non più.
 
Un tempo ne sarebbe stato certo, accecato dalla superbia e dall’orgoglio, ossessionato dalla propria nobiltà, talmente traboccante di sé da scoppiare. Adesso non sente che incertezza, sinuosa e pungente, nascondersi nelle ombre dei suoi ventricoli. Tre figure tremanti si dibattono dentro di lui, cosparse di luce, in lotta contro i fantasmi e i serpenti delle sue interiora che cercano di sbranarle con l’impeto di canini sporchi di buio e di sangue.
 « Che cosa intendi dire? »
« Intendo dire che non sono invincibile. »  è un sibilo rabbioso, sputato fra i denti.
Bulma si alza e prende delicatamente Bra fra le braccia, curandosi di non svegliarla, per poi appoggiarla nuovamente sulla sdraio.
In pochi secondi è su di lui, a cavalcioni del suo corpo, spingendolo sdraiato sul bagnasciuga, i piedi lambiti dalla schiuma gentile del mare.
Le mani di Bulma gli accarezzano piano le guance, indugiando sulla mandibola rigida, perfettamente sbarbata. I suoi occhi chiari, limpidi come l’acqua, lo trapassano infinite volte, vetri incrinati dalle tinte dell’oceano, tele di ragno dalla perfezione geometrica.
È la prima volta che lo pronuncia ad alta voce, illudendosi di non aver mai fatto trasparire la propria insicurezza divorante, ignaro di come tutto sia stato sempre lampante agli occhi di quella donna che già al ritorno dal pianeta Namecc aveva assorbito la sua angoscia come un radar.
L’angoscia che rendeva le sue notti insonni, che lo spingeva ad allenarsi senza sosta fino a perdere i sensi sul pavimento della Gravity Room, fucilato dai suoi stessi colpi energetici.
La rabbia di quei suoi occhi neri, rivolti verso lo spazio.
Il Saiyan, disarmato, rilassa i muscoli della schiena fra la sabbia umida che gli sporca i capelli corvini, le nocche affondano sconfitte nelle piccole dune, annientate dalle sue mani smaltate, scintillanti di un colore simile alle ciliegie mature.
Non è certo, ora, di poterli proteggere neppure da se stesso.
Non dopo averli venduti per un pugno di mosche, in cerca di una panacea che eliminasse dalla sua mente e dal suo cuore il suo perenne senso di inadeguatezza e altri sentimenti fastidiosi, vischiosi come sanguisughe, travestiti da volti amici dal solo potere di indebolirlo.
« Non c’è alcun bisogno di essere invincibile per essere mio marito. » dichiara Bulma, determinata, ricambiando il suo sguardo con un sorriso che si allarga piano sul suo volto, sorgendo affettuoso fra i suoi lineamenti aggraziati.
La mano di Vegeta si alza repentina per afferrare la sua testa e la attira al proprio petto, stringendola a sé con forza. Non vuole che lei lo veda, arde dall’imbarazzo al pensiero che lei si accorga dell’emozione che contamina il suo viso algido.
Spalanca gli occhi neri verso il cielo, smarrendosi nella magnificenza delle nubi che si rincorrono impazienti, di un rosa chiaro che intrappola la luce, gonfiandosi dell’amaranto e del candore, appena contaminato dall’oscurità di altre nubi tetre, sconfitte dal sole desideroso di splendere ancora.
« Sei la persona più determinata che io conosca, Vegeta. Sono certa che farai sempre del tuo meglio. »
Il cuore gli esplode in petto, una bomba a orologeria che ha esaurito il conto alla rovescia non appena le sue labbra fini hanno iniziato a muoversi.
Il vento sferza fra le sue ciglia, inesorabile nell’irritare i suoi occhi e a schiaffeggiare il suo volto.
Ma non è il vento a riempire di lacrime le sue iridi e a ustionare le sue guance.
Se solo lo permettesse a se stesso Vegeta piangerebbe, e per la prima volta nella sua vita non per rabbia, paura o frustrazione.
Una strana malinconia fa vibrare le sue vene, ben lontana dalla nostalgia dell’onnipotenza, dal rancore per i sogni infranti, l’onnipotenza, il predominio, la vendetta, fantasmi a cui ormai sono state strappate le corde vocali.
Vegeta piangerebbe perché quell’oceano sibilante non assomiglia minimamente alla distesa desertica del Pianeta Vegeta, che si estendeva sanguigna fino all’orizzonte, sbranata dall’oscurità foriera di tempeste letali.
Non assomiglia neppure lontanamente ai mari di ghiaccio di Thurisaz che Freezer trovava incantevoli, ipnotizzato dalle stalattiti aguzze che sbocciavano sull’acqua come zanne dell’abisso.
E neanche ai mari dell’infinita distesa di pianeti che aveva distrutto, dissonanti e vuoti, specchio della sua anima violentata e tremante che li aveva osservati con occhi pieni di disprezzo.
Quell’oceano è vivo.
Vitale, brulicante di vita egoista, come lei, una lenta carezza che lo avvicina lentamente, facendogli il solletico, per poi ritirarsi senza invaderlo, cantandogli una melodia dolce in grado di placarlo. Le onde lo hanno contaminato, dolcemente spietate, complici delle nuvole che si specchiano nella luce comparsa nei suoi occhi.
La mera sopravvivenza fisica, l’immortalità, la supremazia sulla galassia, obiettivi a cui aveva dedicato buona parte della sua vita rinchiudendosi nella roccaforte di se stesso, armato fino ai denti, pronto a dilaniare chiunque osasse anche solo avvicinarsi, non sono divenute che parole insignificanti.
Nulla ha più valore senza di loro, neppure la vita.
 
Io ti...
 
Parole che un tempo mai avrebbe ipotizzato di pensare.
Parole che aveva schernito con un ghigno caustico quando gli erano state rivolte, ora si affacciano  impaurite nella sua mente, ignorate dall’ira che riposa quieta in qualche anfratto dentro di lui.
Vegeta si morde le labbra, imponendosi di tacere, lasciando che il silenzio dell’oceano dissolva quel pensiero, incenerito da un pudore che non ha nulla a che fare con l’umiliazione per le sconfitte subite sul campo di battaglia.
Infine chiude gli occhi, cercando di sigillare i barlumi di quelle lacrime fra le ciglia omertose.
Porta il volto della donna all’altezza del proprio e la bacia, con violenza, assaporando le sue labbra salate per la salsedine, rinfrescate dalla brezza tiepida.
Ma Bulma capisce ancora una volta, percependo i tremori del suo petto e il suo respiro appena ansimante, assordante alle sue orecchie pur nel fragore del mare. Si trattiene dall’accarezzare quelle ciglia umide e affonda i gomiti nella sabbia umida ai lati del suo viso, i capelli lisci che si rovesciano sulla battigia come un’onda diversa dalle altre.
« Siamo al sicuro perché ci sei tu, a proteggerci. E tu sei al sicuro perché ci siamo noi. » bisbiglia al suo orecchio, maliziosa, ammiccando alle tenebre che si divincolano ancora mute dentro di lui.
La sua imperfezione grida, inchinandosi deliziosa, una scultura di vetro scheggiata, sporcata del nero di una ferocia che mai sarebbe scomparsa del tutto.
« Stai forse insinuando che io avrei bisogno di un protettore? » la voce roca di Vegeta riprende immediatamente tono, affilandosi come una lama, gli occhi socchiusi in un moto di falsa vanità.
Il suono cristallino della risata di Bulma si espande in tutta la spiaggia, seguita dallo splendore delle sue labbra fini, turgide per l’irruenza di Vegeta, dischiuse in un sorriso meraviglioso, un distillato di bellezza e di gioia che i suoi occhi severi di Saiyan non hanno ancora imparato del tutto a contenere senza provare imbarazzo.
Bulma fa l’occhiolino al marito e lo prende in giro con una linguaccia, a cui segue la risata tenue di Bra, che appena sveglia nota la buffa espressione dipinta sul viso della madre.
Un secondo sorriso, sdentato e spontaneo, che si volta piano anche verso di lui.
 « Mamma, papà, ma che fate? »
La voce di Trunks giunge arrogante dall’inizio della spiaggia, accompagnata da sorriso carico di stupore, perspicace nell’osservare i genitori abbracciati sul bagnasciuga.
Un terzo sorriso, quello del suo figlio primogenito, rifiutato così tante volte da pensare di averlo perso per sempre, che resiste inossidabile, colmo di ammirazione per quello che ai suoi occhi inconsapevoli non è altro che un eroe.
Vegeta distoglie lo sguardo, girando il volto di nuovo impassibile verso l’oceano, di un blu oltremare sempre più scuro all’orizzonte, venato dalla luce malinconica del tramonto che declina irreversibile.
Gli angoli della sua bocca si piegano, ammaliati dalla gravità dei loro sorrisi, come satelliti voraci e instancabili che orbitano intorno al suo volto.
Un quarto sorriso scaturisce, appena accennato, celandosi nel fragore delle onde.
 
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