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Autore: TheSlavicShadow    20/07/2017    1 recensioni
Caso: Terra-3490.
Il 47esimo modello pacifico ha beneficiato principalmente dalla relazione tra Capitan America, Steve Rogers, e Iron Woman, Natasha Stark.
Agendo da deterrente per i comportamenti più aggressivi degli altri, ha consentito al Reed Richards di questa Terra di portare a termine con successo il programma di registrazione dei supereroi e di avviare l’Iniziativa dei 50 Stati.
{Il ponte - Capitolo due da Dark Reign: Fantastic Four n. 2 del giugno 2009}
Genere: Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Steve Rogers/Captain America, Tony Stark/Iron Man, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Wherever you will go'
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Aprile/Agosto 2005

 

Aveva aperto gli occhi di scatto, destandosi da quello che doveva essere stato un incubo. Ricordava un calore bruciante. Ricordava un dolore lancinante. Ricordava il grattare della propria gola mentre urlava.

Era viva. Era ancora viva. Non sapeva dove fosse, ma era ancora viva.

Respirava, ma qualcosa le dava fastidio. Osservando il soffitto nero aveva portato le dita attorno alla cannula che aveva nel naso e l’aveva estratta, non senza fastidio e un po’ di dolore. Aveva sete. Aveva fame. Sentiva dolore in ogni muscolo del suo corpo. E contemporaneamente era come se non sentisse affatto il suo corpo.

Per un istante le era sembrato che fosse tutto un terribile incubo, ma non lo era. Non lo era affatto. Ricordava la presentazione. Ricordava il loro veicolo pieno di fori. Ricordava la bomba che era esplosa davanti a lei. Ricordava parole in una lingua che non aveva mai sentito. Una videocamera. Ricordava quella che doveva essere una sala operatoria e la luce sopra di lei. Ricordava qualcosa che le tagliava la pelle e ne ricordava il dolore.

Si era voltata cercando qualcosa da bere. C’era un comodino. C’era una brocca e un bicchiere.

Ma qualcosa la bloccava. Un cavo. C’era un cavo che partiva dal suo petto e stava quasi per toglierlo con forza.

“Non lo farei se fossi in lei, signorina Stark. Quello la sta tenendo in vita.”

C’era un uomo in quella caverna con lei. Lo osservava mentre questi si faceva la barba e la guardava attraverso il riflesso dello specchio.

Senza una parola si era voltata lentamente, seguendo i cavi con gli occhi per arrivare a quella che era una batteria per macchine. Aveva un brutto presentimento. Uno di quelli pessimi. Come quando da ragazzina faceva qualcosa che sarebbe finito sul giornale e poi se la sarebbe dovuta vedere con suo padre. O come quella volta che si era arrampicata sull’albero perché voleva vedere da vicino un nido con gli uccellini ed era caduta rovinando il vestito che sua madre le aveva appena infilato e con gli ospiti che stavano arrivando a casa loro.

Freneticamente le sue dita avevano strappato la benda che circondava il petto. Riusciva a tastare qualcosa di metallico e la sensazione di panico cresceva.

“Cosa mi ha fatto? Cos’è questo?” Si era messa a sedere lentamente, stando attenta a non staccare nulla.

“Un elettromagnete. Ho cercato di estrarre tutte le schegge che aveva nel petto, ma molte sono rimaste e si stanno dirigendo verso il suo cuore. Questo dovrebbe tenerle lontane per un po’.” L’aveva osservato estrarre un contenitore di vetro da una tasca e lanciarglielo. L’aveva preso al volo e aveva osservato le piccole schegge metalliche al suo interno. “Ho visto molti come lei con ferite come questa. Li chiamiamo “i morti che camminano”. In massimo una settimana le schegge raggiungono il cuore.”

Non riusciva a togliere gli occhi dal contenitore di vetro. Faceva fatica a respirare, e non sapeva se era per l’elettromagnete nel suo petto, per un danno ai polmoni o per un semplice e banale attacco di panico. In quel momento l’ultimo della lista sarebbe stato il male minore.

Conosceva bene quel tipo di missile. L’aveva progettato lei. Aveva preso ispirazione da uno dei racconti dei Howling Commandos. Dum Dum Dugan scuoteva la testa ogni volta che parlava di quel coglione francese a cui era esplosa una bomba in mano perché non l’aveva lanciata in tempo. Di come i pezzi di metallo si erano infilati ovunque e per il poveretto non c’era stato nulla da fare. Era dovuta intervenire Peggy, urlando contro a Dum Dum di non raccontarle certe cose perché era una bambina. Ma lei, molti anni dopo aveva usato proprio il suo racconto per costruire un’arma rendendola ancora più pericolosa di quanto già non fosse.

E ora le si era ritorta contro.

“Dove siamo?”

“Non lo so con esattezza. Mi hanno portato qui bendato.” Le si era avvicinato lentamente e si era inginocchiato di fronte a lei. “Dovrà farsi forza, signorina Stark. I suoi la stanno sicuramente cercando, ma non so se riusciranno a trovarla qui. Finora nessuno è riuscito a catturare questi uomini.”

“Chi sono?” Lo aveva guardato negli occhi e per qualche strano motivo sentiva di potersi fidare di quest’uomo. E non le capitava molto spesso di fidarsi di qualcuno.

“Suoi affezionati clienti, no?” Le aveva sorriso e lei lo aveva fatto di rimando alla sua risposta. “Si fanno chiamare I Dieci Anelli. Sono i signori della guerra in questa zona del mondo.”

Aveva scosso lentamente la testa. Quella doveva essere solo una semplice presentazione. Un toccata e fuga in quella parte del globo. Non doveva essere in quel posto.

Si era passata una mano tra i capelli, notando solo allora che qualcuno glieli avesse tagliati. Probabilmente lo stesso uomo che aveva di fronte e che le aveva salvato la vita dandole almeno qualche giorno in più da vivere.

Aveva sentito delle urla provenire da dietro una pesante porta in ferro. Una lingua che non conosceva, ma che ad un primo acchito le sembrava arabo. Poteva in realtà essere qualsiasi cosa. Non ne aveva assolutamente idea e riusciva solo a pensare che nel più roseo dei casi aveva solo qualche settimana in più da vivere. L’idea di quell’uomo era stata geniale. Ma non sapeva quanto potesse davvero durare con una cosa del genere.

L’uomo l’aveva fatta alzare. Le aveva detto di imitarlo e di non dire una parola se non era interpellata.

E lo aveva fatto. Era rimasta in silenzio, con le mani dietro la testa, mentre vedeva entrare una mezza dozzina di uomini armati.

Riconosceva anche quei fucili. Non li aveva progettati direttamente lei, ma vi aveva apportato alcune modifiche. Li aveva visti in azione su dei manichini. E decisamente non voleva vederli usati contro di lei.

“Quelli sono i miei fucili.” Aveva mormorato, notando con la coda dell’occhio l’altro prigioniero annuire. Era chiaro che sapesse molte cose sugli uomini che li avevano rapiti. E probabilmente anche sul perché lei fosse lì.

Uno degli uomini che era appena entrato aveva iniziato a parlare. Di tutto il suo discorso aveva solo capito il proprio nome e cognome. Il resto erano solo vocali e consonanti che non le dicevano assolutamente nulla. Ed era fluente in diverse lingue. Ma non aveva mai pensato di studiare arabo. Se mai fosse uscita da quella caverna, avrebbe preso qualche lezione.

“Cosa cazzo sta dicendo?”

“Da il suo benvenuto a Natasha Stark, la più grande pluriomicida nella storia dell’America.”

Aveva storto il naso. Mercante di Morte le andava bene come soprannome. Pluriomicida un po’ meno.

“Gli chieda cosa vuole così la facciamo finita in fretta.”

“Vuole che lei costruisca il Jericho per loro.” L’uomo aveva tradotto e l’aveva guardata.

“No.”

Sapeva che quella era la risposta sbagliata. Per avere una speranza di sopravvivere avrebbe dovuto costruirglielo. Avrebbe dovuto farlo e forse avrebbe potuto usarlo anche contro di loro.

Ma non poteva. Non poteva farlo. C’era qualcosa di troppo sbagliato in tutto quello che stava succedendo. Forse era sbagliato anche il suo semplice fabbricare armi visto dove l’aveva portata.

Un ragazzo più giovane di lei era morto davanti ai suoi occhi per cercare di proteggerla. Lo aveva visto cadere sotto il fuoco nemico. Era ancora troppo scossa per riuscire a razionalizzare tutto quello che era successo, ma davanti agli occhi aveva ancora quel ragazzo di cui non sapeva neppure il nome e che le aveva detto di stare giù, di stare nascosta, e subito dopo veniva riempito di proiettili.

Solo perché lei era Natasha Stark.

Due uomini le si erano avvicinati e lei non gli toglieva gli occhi di dosso. Uno le aveva messo in mano l’accumulatore, e l’altro le aveva stretto il braccio iniziando a trascinarla verso la porta. Era terrorizzata, ma cercava di far finta di nulla. Era sicura che non le avrebbero fatto davvero del male. Avevano bisogno delle sue mani e del suo cervello per ottenere quello che volevano. Non ci sarebbero state unghie tolte o dita frantumate. Probabilmente non ci sarebbero state ossa rotte in nessuna parte del suo corpo perché anche in quel caso gli sarebbe stata inutile. Non avrebbe potuto lavorare e già con quel buco nel petto non sarebbe stata una passeggiata.

C’era qualcosa che non andava con i suoi polmoni. Se ne era resa conto quando la sua testa era finita sott’acqua. Era sempre riuscita a trattenere il fiato a lungo quando si immergeva in piscina. E il breath play era qualcosa che le era piaciuto sperimentare più di una volta.

Questa volta i suoi polmoni non stavano collaborando.

Era vero che le stavano tenendo la testa a lungo sotto l’acqua, ma qualcosa non andava. E non l’aiutava il panico indotto dall’accumulatore messo ai suoi piedi. Aveva il terrore di una scossa elettrica o di un corto circuito.

L’acqua non le faceva paura. Sapeva che non l’avrebbero uccisa, non subito. Gli serviva e dovevano solo spezzarla in qualche modo. Era sicura che le avrebbero provate tutte. Era cresciuta sempre circondata da militari. Spesso, anche se non avrebbero dovuto, raccontavano di qualche episodio di guerra. Era cresciuta con i racconti degli Howling Commandos, e se Morita o Dernier le raccontavano le cose divertenti, Dugan a volte scendeva in particolari non adatti alle sue orecchie. Di solito lo faceva quando aveva bevuto un bicchiere di troppo. Allora la guardava e le diceva che era fortunata a non essere in una zona di guerra. Non aveva capito subito. Lo avrebbe capito in seguito.

Alle donne non erano riservate le stesse torture che agli uomini. Il dolore fisico forse lo avrebbero anche sopportato meglio di quanto non facessero certi maschi. Le donne dovevano essere colpite nell’intimo. Per piegare la loro volontà le dovevi umiliare nel profondo.

Dernier le aveva raccontato di come affascinasse e conquistasse ogni donna a cui si avvicinava mentre viaggiavano per le campagne francesi per combattere i nazisti. Per ogni villaggio ne aveva almeno una. E lei aveva sempre riso ai suoi racconti a cui fin troppo spesso non aveva creduto. Fino a quando l’uomo non aveva nominato un villaggio nel sud della Francia. Ricordava il modo in cui Dugan aveva sbattuto una bottiglia di whisky sul tavolo. Era il Memorial Day. Dugan beveva sempre troppo per il Memorial Day. Ricordava chiaramente le sue parole. “Quella povera ragazzina. Avrà avuto un paio d’anni più di te, Tasha. E quei bastardi tedeschi hanno osato mettere le mani su di lei. Lo facevano con tutte. Se le mettevano incinte tanto meglio.” Si erano zittiti tutti quanti e lei non aveva osato fare altre domande. Si era limitata poi a fare delle ricerche per conto suo.

 

✭✮✭

 

Aveva cercato di tenere il conto della durata della sua prigionia. Contando i giorni che aveva passato in agonia dopo l’operazione, erano passati quasi due mesi da quando l’avevano rapita. Due mesi in cui avevano cercato di spezzarla innumerevoli volte. Due mesi in cui aveva creduto che sarebbe morta più di una volta. O per un corto circuito o per la loro brutalità.

Due mesi in cui praticamente non aveva parlato. Non sapeva ancora neppure il nome dell’uomo con cui condivideva quella prigionia. Lui ogni tanto le parlava quando la riportavano nella loro caverna. Le preparava da mangiare. E qualche volta l’aveva aiutata a pulire alcune ferite che le avevano inferto.

Le aveva accarezzato piano i capelli quando una mattina era stata colta da una nausea fortissima e aveva svuotato tutto quello che aveva nello stomaco in un angolo. Aveva pianto dal nervoso e dalla frustrazione contro la sua spalla, e lui aveva cercato di farla stare bene in quelle ultime settimane. Stava anche iniziando a rassegnarsi al fatto che nessuno sarebbe venuto a salvarla.

Si era fermata di fronte all’uomo che aveva sempre visto dare ordini, la prima volta in cui l’avevano fatta uscire dalla caverna. Non credeva fosse lui il capo, ma era quello responsabile alla detenzione. Di questo era abbastanza certa vista la quantità di volte che lo aveva visto passare solo a controllare cosa stessero facendo.

“Vuole sapere cosa ne pensi.”

“Che ha moltissime mie armi.” Erano circondati da casse con la scritta Stark Industries. Vedeva missili e fucili con il proprio nome stampato sopra. E iniziava a sentirsi male. Quelle armi non potevano essere state rubate. Un simile ammanco si sarebbe notato.

C’era qualcosa che non andava. Tutto in quella faccenda aveva qualcosa che non andava.

“Dice che qui ha tutto quello che le serve per costruire il missile. Lei deve solo fare una lista di ciò che le serve.” Natasha continuava a guardare l’uomo che parlava in arabo e ad ascoltare l’uomo che le traduceva quel discorso senza senso. “Dice che se si metterà subito al lavoro miglioreranno le condizioni della nostra prigionia. E aggiunge che una volta che avrà ultimato il missile la lasceranno andare.”

“Non lo farà.” Natasha aveva sorriso, guardando il suo aguzzino negli occhi. Aveva notato che gli dava particolarmente fastidio quando non chinava mai il capo in loro presenza. E lei era sempre stata molto brava a far irritare gli altri.

“Non lo farà.” L’uomo aveva concordato con lei, mentre lei stringeva la mano al terrorista. Magari non ne sarebbe uscita viva, ma almeno avrebbe potuto chiedere del caffè nelle migliorie delle loro condizioni.

Quella era stata la prima volta in due mesi in cui era uscita all’aria aperta. Addirittura respirare quell’aria arida e piena di sabbia le era sembrato stupendo. Aveva sentito il sole sulla propria pelle e non si era resa conto di quanto le sarebbe poi mancato quando lo dava per scontato.

“Stark, devi mangiare qualcosa.” L’uomo le si era avvicinato qualche ora più tardi, mettendo una ciotola di fronte a lei. Non aveva parlato di nuovo per ore. Si era messa una coperta sulle spalle e si era seduta a fissare il fuoco. “Non puoi restartene qui così dopo aver visto cos’hanno la fuori! Quello è il tuo retaggio. Il lavoro di una vita. Pensi di fare qualcosa o di uscire di scena così?”

“Qualsiasi cosa io faccia mi uccideranno in ogni caso. Uccideranno anche te. E se non mi uccidono loro prima o poi lo faranno queste schegge che ho nel petto.” Non aveva distolto lo sguardo dal fuoco.

“Allora forse dovresti impiegare il tempo che ti rimane facendo qualcosa di importante.”

Lo aveva guardato e si era alzata di scatto. L’aveva quasi dimenticato. Aveva quasi dimenticato chi o cosa fosse in quei due mesi di prigionia.

“Avrò bisogno del tuo aiuto. Chiama quel tipo barbuto e digli che accetto di costruire il suo missile. Fagli portare tutto qua dentro. Un tavolo da lavoro. Una saldatrice. Cacciaviti. Martelli.Strumenti di precisione. Tutto. Tutto quello che ha.”

“Non vorrai davvero costruirgli quel missile Jericho?”

“Se lo costruisco non lo farò di certo per loro.” Si era chinata per prendere la ciotola che le aveva portato poco prima. Se la sua idea fosse stata un successo, avrebbe dovuto rimettersi subito in forze. Per prima cosa avrebbe sostituito l’elettromagnete che aveva nel petto. Aveva un’idea che forse avrebbe potuto funzionare. “Avrò bisogno anche della tua mano ferma.” Gli aveva sorriso e l’uomo la stava guardando stupito da un cambiamento tanto repentino. “E sono stata davvero una stronza. Non ti ho neppure chiesto il tuo nome.”

“Ho Yinsen.” Le aveva sorriso. “Ci siamo conosciuti a Berna 5 anni fa.”

Natasha aveva fatto una smorfia. Cinque anni fa non era il migliore dei suoi momenti.

“Purtroppo non mi ricordo.”

“Non ne avevo alcun dubbio. Con un tale livello di alcool in circolo nel corpo è un miracolo che tu riuscissi a stare in piedi. E invece sei anche riuscita a salire sul palco e tenere un discorso sui circuiti integrati. Davvero strabiliante.”

Yinsen le aveva sorriso e lei non aveva potuto fare altro che rispondere al suo sorriso.

 

✭✮✭

 

“Dove hai imparato a giocare a poker così bene?” Yinsen aveva inarcato un sopracciglio quando aveva perso per l’ennesima volta.

“Sono cresciuta circondata da veterani della seconda guerra mondiale. Whisky e poker erano all’ordine del giorno.” Aveva preso in mano le carte per mescolarle di nuovo. Yinsen l’aveva aiutata a creare un reattore arc miniaturizzato che aveva sostituito l’elettromagnete nel suo petto. Sembrava funzionare proprio come aveva previsto. Forse anche meglio. E avevano iniziato a costruire lentamente l’armatura che li avrebbe portati entrambi fuori da quel posto. “Tu da dove vieni? Parli un inglese perfetto, ma sembri conoscere molto bene questi posti.”

“Ho studiato a Cambridge, ma vengo da un piccolo villaggio che si chiama Gulmira.” Yinsen aveva preso in mano le carte da lei appena distribuite.

“Hai famiglia?” Aveva guardato le proprie carte e aveva sorriso. Era sempre stata molto fortunata a poker.

“Sì, e la rivedrò appena usciremo da qui.” L’uomo le aveva fatto un piccolo sorriso. “Tu? Hai qualcuno che ti aspetta a casa?”

“Avevo. Ma l’ho lasciato andare anni fa.” Aveva abbassato lo sguardo sulle proprie mani. Aveva pensato a Steve moltissime volte negli ultimi cinque anni. Si erano sentiti sporadicamente, soprattutto per farsi gli auguri di compleanno o per le festività.

Non si erano mai più incontrati.

Lei aveva anche ridotto ogni contatto con lo S.H.I.E.L.D. per non rischiare di incontrarlo, delegando ad altri gli incontri con chi di dovere per le varie consulenze che di solito dava lei.

“Quindi, permettimi di dirlo, sei una donna che ha tutto e non ha niente.” Yinsen aveva inarcato un sopracciglio e lei aveva sorriso. Avrebbe voluto dargli torto. Avrebbe voluto dirgli che una persona nella sua posizione aveva tutto. Ma sapeva benissimo che lo scienziato non stesse affatto parlando del suo potere economico, quanto di persone, di affetti. “Però, devo dire che sei coraggiosa.” Questa volta il sopracciglio lo aveva inarcato lei e aveva studiato attentamente l’uomo che aveva davanti. “Con tutto quello che ti hanno fatto, non ti sei arresa. Ti ci è voluto un attimo per riprendere il controllo di te e della situazione, ma ora stai lottando. Anche per quello.”

Non doveva neanche abbassare lo sguardo per sapere che Yinsen aveva indicato il suo ventre. E lui le era accanto dal momento in cui si era resa conto che qualcosa stava crescendo in lei. Era anche riuscito a trovare un infuso per alleviare le sue continue nausee.

“Yinsen, lo sappiamo entrambi che questa gravidanza non arriverà a termine.”

“No, ma stai lottando anche per questo. E per i figli che potresti avere in futuro, magari con l’uomo che nomini spesso quando dormi. Steve.” Natasha aveva alzato gli occhi al cielo e aveva riso sentendosi oltremodo stupida. Doveva aver sul serio parlato nel sonno, perché non aveva mai nominato Steve in sua presenza. “Deduco sia l’uomo che hai lasciato.”

“Steve è molto di più dell’uomo che ho semplicemente lasciato. A te posso dirlo…” Aveva abbassato lo sguardo ma sentiva le proprie labbra ancora distese in un sorriso. “Steve è il mio eroe d’infanzia. E’ l’uomo che ho sempre ammirato e che credevo non avrei mai conosciuto visto che nel 1945 è finito nel ghiaccio e si sono perse completamente le tracce del Valchiria. Sono cresciuta con un padre ossessionato da quest’uomo e dalle persone che lo avevano conosciuto durante la seconda guerra mondiale.”

“Steve Rogers? Capitan America?” Aveva visto Yinsen sporgersi verso di lei e guardarla come se avesse appena detto la cosa più assurda del mondo.

E forse lo era.

“Steven Grant Rogers. Nato a Brooklyn il 4 luglio 1921. E creduto morto dal 1945.” Aveva sorriso e aveva guardato lo scienziato. Era la prima volta che parlava a qualcuno di Steve. E della sua vera identità soprattutto. Rhodes ovviamente non faceva testo. Lui era l’eccezione a tutte le regole. “Mio padre ha ritrovato il Valchiria nella primavera del 1996. E il corpo di Steve in un perfetto stato di ibernazione. E’ stata una cosa davvero affascinante vederlo dormire nella stanza speciale che hanno costruito per farlo scongelare. Una volta scongelato siamo diventati ottimi amici. E io ho dovuto rovinare tutto portandomelo a letto.” Si era passata una mano sul viso e aveva sospirato. “Prima non ci siamo parlati per un anno e mezzo. Poi abbiamo avuto una bellissima storia per qualche mese. E poi io me ne sono andata da New York mentre lui stava ancora dormendo. E non è passato un giorno senza che io pensassi a lui.”

“Quando tornerai a casa, telefonagli e digli quello che hai detto ora a me.”

Natasha gli aveva sorriso, prima di guardare nuovamente le proprie carte. Voleva tornare a casa. Sapeva che le avrebbe sentite da tutti, ma voleva tornare a casa.

 

✭✮✭

 

Si era seduta sulla sabbia e si era morsa con forza le labbra. Non avrebbe pianto. Non doveva piangere. Perdere liquidi inutilmente mentre si era in mezzo al deserto non sarebbe stato molto saggio. Aveva fatto qualche respiro profondo, cercando di calmarsi. Doveva fare il punto della situazione. Doveva muoversi. Allontanandosi da quelle montagne forse avrebbe avuto una possibilità di farsi trovare. O di trovare per sbaglio un qualsiasi villaggio. Da lì poi se la sarebbe cavata.

Sapeva cavarsela. Avrebbe barattato il suo ingegno per poter fare una telefonata. Sicuramente qualcuno avrebbe avuto bisogno di una mano a riparare qualcosa. E lei era brava a riparare le cose. Avevano sicuramente qualche macchina o radio o televisore da riparare. Poteva barattare le sue mani per ottenere qualcosa. Era così che funzionava una volta, no?

Poteva fare tutto. Doveva solo alzarsi dalla sabbia e iniziare a muoversi. Sapeva di doverlo fare, ma aveva la testa troppo annebbiata. Sia per tutte le emozioni di quelle ultime settimane, e soprattutto per la fuga.

Si era liberata degli ultimi pezzi dell’armatura che le erano rimasti addosso. Aveva usato la logora camicia che aveva addosso per coprirsi la testa. Avrebbe sopportato un’ustione da abbronzatura meglio di un’insolazione. Era sicura di aver lussato una spalla nella caduta e aveva preso un pezzo di cuoio per tenere su il braccio e evitare di fare ulteriori danni.

“Posso farcela…” Aveva mormorato a sé stessa alzandosi finalmente in piedi. Aveva osservato la distesa infinita di sabbia che si espandeva di fronte a lei. Era in mezzo al deserto. Era da sola in mezzo al deserto. Non riusciva neppure ad orientarsi o capire dove diavolo potesse essere atterrata.

Sapeva di doversi muovere. Doveva trovare un riparo per la notte. Le temperature si sarebbero drasticamente abbassate e lei non aveva addosso nulla di abbastanza pesante che potesse tenerla al caldo. La sua unica speranza era trovare un riparo. Magari qualcosa con cui accendere un fuoco. In quel caso avrebbe avuto una possibilità di superare la notte senza morire per ipotermia.

E non poteva morire. Non poteva farlo anche solo per Yinsen che aveva sacrificato la propria vita in modo che lei potesse avere una possibilità di fuggire da quel posto e salvarsi. Senza Yinsen sarebbe morta subito. Con le ferite che aveva riportato dall’esplosione non sarebbe sopravvissuta in alcun modo. Tralasciando le schegge che minacciavano il suo cuore, non ci voleva un dottore per capire che quelle ferite si sarebbero infettate se non fossero state curate subito. Aveva tagli ovunque. Tagli che senza le mani esperte di Yinsen si sarebbero infettati e lei sarebbe morta per un’orrenda setticemia.

Yinsen era morto davanti ai suoi occhi. Yinsen l’aveva aiutata e salvata in tutti i modi in cui aveva saputo. Non le aveva mai rivolto parole di conforto inutili. Le aveva sempre sbattuto in faccia la realtà. E questo per lei era il modo migliore di aiutarla. Non aveva mai sopportato quelli che le mettevano una mano sulla spalla e le dicevano che non era nulla, che tutto sarebbe passato. Aveva bisogno anche che qualcuno fosse reale con lei e le dicesse come stavano davvero le cose.

Yinsen l’aveva aiutata a costruire l’armatura che aveva progettato una notte in cui non riusciva a dormire. Non aveva fatto domande. Seguiva i suoi ordini e l’aiutava a saldare e assemblare i vari pezzi. Mai una volta le aveva dato l’impressione che desiderasse morire. Si era allora resa conto di quanto gli esseri umani potessero essere strani. La sua famiglia era stata uccisa dagli uomini che lo avevano rapito. Questi avevano le armi prodotte dalle Stark Industries. E Yinsen aiutava proprio lei a continuare a vivere.

Aveva camminato per un giorno intero. Aveva trovato riparo dietro alcune rocce, trovando qualche ramo che aveva dato almeno una parvenza di fuoco e calore. Era stata fortunata. Era riuscita ad alimentarlo per tutta la durata della notte. Era infreddolita, assetata e affamata. Ma non voleva arrendersi. Non poteva arrendersi. Sarebbe stato così facile farlo. Se lo avesse fatto nessuno l’avrebbe più trovata. Una tempesta di sabbia l’avrebbe velocemente ricoperta e si sarebbero per sempre perse le sue tracce.

Sarebbe stato così maledettamente facile ma non le erano mai piaciute le cose facili.

Si era rimessa in cammino con le prime luci dell’alba. Aveva riavvolto la camicia logora sulla testa e aveva camminato. Sapeva di doversi allontanare ancora. Sicuramente qualcuno dei suoi aguzzini era sopravvissuto e con molta probabilità si sarebbero messi a cercarla.

Camminava e continuava a ripetere mentalmente formule, algoritmi, teoremi. Cercava di tenere il cervello in continuo movimento, evitando di fossilizzarsi su pensieri che sarebbero stati poco piacevoli. Aveva risolto il problema di uno nuovo processore che l’aveva tenuta bloccata per settimane. E non voleva pensare che aveva saltato il proprio compleanno. Il compleanno di Steve. La cerimonia di laurea del MIT a cui avrebbe dovuto tenere un discorso. Almeno non si era ancora persa il compleanno di Rhodes. Non voleva pensare a tutto quello che la circondava e a tutto quello che era successo. Voleva solo pensare a calcoli e algoritmi.

Aveva alzato la testa quando aveva sentito rumore. Era un elicottero. Ne riconosceva il suono. Era un elicottero dell’Esercito Americano e non sembrava un’allucinazione. Si era fermata e lo aveva guardato ancora, alzando subito le braccia e sbracciandosi. Era impossibile che non l’avesse vista da tanto basso stava volando, ma in quel momento non riusciva a crederci.

Dopo quasi quattro mesi dal suo rapimento, qualcuno la stava ancora cercando.

Si era lasciata cadere sulle ginocchia mentre vedeva l’elicottero abbassarsi poco più in là e non era mai stata tanto sollevata di vedere un mezzo militare.

James Rhodes era saltato dal velivolo prima ancora che questi avesse toccato terra. Le correva incontro ed era seguito da qualcuno che avrebbe riconosciuto anche a occhi chiusi.

Steve Rogers le correva incontro e prima ancora di rendersene conto era stata avvolta dalle sue braccia e stretta con forza.

Rhodes si era inginocchiato accanto a loro. L’aveva guardata negli occhi e poi l’aveva abbracciata anche lui.

 
   
 
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