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Autore: Fox2_Fox    20/07/2017    1 recensioni
|Soukoku|
Chuuya era fulmine e lampo: il primo ad arrivare e quello a causare i danni atroci.
Dazai era il tuono, una semplice reminiscenza: se la prendeva comoda e seguiva il lampo più o meno distante, sempre alle sue calcagna, mai troppo lontano da perderlo di vista, sempre abbastanza vicino da perseguitarlo con la sua presenza.
Ma era del tuono che i bambini, durante le notti temporalesche, avevano paura.
***
Mi hai tradito, ci hai traditi entrambi.
Sei diventato il lampo e sei scappato via, ed io non me ne sono accorto fino a che non è stato troppo tardi.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Chuuya Nakahara, Osamu Dazai
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Il peso di questa nostra coscienza

Ubriaco, di nuovo.
Chuuya si sentiva uno stupido, in quel momento.
Si era ubriacato, di nuovo, per l’ennesima volta.
Si era ubriaco eppure non riusciva a dimenticarne il volto e i lineamenti e il suono della voce. Non ne scordava neppure la profondità degli occhi castani.
Ne ricordava perfettamente ogni solco della pelle, ogni piega delle labbra, ogni movimento casuale.
Si era ubriacato, di nuovo, e di nuovo era tornato ad essere fragile e pieno di crepe. Dazai gli era impresso nella mente, marchiato a fuoco, e Chuuya iniziava a credere che non avrebbe mai potuto dimenticarlo. Iniziava a credere che lo avrebbe sognato ogni notte e che, ogni notte, si sarebbe svegliato in preda ai deliri cercandolo nel letto, al suo fianco. Ed iniziava a credere che, ogni notte, si sarebbe alzato barcollando e, barcollando, sarebbe arrivato in bagno per poi caracollare davanti al cesso e rigettare l’anima.
Faceva male, il ricordo. Il ricordo delle sua risa e delle sue smorfie, persino quello delle battute squallide e fastidiose sulla sua ridicola altezza. Faceva male sapere di rivoler indietro quelle cose, di rivolere indietro Dazai. Faceva male rendersi conto di quanto tutti quegli anni e tutto ciò che avevano condiviso fosse stato solo un gioco, di come lui fosse stato solo un gioco e un burattino e Dazai l’uomo mascherato, quell’uomo che mai nessuno avrebbe conosciuto davvero, che tirava i fili. Non avrebbe saputo dar nome a quel dolore sordo e persistente poiché chiamarlo mancanza o nostalgia o rimpianto l’avrebbe ridicolizzato e ristretto, spogliandolo della verità, rendendolo nulla se non un suono qualunque emesso da una bocca qualunque.
Faceva male rendersi conto di come quel ragazzo che non era mai realmente esistito lo perseguitasse più di tutti gli altri fantasmi.

«Chuuya» la testa era scattata in alto, come attratta dalla più potente delle calamite. Un fulmine gli aveva attraversato il corpo ed improvvisamente non aveva visto nulla che non fosse lui.
«Chuuya» di nuovo. Una voce, quella voce, la sua voce. Un richiamo, allora come oggi.
Pareva schernirlo, quel tono trasognato, come se stesse cercando di mascherare malamente il divertimento causato dalle sue condizioni.
Ubriaco, era ubriaco, solo ubriaco.
Dazai non era lì, non avrebbe mai potuto.
Un gemito strozzato era uscito dalle labbra di Chuuya, un gemito che presto si era trasformato in uno scroscio di risa incontrollate ed irrefrenabili. Cosa avrebbe mai potuto fare, oltre che ridere? Era disgustoso, tutto quello, quel suo sognarlo, quel suo ricordarlo, quel suo volerlo accanto, ma più di ogni altra cosa erano disgustose le lacrime bollenti che spesso non riusciva a trattenere.
La bottiglia era tornata maldestramente alle labbra del rosso, tremava, per qualche motivo –non avrebbe sputo dir perché- di certo non per la figura castana che, slanciata come un giungo, si stagliava nell’oscurità, poiché –Chuuya ne era certo- tutto quello non era che un’altra assurda allucinazione dovuta all’alcol, non avrebbe mai potuto essere altro. Tremava e il vino rosso gli ruscellava lungo le guance e il mento e il collo come sangue, bagnandogli la pelle più di quanto non gli rinfrescasse la gola.
Era disgustoso che Dazai fosse il suo tormento, da sveglio e da dormiente, da sobrio e da ubriaco, ed era disgustoso che Chuuya amasse perdere la testa solo per poterlo vedere un poco più nitidamente.
La figura si era avvicinata -erano stati solo pochi passi- ma avevano fatto appannare la vista di Chuuya ricoprendola di chiazze nerastre.
Lui stesso era disgustoso, questa era la verità, Chuuya Nakahara si faceva schifo, ma, ancora peggio, si faceva pietà.
Era dolore malcelato, il suo. Ovattato, come quando ti si tappano le orecchie a causa della pressione: senti quello che c’è intorno, eppure è tutto un po’ distante, sei separato dal mondo da una spanna d’aria ed un vetro di parole non udite. E sono fastidiosi, da un certo punto di vista, quei suoni così strani, ma se tutto quello persiste e continua così per ore ed ore finisci per smettere di accorgertene e tutto resterà solo un suono ovattato, cotone nelle orecchie, risate non udite e ferite tamponate. Ma poi le orecchie si stappano sempre, esattamente come il dolore di Chuuya ricompariva sempre, a intervalli più e meno regolari, e tutto torna ad investirti senza delicatezza né pietà.

Chuuya aveva riso di nuovo quando il profumo di Dazai, chicchi di caffè freschi di tostatura, gli aveva riempito le narici oscurando tutti gli altri odori. Era indietreggiato, Chuuya, spaventato dalla realtà e dalla concretezza di quell’allucinazione, era indietreggiato fino a trovarsi con le spalle premute contro il muro, la presenza del moro incombente su di lui, ogni secondo un passo più vicina. Si era agitato convulsamente e il vino rosso era schizzato fuori dalla bottiglia: aveva inondato il cappotto di Dazai, il viso di Dazai, i capelli di Dazai, era colato sul pavimento e colato, arrivando a formare una grossa chiazza scura che aveva finito per macchiare l’angolo del tappeto. C’erano stati altri gesti convulsi, altro vino era volato fuori dalla bottiglia prima che questa gli fosse strappata di mano dalla figura che aveva davanti. Chuuya aveva continuato ad agitarsi in preda ad una follia febbricitante anche quando Dazai, o chiunque o qualunque cosa fosse la cosa che aveva davanti, gli aveva afferrato le braccia, bloccandolo e poi, vedendo come non fosse servito a nulla, lo aveva stretto a sé, imprigionandolo tra quel maledetto corpo che odorava di vino, caffè e casa, e la parete gelida. C’era stato un momento in cui Chuuya aveva continuato a dimenarsi: sentiva caldo ovunque, su ogni parte del corpo, coperta e scoperta, e gocce di sudore gli rigavano la fronte e colavano lungo il collo, anch’esse bollenti. Era stato un momento, o forse di più di uno, in cui Chuuya non era riuscito a respirare e aveva avuto la sensazione si star soffocando nella sua stessa saliva mista a vomito.
Ma era durato solo un attimo, si diceva, sì, solo un momento.
La presa si era allentata e Chuuya aveva approfittato di quel secondo per spingere via l’altro con tutta la forza che gli era rimasta nelle braccia. Avrebbe potuto spingerlo di nuovo, tirargli un pugno, scappare via, chi gli diceva che quello in realtà non fosse un ladro che l’alcool gli aveva fatto scambiare per Dazai? Ma non aveva fatto nulla di tutto quello, no. Le mani gli erano ricadute sul petto e le dita, frenetiche, avevano iniziato a slacciare la camicia, incastrandosi le une con altre e perdendo costantemente la presa sui bottoni, gli stessi bottoni che alla fine erano stati strappati a forza fino a che camicia, giacca e panciotto non erano caduti a terra, inzuppandosi di vino. S’era appoggiato con la schiena e la nuca contro la parete, il petto bagnato d’un sudore affannoso e malsano, gli occhi chiusi e le labbra semi-aperte alla spasmodica ricerca d’aria. Le gambe gli tremavano e la testa gli girava tanto che, per un momento, aveva creduto di stare per cadere a terra. La voglia di vomitare era tanta, la bile gli bruciava in gola come acido, ma il ragazzo che un tempo era stato Chuuya -e che adesso non era altro che un pezzo di carne con troppe lacrime ed urla trattenute-, aveva aperto gli occhi e guardato la figura castana che, ancora, si stagliava davanti a lui.

Chuuya e Dazai, il fantomatico Doppio Nero, erano paragonabili ad un temporale. Persino lo stesso rosso aveva fatto quel paragone più di una volta.
Chuuya era fulmine e lampo: il primo ad arrivare e quello a causare i danni atroci. Chuuya era una scarica elettrica incontrollabile che distruggeva qualunque cosa al suo passaggio, uomini, donne e bambini, non faceva la differenza, tutto ciò che si parava sulla sua strada, semplicemente, moriva, per colpa sua o per riflesso o continuità non aveva importanza.
Dazai era il tuono, una semplice reminiscenza: se la prendeva comoda e seguiva il lampo più o meno distante, sempre alle sue calcagna, mai troppo lontano da perderlo di vista, sempre abbastanza vicino da perseguitarlo con la sua presenza. Ma era del tuono che i bambini, durante le notti temporalesche, avevano paura. Cos’erano fulmine e lampo se non una scarica d’elettricità chissà dove e bagliore luminoso? Era il tuono quello distruttivo, quello che rimbombava ovunque, che faceva piangere i neonati nelle loro culle sebbene non facesse realmente alcunché.
Dazai era quello, un inseguitore, un ritardatario, una semplice eco che, però, con il solo suono, spaventava più di tutta l’eterna, indistruttibile ed eterea potenza del fulmine.

Chuuya lo aveva spinto, di nuovo, e Dazai s’era lasciato buttare indietro come una bambola di pezza. Aveva barcollato e Chuuya lo aveva spinto di nuovo, e poi di nuovo e ancora e ancora e ancora, fino a che Dazai non aveva smesso di arretrare ed era rimasto fermo nel bel mezzo della stanza, immobile se non per leggero ciondolare dovuto alle sempre più deboli pressioni del ragazzo. Pressioni che presto di erano trasformati in pugni, ma anche quelli erano durati poco. Tutto era scemato, lentamente, fino a trasformarsi in qualcosa di grottesco e ridicolo.
Dazai aveva bloccato le mani del rosso, ma questi si era liberato della sua presa e aveva continuato, come una goccia d’acqua che cade su un masso, inutile da sola, ma che prima o poi sarà capace di scavare un solto nella roccia.
Prima che quel momento fosse arrivato, però, lacrime bollenti avevano iniziato a rigare il volto di Chuuya.
Lacrime brucianti, acide contro la pelle.
Lacrime avide, avide di dolore, avide di gemiti ed urla, avide d’altre lacrime, avide d’altra pelle su cui scorrere, avide semplicemente d’altro, di tutto ciò che Chuuya poteva e non poteva dar loro.

«Te ne sei andato.»
Fuori pioveva, Chuuya se ne era reso conto solo in quel momento, e un tuono aveva coperto le sue parole spezzate facendolo sussultare.
«Te ne sei andato» aveva ripetuto «Mi hai abbandonato.»
Parole taglienti come una lama, che però a Chuuya stesso erano suonate vuote. O meglio, non vuote, piene di quel dolore ovattato che da tempo sentiva riempirgli il cuore.
«Chuuya…»
«Mi hai lasciato solo.»
«Chuuya…»
«Tradito.» Questa volta non c’era stato alcun richiamo. «Tu hai infranto la nostra promessa, tu mi hai tradito.»
Non c’erano bisogno d’altre parole.
Hai tradito la fiducia che riponevo in te, la fiducia che mi aveva spinto ad appoggiarmi a te durante i miei momenti di panico, la fiducia che mi aveva fatto stringere a te durante le notti buie, la fiducia che mi aveva detto che non c’era nulla di male a farsi toccare, la fiducia che mi aveva permesso di afferrarti il viso tra le mani e dirti che mi ero innamorato.
Mi hai tradito, ci hai traditi entrambi.
Sei diventato il lampo e sei scappato via, ed io non me ne sono accorto fino a che non è stato troppo tardi.

Perché questa era la verità: improvvisamente Dazai si era trasformato nel lampo ed era volato via, rubandosi tutta la luce e lasciandolo ad annaspare, solo con se stesso. In quella metafora e in quell’occasione era Dazai quello veloce, quello che superava il mondo ingranando la marcia più alta. E Chuuya? Chuuya era il tuono, ritardatario e solo nelle sue tenebre, Chuuya era quello rimasto indietro, quello che aveva perso il treno e la quella partita a dadi. Chuuya era sempre il secondo, qualunque cosa facesse, era sempre il più debole e miserabile, in ogni metafora.
Perché mai le cose avrebbero avuto bisogno di cambiare?

Era crollato a terra, strisciando indietro, il volto inondato di lacrime –lacrime che gli erano entrate in bocca e scese in gola, lacrime che lo avevano soffocato-, aveva sbattuto la testa contro lo spigolo del tavolo e tutto s’era fatto ancora più nero ed offuscato.
Delle braccia lo avevano afferrato e steso sul divano.
Dei polpastrelli gli avevano accarezzato la fronte madida di sudore.
Delle labbra avevano sfiorato le sue, e poi la mente di Chuuya s’era spenta, il “mi dispiace” rimasto sospeso nell’aria tra la veglia delirante ed il sonno profondo.
La mattina dopo, di quello, di loro, era rimasta solo una chiazza di vino a bagnare l’angolo del tappeto nero.

 

Piccola nota autrice
Ringrazio gli Imagine Dragons per aver scritto Thunder perché, senza di loro, sarei rimasta bloccata dopo il primo paragrafo. Grazie di esistere c:
Bene, detto questo ringrazio anche tutti coloro che hanno letto, spero di avervi fatto deprimere almeno un po’, altrimenti tutto questo angst sarà andato sprecato.
||Fox2_Fox

   
 
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